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di Yan Thomas

[Storico del diritto romano, allievo di André Magdelain, Yan Thomas è stato una delle figure più singolari e inclassificabili delle scienze sociali francesi. I suoi seminari all’Ecole de Hautes Etudes en Sciences Sociales, bruscamente interrotti dalla sua morte nel 2008 (era nato nel 1943) attiravano studenti e colleghi di ogni disciplina, dalla letteratura alla filosofia, dall’antropologia, dalla storia alla sociologia. La sua opera, espressasi per lo più nella forma di saggi specialistici, ha influenzato storici e filosofi di più generazioni, da Pierre Legendre a Jacques Derrida e Giorgio Agamben. Il diritto, per Yan Thomas, non è il relitto storico di una civiltà perduta, ma una tecnica che attraverso il linguaggio costruisce realtà che la natura non è capace di creare. Riportiamo qui un frammento da un libro appena uscito per Quodlibet (Il valore delle cose, a cura di Michele Spanò), diventato un riferimento imprescindibile nel dibattito attuale sui beni comuni (Emanuele Coccia)] 

La santuarizzazione delle cose inappropriabili

Non è indifferente che, al fine di formulare la natura patrimoniale e commerciale delle res, il diritto romano abbia scelto il percorso dell’esclusione, della loro destinazione eccezionale alla città o agli dèi. Un percorso che si snoda attraverso le aree rigidamente circoscritte del pubblico e del sacro per organizzare e pensare l’anteriorità del commercio, e non già il contrario. Nessun interdetto all’appropriazione è formulato al di fuori di quest’area istituita attraverso un atto di diritto pubblico o sacro. La definizione di simili riserve, la loro delimitazione attraverso procedure che impegnavano magistrati, riti e l’assistenza di tutto un personale sacerdotale, ma anche attraverso tracciati in cui si saldavano tecniche del diritto e dell’agrimensura – tecniche che servivano a qualificare un bene, a istituire un’attribuzione e a misurare lo spazio nei limiti del quale esso era compreso –, questa santuarizzazione, insomma, liberava tutto il resto.

Per comprenderla, può essere utile cominciare dall’unico testo (un celebre passaggio delle Institutiones di Gaio, smembrato e rimaneggiato nelle Institutiones di Giustiniano, attraverso le quali fu commentato per centinaia di anni, dalle prime Summae del XII secolo fino alla scoperta del manoscritto di Verona nel 1816); in esso si trova enunciato esplicitamente, intorno all’anno 160 della nostra era, il principio di una divisione delle cose in patrimoniali ed extrapatrimoniali (vel in nostro patrimonio sunt vel extra nostrum patrimonium habentur). Su questa prima divisione se ne innesta immediatamente un’altra che finisce per essere presentata, contrariamente alla posizione che essa occupa nell’esposizione, come la summa divisio: le cose vi si ripartiscono in tutt’altro modo: ci sono quelle di diritto divino, da un lato, e quelle di diritto umano, dall’altro (aliae sunt divini iuris, aliae humani) – le prime si distribuiscono a loro volta fra le tre zone del sacro (luoghi e cose consacrate agli dèi celesti), del religioso (luoghi di sepoltura, riservati agli dèi mani) e del santo (le mura urbane e castrali), mentre le seconde, quelle di diritto umano, si ordinano tra le sfere del pubblico e del privato (aut publicae sunt aut privatae).

Un semplice sguardo alla corrispondenza tra i due piani sui quali, secondo il testo di Gaio, si dispongono le categorie del diritto romano delle res, mostra immediatamente che le cose sacre, religiose, sante e pubbliche sono tutte extrapatrimoniali; ma che quanto le oppone alla sfera privata non è loro interamente comune: solo le cose sacre, religiose e sante se ne distinguono a un titolo supplementare, quello del diritto divino.

Lo stesso accade indicando in altro modo l’imperfetta articolazione dei due sistemi:

II, § 9: Ciò che è di diritto divino non appartiene a nessuno (nullius in bonis); ciò che è di diritto umano è il più delle volte in possesso di qualcuno (alicuius in bonis). II, § 11: Le cose pubbliche sembrano non essere tra i beni di nessuno (nullius in bonis): le si considera appartenenti alla totalità stessa dei cittadini (ipsius universitatis). Le cose private sono quelle che appartengono a degli individui (singolorum hominum).

Perché le cinque specie del sacro, del religioso, del santo, del pubblico e del privato (che sono delle vere qualificazioni, poiché a ciascuna di esse corrisponde uno statuto) non sovrappongano due sistemi d’opposizione incompatibili, ma si allineino su un piano di opposizione univoca, bisognerebbe abbandonare o la divisione tra patrimoniale ed extrapatrimoniale, cosa che obbligherebbe a classificare il pubblico insieme con il privato, la città con gli individui, o la divisione tra divino e umano, cosa che permette di classificare – lasciando da parte le sepolture e le mura – il pubblico con il sacro. Quest’ultimo sistema, di cui si vedrà tutta l’importanza pratica, è il solo attestato dalle fonti.

Il pubblico e il sacro nella giurisprudenza di epoca imperiale

Il diritto romano attesta di una vicinanza giuridica costante tra il pubblico e il sacro, termini che qualificano comunemente i luoghi e le cose sottratti al dominio individuale. Questa prossimità non è certo un’originalità esclusiva di Roma, che la condivide infatti con il mondo greco. Tuttavia, l’espressione datane dal diritto romano le conferisce un significato storico singolare, che avremmo serie difficoltà ad analizzare se non ci fosse stato trasmesso il corpus della giurisprudenza latina. I giuristi in effetti non consideravano le cose pubbliche e sacre (alle quali si aggiungevano le cose religiose e sante) se non a partire dalla prospettiva della loro inalienabilità e della loro inappropriabilità. Sono queste cose che le Institutiones di Gaio accolgono nel genere delle res nullius in bonis. Così le Institutiones di Marciano, nel III secolo. Ora, questa classificazione dogmatica rende conto di una pratica costante. All’epoca di Augusto, Sabino inscriveva negli atti di vendita questa clausola: «Nulla è venduto di ciò che è occupato da qualcosa di sacro o di religioso»; un’altra redazione è attestata due secoli più tardi: «Niente […] di ciò che è occupato da qualcosa di sacro, di religioso o di pubblico». Tuttavia, Ulpiano si riferiva alla formulazione di Sabino quando dichiarava nulla la vendita di un fondo il cui suolo era «religioso, sacro o pubblico», mentre Paolo precisava che «le vie pubbliche o i luoghi religiosi o sacri» non erano computati nella misurazione della superficie venduta.

«Sacro e religioso o pubblico»: ecco ciò che normalmente si enumera allorché si tratta di sfuggire al piano giuridico della merce. Nessuno poteva comprare una cosa di cui sapeva che «l’alienazione è interdetta, come i luoghi sacri e religiosi o le cose di cui non si fa commercio, non perché esse appartengano alla città, ma perché sono destinate all’uso pubblico, come il Campo Marzio». Precisazione cruciale, che distingue all’interno dello spazio pubblico una zona di demanialità, di cui lo Stato disponeva liberamente, per esempio attribuendo o vendendo le sue terre pubbliche, e una zona di «uso pubblico» (piazze, teatri, mercati, portici, strade, litorali, condotte d’acqua, ecc.), la cui indisponibilità si imponeva in modo assoluto: le «cose pubbliche» non erano inappropriabili in ragione di una qualche titolarità statuale, ma a causa della loro destinazione, secondo la visione molto chiara che ne avevano i giureconsulti romani. Si trattava di luoghi nei quali ciascuno poteva far valere il proprio diritto di libero accesso e di libero uso esercitando, contro chiunque lo impedisse, un’azione privata per danni, o domandando al magistrato un interdetto proibitorio o restitutorio (in questo caso il disturbatore doveva rimettere la cosa a posto a sue spese). Tali cose erano dette «pubbliche» proprio perché erano liberamente accessibili a tutti, come se ciascuno dei membri del populus avesse su di esse un diritto connesso alla propria qualità di cittadino, imputato a ciò che di pubblico c’era nella sua stessa persona – come se ciascuno fosse portatore di una doppia personalità, privata e politica, e a questo secondo titolo le cose della città appartenessero a lui come a tutti, ma inalienabilmente.

La città o il fisco erano riconosciuti come proprietari di beni, a proposito dei quali i giuristi non esitavano a impiegare il più esplicito linguaggio patrimoniale: pecunia populi, patrimonium populi, patrimonium fisci per Roma, bona civitatum, pecunia communis per le città dell’impero. Ma è a un titolo irriducibile alla proprietà che i giuristi connettevano l’indisponibilità di queste cose e il carattere perpetuo della loro destinazione: «Esse servono all’uso dei privati in base al loro diritto di cittadinanza, non in quanto sono loro proprie». Si diceva che «la vendita è valida quando la cosa non è lasciata all’uso pubblico, ma appartiene al fisco»; inversamente, quando un’azione era intentata da o contro una città per i suoi crediti o i suoi debiti, e quando perciò anche i suoi beni pubblici erano impegnati, si diceva che «pubblico», in questo caso, «non deve intendersi al modo delle cose sacre, religiose o destinate all’uso pubblico, ma nel senso di ciò che appartiene, per così dire, ai patrimoni delle città» (si qua civitatum sunt velut bona). Quando si trattava di sottrarre dei beni al circuito dell’acquisto e della vendita, la giurisprudenza non citava questo dominio pubblico né faceva riferimento a cose sacre o religiose: erano unicamente le res usibus publicis relictae. Non gravabile di promessa, «ogni cosa sacra o religiosa o lasciata perpetuamente all’uso pubblico, come un foro o una basilica»; «ogni cosa sacra o religiosa o esposta perpetuamente all’uso del popolo, come un foro o un teatro». Non soggette a eredità, così che l’erede incapace di esibirle non doveva rimborsarne il prezzo, «le cose per le quali non si può corrispondere una somma, come il Campo Marzio, le basiliche, i templi o le cose destinate all’uso pubblico». E quando, talvolta, si voleva estendere questo dispositivo di indisponibilità assoluta ai beni patrimoniali del principe, si razionalizzava il privilegio di considerare i suoi beni inestimabili mettendoli in connessione, più che con l’idea di proprietà pubblica, con quella di uso: «Non si può lasciare in eredità […] il fondo Albano, che serve all’uso dei principi (principalibus usibus), […] il Campo Marzio o il foro romano, o un edificio sacro»: l’uso dei principi è considerato in questo caso esplicitamente equivalente all’«uso pubblico» di cui il Campo Marzio forniva l’esempio di scuola.

[Immagine:Foto di Thomas Demand (gm)]

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