di Claudio Giunta
[Questo articolo è uscito sul Domenicale del «Sole 24 ore»].
Dante Alighieri si sarebbe molto meravigliato se gli avessero detto che nel 2015 gli italiani avrebbero festeggiato il suo settecentocinquantesimo compleanno.
Non che avesse dubbi circa il proprio valore, o circa la durata della propria fama: non che non sapesse di essere un genio, e non che questa consapevolezza fosse temperata dalla modestia. Chi l’ha letto conosce bene le sue candide dichiarazioni di eccellenza, come quando nella Vita nova promette di dire un giorno di Beatrice «quello che mai non fue detto d’alcuna»; o come quando nel De vulgari eloquentia porta i suoi propri versi ad esempio di come dev’essere fatta una poesia in volgare; o come quando nel Convivio si assume il compito di illuminare «coloro che sono in tenebre e in oscuritade», e per farlo commenta per pagine e pagine tre sue canzoni, con la stessa serietà e con lo stesso rigore con cui si potevano commentare la Bibbia o Aristotele. E non pensava soltanto di possedere un talento fuori del comune, pensava anche che gli fosse stato riservato un destino fuori del comune, e cioè che la sua esistenza personale trascorresse all’ombra di eventi e alla presenza di enti la cui importanza andava molto al di là della sua semplice persona: nella canzone Amor che movi spiega che il suo amore è fatto della stessa materia di quell’Amore universale che governa l’universo, che è un raggio della luce divina; nella canzone Tre donne intorno al cor mi son venute spiega che il suo esilio è la prova di un generale imbarbarimento del mondo, il tramonto di tutte le virtù che un tempo erano in onore: Carità, Giustizia, Temperanza, Generosità; e la Commedia, naturalmente, è da cima a fondo il percorso di un iniziato, di un uomo toccato dalla grazia.
Era anche convinto che i suoi libri sarebbero stati letti per molto tempo dopo la sua morte. Al suo antenato Cacciaguida dice di non voler essere «al vero timido amico», cioè di voler dire tutta la verità, altrimenti – teme – finirà per perdere il rispetto di «coloro / che questo tempo chiameranno antico» (noi); e a Cacciaguida stesso fa dire che la sua (di lui, Dante) vita «s’infutura», entra nel futuro superando i limiti dell’esistenza umana. E probabilmente pensava anche (con ragione) che la Commedia sarebbe stata non solo letta ma studiata, interpretata, commentata. Nel decimo del Paradiso apostrofa così il lettore: «Or ti riman, lettor, sovra ’l tuo banco, / dietro pensando a ciò che si preliba, / s’esser vuoi lieto assai prima che stanco». Il banco. Dante (lo ha osservato Armando Petrucci) immaginava il suo lettore seduto a un banco come quelli su cui lui e i suoi contemporanei studiavano i testi sacri o i filosofi classici e cristiani: pensava alla Commedia come a un libro che doveva stare sullo stesso scaffale del De consolatione philosophiae, o dell’Eneide, non su quello del Lancelot.
Perché allora Dante si sarebbe meravigliato di queste celebrazioni? Perché Dante viveva in un mondo in cui a scuola e all’università non si studiavano i poeti, e certamente non i poeti volgari. È vero che Boccaccio legge ed espone la Commedia di Dante a mezzo secolo di distanza dalla sua morte; ed è vero che le letture pubbliche della Commedia prendono piede già nel Quattrocento, e poi diventano una specie di rito nel Cinquecento, coll’Accademia Fiorentina. Ma all’università si studiavano altri libri, di epoche più remote, e quel poco spazio che si dava alle sententiae modernorum toccava a eruditi come Pietro Lombardo o Tommaso d’Aquino, non ai trovatori o agli stilnovisti. Perciò, per quanto alta fosse l’opinione che Dante aveva di se stesso, certo non avrebbe immaginato che, settecentocinquant’anni dopo la sua nascita, «Dante Alighieri» e «Letteratura italiana» sarebbero stati quasi sinonimi, in molte università del mondo; che un discreto numero di esseri umani si sarebbero fatti chiamare dantisti, cioè specialisti di… lui, e che questa bizzarra specialità avrebbe permesso a molti di loro di campare più che dignitosamente, di farsi la casa, di cambiare la macchina a colpi di edizioni/commenti alla Commedia, alle Rime, alla Quaestio de aqua et terra; e che ogni anno sulla sua vita e sui suoi libri si sarebbero pubblicati articoli, libri, tesi di laurea e di dottorato a centinaia, a migliaia, e quattro o cinque riviste dedicate interamente a lui, e poi spettacoli teatrali, reading, videogiochi, Greenaway, Dan Brown, Gassman, Benigni, un indotto da far impallidire la Fiat…
E si sarebbe meravigliato anche per un’altra ragione, ancora più elementare. Perché Dante non pensava che il mondo sarebbe durato fino all’anno 2015. Da buon cristiano, sapeva che un bel giorno il mondo era stato creato e che un bel giorno sarebbe finito (un bel giorno, non un brutto giorno: perché sarebbe stato il preludio alla vita eterna). Da Agostino aveva imparato che il mondo aveva un po’ più di seimila anni, che erano già trascorse cinque delle sue sei età, ciascuna lunga più o meno ottocento anni, e che lui viveva nella sesta, l’età del Figlio, e non ce ne sarebbe stata un’altra. Per questo nel Convivio scrive che «noi siamo già nell’ultima etade del secolo, e attendemo veracemente la consumazione del celestiale movimento» (perché, come spiega Tommaso in un passo raggelante della Summa contra gentiles, anche i cieli si fermeranno, per far sì che cessi la vita sulla terra: «Ad hoc igitur quod in inferioribus cesset generatio et corruptio, oportet quod etiam motus coeli cesset»); e per questo, nell’Empireo, fa dire a Beatrice «Vedi nostra città quant’ella gira; /vedi li nostri scanni sì ripieni, / che poca gente più ci si disira», cioè ‘Guarda quanto è grande la nostra città celeste, vedi come quasi tutti i nostri scanni sono occupati, segno del fatto che pochi altri beati devono arrivare’ – gli eletti, destinati alla candida rosa, sono già quasi tutti seduti al loro posto, il mondo sta per finire.
È solo letteratura? No, in realtà, se per esempio un benedettino del secolo XII, Raul di Flavigny, s’indignava all’idea che qualcuno potesse non credere al fatto che l’Apocalissi era alle porte: «Oggi lo stato della Chiesa è tale che è possibile vedere gente che, quando si conversa con lei a proposito della persecuzione finale e della venuta dell’Anticristo, sembra credere appena alla sua venuta oppure, se crede, tenta di dimostrarvi, nelle sue fantasticherie, che ciò avverrà tra molti secoli». No, non era solo letteratura: ci credevano.
Invece, a tre quarti di millennio dall’anno 1265, il mondo è ancora in piedi, gli esseri umani se la passano infinitamente meglio di come se la passavano al tempo di Dante, e sappiamo che «fantasticherie» non sono i dubbi degli scettici intorno all’Apocalissi prossima ventura ma i timori di Agostino, Dante e Raul di Flavigny. E all’università, al posto di glossare le glosse di Pietro Lombardo, si legge la Commedia. Chi ha detto che il progresso non esiste?
[Immagine: La statua di Dante in Piazza Santa Croce, a Firenze (gm)].
Bell’articolo e spiritoso, grazie all’Autore.
Non so però se Dante sarebbe d’accordo sull’ affermazione di Giunta, che “gli esseri umani se la passano infinitamente meglio di come se la passavano al tempo di Dante” (a meno che non si riferisca esclusivamente alla cure dentarie, etc.)
Se ormai possiamo solo insistere col giochino di come avrebbe reagito Dante di fronte ai festeggiamenti del suo 750° compleanno, a me piace immaginarlo non meravigliato ma molto incazzato e pronto a infuriarsi con gli italiani per non aver fatto – dopo ben settecento anni! – le cose che si dovrebbero fare in un Paese già ai tempi suoi ridotto a «bordello».
Ma Dante oggi è, purtroppo, nelle mani dei dantisti. E ci sarà sempre un Claudio Giunta che, gli riconoscerà la sua genialità (da «marziano», scrisse nel lontano 1999 Pietro Cataldi in « Perché leggere Dante (oggí)?») e lo ringrazierà per aver permesso con la sua opera di lanciare la catena di montaggio della multinazionale Dante & C., quella che produce « articoli, libri, tesi di laurea e di dottorato a centinaia, a migliaia, e quattro o cinque riviste dedicate interamente a lui, e poi spettacoli teatrali, reading, videogiochi, Greenaway, Dan Brown, Gassman, Benigni, un indotto da far impallidire la Fiat…»).
Subito dopo, però, appena Dante tirerà fuori la balla che la sua «no, non era solo letteratura», lo azzittirà ricordandogli, appunto, che oggi gli esseri umani (quelli che Giunta frequenta) «se la passano infinitamente meglio di come se la passavano al tempo di Dante».
Mi accodo ai primi commentatori: articolo senz’altro brillante e foriero di riflessioni, come poi tutto quello che mi capita di leggere firmato da Giunta.
Perplessità per gli accenti “progressisti”, siglati dalla frase a effetto finale: esisterà pure, in determinati contesti, un miglioramento (aspettative di vita, conoscenze tecniche, alfabetizzazione…). Ma poi, mi vengono sempre in mente le care parole di una professoressa di liceo, leopardiana nel midollo perché recanatese, “ché tanto prima o poi se more”.
Beh, in effetti, bisogna ammetterlo, domande come “che cosa Dante avrebbe pensato sapendo che noi oggi festeggiamo il 750° della sua nascita?” hanno come reale risposta “non poteva pensare nulla, in quanto già il sapere com’è il mondo di oggi presuppone concetti e conoscenze assenti al tempo di Dante”. Inutile anche chiedersi se in media gli uomini di oggi stiano meglio (o addirittura “infinitamente meglio”) o peggio di quelli al tempo di Dante: a parte le ben note innovazioni in campo medico, non so quali erano in dettaglio gli aspetti problematici e quelli felici presenti tra la gente al tempo di Dante e come confrontarle con quelli dei giorni nostri.
Alla fine penso che nel 1300 una terra vecchia di 6000 anni e che doveva durare solo ancora pochi secoli doveva fare più impressione di una terra vecchia di più di 4 miliardi di anni (e che dovrebbe durare ancora per 5 miliardi di anni, alla fine della vita del sole) e di un universo vecchio 13 miliardi di anni (peraltro teorie anche queste provvisorie, si pensi alle nuove teorie del multiverso oggi di moda tra i cosmologi, insomma il progresso neanche nella scienza è così lineare), in quanto non mi risulta che al tempo di Dante si usassero tanto numeri così grandi (al di fuori del numero degli angeli più grande del “doppiar degli scacchi”). Comunque da non massimo esperto di Dante avevo letto in vari commenti alla Commedia che c’era una teoria che Dante collocava il suo viaggio nel 1300 come anno centrale di una storia dell’universo di 13.000 anni (la metà del periodo completo della precessione degli equinozi) e dunque tra la creazione di Adamo, avvenuta 6500 anni prima, e il giudizio finale, che avverrà 6500 anni dopo il viaggio di Dante. Si tratta di una interpretazione ormai del tutto confutata?
Comunque occorre leggere Dante non tanto per motivazioni “archeologiche” ovvero per gli elementi della sua opera che evidenziano la diversità del suo contesto dal nostro ma semmai per motivazioni “attuali”, ovvero per gli elementi dell’opera che, se interpretati adeguatamente nel contesto, rivelano un grande valore proprio per noi uomini d’oggi.
a Michele Dr
Secondo me, se leggiamo Dante “per gli elementi dell’opera che, se interpretati adeguatamente nel contesto, rivelano un grande valore proprio per noi uomini d’oggi” , e specialmente se lo leggiamo con la totale mancanza di senso dell’umorismo e di ironia caratteristiche dell’Autore, ne dovremmo trarre la conseguenza che stiamo sbagliando tutto, ma proprio tutto (e forse è proprio così).
e se applicassimo la stessa riflessione per Eraclito?
@ roberto buffagni:
non vorrei ripetermi, ma il punto è che la sua idea di una letteratura pensata solo come valorizzazione di elementi che mantengono l’identità di una comunità è di fatto anacronistica, basta che lei si guardi intorno. Noi ogni giorno abbiamo a che fare con aspetti legati a culture e luoghi dall’altra parte del mondo (si pensi all’importanza di strutture sovranazionali, sia politiche che economiche, alla provenienza di cibi, tecnologie e prodotti culturali, senza parlare della presenza fin nelle nostre scuole di immigrati romeni, marocchini, cinesi e così via).
Insomma, un’idea di letteratura che evidenzia solo aspetti legati a una certa epoca e luogo in seguito ritenuti parte dell’identità di una comunità è una visione degli studi letterari che parla solo a chi si riconosce in quell’identità. In pratica è una letteratura che non può interessare al resto del mondo e immagino neanche a molti che abitano nel luogo in cui quell’identità viene propagandata. A me interessa invece una letteratura che ha valore cognitivo, una letteratura come scienza che comunica cose importanti a tutti gli uomini di oggi. Piaccia o non piaccia, ma la società di oggi è questa e non l’ho decisa io, provi lei a cambiarla prima di sostenere una concezione di letteratura adeguata ad essa.
Comunque non mi risulta che io abbia letto Dante “con la totale mancanza di senso dell’umorismo e di ironia caratteristiche dell’Autore”, forse lei intendeva le elucubrazioni cronologiche dedotte da tanti commentatori? In effetti anch’io sono per un Dante con numero minimo di glosse filologiche e dove si gusta meglio direttamente il testo.
a Michele Dr
Non ci intendiamo.
Io non propugno l’autarchia letteraria, mi piace leggere, oltre a Dante, anche Shakespeare, Goethe, Cervantes, Moliére, Tolstoj, etc., e in lingua originale, quando la so (leggo anche cose più leggerine, eh?).
Leggo questi ed altri autori a partire da quel che sono io, e siccome sono italiano, li leggo a partire dalla lingua, cultura, letteratura italiana; quindi, se vuole, a partire da Dante. Sarò antiquato, ma secondo me per comprendere le identità altrui bisogna anzitutto averne e coltivarsene una propria, che naturalmente si arricchirà nel confronto: le identità non sono statiche come la foto sulla carta d’identità anagrafica.
Le letterature non sono cose, e dunque non sono proprietà di nessuno, neanche della cultura che le esprime, o dei popoli che a quella cultura danno vita.
Quanto alla “totale mancanza di senso dell’umorismo e di ironia”, non mi riferivo affatto a lei, ma a Dante.
Dante è di una serietà totale. Il registro umoristico e ironico gli è completamente estraneo (fa al massimo del sarcasmo e del comico puro, tipo torte in faccia).
Se lo leggiamo nella stessa disposizione di spirito di assoluta, verticale serietà con la quale lui scrive, le conclusioni a cui possiamo giungere sono due:
1) Dante è senz’altro un genio, ma è un genio atlantideo che ci riguarda, appunto, come Atlantide, cioè come un bellissimo mito sprofondato in un ignoto abisso marino: lo si cura filologicamente, lo si apprezza esteticamente, lo si insegna a scuola, se ne ricavano svariati spin-off, dopo di che si volta pagina e si va avanti con la nostra solita vita che con Dante c’entra zero anche se Dante ne decora un angolino in modo sublime
2) Dante è un genio, non atlantideo ma terrestre, in particolare un genio terrestre italiano, europeo, cristiano; quel che dice, fatta la tara dei dettagli caduchi tipo il numero di telefono del conte Ugolino, ci riguarda direttamente e ci può insegnare un’infinità di cose vere, attuali e importantissime sulla nostra anima (non solo sulla sua) e sul nostro mondo (non solo sul suo): dunque lui, che ci sovrasta come l’Himalaya, ha ragione e noi torto, stiamo sbagliando quasi tutto, dobbiamo fare una durissima e lunga penitenza in ginocchio sui ceci, poi avviarci nella Selva alla ricerca di una via d’uscita sapendo che a) non è garantito che la troviamo b) saranno comunque cavoli amari, e dovremo affrontare Bestie Feroci, Astute e Crudeli, etc. fino a quando, forse – forse! – riusciremo a incontrare Dante, e rivolgendogli la parola, lui ci risponderà.
Per dire: Pascoli, che aveva tutti gli strumenti per prendere la strada numero 1, ha preso la strada numero 2 e si è perso, pateticamente perso finendo dentro un fosso fra le risatine di compatimento e le scrollate di capo degli astanti. Giunta, del quale ho ammirato la curatela delle “Rime”, mi sa che, essendo persona più equilibrata di Pascoli, imbocca la strada 1. E’ una scelta intelligente e pratica. Certo, le due chiacchiere con Dante così non si fanno mai, ma non si può avere tutto.
@ roberto buffagni:
sono contento che lei non propugni l’autarchia letteraria e che le piaccia anche leggere le opere in lingua originale. Poi è chiaro, come ci insegna l’ermeneutica, che non è possibile neanche volendolo, accostarsi a un testo senza le precomprensioni della propria cultura di appartenenza (anche se ciò che ha costituito l’identità degli italiani non è certo venuto esclusivamente dal suolo italico, è superfluo ricordare che fino a due secoli fa per un millennio la nostra penisola è stata soggetta a poteri stranieri).
Poi, riguardo alle sue conclusioni, per la prima ammetto tranquillamente il grande valore della filologia e degli altri lavori “archeologici”, nonchè del fatto che gli aspetti estetici e più in generali formali dell’opera di Dante sono godibilissimi ancora oggi anche se non se ne condivide più i contenuti. Alle mie scuole, come esercizio di scrittura creativa ispirato alla Commedia, nella nostra classe si era proposto un “inferno degli scolari” con relativi peccati e pene (del tipo i suggeritori con la bocca cucita e i bigiatori che percorrono una strada che ogni volta che la finiscono tornano al punto di partenza). Certo, bisogna avercene di prof di lettere del genere…
Per quanto riguarda la seconda conclusione… beh, lo ammetto che neanch’io sarei capace di imparare una “infinità di cose vere, attuali e importantissime sulla nostra anima (non solo sulla sua) e sul nostro mondo (non solo sul suo)” però qualche briciola di attualità io lo troverei, i temi del viaggio, della giustizia, della purificazione che dipende in parte dalle proprie forze (la ragione, Virgilio) e in parte che non dipende da esse (per chi ce l’ha la fede, per chi non ce l’ha un più generico senso che, anche se soggettivo per ciascuno, ci è dato e che non costruiamo da soli).
I critici letterari, fermo restando che devono presupporre gli strumenti filologici per non esagerare nelle interpretazioni, dovrebbero valorizzare proprio queste attualizzazioni, per non glorificare un Dante imbalsamato, ma un Dante ancora vivo e importante non solo per come ha scritto, ma anche per cosa ha scritto.