di Daniela Brogi
Verrebbe da dire che solo nell’età barocca sarebbe potuta avvenire la codificazione del «racconto fiabesco»; in un’età cioè di confluenza di varie esperienze artistiche, e in cui il rapporto immaginazione (o illusione) – realtà fu a tal punto teso da dare origine con Basile alla fiaba letteraria moderna e da spingere diversi autori a esplorare le possibilità del fiabesco ma soprattutto il rapporto che il fiabesco ha con la realtà.
Paolo Zanotti, Basile e i luoghi delle fiabe, in «L’Asino d’oro», 1992, p. 129
C’era una volta la figlia di un re, chiamata Zoza, che non rideva mai, ma proprio mai, malgrado il padre, che aveva occhi solo per lei, cercasse tutte le maniere di farle passare la malinconia: invitando a corte acrobati, buffoni, giocolieri, animali ammaestrati; eppure non c’era rimedio. Fino a quando, per tentare l’ultima prova, il re fece costruire una fontana d’olio davanti al portone del palazzo, affinché le persone che passavano lì davanti, per evitare di schizzarsi, facessero balzi di grillo, salti da capra o scatti da lepre così da indurre la principessa al riso. A un certo punto giunse una vecchia, che si mise a raccogliere l’olio con una spugna e a riversarlo in un’anfora; un paggio burlone lanciò un sasso che mandò in frantumi il vaso, dando origine a una girandola di insulti tra i due, e a un teatro di reciproche provocazioni che giunse al culmine nel momento in cui la vecchia «auzato la tela de l’apparato fece vedere la scena voscareccia». E fu allora che Zoza, a questo spettacolo, cominciò a ridere, ma così tanto, quasi fino a svenire. Vedendosi beffata, la vecchia le lancia una maledizione: la ragazza non troverà mai marito a meno che non si prenda il principe di Camporotondo, che per effetto di un incantesimo giace addormentato, e si risveglierà soltanto quando una fanciulla riempirà in tre giorni una brocca di lacrime. Zoza si mette in viaggio, e dopo sette anni di cammino attraverso tanti paesi, fiumi e boschi, trova Tadeo e comincia a riempire la brocca quasi fino all’orlo; ma, stanca per il cammino e per il pianto, a un passo dal traguardo si addormenta, consentendo così che una schiava le rubi la brocca, finisca di riempirla e si sposi il principe. Sulle prime Zoza si dispera moltissimo, giungendo sul punto di morire, ma alla fine, capendo che ai suoi lamenti non c’è rimedio, decide di reagire. Grazie a dei doni ricevuti dalle fate durante il suo viaggio, Zoza infonde nella regina, rimasta intanto incinta, un bisogno ardente di ascoltare racconti: talmente forte da minacciare il marito di uccidere il bambino se non sarà soddisfatta la sua fame di storie. È così che Tadeo convoca a corte dieci vecchie, esperte e «parlettère», per narrare ogni giorno, per cinque giorni, dieci racconti piacevoli, perché è così che si fanno svaporare gli affanni, «se dà sfratto a li penziere fastidiuse e s’allonga la vita». Al termine delle cinque giornate Zoza prende il posto dell’ultima vecchia, raccontando la propria storia: in questo modo il principe scopre l’inganno, condanna a morte l’usurpatrice e sposa Zoza.
Questa, in sintesi, è la storia, la cinquantesima, che sul modello del Decameron, fa da cornice all’insieme delle fiabe raccontate in lingua napoletana da Giovan Battista Basile (1566-1632) ne Lo cunto de li cunti overo lo tratteniemento de peccerille – noto anche come Pentamerone e uscito postumo tra il 1634 e il 1636.
Il racconto dei racconti è l’opera da cui è tratto il film appena presentato a Cannes da Matteo Garrone, che si è ispirato principalmente a tre testi della prima giornata (la medesima che contiene La gatta cenerentola), vale a dire: La pulce, La cerva fatata e La vecchia scorticata. Eppure parlare del film, ragionare sull’adattamento da Basile (compiuto da Garrone assieme a Edoardo Albinati, Ugo Chiti e Massimo Gaudioso) riferendosi soltanto a queste tre novelle non basta, è riduttivo, e forse anche un po’ inutile, perché lo straordinario riuso di Basile non riguarda tanto i singoli testi o i contenuti, peraltro spesso variati, quanto piuttosto l’invenzione creativa attraverso la quale Garrone ha ripreso e rivitalizzato gli effetti di intreccio, in senso formale come tematico, il senso complessivo che tiene unita l’orditura intera dell’opera, con un equilibrismo paradossale («l’equilibrio del mondo deve essere mantenuto») a cui in qualche modo ci preparano già i giocolieri della prima scena. Perché il fatto è che tutto ciò che è nuovo richiede una perdita; questo è il senso profondo e orroroso delle fiabe; qui si schiude la loro forza di guarigione dalla malinconia: nella capacità di rimettere in simmetria la vita e la morte, come racconta perfettamente, per esempio, la sequenza inventata da Garrone quando nello stesso corteo vediamo sfilare il catafalco con il corpo ormai morto del re (John C.Reilly) e, subito a seguire, la portantina che trasporta la regina (Salma Hayek) e il principe appena nato. La difficoltà del film, il suo lasciarci spiazzati, riguarda in buona misura proprio la scelta, di Basile come di Garrone, di focalizzare su questo dinamismo il cuore pulsante dell’opera. Il racconto dei racconti è un ordito dislogato: intreccia e tiene insieme intanto che disunisce e combina varie storie: come già accadeva, attraverso il montaggio alternato, nei cinque episodi che compongono Gomorra (entrambi i film sono stati montati da Marco Spoletini); e come di nuovo accade qui, dove i racconti non sono messi in scena in una sequenza scandita e tripartita, ma combinandosi l’uno con l’altro, stando uno dentro l’altro, restituendo così al titolo la sua potente ambivalenza, a seconda che si intenda il genitivo in senso oggettivo (Il racconto dei racconti: il racconto che racconta i racconti) o soggettivo (il racconto prodotto dai racconti). Come in un labirinto, c’è una fuga continua dal centro e verso il centro, con un effetto di sospensione e per l’appunto di “intrattenimento”, quasi di imprigionamento, dentro quello che stiamo vedendo: ogni livello si appoggia all’altro tenendosi insieme in una struttura perfetta, come in una fortezza strategica, o se si vuole come nella pianta ottogonale di Castel del Monte, l’edificio dalla storia ancora misteriosa all’interno del quale sono riuniti tutti i protagonisti delle tre vicende principali al termine del film. E la parte allora più interessante, più rivelatrice della formula che ha ripreso a circolare, cioè la definizione dell’opera di Basile come «il sogno d’un deforme Shakespeare partenopeo», più che nel termine di paragone usato esplicitamente sta ai bordi della frase, cioè nell’autore stesso che l’ha coniata: Italo Calvino (La mappa delle metafore, 1974 in Sulla fiaba).
Il film di Garrone aspira, secondo le dichiarazioni del regista, a essere un’opera popolare, ma non è un fantasy per bambini, allo stesso modo in cui l’opera di Basile, malgrado la dissimulazione del sottotitolo, non si rivolgeva all’infanzia: era la prima espressione matura del fenomeno letterario europeo della “favola artistica”. La storia del re disposto a morire pur di uccidere il drago marino, per cavarne il cuore e farlo mangiare alla regina disperata di non riuscire ad avere figli; la storia del re (Toby Jones) che alleva una pulce e quando muore – Basile la faceva uccidere dal re stesso – la fa scuoiare e decide di dare la figlia (Bebe Cave) in sposa a chi saprà riconoscere di che pelle si tratta, finendo per mettere la principessa nelle mani di un orco; la storia delle due vecchie sorelle e del re che sposerà una di loro; ciascuna di queste situazioni attinge dal Grande Codice del mondo fiabesco (con suggestioni da Fellini e da Comencini), recuperando i motivi del doppio (che vale per i due figli come per le due vecchie), del ruscello incantato, delle vesti lacere, del ventre del mostro, del cuore mangiato, della foresta dove accade tutto (inseguimenti, battaglie, rinascite, scorticamenti); o, ancora, del movimento verticale, ora verso l’alto (per l’antro dell’orco) ma più spesso verso il basso (con i corpi che scendono negli abissi, che precipitano dalle finestre, o nei burroni), del movimento verticale come direzione portante delle situazioni di perdita e di separazione. Di questa reinvenzione dinamica degli archetipi fiabeschi fa parte anche il modo originale con cui Il racconto dei racconti ci fa rivedere l’Italia: quella più misteriosa e arcaica, tra Toscana, Lazio, Sicilia, Abruzzo – con il castello di Roccascalegna (Chieti) – e la Puglia in particolare (oltre a Castel del Monte, il Castello di Gioia del Colle, la masseria Accetta Grande, la foresta di Pulsano, i boschi della provincia di Taranto), che diventano luoghi non più convenzionalmente pittoreschi, ma spazi strutturali dell’avventura del racconto.
Calvino, che si citava prima, apprezzava molto il modo in cui Basile raffigurava gli spazi usando spesso delle metafore che ci facessero immaginare i colori: anche questo è uno spunto da non lasciar cadere, se pensiamo alla forza cromatica del film, all’uso pittorico della luce (la fotografia è di Peter Suschitzky), e se consideriamo ancora che Garrone ha sviluppato la sua arte a partire dalla pittura.
Lu cunto de li cunti è un’opera che arriva dalla stessa epoca in cui la natura morta diventa un genere autonomo sempre più affermato in tutta Europa. Uno dei motivi più ricorrenti nei quadri di nature morte è la presenza di superfici – il bordo di un bicchiere, uno specchio, un piano metallico – su cui la luce si appoggia per riflettere, in un gioco di rifrazione e dissolvenza, di luce e ombre, il mondo che si trova al di qua del quadro: come se l’opera volesse anche attirare l’attenzione – altre volte può accadere attraverso un insetto, o della polvere disegnata sulla cornice – sulla sua natura di manufatto artificioso; e come se, al tempo stesso, si volesse instaurare un gioco di riflessi tra ciò che è fuori e ciò che è dentro la rappresentazione. Ma questo scambio continuo tra mondo reale e mondo immaginato, tra realtà e fantasia, tra verità e illusione, non è solo la grande, rivoluzionaria, invenzione dell’arte barocca: è anche la cifra autoriale più forte e ricorrente di tutto il cinema di Matteo Garrone, così attento com’è a sperimentare continuamente nuovi modi in cui il linguaggio cinematografico possa appunto creare non solo una nuova estetica attorno alla dialettica tra realtà e illusione, ma nuove forme stesse di percezione di quello scambio.
Del resto, quello che secondo Basile era «passione che ceca lo iodizio e ’ncanta lo descurzo dell’ommo», vale a dire il desiderio divorante di realizzare un’illusione per via di una trasformazione, di una metamorfosi, è la spinta all’azione di tutti i più importanti personaggi dei film di Garrone: da Peppino, nell’Imbalsamatore, a Vittorio in Primo amore, Marco e Ciro in Gomorra, Luciano in Reality. Il Racconto dei racconti sa servirsi delle forza espressiva del codice fiabesco per farci percepire come situazione fisica primaria questa «tensione verso la “bella forma” e il rapporto con la sua “degradazione”» (l’espressione è stata usata da Francesco Crispino in Non solo Gomorra, a cura di Paolo De Sanctis, Domenico Monetti, Luca Pallanch, p. 45). E se in molti casi questo avviene attraverso il corpo femminile, anziché dipendere da una scelta particolare di genere, deriva semmai anche dal fatto che le fiabe intercettano le metafore essenziali, e il corpo femminile è più continuamente soggetto ai ritmi della perdita, della rinascita e del mutamento.
[Immagine: Foto di Greta De Lazzaris ©]
Mi è capitato in passato di leggere altre sue recensioni e le impressioni che ne ricevo sono più o meno sempre le stesse. Provo a riassumergliele in tre punti.
La prima è che è molto difficile trovare uno studioso di letteratura che abbia un’idea concreta di cosa è il cinema, o meglio di come è fatto, di cosa entri effettivamente in gioco nel processo creativo che va dall’ideazione alla realizzazione di un film. Utilizzare categorie e linguaggio della critica letteraria – peggio: della teoria della letteratura – per interpretare un’opera filmica è semplicemente sbagliato.
La seconda è che tutte le sue recensioni sono dei medaglioni, per non dire di peggio (ma credo che è una tara che avete ereditato dal Maestro). Lo era quella sulla Grande Bellezza, lo è questa, al punto che, conoscendo piuttosto bene l’ambiente cinematografico, il bosco il sottobosco e quanto ci gira attorno, mi viene il dubbio che il suo atteggiamento non sia – diciamo così – del tutto disinteressato. Non voglio parlare di malafede, perché non la conosco o meglio la conosco attraverso ciò che scrive . Mi chiedo soltanto se questo suo invidiabile dispendio di energie intellettuali e le abbia procurato un ritorno effettivo in termini di relazioni: ovvero inviti a cena, amicizie reali o virtuali, commenti, like e quant’altro. Il mondo del cinema, da questo punto di vista – soprattutto per quanto riguarda le amicizie virtuali: che sono sì roba da regazzini, ma anche preludio a cene e terrazze – sa essere molto gratificante ed è indubbiamente meno noioso di quello accademico. (In entrambi poi c’è molto “dialogo” e molto poco “conflitto”, a patto che per qualche strano capriccio non si decida di aprire le finestre e far entrare le mosche.)
La terza è la domanda che mi faccio di solito quando leggo una recensione: ma il film a lei è piaciuto?
@Arturo
a parte il fatto che non ho capito niente, e a parte il fatto che a immaginarmi la Brogi che scrive per accattonare invite su una terrazza romana non la finisco di ridere, lei non conosce proprio la persona di cui parla. E non sa di cosa parla.
A scanso di equivoci: il mio è più un attacco contro un certo modo di fare critica che contro l’autrice, che come ho già detto non conosco.
Quando leggo la recensione di un film, mi aspetto di leggere considerazioni più o meno assennate su aspetti fondamentali nella realizzazione come storia, montaggio, recitazione, messa in scena, ecc.: mi aspetto insomma un’analisi finalizzata a un giudizio estetico che mi dia gli argomenti per essere o meno d’accordo. Qui ci vedo soltanto l’esibizione – anche competente: per carità – di alcuni luoghi comuni della peggio critica letteraria: il labirinto, il desiderio, il corpo della donna, ecc. Niente invece – ed è strano dato che si tratta di un blog letterario – sull’approccio di Garrone a un testo che secondo il regista si richiama alle origini del racconto popolare, quando invece lo specifico della fiaba barocca (genere di riferimento de Lo Cunto) è quello di “rifare il verso” tanto della narrativa popolare che della narrativa “colta”. Insomma, ci troviamo davanti a un testo sì straordinario, ma coltissimo e iperletterario, in cui di vitalismo e la spontaneità popolare non c’è traccia se non a livello parodico. Qualcuno potrebbe obiettarmi che un regista queste cose non è tenuto a saperle. Forse è così: ma resto convinto che ogni sorta di “tradimento”, sia esso di lettera o spirito del testo debba muovere da un fraintendimento consapevole. In questo caso, mi sembra che Garrone – come i Taviani con il Decameron, come Martone con Leopardi: quello di Pasolini è un caso a parte – sia partito con il convincimento di mettere in scena una sorta di Mille e una notte del Seicento napoletano, una sorte di “contenitore” dell’anima o meglio del cosiddetto “ventre di Napoli.”
Su un blog letterario, tanto più se autorevole, mi aspetto di leggere non una recensione che sembra – proprio come quella precedente sul film di Sorrentino – scritta con l’intento di parlare bene di qualcosa di cui si deve parlare bene – a che fine, poi? -; e che quindi, più che che del “testo” (cioè del film), finisce col parlare del “contesto”, dell’operazione culturale che è o dovrebbe esserne alla base.
Ho una domanda per Daniela, quando approvi commenti come quelli qui sopra pensi di essere molto gentile a dare spazio a tutti ma ti chiedi se sei altrettanto gentile con chi apprezza il tuo lavoro senza invidia e vorrebbe leggerti senza partecipare qa questi sfoghi?
La recensione di Daniela è perfetta, ricca,con molti rimandi antropologici, culturali, letterari, artistici Entra nei dettagli,,negli spazi dei luoghi e del racconto, coglie il nucleo centrale, non banalizza mai il racconto cinematografico,rendendolo simile ad altri di genere. Ha letto Basile, ne parla non come di fantasy (genericamente) ma come di espressione barocca in dialetto., accosta le immagini all’arte figurativa, agli archetipi favolistici, conosce Propp, la particolare sensibilità narrativa e scenografica napoletana. Sicuramente ha seguito anche le opere teatrali e musicali di DeSimone. E’ una lettura fuori dal comune , che ti fa ‘guardare’ e sentire tutti gli aspetti del film, che entra bene nella metamorfosi, tipica delle fiabe, della vita e della morte, della nascita,,nel gioco delle illusioni, delle finzioni e delle metafore che adombrano la realtà. E’ questa la percezione in cui il film dev’essere colto. Altrimenti cos’è un film d’arte zse si rispetta solo una scaletta di schemi del cinema. L’arte cinematografica è tutto quello che ha detto Daniela, è letteratura, musica, arte figurativa, realtà, illusione, ambienti, movimenti, tipi -personaggi,come direbbe Lukacs, ,, abiti, musica, e tante tante cose ancora che hanno a che fare con una visionarietà complessa.
Attendo con estremo interesso la recensione del film di Sorrentino., Youth
Non so perché, per esporre il proprio ancorché legittimo dissenso, si debba ricorrere alla volgarità, che connota il commento di Enzo.
Io – è questo è il mio punto di vista sulle recensioni di Daniela – le leggo sempre con molta attesa e traggo gran piacere. Daniela è capace di raccontare un film facendo venir voglia di andare a vederlo. I suoi riferimenti sono sempre opportuni e arricchiscono (e non deviano) la comprensione del film, che poi, o già prima, si va a vedere e si può anche dissentire, certo, ma preferirei non leggere pareri che attingono a quella che esplicitamente appare il commento iroso, giustificato solo – come appare evidente – da malanimo e forse da invidie (posso dire così?).
Daniela, per me è sempre bello leggerti