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di David Matteini

Sono da poco giunte al termine due mostre dedicate alla figura del marchese de Sade: Sade. Attaquer le soleil presso la mecca dell’arte moderna, il Musée d’Orsay di Parigi, e Sade. Un athée en amour, nella meno conosciuta, ma non per questo meno prestigiosa, Fondation Martin Bodmer di Ginevra. Le expositions sono state curate rispettivamente da Annie Le Brun, scrittrice legata all’ultimo movimento surrealista degli anni 60, e da Michel Delon, professore alla Sorbonne e massimo esperto del Settecento francese.

Non ho intenzione di parlare di Sade in senso stretto, cercando cioè di esplorarne il credo filosofico dall’interno della sua vastissima e controversa produzione letteraria, né tantomeno di indagare la sua biografia fuori dal comune; diversamente, mi propongo di avviare una riflessione sulle strategie industriali che hanno permesso l’abilitazione dello statuto mitico di Donatien Alphonse François de Sade nelle coscienze dell’uomo contemporaneo. In particolare, vorrei riflettere sulla fenomenologia museale attraverso la quale è stata possibile la trasmissione dell’identità del soggetto sadiano a un pubblico non specializzato. Il confronto tra Attaquer le soleil e Un athée un amour e le differenze semantiche di due esposizioni che in comune hanno, forse, soltanto l’oggetto, cercherà di far luce su questa tipologia di eredità culturale.

L’evento che ha avuto la risonanza maggiore è stato senza dubbio il Sade parigino. Gli intenti sono chiari sin dalle prime parole di Guy Cogeval, presidente del Musée d’Orsay, introduttive al bel catalogo della mostra: «le musée ne se livre ni à un exercice biographique, ni à une analyse d’histoire littéraire, mais bien à une lecture inédite de la sensibilité d’un siècle qui l’aura maudit tout en l’ayant passionnément lu […] Attaquer le soleil éclaire un point aveugle des origines de notre culture visuelle contemporaine».

L’excursus museale si impegna a prendere in esame il carattere sensuale ed estremo di molte opere dei più importanti nomi della storia dell’arte e a contestualizzarli negli schemi spirituali del pensiero sadiano. Ad una più approfondita analisi del pensiero di Sade si è tuttavia costretti ad avanzare una prima, fondamentale precisazione: se è vero che molti degli scritti di Sade (dal più famoso 120 journées de Sodome al più rilevante e meno noto Voyage d’Italie del 1776) preconizzano un’idea di arte intimamente connessa a quei rapporti essenziali tra desiderio-distruzione-rappresentazione che molta fortuna avrebbero avuto nei secoli successivi, è quanto mai sbagliato vedere nella sua figura un ribelle che, a suon di scandali e lettres de cachet, ha rivoluzionato le belle arti. Si sa infatti che l’eredità di Sade si sarebbe fatta concreta solamente più di un secolo dopo, agli albori del movimento surrealista, grazie alla ripubblicazione dei suoi scritti da parte di Maurice Heine e Guillaume Apollinaire: sino a quel momento il libertino aveva suscitato gli interessi di ben pochi artisti, tanto che nel XIX secolo la sua opera si credeva irrimediabilmente andata perduta a causa delle feroci censure di cui era stata vittima.

Si intravede così, già dalle prime sale e dai bei dipinti in esse esposti (siamo pur sempre a Orsay), un grossolano errore filologico che vizia sin dall’inizio il giudizio complessivo e che, purtroppo, si riconferma sala dopo sala. Né l’audioguida né le numerose didascalie stampate sul cartongesso nero della mostra ci aiutano a sbrogliare questo nodo fondamentale, magari, per amor scientifico, mettendo in evidenza punti di contatto tra l’Ottocento e Sade mai studiati fino ad ora. Ma niente da fare, l’intercalare che più ricorre nelle varie spiegazioni è il peut-être; tutto all’insegna del dubbio e della facile suggestione. Il tentativo di gettare ponti tra l’estetica sadiana e la pittura moderna si rivela così un’operazione arbitraria, un pretesto di sicura efficacia per mettere in mostra senza soluzione di continuità quella frivolezza erotica tutta medio-borghese dello scandalosamente corretto, del piquant, dell’alcova segreta in cui consumare con la persona amata i pochi attimi dove la vita sospende.

Considerazioni forse banali, queste, ma ben accordate con la sensazione generale di Attaquer le soleil in cui le intenzioni storico-filologiche sopra citate hanno ceduto il posto a una pletora di associazioni di idee flebilmente collegate alla Weltanschauung del Marchese, adesso ridotto a un irriverente e quasi dandistico coniatore di aforismi di largo consumo. Senza mai spiegare in cosa realmente si rapportino a Sade le centinaia di opere di grande valore artistico esposte – si va liberamente da Delacroix, tornando indietro addirittura fino a Botticelli, per poi passare, per esempio, dall’evergreen Picasso, e arrivare alla più stretta contemporaneità di Bacon – l’impressione generale che sembra suscitare Attaquer le soleil è che chiunque abbia rappresentato almeno una volta un atto sessuale, o semplicemente una macchia di sangue, si ritrovi improvvisamente influenzato, se non addirittura erede del libertino provenzale. Come se la quantità di opere possa controbilanciare questa assoluta e palese mancanza di coerenza, l’esposizione al museo d’Orsay parla di Sade senza in realtà far capire al visitatore chi sia stato e cosa abbia veramente detto.

Eccoci allora scagliati nelle solforose sale del Musée d’Orsay, tra il bianco e nero porno-chic di Man Ray, i deliri osé dei surrealisti e degli espressionisti, ragazze in cappottino leopardato intente nello scattarsi foto a fianco di santini pornografici, impressionisti, simbolisti, androgini in pelle nera alla ricerca di un appiglio filosofico per giustificare le proprie negligenze, un cartello prepotente, ammiccante, che invita gli ospiti a stare attenti: stanno per varcare le soglie della chambre des perversions, sala adibita all’esposizione di jouets erotici di vario tipo, comic strips che eccitano l’immaginazione di anziani turisti tedeschi, idoli fallici. Tutto rigorosamente VM 18. Un déjà vu martellante, immagini concepite come singole occasioni stagne, sbrigative impressioni, un hashtag ossessivo di tematiche e nomi.

Attaquer le soleil è un esperimento che, nonostante la quantità di capolavori esposti, perde in partenza, fraintendendo totalmente il peso che la figura di Sade ha avuto nella cultura occidentale e perpetuando, anzi, quella mitizzazione della libertà sessuale e intellettuale che già troppo violenza ha inflitto agli schemi psichici dell’uomo post-sessantottino. Perlomeno, se non di Sade, la mostra ci parla indirettamente di cosa sia diventato oggi l’erotismo, di come il fatto erotico da privato stia diventato via via argomento di pubblico interesse e di pubblico ludibrio, e, non per ultimo, di come l’apparato formativo della cultura stia degradando, oramai sempre più di frequente, al livello di pura occasione ludica. Più che erudire, infatti, tali iniziative finiscono per livellare e banalizzare il processo di trasmissione del sapere in quanto, si sa, è noioso (e improduttivo) proporre a un’ampia audience una mostra sul Settecento, sull’importantissimo rapporto dinamico tra Sade e la Rivoluzione francese, sulla formazione di un giovane libertino nato tre secoli fa; tiriamo in ballo i membri e gli amplessi, allora, cerchiamo di rivestirli di un significato lontanamente intellettuale, eliminiamo la gratuità di un gesto come quello sessuale, ma con l’imperativo morale di trovare pretesti per divertire e divertirci, sempre e comunque. Non vorrei utilizzare qui una terminologia ormai desueta, ma chi ha visto Attaquer le soleil ben comprende in cosa consista la pratica museale-espositiva di certa industria culturale: meccanismi biecamente mitopoietici, tendenti a rendere la parola autoriale un discorso fuori dalla storia, fluttuante nel suo costante riadattamento alle situazioni, non contestualizzato, non intelligibile concretamente, non formativo. Il mito di Sade è stato rifoggiato, ma adesso con metalli poveri, privi di durezza storica e intellettuale.

Percepire la potenza del racconto sadiano ed essere capaci di collocarlo nei diagrammi della contemporaneità è uno sforzo che richiede la volontà di penetrare coscientemente nelle circostanze letterarie e filosofiche nelle quali il Marchese si è formato, soprattutto nel rapporto tra esse e la faglia culturale successiva al terremoto rivoluzionario. Se il d’Orsay ha deciso di abbandonare questi primari scrupoli storici in favore della bulimia iconografica e pornografica auto-significante (poche le testimonianze del suo tempo, a parte la sezione di busti anatomici di Honoré Fragonard di grande interesse, alcune acqueforti di martiri, pochi dipinti o documenti riguardanti la Rivoluzione francese, l’affascinante eruzione del Vesuvio di Pierre-Jacques Volaire, l’incendio dell’Opéra di Hubert Robert), l’approccio della Fondation Bodmer è assolutamente più pertinente a questi desiderata.

Anche la mostra ginevrina parla del lascito filosofico del libertino, ma non ne fa il punto focale, limitando solo all’ultima sezione quei cimeli editoriali (riedizioni, saggi critici, opere visive) che hanno contribuito alla riscoperta di Sade nel secolo scorso. Ciò che ha interessato di più i curatori Michel Delon e Jacques Berchtold, è stata la ricostruzione filologica e libresca della vita di Sade attraverso un’originale esposizione di inediti carteggi e prime edizioni. La Fondation Bodmer, precisiamo, è principalmente un museo di libri, in cui sono conservati gli originali di moltissimi dei più grandi capolavori della letteratura mondiale (in ordine sparso Descartes, Goethe, Joyce, Kafka, Schiller, volendo citare i più celebri), ma non per questo l’esposizione Sade, Un athée un amour risulta leziosa e priva di interesse al profano. Anzi. L’abilità del percorso museale consiste proprio nel saper informare il visitatore in maniera agile e razionale, grazie alle sue modeste dimensioni e all’accurata scelta di un corpus letterario volto a istruirci non solo sui quasi ottant’anni anni di vita del Marchese e sulla sua formazione da uomo illuminista, ma anche e soprattutto sul tempo storico in cui egli agì. Oltre all’esibizione delle visionarie lettere dal carcere, di bellissime prime edizioni (alcune esposte anche al d’Orsay, ma relegate in una bacheca di vetro ai margini dei vari trionfi di carne) e di documenti relativi alla ricezione da parte dei contemporanei (interessantissima la sezione dedicata alla trasmissione delle opere nella Germania di fine Settecento), infatti, in Un athée en amour si è dedicata molta attenzione a due argomenti messi completamente in disparte al d’Orsay: i giovanili viaggi in Italia di Sade e le sue ambigue posizioni di fronte alla Rivoluzione di quasi vent’anni dopo. La scelta di alcuni degli appunti che sarebbero andati a formare il Voyage ci parlano di un senso di profonda ostilità per una società (quella italiana in primis, ma in senso più ampio quella europea) che in quei decenni stava vivendo una profonda mutazione etica e politica, mutazione che la Rivoluzione avrebbe definitivamente sancito. E anche qui, le relazioni riportate da Sade nella Société des Piques (dipartimento rivoluzionario moderato a cui Sade prese parte più per convenienza che per un profondo credo politico) aprono prospettive interpretative non indifferenti per capire in che modo questa grande rottura storica venne assorbita da un uomo che, in apparenza, non poteva non auspicare di meglio. Non è certo questa la sede per approfondire i rapporti tra il formativo Grand Tour sadiano e i sommovimenti parigini del 1789; quanto detto basta però a chiarire la profondità intellettuale di un aspetto storiografico, questo, che grazie all’esposizione di Ginevra può ritornare nel dibattito degli studi sulla cultura europea e arricchirli con nuovi argomenti di indagine.

Lo spessore di Sade. Un athée en amour si rivela così nella sua sobrietà e nell’intelligenza di aver saputo sciogliere molti dubbi e curiosità sull’illuminismo estremo di un autore diventato al giorno d’oggi più un caso editoriale che uno stimolante oggetto di studio e di riflessione. La stucchevole mitopoiesi autoriale di Attaquer le soleil, diversamente, mette in ombra un pensiero che, con impressionante lucidità, ha molto riflettuto sulla società del suo tempo e sui modelli liberal-democratico che da lì a poco si sarebbero brutalmente imposti nelle società moderne. A Parigi, il paradosso giace proprio nell’innalzamento di quegli stilemi ero-egotici che il Marchese aveva cinicamente stigmatizzato attraverso i protagonisti e gli ambienti dei suoi romanzi. Quei modelli solo in apparenza sovversivi e liberatori, sembrano qui diventati eroici, una mitologia comportamentale, un’etichetta da rispettare fieramente accanto alla bandiera mediatica di un cancelletto: #desade.

Viene da pensare che la retrospettiva del d’Orsay richiami metonimicamente uno statuto museale più produttivo-narrativo che educativo-rappresentativo, volto, cioè, alla messa in mostra dell’opera d’arte (o, in questo caso, di un autore) avulsa dall’insieme storico, produttrice di infiniti significati simbolici che parlano, nella loro singolarità, alle storie individuali di ognuno di noi. Ma, uscendo da una qualsiasi esposizione come Attaquer le soleil, lo stordimento informativo è talmente obnubilante da far svanire quel nobile principio di erudizione oggettiva che deve costituire la base di ogni Bildung e che, si auspica, ogni museo deve promuovere. Se, in questo senso, la Parigi imperiale ha fallito clamorosamente, la roussoviana Ginevra ha vinto a mani basse.

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1 thought on “De Sade contro #desade

  1. 5 vendemmiaio, anno XIII [ 27 settembre 1803]

    “Cena di ragazze, con Blancons e Garnier. Da queste creature singolari particolari sulla bizzarria delle fantasie in uso tra libertini. Per la corruzione umana, il romanzo di Justine non è un’esagerazione.”

    Benjamin Constant, Journaux intimes. Édition intégrale des manuscrits autographes avec un index et des notes par Alfred Roulin et Charles Roth, Gallimard, Paris, 1952 p. 144

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