di Gianluigi Simonetti
[Una prima versione più estesa di questo saggio è uscita su «Ricomporre l’infranto». Si tratta della sbobinatura di un intervento orale. Pubblico qui una sintesi della prima parte, che conserva comunque lo stile un po’ sbrigativo imposto dalle circostanze in cui il testo era nato. Di qui anche l’assenza di note e di bibliografia].
1. Innanzitutto due parole sul titolo scelto per questo incontro. Quella di letteratura “di una volta” è categoria anche un po’ ironica: allude a un rimpianto molto diffuso, soprattutto nelle università o nei licei, per quell’antropologia letteraria all’ingrosso moderna e in particolare postromantica, otto-novecentesca, che conferisce all’arte un ruolo di rilievo assoluto nell’educazione sentimentale dei cittadini, alla letteratura un posto chiave all’interno del sistema delle arti. La letteratura sarebbe il linguaggio artistico per eccellenza, quello in cui più forte sopravvive il mandato etico e quasi religioso che la modernità gli aveva conferito; nel linguaggio letterario si sedimentano i valori per vivere bene in società e conoscere l’esistenza nel più profondo dei modi.
Accanto a questa idea nobile e forte di letteratura naturalmente c’è sempre stato uno spazio grande per la letteratura di consumo. Ma i due aspetti non si contraddicevano, anzi si legittimavano a vicenda, sia perché erano teoricamente separati, sia perché si riferivano a due tipi di lettore che potevano occasionalmente sovrapporsi ma che restavano a priori diversi:
– La grande letteratura forma le coscienze, interpreta il mondo (compreso quello che non si vede) e insegna a vivere e attraverso una forma, uno stile e un determinato uso della lingua. Il piacere di leggere fa parte integrante di un atto conoscitivo e non è separabile da esso.
– La letteratura di consumo è mero intrattenimento. Non c’è niente da scoprire o da imparare, anzi il divertimento può nascere dalla ripetizione dell’uguale, o da qualche innocua variazione sul tema.
L’usura di questa ripartizione ha implicato conseguenze molto importanti, ed è stata la cultura umanistica a uscirne più contaminata. A partire dagli anni Cinquanta e Sessanta la vecchia idea forte e nobile della letteratura si è dovuta confrontare con i linguaggi della comunicazione di massa; con linguaggi estetici, a volte artistici, che avevano poche ambizioni di profondità e nessuna vocazione pedagogica (come è invece pedagogica e ambiziosa l’idea di letteratura tipica della modernità). Linguaggi narrativi potentissimi entravano in concorrenza con la letteratura e in particolare con il romanzo perché immettevano in circolo nella società un numero grandissimo di storie: le storie del cinema, della televisione, dei mass media in generale, adesso anche di internet. Sottoposti a questa pressione gli scrittori del Novecento hanno reagito prima elaborando un complesso di superiorità; poi, con il passare degli anni, si sono sentiti sempre meno saldi sulle loro posizioni. Diciamo che il campo letterario italiano, e occidentale in genere, è passato da un senso di superiorità a uno di inferiorità nei confronti della mediasfera. Cioè, dall’impressione a lungo coltivata di godere di un primato culturale ed estetico sui linguaggi artistici ed estetici concorrenti, alla impressione che abbiamo oggi per la quale sono i linguaggi audio-visuali ad essere egemoni, ed è il campo letterario a sentirsi sempre meno sicuro di sé socialmente.
Questo non vuol dire che la letteratura stia morendo; a trovarsi in forte difficoltà è un certo tipo di letteratura ed un certo tipo di scrittore, che definirei di “stile Novecento”, riciclando una categoria del disegno d’interni e dell’arredamento.
2. La letteratura sta dunque cambiando, mettendo in gioco le sue gerarchie consolidate. Cambiano specialmente la posizione e l’uso che la società attuale fa della letteratura.
La posizione, innanzitutto; nello scaffale simbolico in cui è ordinata, le scritture che conservano spessori ed ambizioni diventano sempre più un prodotto di nicchia, in senso merceologico; e come tutti i prodotti di nicchia, occupano una posizione defilata. La grande letteratura contemporanea non smette di essere scritta, però è sempre più destinata ad una parte ristretta della popolazione, ad un tipo specifico e minoritario di lettore. Il linguaggio della letteratura ‘di una volta’, inteso come mezzo privilegiato di conoscenza, o forma di vita, ha perso la sua centralità nel sistema delle arti: la maggior parte dei cittadini – di fatto – non lo considera più il linguaggio artistico per eccellenza, ma uno dei tanti momenti dell’estetico, non necessariamente il più importante.
In secondo luogo sta mutando l’uso che si fa della letteratura. Se è vero che la letteratura in senso forte è sempre stata una miscela di piacere e scoperta, è altrettanto vero che oggi è sempre meno socialmente intesa come conoscenza, e sempre più come divertimento ed evasione. Questo vuol dire, tra l’altro, che la letteratura è sempre di più qualcosa che fa parte di una esperienza estetica che include ingredienti non letterari (o anche non artistici; in genere connessi a qualche aspetto della comunicazione di massa).
Su questo piano è istruttivo quel che sta capitando alla nostra narrativa. Persa ogni netta distinzione fra alto e basso, si allarga un territorio che una volta era ristretto e nettamente delineato, e che invece sembra oggi occupare quasi tutto lo spazio sociale del romanzo, senza che sia facile identificarne i confini; lo spazio di una narrativa mediocre e media, destinata a lettori di media cultura, mediamente informati, mediamente progressisti, che alla letteratura chiedono insieme elevazione spirituale a basso dosaggio, conferme esistenziali, più qualcosa di intermedio fra il divertimento e il passatempo.
Appartengono a quest’area quasi tutti i libri che fanno dibattito, che interessano ai giornali e ai social network; le opere di letteratura contemporanea che effettivamente legge la maggior parte degli studenti che si iscrivono a Lettere. Ammaniti, Veronesi, Baricco, Giordano, Mazzantini sono i primi esempi che mi vengono in mente di questa cosa strana che non è esclusivamente letteratura di consumo, ma non è neanche romanzo in senso forte. Una narrativa per anime belle, che si appoggia ai valori, alle identità, alle idee che tutti pensano (tutti, in quella fascia di media cultura che abbiamo perimetrato); a confermare ciò che già si sa o si crede di sapere, in una gara col giornalismo di costume che a volte rasenta il crossover – come nei casi emblematici di Gramellini o Serra. Qualcosa di molto diverso e anzi opposto rispetto a ciò che provava a fare, nelle sue migliori riuscite, la letteratura ‘di una volta’, col suo puntare allo smascheramento di aspetti della realtà prima ignoti o non considerati. Per cui, oggi, una scrittura che nasca nel laboratorio dello scrittore (e dell’editore) come ”letteratura media”, incontra una lettura che cerca sempre più una forma di equilibrio, al riparo da sfide troppo impegnative; una miscela di intrattenimento temperato e di istruzione soft che per molti lettori, più o meno inconsciamente, è niente più di quel che ci meritiamo in questo momento della nostra storia.
Ma è importante aggiungere che non è solo questione di singoli autori o di esperienze separate; questa idea media di letteratura, e il lavoro editoriale che ci gira attorno, sono alla base di tendenze vere e proprie, di filoni narrativi. Va in questa direzione, per esempio, la fortuna che negli ultimi tempi hanno riscosso le scritture di genere – e la tendenza a promuoverle come letture di serie A. Ma è da chiedersi se non siano legate a questa sfera mediana anche alcune di quelle scritture adesso molto di moda chiamate “ibride”, o di frontiera, costruite proprio sull’intersezione fra generi diversi, e sulla polemica contro il romanzo. Sono libri che possono avere anche grande qualità e dignità letteraria, e che del resto si muovono in un orizzonte di ricerca che è proprio il contrario del genere, del racconto prefabbricato e dello storytelling più corrivo (è il caso ad esempio di Emanuele Trevi, e quasi didatticamente del suo Qualcosa di scritto). Eppure, anche queste scritture ibride – come le scritture di genere che ne sono apparentemente agli antipodi – hanno qualcosa a che fare con un’idea “debole” di letteratura. Entrambe rifiutano quello che è invece caratteristica di un progetto letterario “forte”, ovvero l’idea che un’opera debba disporre di un’identità e un’architettura complessa, precisa, autonoma, che non ha niente a che fare con i formati e con i generi e neppure con il loro contrario; che se ne frega di trasgredire o rispettare le regole perché magari le reinventa ma in ogni caso non le vede.
Qualcosa di simile avviene, del resto, nel campo della lirica: da trent’anni a questa parte, all’interno del generale movimento della poesia italiana, si profila la tendenza di alcuni poeti a farsi “di genere”, a restringere volutamente lo spazio della propria operatività. Oppure ibridarsi, a scrivere in uno spazio intermedio fra poesia e prosa. Esperienze diverse, con esiti diversi e diversi significati; ma forse anche un comune tentativo di allontanamento dall’ipotesi romantica e postromantica della lirica-supergenere, legata ad un’esperienza o a un modo di viverla unica e irripetibile. Si diffonde un’idea di poeta come artigiano della parola, o come cittadino che scrive, o come vittima di un esaurimento nervoso; non profeta, né santo, né capro espiatorio.
Questo tipo di antropologia letteraria presenta delle immediate conseguenze stilistiche, proprio nel senso per cui lo stile individuale è sempre meno importante. Per l’editoria che conta, per la maggior parte dei lettori, per molti scrittori italiani (soprattutto i più giovani e i più tentati dal racconto) l’impressione è che l’opera letteraria abbia sempre meno a che fare con un’avventura stilistica, e sia invece qualcosa che ha valore nella misura in cui riesce a moltiplicare i suoi agganci con temi o situazioni ‘forti’: opere sono sempre più costruite come casi, o come eventi; intuizioni narrative e soggetti la cui esecuzione stilistica potrà essere sbrigata in tutta fretta, o addirittura delegata.
Questo significa che se nella letteratura “di una volta” lo scrittore si sentiva parte di una tradizione che doveva magari avversare, attraverso un apprendistato stilistico specifico (che era proprio un “lavoro” e a volte un vero e proprio corpo a corpo con la lingua), l’impressione è che oggi ci troviamo davanti ad un’operazione complessiva di semplificazione e di annacquamento di quella sfida; la vera sfida è uscire dal letterario, o meglio essere contemporaneamente lì e altrove. Il che significa che la lingua della narrativa come quella della poesia è sempre meno letterariamente costruita (anche se può essere, ed è spesso, iperletteraria e speziata). Il sentirsi fuori dalla storia della lingua letteraria è anche legato, molto banalmente, alla pressione della comunicazione di massa, che arricchisce o impoverisce la cultura degli autori ma certamente modifica i modelli d’influenza, che appartengono sempre meno alla tradizione italiana e sempre più guardano altrove, anche per la grana della lingua. “Altrove” significa in altre tradizioni non italiane, ma anche in altri tipi di linguaggio. Si è molto complicato l’atlante intellettuale dello scrittore di oggi – per cui ad esempio opere cinematografiche, serie televisive, graphic novel possono costituire un modello anche più forte di quella che può essere la poesia e il romanzo italiano del passato. È dunque cambiato il serbatoio culturale degli scrittori ed è molto diverso il modello sul quale la lingua si forma.
3. La situazione del nostro campo letterario, così come la stiamo descrivendo, chiude o socchiude alcuni mondi, ma permette anche delle scoperte e consente aperture impreviste. Ad esempio è ancora possibile, o lo è più di prima, per i processi cui abbiamo accennato, trovare dei frammenti di grande arte letteraria anche in opere che non si presentano come letterarie. E allora, come spesso ha fatto la critica intelligente, si può provare a recuperare la vecchia forza della letteratura anche in settori che con la letteratura non c’entrano. Nella saggistica (specialmente direi negli studi sociali e scientifici); nelle memorie; nel fumetto; eccetera.
Un altro elemento di ricchezza, collegato al precedente, e che può essere altrettanto liberatorio dal punto di vista del lettore, consiste nel poter dire che la forza della letteratura che si scrive oggi non ha più niente a che fare con il suo blasone. Se nel Novecento l’appartenenza di un opera alla sfera della cultura ‘alta’ poteva essere una garanzia di qualità (e quindi anche un fattore di pregiudizio per il lettore), ora possiamo definitivamente affermare che quest’appartenenza non vuol dire più niente: i luoghi alti sono contaminati quanto i bassifondi, o quasi. La collana “bianca” Einaudi di poesia o lo “Specchio” Mondadori sono state per molti decenni delle collane di prestigio; che un poeta oggi pubblichi in quelle sedi non significa più nulla di per sé. Stesso discorso, in narrativa, per (ad esempio) i ”Supercoralli” Einaudi: Philip Roth può stare accanto a Dario Argento, perché entrambi sono considerati “maestri” di qualcosa – non importa di cosa, quando tutto ciò che è estetico è messo sullo stesso piano. Crollano le vidimazioni culturali e le mediazioni ‘alla fonte’ che avevano retto ancora nel secondo Novecento. Questo ci consente anche di essere dei lettori più liberi – cioè più nudi e più soli – perché in effetti nessuno verifica per noi quello che leggiamo; non il critico del «Corriere», tanto meno il blogger o il lettore che commenta su Amazon (allo stesso modo, neanche i premi letterari di per sé vogliono dire niente, né le recensioni, eccetera). La fine della letteratura “di una volta” significa anche la fine della critica che l’accompagnava – crolla anche quel mondo insieme a quel tipo di garanzie. Senza che niente le sostituisca: la democrazia della rete è ovviamente una farsa, anche da questo punto di vista.
Si può concludere questa premessa con una nota ottimista: non è in pericolo la letteratura in senso forte, ma solo la sua presenza sociale, e il senso politico della sua esistenza. Capolavori di narrativa, di poesia, di saggistica e di critica letteraria continuano a venire pubblicati più o meno come è sempre stato – pochi o pochissimi, al solito. Bisogna cercarli e identificarli con strumenti adeguati, come è sempre stato, ma anche con presupposti che non sono più quelli di prima. Il che equivale a dire: sarebbe sbagliato chiudersi in un’ottica epigonale e in un culto del passato, in una santificazione sterile della letteratura “di una volta”; esistono sempre la grande letteratura, e un pensiero che ci riflette sopra – ma non è detto che si trovino nei luoghi che il Novecento aveva costruito per noi; e neppure – va da sé – in quelli pensati ad hoc dalla comunicazione di massa per ipnotizzare i lettori del presente e del futuro.
[Immagine: Cool Car, Milano, 1 maggio 2015 (gs)].
ma cosa c’entra l’immagine con l’articolo?
Grazie a Simonetti, articolo molto bello che condivido per intero.
Associazione mentale: alle letteratura avviene quel che sta avvenendo a tutte le forme.
E’ un processo di destrutturazione, non si sa se spontanea (decadenza, Spengler, etc.) o procurata (mondialismi, complottismi, de Maistre, etc.) che *toglie la divisa* a tutti e a tutto.
Esistono i padri? Certo che esistono. Prova però tu a fare il padre senza la *divisa da padre*. E’ possibile? Certo che è possibile. Solo che è mille volte più difficile, perchè ogni ordine che dai è un ordine nudo, che niente giustifica se non il tuo personale prestigio. (Comincia a parlarne Mann nella “Montagna incantata”, con la vicenda del cugino Joachim, che si ammala e deve togliersi la divisa da ufficiale, e vestire il molle abito borghese).
Articolo interessante, che mi piacerebbe leggere nella sua versione più estesa completa di riferimenti bibliografici. Io sinceramente trovo però non così approfondito il discorso sul passato dei legami tra la letteratura legata alla “cultura alta” e la letteratura legata alla “cultura di massa”. Ad esempio ho l’impressione che dire “A partire dagli anni Cinquanta e Sessanta la vecchia idea forte e nobile della letteratura si è dovuta confrontare con i linguaggi della comunicazione di massa” mi pare sia un sottovalutare fenomeni riscontrati già decenni prima da vari intellettuali. Penso di fatto ad esempio a una figura che amo citare come Walter Benjamin e delle sue riflessioni sulle potenzialità della cultura di massa non solo omologanti ma anche democratizzanti ed emancipatrici in relazione ai mutamenti della società, oppure più recentemente a Edgar Morin per far comprendere quanto la cultura di massa e le logiche di consumo facciano sorgere una dialettica che rendere molto più attive le masse le quali dunque non fruiscono solo passivamente i suoi prodotti ma contribuiscono a far sviluppare nuovi significati e valori limitando perciò i bisogni di standardizzazione dovuti alla produzione industriale. Mi sembrano dunque considerazioni piuttosto superficiali le seguenti: ” le scritture che conservano spessori ed ambizioni diventano sempre più un prodotto di nicchia, in senso merceologico” e “Se è vero che la letteratura in senso forte è sempre stata una miscela di piacere e scoperta, è altrettanto vero che oggi è sempre meno socialmente intesa come conoscenza, e sempre più come divertimento ed evasione. Questo vuol dire, tra l’altro, che la letteratura è sempre di più qualcosa che fa parte di una esperienza estetica che include ingredienti non letterari (o anche non artistici; in genere connessi a qualche aspetto della comunicazione di massa).” in quanto ci possono essere spessori ed ambizioni espressi proprio attraverso questo linguaggio tipico delle logiche di massa e di consumo (linguaggio che può avere certo minori complessità rispetto alla cultura alta a causa della sua maggiore accessibilità, ma questo non vuol dire che esso abbia meno potenza di esprimere conoscenze e valori e indirizzare ad essi) che porta non solo a donare piacere, ma ad elevare il fruitore a nuove conoscenze che contribuiscono ad avere più consapevolezza del suo insieme di valori. Per questo ritengo una visione pessimista affermare che “non è in pericolo la letteratura in senso forte, ma solo la sua presenza sociale, e il senso politico della sua esistenza.” in quanto la letteratura non deve avere paura di essere “contaminata” dai linguaggi delle logiche di massa, deve semmai aprirsi a questi linguaggi per comunicare nei modi migliori e più efficaci conoscenze e valori alla società di oggi.
Per il resto ritengo che sia ormai doveroso abbandonare definitivamente una concezione della letteratura come un patrimonio di autori ed opere da ricordare e trasmettere per garantire una presunta continuità culturale che fonda l’identità di una comunità (non importa se nazionale o più generalmente occidentale) per approdare a una visione della letteratura come scienza, una scienza di come e cosa un testo può riuscire ad esprimere all’uomo d’oggi, evitando restrizioni di ogni tipo, da quelle legate alla lingua di appartenenza, al contesto culturale e sociale dell’autore, dato che di fatto nel nostro mondo culture diverse sono sempre più a contatto. Una concezione di letteratura dunque il cui valore delle sue opere non si ferma al ricordo certa tradizione di un’epoca e luogo a cui appartiene una comunità ma una letteratura attiva e che esce dalle scuole e dalle accademie e che interagisce con il resto della società (magari anche attraverso derivazioni legate alle logiche di massa e mediante altri media come cinema, programmi tv, fumetti, videogiochi e simili), capace di modificare e arricchire spiritualmente il mondo di oggi, riconoscendo nelle opere non solo di oggi ma anche di ieri conoscenze e valori importanti anche per il mondo di oggi.
Condivido sostanzialmente (se l’ho ben capito) ciò che Michele Dr scrive nel secondo paragrafo del suo intervento. Questa è un’epoca terminale/iniziale, tutto sta in ebollizione, in un vortice trasformativo da cui usciremo cambiati, noi e le nostre categorie critiche, culturali e prima ancora spirituali. La categorie e strutture odierne infatti – la destra come la sinistra, l’essere maschio come l’essere femmina, il partito politico come la parrocchia, la Chiesa come l’università ecc – sono oramai inadeguate ad affrontare la sfida, e già morte. La crisi è economica in superficie, ma in profondità è crisi di pensiero. Da tutto ciò la scrittura non può restare immune. Non è una cattiva notizia, si tratta però di avere coraggio.
La democrazia della rete è una farsa? Qui penso che sia un poco esagerato il punto di vista. Così come l’idea che oggi il lettore sia più libero, ma più solo. A me pare che proprio oggi il lettore abbia molte più possibilità di accedere a buoni libri, grazie a un rapporto meno paternalistico col critico e più vicino. E questa opportunità è la rete a darla. Io in questi anni ho potuto scrivere a certi autori che apprezzo, leggere i loro commenti in rete, anche molto approfonditi e interattivi, prolungati nel tempo. Uno spazio come questo sito, che non è il solo, una volta non c’era. Certi circoli e discorsi potevano essere avvicinati solo per diretta conoscenza o in ambienti universitari. Se io avessi letto un qualsiasi saggio che appare qua anni fa non avrei potuto interagire con gli autori e chiedere spiegazioni di certi passaggi. Sarei rimasto solo, davvero, a cercare di capire. In queste considerazioni mi pare sia tenuto del tutto fuori il rapporto che c’è oggi fra autore e lettore, che mi pare più vicino e, se uno vuole, fecondo.
L’articolo mi sembra buono e in linea di massima condivisibile. Tuttavia mi pare che, come spesso succede in questo genere di discorsi sulla salute della letteratura, si esagerino enormemente i fattori “mediali” e si sottovalutino altrettanto a fondo quelli politici. Sarò nostalgico o forse soltanto ignorante, ma la crisi dell’arte non mi pare riguardi soltanto la letteratura: che il cinema e le serie tv ne abbiano scalzato in parte il valore merceologico dice ben poco, se poi nemmeno in questi campi viene prodotto niente di neppure lontanamente paragonabile a Kafka. Il problema è dunque non di prestigio sociale (categoria da sondaggisti, temo, più che da critici letterari), ma di profondità. E la mia impressione è che la nostra epoca abbia quel che si meriti, cioè molto poco: sono lontano, purtroppo, dalle note ottimistiche del finale. Una volta la pensavo diversamente. Oggi sempre più mi pare di appartenere a una parentesi della storia. Perché, come dice
@Enrico Macioci,
è vero che molte cose stanno cambiando: ma è sempre stato così. Esagerare la portata di questi cambiamenti, magari lasciandoci ingannare dalla loro apparente velocità, è solo un sintomo della nostra incapacità, anzi forse sarebbe meglio dire scarsa fame di comprenderli. Non dobbiamo abbandonarci allo schiacciamento prospettico delle narrazioni euforiche e/o apocalittiche. Abbiamo bisogno di tutto, fuorché di mitologie: di qualunque segno siano. Così, per tornare all’articolo, stiamo attenti a non mitologizzare l’Avvento del Digitale. Non ci sono mai scuse sufficienti per rinunciare all’analisi, che è anche e soprattutto demistificazione. Le categorie di destra e sinistra, e magari di materialismo storico, in questo contesto di “ebollizione” valgono eccome, cento volte più di ieri.
@ Simonetti
Bell’intervento! Anche perché fa piazza pulita di un equivoco che è circolato a lungo: quello secondo cui saremmo in un’epoca post-letteraria, quando invece è UNA idea di letteratura che deve ridefinire il proprio spazio. Anni fa Pietro Cataldi ipotizzava che per il presente letterario si potesse dare la stessa divisione che si è data per la musica: quella classica o colta da una parte, che, destinata a pochi, vive per lo più di un repertorio vecchio almeno di cent’anni; e quella leggera, produttiva industrialmente e commercialmente redditizia. Ho però l’impressione che la letteratura colta, sempre più insidiata dalla concorrenza, sulle lunghe distanze continui a difendere le sue posizioni – cosa che, invece, non accade con la musica di ricerca contemporanea. Sono (ehm: siamo…) quattro gatti ad ascoltare Boulez o Sciarrino; ma Roth o Houellebecq arrivano dappertutto. Chissà se dobbiamo confidare nel darwinismo.
C’è del resto da capire come la letteratura stile Novecento viva ancora; o come sopravviva, si riformuli, combatta, ceda le armi. Tutti gli scrittori che oggi contano mettono le mani nei materiali e nelle forme della cultura di massa. Simonetti ha ragione quando osserva che l’atteggiamento del rifiuto e dello sdegno ha fatto il suo tempo. A guardare più da vicino i singoli casi, ne verrebbe fuori un quadro tipologico mica male.
Trovo giusto liberarsi della retorica delle scritture ibride, come se ibridare fosse in sé un valore. Poche cose hanno prodotto avvilimento come l’idolatria dei generi. Apprezzare una sciocchezza ben fatta nel suo genere vuol dire comunque apprezzare una sciocchezza. Semmai, occorre vedere cosa accade fuori del romanzo, che getta la sua ombra un po’ dappertutto, ma che non copre tutto il terreno. Trevi, tanto per dire, a me interessa proprio perché non vuole scrivere romanzi; oltre al fatto che sa proprio scrivere (anche se a volte rischia appunto di far della musica).
Resta poi il problema del pubblico: il sondaggio di Raccis, di qualche tempo fa, era interessante anche dove segnalava il credito concesso a scrittori che uno come me, per esempio, non riuscirebbe mai a prendere sul serio. Quando arriva lo studente che mi chiede di laurearsi su Sveva Casati Modigliani, mi sento come il genitore che trova pasticche multicolori nelle tasche del figlio, o lo scopre a guardare siti pedopornografici. Dove ho sbagliato, mi chiedo? Poi parte il faticoso tentativo di recupero, schivando le prediche e lo scoramento. In fondo, mi pagano pure per quello.
Infine: c’è qualcosa di specificamente italiano in questa vicenda? Forse no: è davvero una condizione planetaria. Nelle patrie dei Wallace, dei Bolaño, dei Littell, delle Munro, la letteratura di intrattenimento e di consumo non è meno numerosa, né alza meno la voce; solo che dal di qua delle Alpi il fracasso ci arriva attutito. Certo resta l’impressione che molti nostri editori (e soprattutto i maggiori) siano troppo affannati a far quadrare i conti in un paese di lettori scarsi o confusi per poter manifestare un qualche coraggio nella scelta degli stessi autori italiani (con gli stranieri, si affidano a prodotti già testati). Il che mi è sempre sembrato cieco anche dal punto di vista imprenditoriale: in tanta ricerca di best sellers, puntare su qualche long sellers non guasterebbe.
“Ammaniti, Veronesi, Baricco, Giordano, Mazzantini”.
Il dramma è che anche gli insegnanti di lettere di medie e superiori (con rare eccezioni, in genere viste dai colleghi con diffidenza, sospetto, ironia ebete) non leggono altro, quando leggono qualcosa.
E se anche tentassero di leggere Mallarmé, Rilke, Celan, Pound, o, nella narrativa, Kafka, Musil, Broch, non ci capirebbero nulla (in genere lo ammettono, e quasi se ne vantano, autoproclamandosi ostentatamente e gloriosamente asini – salvo poi affermare, con lo stesso vigore, che insegnano per vocazione passione e altre palle).
Il dramma è che non sono in grado di capire, anzi di sentire, la differenza fra Proust e Baricco. Parlano della Mazzantini e di Camilleri come se parlassero di Céline.
Al biennio, ormai, agli studenti non viene fatto leggere quasi più nulla (tranne I Promessi Sposi, per intero, a voce alta, parola per parola – con il risultato che non arrivano mai alla fine, non viene fatta loro sentire neppure la freschezza di quel temporale liberatore e purificatore – e anche di quelli non viene chiesta che la trama, o poco altro).
Eppure, i programmi ministeriali (che per una volta hanno ragione, e andrebbero seguìti) prevedono che il primo incontro, il primo contatto (ovviamente antologici) con Flaubert, Kafka, Mann, i simbolisti francesi, i grandi poeti italiani del secondo Novecento, avvengano sui banchi del secondo anno; e le antologie forniscono i testi essenziali, anche se con commenti spesso insulsi. Così fu per me, quando ero studente; e fu un’illuminazione. Non perché gli insegnanti fossero grandi ammaliatori o mistagoghi; ma semplicemente perché quei testi, in sé e per sé, mi parlavano.
La tragedia sono l’ignoranza e l’ottusità arrogante della maggior parte degli insegnanti. Che insistono maniacalmente su questioni burocratiche, forse anche per mascherare un vuoto di cultura.
Io sono uscita da Lettere da poco. Non ho mai visto nessuno dei miei compagni di corso leggere ‘Ammaniti, Veronesi, Baricco, Giordano, Mazzantini’ (forse lo fanno di nascosto?), tantomeno ne ho sentito parlare.
Ciao Gigi, argomento inevitabile e scottante, anzi bruciante. Ti seguo volentieri, ma fino alla nota ottimista, che non mi sembra molto convinta, e come potrebbe? Come possiamo essere sicuri che una letteratura forte sopravviva senza legittimazione sociale? La convinzione di fabbricare l’assoluto Dante e Proust la traevano verosimilmente anche da altro che dalla loro personale follia. E senza questa convinzione può esistere un Dante o un Proust? E poi l’argomento secondo cui non muore la letteratura ma una sua forma mi sembra in fondo falso: quel che è certo è che quella letteratura che abbiamo amato (per chi l’ha amata) muore, se “la” letteratura sopravviva chi può dirlo? Chi sa che cos’è “la” letteratura? Sarebbe come se un chimico ci dicesse, di fronte al cadavere di un essere amato, che quel corpo è morto, ma la materia sopravvive in altre forme. Può anche darsi, ma chi se ne importa?
Un abbraccio
L’articolo è estremamente nitido. Mi riallaccio ai commenti su letteratura come scienza o forma di conoscenza perché sono la derivazione con la quale ho maggiore familiarità. Suggerisco che probabilmente la letteratura propria del tempo odierno, anche nella maniera in cui emerge, è quella dei paper scientifici (sperimentali e spesso speculativi assieme) sottoposti a peer review (il giudizio anonimo dei colleghi). La metaforizzazione è a volte spinta e la discussione dei risultati presentati è finanche letteraria, speculativa, induttiva invece che scientifica e deduttiva. Si parla tanto di “grado di confidenza” statistico nelle asserzioni che si fanno a partire dai dati oggetto di discussione. Ogni tentativo di avanzare nella conoscenza, cioè, parte da una supposizione induttiva, da un atto di immaginazione. E’ come un fare luce progressivo, poco per volta. Prendete come esempio questo articolo italiano di fisiologia clinica, tuttora in pubblicazione ma già disponibile online, sulle esperienze di pre-morte, qui: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/25892488 , intitolato “Epistemological implications of near-death experiences and other non-ordinary mental expressions: Moving beyond the concept of altered state of consciousness”. Parlare a questo livello di queste cose, pescando nella coscienza universale dell’umano ed atterrendola o meravigliandola, si è dunque mano mano spostato dalla forma artistico-letteraria a quella del progresso delle scienze? Da qui non si può tornare indietro: l’enorme bacino immaginativo riversato nei pochi millenni di arte linguistica e di pensiero speculativo troverà sempre maggiore realizzazione pratica con l’avanzare della comprensione umana e della realizzabilità tecnica portate dal metodo scientifico. Ritornano attuali alcune domande classiche: tutto ciò che è pensabile esiste davvero?
@ Donnarumma
Ma l’equivalente in musica di Roth, Houellebecq e compagnia scrivente non sono Boulez o Sciarrino (poi comunque i giovani compositori di oggi hanno per fortuna tra i loro ascolti anche il punk, per dire). Sono i vari Joy Division, Radiohead e compagnia cantante. Se proprio li vogliamo paragonare a dei compositori direi Glass e Adams, Part; tutta gente che pur nella ricerca scrive musica per umani, e non per gatti. Più che il darwinismo c’entra il sano buonsenso (e il quattrino, per fortuna). Finché la letteratura “colta” sarà scritta nella stessa lingua dei lettori avrà diffusione.
Geniale (sul serio) l’intervento di Giuseppe C. La funzione poetica, ormai scacciata dalla civiltà del testo, o da ciò che ne sopravvive, potrà forse riaffiorare nel discorso scientifico. Questo perché il grado di intelligenza e di cultura degli scienziati è superiore (forse lo è sempre stato) a quello tanto delle persone comuni, quanto degli stessi letterati o presunti tali. E la scienza recupererà la propria suggestione e la propria valenza poetiche esattamente nella misura in cui si allontanerà (come per larga parte ha già fatto) da un rigido determinismo neopositivista (nel quale invece la filosofia, con il New Realism, sembra stare ricadendo).
@ roberto gerace
Secondo me non è vero che è sempre stato così. Secondo me non è mai stato così, a questo livello di velocità, radicalità e dunque rischio. Naturalmente è una mia idea, corroborata però dalla visione di un’intera figurazione antropologica in crisi (ovverosia quella occidentale, ma anche su quella orientale ci sarebbe da discutere, specie poi nell’epoca della globalizzazione). Del resto non occorre essere Geremia o l’Ecclesiaste, basta ascoltare un qualsiasi tg per rendersi conto dell’apocalissi in atto – politica, economica, ambientale eccetera. Il problema è che oramai siamo talmente assuefatti/alienati da aver perfino dimenticato di esserci alienati. Eppure è tutto talmente evidente… Chiunque mi dia dell’apocalittico osservi prima bene – ma bene davvero – il mondo in cui viviamo, la sua crescente insensatezza e insostenibilità. Io sono un realista. E non vedo perché la scrittura seria non dovrebbe, in un simile vortice, mutare (ma lo ha già fatto!). Per me è davvero creativa l’opera che si inserisce nel processo trasformativo in atto e lo esprime con (maggiore o minore) potenza rivoluzionaria. Annientamento di VanderMeer e La coscienza di Andrew di Doctorow sono due libri recenti che mi sembrano prendere abbastanza di petto la questione (sollevata oramai dalla fisica e dalla scienza più che dalla mistica o dalla religione) del ritorno alle domande radicali di senso – chi sono io? Cos’è l’io umano? Che ci facciamo qui? E che cos’è questo qui? Esiste davvero o è una nostra illusione (quella che Einstein chiamava “illusione ottica della coscienza”)? Se non ci sintonizziamo sull’urgenza in atto rifluiamo nel “letterario” e in narcisismi vari. La lezione (drammatica) della modernità è un’altra.
Se Macioci gentilmente me lo consente, vorrei aderire al gruppo degli apocalittici, credo di avere tutti i titoli per essere ammesso.
Il problema sta nella evidente sproporzione tra mezzi tecnologici disponibili e senso di responsabilità.
Seppure abbiamo prove indiscutibili della capacità della cultura di dominarci, poichè le pulsioni profonde dell’uomo sono sempre quelle, non basta dominarle nel momento dell’azione se poi la cultura che sviluppiamo è essa stessa dominata dalle nostre pulsioni, se ancora si pensa alla libertà come esercizio arbitrario di scelta e quindi come assenza di vincoli., come appunto fa il liberalismo trionfante soprattutto in chi liberale lo è senza saperlo e che rifiuterebbe questo appellativo se qualcuno glielo attribuisse.
Mi vorrei unire anch’io al coro di apprezzamenti all’articolo che mi pare colga il punto fondamentale dell’evoluzione del valore e del ruolo sociale della letteratura nel mondo contemporaneo.
Del resto, come meravigliarsi se nella società più conformista mai esistita quale quella in cui ci troviamo a vivere, proporre sensi alla nostra esistenza più che superfluo è dannoso, visto che i mass media danno il loro di senso che deve essere sufficiente e non messo in dubbio da messaggi discordanti.
Per precisare molto brevemente il mio pensiero: quel che è andato perduto non è, come diceva Adorno, “l’ovvietà” dell’arte (e della letteratura che si vuole ed è arte).
Quel che è andato perduto è “la legittimità” dell’arte.
E non solo dell’arte, va da se’. E’ legittimo quanto rimanda a una realtà e/o a una gerarchia di valori, venerati e condivisi, che lo trascendono: che si intenda la parola “trascendono” nel senso pieno e forte della metafisica, o nel senso metastorico di “civiltà”.
Simonetti, si è accorto anche lei che la democrazia della rete è una farsa? Bene. Per me il problema è un altro, il sistema economico nel quale viviamo è costretto ad allargare all’infinito l’offerta. Prendiamo la letteratura che piace a noi. In Italia abbiamo Siti, Celati, appunto Trevi, per dire di tre nomi che bastano e avanzano per fronteggiare i qualitatevoli foresti; ma il sistema editoriale, invece di puntare su di loro e pochi altri (ed eventualmente riservare il posto che merita alla futura opera omnia dell’imprescindibile Larry Massino), produce praticamente ogni giorno un nome di qualitatevole (basti pensare a quella specie di manuale Cencelli degli scrittori qualitatevoli che è l’antologia di Andrea Cortellessa, che ne individua una trentina solo tra i pubblicati dopo il 2000), ciò che genera caos e finisce per disperdere i pochi lettori rimasti orientandoli su opere di modesto profilo.
Caos Calmo di Veronesi è romanzo in senso forte eccome. Sembra Simenon, solo che Veronesi scrive mille volte meglio di Simenon. Averne…
@Donnarumma
professore, sa che la stimo, ma Boulez e Sciarrino altro che i pantaloni a zampe di elefante che tempo fa rimproverò lei a me per via che citavo Foucault.
@Insegnante desolato – non credo che sia geniale il mio intervento, lo chiamerei piuttosto aggiornato. Peraltro, al Salone del Libro si è fatto un gran parlare e con gran compiacimento, quando poi l’occhio del ciclone testuale (che è quello che dovrebbe interessare sul serio) è già avanti di circa 25-30 anni, trascinato da un lato dalla vulgata turbo-finanziaria di matrice anglofona e dall’altro dalle emergenze sociali di terzo e quarto mondo. Se l’unica specificità letteraria italiana esportabile (il realismo) è ormai colpevolmente dispersa, quel che ne è seguito è pura rimasticazione epigonale, giovanottismo e conservazione. Al Salone tutti si beavano ed applaudivano, i numeri sono stati eccellenti, i libri hanno venduto, gli incontri sono andati bene, i nostri intellettuali passeggiavano in giacca, ecc. ecc. Ma che è questa roba? Dove sono gli intellettuali?
Io comunque vorrei sapere se davvero coloro che hanno commentato finora ritengono davvero che “Ammaniti, Veronesi, Baricco, Giordano, Mazzantini” (questi autori, non Fabio Volo o la Clerici), siano catalogabili (ma non esclusivamente) come “letteratura di consumo” (e dunque con aspetti di “mero intrattenimento. Non c’è niente da scoprire o da imparare”) ma non come “romanzo in senso forte”, “col suo puntare allo smascheramento di aspetti della realtà prima ignoti o non considerati.” Ma davvero la narrativa in questi autori e romanzi “si appoggia ai valori, alle identità, alle idee che tutti pensano” e non fanno scoprire invece nuovi aspetti della realtà che prima il lettore non considerava, facendolo tuttavia attraverso un linguaggio e delle tecniche adatte alla cultura di massa di cui anche i lettori contribuiscono attivamente all’evoluzione di questo linguaggio e queste tecniche? Usare un linguaggio e delle tecniche diverse non vuol dire necessariamente non riuscire a comunicare in modo efficace contenuti di conoscenza e valori rilevanti e che arricchiscono lettore. Dire poi, come fa “Insegnante desolato” che questi lettori “se anche tentassero di leggere Mallarmé, Rilke, Celan, Pound, o, nella narrativa, Kafka, Musil, Broch, non ci capirebbero nulla ” mi verrebbe da dire che prima di tutto è una situazione che si può paragonare ai casi di lettori di soli romanzi che per la prima volta leggono testi di opere teatrali, ogni opera è scritta in un certo linguaggio di cui occorre avere le competenze al fine di comprendere pienamente l’opera.
Lo ripeto, se la letteratura ha ancora qualcosa da dire al mondo d’oggi, deve dirlo anche utilizzando le modalità comunicative di questa società, altrimenti saremmo come quelli che secoli fa si rifiutavano di scrivere nelle lingue volgari, rimanendo a scrivere opere in latino, la letteratura si è sempre “contaminata” e non può lasciarsi perdere questa opportunità, fermo restando che essa ormai non è più il mezzo di espressione supremo, ma non può che affiancarsi assieme agli altri media (cinematografici, televisivi, fumettistici, musicali…), affiancamento che non la impoverisce ma che semplicemente le porta a ripensare i suoi ruoli e i mezzi mediante i quali attuarli in questa società attuale.
Grazie a tutti per la lettura attenta e i commenti. Sono d’accordo in pieno con Buffagni, Donnarumma, in fondo anche con Sangirardi; il primo intervento di Insegnante desolato mi pare ingeneroso verso (alcuni) colleghi ma purtroppo non infondato nella sostanza. Per il resto, replico dove posso e dove mi sembra che ci sia spazio per un dissenso interessante.
@Michele DR
A me pare che sapere scientifico e sapere letterario siano non solo diversi, ma praticamente opposti. Per quanto ne so a volte accade che opere di taglio scientifico acquistino spessore letterario, e viceversa; un’eccezione interessante e istruttiva, ma, appunto, un’eccezione. Per come la vedo io scienza e letteratura possono collaborare e occasionalmente scambiarsi le maschere, ma non annullarsi l’una nell’altra.
@ DFW vs RB
Tra le più deludenti esperienze inaugurate dalla rete figura proprio, a mio avviso, l’interazione con l’autore. La presenza degli scrittori sui social, in particolare, ha quasi sempre un impatto devastante sulla dignità della loro figura. La distanza è un ingrediente fondamentale del fascino di un autore (e forse di qualsiasi altra cosa); il non capire, o il non capire tutto, mi pare una molla più feconda di qualsiasi interazione.
@Gerace
“La crisi dell’arte non mi pare riguardi soltanto la letteratura”. Ma infatti, non ho scritto e non penso che la crisi dell’arte riguardi soltanto la letteratura. “Stiamo attenti a non mitologizzare l’Avvento del Digitale”. Ma infatti, non lo mitologizzo.A dire il vero non ne parlo proprio, perlomeno in questi termini.
@Sara
La mia esperienza di insegnante mi dice che sono quelli gli scrittori contemporanei effettivamente e spontaneamente letti dalla maggior parte degli studenti di Lettere. Primo per distacco Ammaniti, poi gli altri. Mi piacerebbe sapere quali sono i nomi (italiani) che risultano a lei.
@Sangirardi
“Quella letteratura che abbiamo amato (per chi l’ha amata) muore, se “la” letteratura sopravviva chi può dirlo? Chi sa che cos’è “la” letteratura? Sarebbe come se un chimico ci dicesse, di fronte al cadavere di un essere amato, che quel corpo è morto, ma la materia sopravvive in altre forme”.
Non direi; sarebbe come se un chimico ci dicesse che quel corpo è morto, ma la specie continua. La specie è la letteratura – ciò che socialmente si continua a considerare letteratura – il corpo amato la letteratura in senso forte. Ci potremo innamorare di altri corpi? Le cose felici a volte si ripetono, a volte no; “non c’è una regola”, diceva Parise.
a G. Simonetti
Grazie della replica e del consenso.
Noterella: convivono (per ora) due civiltà, intese come gerarchie di valori, norme e divieti implicanti una immagine dell’uomo e del mondo. La più anziana è la civiltà europea (liofilizzando con Renan: impero romano, pensiero ellenico, cristianesimo; fondamenti: limite + trascendenza). La più giovane è il progressismo liberalcapitalista centrata sugli USA (scientismo, mondialismo, egalitarismo, individualismo; fondamenti: illimitato + immanenza).
L’alleanza strategica fra le due civiltà, fondata sul comune nemico comunista, è finita con l’implosione dell’URSS. Le due ex amiche NON sono compatibili. Il gong è suonato, fuori i secondi.
@ roberto buffagni
Rapidissimamente: la liberaldemocrazia, sconfitto il nazifascismo e il comunismo, si ritrova senza nemici esterni e implode. Io non distinguerei poi tanto però, specie in epoca di globalizzazione, fra Europa e America (che è figlia pur’essa del cristianesimo, ne è intrisa fino al midollo). La liberaldemocrazia è in crisi perché si è trasformata in una tecnocrazia mercantile, in pura economia, in supermercato. Questo, credo, è il punto essenziale, e in tutto questo la letteratura non è che non c’entri. Anzi
@ Gianluigi Simonetti:
grazie della risposta, non so a quale concezione di “scienza” lei pensava, io avevo affermato che era doverosa una nuova concezione della letteratura intesa come “scienza di come e cosa un testo può riuscire ad esprimere all’uomo d’oggi” che, oltre a innegabili differenze di contenuti e metodi, ha altrettanto innegabili punti in comune e analogie con le discipline scientifiche. Non sarebbe difficile citare innumerevoli legami, penso solo ai tanti paragoni tra letteratura e matematica viste entrambe come strumenti per esprimere non solo aspetti essenziali della realtà, ma anche aspetti essenziali di infiniti mondi possibili, in fondo è così diverso studiare i modi con cui si combinano parole, numeri o entità fisiche? E non si può ritenere che le scienze siano attività in cui solo il conoscere ha valore: come diceva Einstein “L’immaginazione è più importante della conoscenza. La conoscenza è limitata, l’immaginazione abbraccia il mondo, stimolando il progresso, facendo nascere l’evoluzione.” Per questo oggi la letteratura deve abbandonare il suo vecchio compito di mantenere un’identità a una comunità: Dante e Shakespeare non ci servono per dare valore alla nostra storia e identità come italiani od occidentali ma a conoscere le realtà e possibilità espresse nei loro testi e i valori che esse trasmettono a noi in quanto uomini di tutto il mondo.
a Enrico Macioci.
Grazie per la replica.
Concordo con una chiosa, questa. Com’è ben noto, la libertà del liberalismo classico è una *libertà negativa*.
Questo consente (e prescrive) al liberalismo di mutare contenuto a seconda del suo nemico storico principale, e delle alleanze storiche che ne conseguono.
I nemici principali del liberalismo (tutti sconfitti) sono stati, nell’ordine: le monarchie di diritto divino; il comunismo; il fascismo e il nazismo. (Si ripresenta oggi un nemico, il progetto di ricostituzione di un impero islamico; difficile valutare l’entità della sfida che propone, perchè mentre sul piano militare la sproporzione di forze è schiacciante, sul piano politico e sociale la presenza di un vasto “proletariato interno” islamico in Europa può diventare destabilizzante).
La principale debolezza del liberalismo è l’aspetto in ombra della sua principale forza, appunto la sua *assenza di contenuto*. Il contenuto, sinora, è stato gentilmente fornito dagli alleati del liberalismo; e per avere alleati bisogna avere un nemico. Contro nazismo, fascismo e comunismo il principale alleato del liberalismo è stata, appunto, la civiltà europea intesa al modo di Renan: impero romano, pensiero ellenico, cristianesimo.
La mia impressione è che secondo i powers that be, il cui centro è situato in USA, della civiltà europea non ci sia più bisogno; in particolare, che non ci sia più bisogno di pensiero ellenico e cristianesimo, che rischiano di fare una gran brutta fine.
Se la mia impressione è corretta, il liberalismo si trova oggi, per sua logica interna, a coincidere con la logica del capitalismo, che anch’essa si basa sulla *negazione* delle essenze e dei fondamenti, perchè le essenze e i fondamenti ostacolano la riduzione dei rapporti umani e sociali al minimo comun denominatore dello scambio mercantile. La forma di società capitalistica e liberale odierna, infatti, non si fonda su alcuna giustificazione o essenza tranne questa: che funziona (e in effetti, almeno per ora funziona).
Quanto si oppone alla società liberale e capitalistica odierna assume dunque la forma di vera e propria “reazione” che si contrappone alla “rivoluzione” capitalista.
Si vedano i populismi europei, che recuperano e riassemblano idee e frammenti di idee politiche, anche contraddittori, appartenenti a periodi più meno lontani del passato; e si veda soprattutto il recupero ufficiale del cristianesimo ad opera del principale nemico degli Stati Uniti, la Russia: che della religione cristiana ortodossa fa oggi la sua teologia civile.
Segnalazione: parata militare per il festeggiamento del 70esimo anniversario della vittoria nella “Grande Guerra Patriottica”. Il ministro della difesa russo va a a ispezionare le truppe schierate sulla Piazza Rossa. In piedi sull’ automobile di servizio, passa sotto la porta di Gesù Salvatore e si fa il segno della croce.
Questo è un avvenimento storico della massima importanza, perchè la Russia è una nazione a vocazione imperiale che dispone di un cospicuo armamento nucleare strategico, di una base territoriale immensa, e di un popolo che nella sua storia ha più volte dato prova di una sbalorditiva fermezza e di un patriottismo a prova di sciagura.
Si parla di Walter Siti, Giorgio Vasta, Michele Mari, Elena Ferrante, Giorgio Falco, Helena Janeczek, Laura Pugno, Francesco Pecoraro e molti altri – magari non conosciuti come gli autori appena citati, ma in cui ci si imbatte casualmente in una libreria locale, fiera del libro, per passaparola, a partire da un blog o recensione. Raramente se ne discute durante una lezione, a meno che non si stia seguendo un corso sulla narrativa contemporanea in Italia.
@roberto buffagni
Lei afferma:
“La mia impressione è che secondo i powers that be, il cui centro è situato in USA, della civiltà europea non ci sia più bisogno; in particolare, che non ci sia più bisogno di pensiero ellenico e cristianesimo, che rischiano di fare una gran brutta fine.
Se la mia impressione è corretta, il liberalismo si trova oggi, per sua logica interna, a coincidere con la logica del capitalismo, che anch’essa si basa sulla *negazione* delle essenze e dei fondamenti, perchè le essenze e i fondamenti ostacolano la riduzione dei rapporti umani e sociali al minimo comun denominatore dello scambio mercantile. La forma di società capitalistica e liberale odierna, infatti, non si fonda su alcuna giustificazione o essenza tranne questa: che funziona (e in effetti, almeno per ora funziona).”
Sottoscrivo queste parole e aggiungo due osservazioni:
1) siamo sicuri che questa società funziona? A me pare che lo squilibrio fra ricchi e poveri (tanto per dirne solo una) sia sempre più evidente, e che gli scricchiolii siano sempre più numerosi e inquietanti (lo ripeto, basta ascoltare un qualsiasi tg d’un qualsiasi giorno a una qualsiasi ora); mi sembra inoltre che questa società sia diventata psicologicamente insostenibile anche da parte di chi sta bene economicamente (e si potrebbero citare dati statistici a iosa);
2) se ho ben capito, con negazione di essenze e fondamenti Lei intende la negazione della base essenzialmente messianica della modernità (l’idea della libertà individuale, della superiorità del nuovo sul vecchio, del progresso, della ricerca scientifica, dei diritti umani, il marxismo ecc ecc, tutto ciò è messianico…); se lei intende questo, concordo; ma auspicherei che una tale consapevolezza fosse ben più viva da parte di un sacco di “assolutamente moderni” che hanno dimenticato da dove vengono.
Intanto grazie a Lei. Mi fermo perché non voglio far deragliare il post – che è essenzialmente letterario – su argomenti di più vasta portata.
La dissoluzione del concetto antropologico di comunità (famiglia-villaggio-città-regione-stato-continente) nel concetto biologico di specie-termitaio che lotta con altre specie ed al suo stesso interno, porterà l’umanità verso l’espansione extraterrestre, al suo autoannientamento o a qualcosa di mezzo tramite geo-engineering, forzando infine la prima per cercare di evitare il secondo. Tutto questo grazie al braccio tecnologico ed alla leva finanziaria di cui oggi dispongono le elite governative e quelle delle grandi multinazionali ingegneristiche. La potenza di fuoco concentrata in mano a cento umani condiziona già oggi, 2015, il destino dei 6-7-10 miliardi di altri umani. Tale concentrazione di potere dovrebbe essere il rovello, il nemico di ogni intellettuale contemporaneo ad ogni latitudine, in pensiero ed opere.
a Enrico Macioci
Grazie della replica, le rispondo in breve.
1) Dico che “funziona” nel senso che riesce a sopravvivere, a riprodursi e a estendersi. Non “funziona” in un senso: che non provvede senso a chi ne fa parte, perchè le mancano due requisiti propri alle altre civiltà: una fonte di legittimazione, umana o divina, venerata e condivisa, e un coerente, ripeto coerente sistema di norme e divieti che strutturi l’esistenza e conferisca, appunto, senso alla vita.
L’immenso progresso materiale viene pagato pronta cassa con un immenso regresso spirituale, entrambi mai visti prima.
2) Non ci siamo intesi. Per “essenze e fondamenti” intendo quel che con queste parole intende il pensiero classico e cristiano, cioè le realtà del mondo spirituale, in primo luogo la natura umana o anima che dir si voglia, che del mondo spirituale fa parte integrante ed è l’organo di senso. Quanto alla “base essenzialmente messianica della modernità”, sono persuaso con Eric Voegelin che la trasposizione del messianesimo, o più esattamente dell’eschaton cristiano, sul piano nell’immanenza stia effettivamente all’origine delle rivoluzioni moderne, compresa quella in corso, e che ne causi le distorsioni e le eterogenesi dei fini (Voegelin lo chiama “gnosticismo politico).
Terra terra: è in corso da un bel pezzo un tentativo di creazione di uomo nuovo + nuova terra e nuovi cieli che ha preso e sta prendendo molte forme. Non è finito bene sinora, vedi nazismo e comunismo; non credo che possa finire bene mai.
@roberto buffagni
Sono d’accordo su tutto, virgola per virgola. Anche – ahimé – sulla sua ultima frase.
@ GS
certamente la presenza sui social, di cui non ho esperienza, avrà danneggiato cert*, però credo che, non tanto per obiettare, quanto per integrare, almeno vadano comprse nel quadro esperienze diverse. Io posso parlare solo per la mia di lettore, vorrei che altri si esprimessero da lettori. Ad esempio i nomi citati da Sara li conosco, eppure non ho fatto lettere, ma ci sono arrivato attraverso i blog letterari. La rete non è solo i social (e il social di per sé non fa la differenza), è anche fatta di progetti nei quali gli autori mettono dei contenuti piuttosto che la loro immagine e tessono rapporti con i lettori, consigliando buoni libri. Poi non mi riferivo tanto al disvelamento dell’opera, che è una roba soggettiva, ma appunto a qualsiasi argomento sul quale si può ragionare assieme. Insomma, bisogna vedere come ci si sta in rete. E il punto su cui non posso che dissentire è quello del crollo delle mediazioni. Intanto non capisco come fai ad assumere nel discorso il punto di vista allargato, il “noi”. Tu sei un mediatore culturale, non fai parte dei lettori. Ammesso che si possa parlare di fine di un’epoca, la critica è un metodo, e il metodo si adatta. Non riesco a capire questo atteggiamento. Al massimo si parla di resistenza, come fa Tricomi. Lo stesso Baricco, criticato su queste pagine, parlava di nuova epoca che tendeva a cancellare le mediazioni. Ma questo è un errore di visione banale, perché la letteratura è intrinsecamente una faccenda di relazioni, e quindi il fatto che un soggetto perda di autorevolezza, anche se per me questo è tutto un auto-inganno mentale dei mediatori stessi, non fa sì che si perdano le mediazioni. Cambiano solo i soggetti che le effettuano. Il critico ha “perso” la sua aura in quanto critico, ma può benissimo riacquistarla in quanto persona di valore. La liberazione non è solo del lettore, è anche del critico, perché ne beneficia pure esso di doversi guadagnare i galloni sul campo.
@ Buffagni & Macioci
Amen :)
a DFW vs RB
attento che “amen” vuol dire “così sia”.
Che bel covo di reazionari! Viva Moretti ed i suoi allievi da circuito delle idee internescional!!
a GiuseppeC:
guardi che non c’entro niente con i responsabili questo sito, sono solo un reazionario de passaggio che loro cortesemente ospitano.
La prossima volta metto il disclaimer.
@Buffagni – ma dove va… mi tenga il posto, piuttosto… vado a comprare le sigarette.
Insomma, rassegniamoci al vuoto pneumatico dilagante, perché la sostanza è altrove. Dove? Non si sa…
Insomma, il contenuto dell’articolo si riassume così: gli editori italiani non vogliono rischiare e quindi puntano sempre più sulla letteratura di intrattenimento e sempre meno su quella di impegno filosofico / esistenziale. Il mediocre vende e si stampa, per il resto si nicchia perché è un prodotto di nicchia. L’eccellenza, se c’è, non conta un c…o. Però… sembra di leggere i ‘Pensieri’ di Leopardi; dieci, cento, mille letterature “di una volta”!
” La grande letteratura contemporanea “: francamente non capisco. Quale sarebbe?