di Giulia Sarno

cropped-1QbcdE7zksMH_gwX-vee4w.jpeg[Esce oggi Appunti di rock 2. Dai Beatles ai Radiohead (Il foglio letterario), a cura di Andrea Gozzi. Ne fa parte il saggio di Giulia Sarno Lou Reed: American “Poet”, di cui pubblichiamo i primi due paragrafi].

Poeti di ieri, poeti di oggi

«Il contesto rock ha prodotto i più grandi poeti degli ultimi decenni». Se questa affermazione di Pier Vittorio Tondelli poteva suonare provocatoria nell’Italia della fine degli anni ’80 (Poesia e rock è un saggio datato 1987-1989), oggi l’opinione che gli autori di canzoni meritino (e il verbo non è usato a caso) l’appellativo di poeti è estremamente popolare. Dalla fantomatica candidatura di Bob Dylan al nobel per la letteratura, che regolarmente torna a scatenare dibattiti sempre uguali, ai discorsi da bar in cui De André viene incoronato massimo poeta del Novecento italiano, ai necrologi di Lou Reed, immancabilmente salutato come poeta del rock. Tondelli gongolerebbe nel mondo di oggi. Vero è che le smentite abbondano: critici letterari e (etno)musicologi si sbracciano in ogni sede possibile, dalle aule universitarie ai saggi specialistici agli interventi pubblici più disparati, per correggere il tiro, per mettere in guardia sulle semplificazioni, fornendo prove difficilmente controvertibili del fatto che identificare testi musicali e poesie è un grossolano atto di ingenuità critica. E in verità non è necessaria una preparazione accademica specifica per capire che le differenze sono enormi, e che schiacciarle significa non rendere giustizia né all’una né all’altra forma artistica. Non è neanche necessario, anche se molto utile, tracciare una storia della testualità per musica, forma compositiva dalla storia millenaria che corre parallela a quella della poesia, non di rado con questa intrecciandosi. Il rapporto archeologico[1] che lega parola e musica ha assunto nel corso del tempo innumerevoli configurazioni: ripercorrerle tutte, dalla lirica greca al madrigale cinquecentesco, alla librettistica d’opera, al lied tedesco, alla chanson francese fino alla nostra popular music, è un’esperienza chiarificatrice, nonché utile per sfatare tanti miti (un solo esempio, quello dei trovatori provenzali come cantautori ante litteram), ma è un’esperienza di cui, in questa sede, dobbiamo per forza di cose fare a meno. D’altronde, appunto, questo percorso cronologico non è strettamente indispensabile, perché basta mettere a fuoco e confrontare sincronicamente poesia e canzone per rendersi conto della distanza tra le due forme. Ciò che caratterizza il testo musicale è la sua natura intrinsecamente orale-performativa: un testo musicale nasce per essere cantato, dunque esposto oralmente attraverso quella particolare forma di esecuzione che è il canto. Cantare un testo vuol dire eseguirlo melodicamente, intonandolo secondo una successione determinata di suoni musicali, ovvero utilizzando i fonemi che compongono le parole per comporre un movimento melodico. E non solo: il testo musicale viene cantato sopra una musica, è parte integrante della composizione musicale, dunque a questa deve accordarsi in modo tale da formare quel tutto che chiamiamo canzone.

Queste peculiarità agiscono sulla scrittura, orientandola, condizionando le scelte lessicali, sintattiche, ritmiche, foniche, e rendono il testo di una canzone una forma di composizione verbale del tutto peculiare, definita dalla sua destinazione, appunto, musicale. Leggere un testo musicale come si farebbe con una poesia, ignorandone la sua incarnazione musicale, porta ad un’interpretazione quantomeno parziale, se non del tutto fallace, del testo. Al contrario della poesia, forma di scrittura che vive nell’autonomia della pagina che si dà alla lettura silenziosa individuale, il testo di una canzone acquisisce il suo senso pieno esclusivamente nel dispiegarsi della sua natura orale-performativa. Questo non esclude che si possa parlare del contenuto lirico di un testo musicale, o di un corpus di testi musicali, ed è quello che faremo in questo spazio riguardo l’opera giovanile di Lou Reed: più scorretto è invece un approccio di analisi verbale che prescinda dalla considerazione della canzone come fatto anzitutto musicale.

Se è così evidente che poesia e testo musicale non sono la stessa cosa, vale la pena di riflettere sul perché il luogo comune che identifica cantautori e poeti, laconicamente espresso nello scritto di Tondelli, continui a permeare il discorso pubblico sulla canzone. Quando una persona chiama poesia il testo di una canzone, e poeta il suo autore, il più delle volte la sua intenzione non è quella di fare una considerazione critica che metta in discussione i confini tra modalità compositive: vuole invece dire qualcosa di molto semplice, ovvero che quel testo è talmente bello da poter essere considerato una poesia, e che quell’autore è talmente bravo che merita l’appellativo di poeta. Entra qui in causa la categoria del genericamente poetico: nel linguaggio comune, l’aggettivo “poetico” ha un uso estensivo che non si riferisce direttamente al genere letterario che chiamiamo poesia contemporanea. “Poetico” può essere un film, una fotografia, un romanzo, una vicenda. Non è facile tracciare i confini di ciò che con questo attributo si intende nel discorso comune: una cosa “poetica” è bella, oppure emozionante, perché tocca delle corde intime che muovono il sentimento, commuove, ci parla di cose che ci riguardano profondamente (spingendoci all’identificazione), e lo fa in modo non banale, non triviale. I “poeti”, che scrivano o meno poesie in senso stretto, sono coloro i quali sanno dire bene (con le parole, con le immagini, con le azioni) le cose che noi comuni mortali percepiamo ed esprimiamo solo confusamente. Quando la qualificazione di “poetico” viene attribuita ad un testo breve scritto in una lingua naturale, che segue una qualche versificazione perché va a capo spezzando le frasi – il testo di una canzone –, si compie un passaggio ovvio: quel testo non sarà semplicemente “poetico”, sarà una vera e propria poesia. Possiamo, parlando di un film, definirlo una poesia: l’uso metaforico del termine sarà chiaro anche a chi non sa cosa sia una metafora. Nel caso di un testo musicale, ovvero un testo breve che, estrapolato dal suo contesto performativo, assomiglia in tutto e per tutto ad una poesia contemporanea, lo scarto retorico viene assorbito e annullato dall’evidenza della analogia formale. Dunque, nel discorso comune, l’identificazione tra cantautore e poeta è frutto di uno slittamento di significati che è reso possibile innanzitutto da un’affinità formale tra i due tipi di composizione verbale.

Ma non si tratta solo di questo. Ai cantautori infatti viene riconosciuto un qualcosa – una speciale sensibilità che si traduce in capacità espressiva – che li accomuna ai poeti. Per inquadrare questo punto torniamo nuovamente a Tondelli, e vediamo come procede Poesia e rock:

Quello che è ancora più curioso è notare come l’immagine del poeta romantico – di colui che tragicamente vive fino in fondo, fino alla morte e alla dissoluzione, il conflitto fra arte e vita, fra ragioni dell’immaginazione e ragioni della quotidianità – sopravviva, incandescente, ormai solo nell’universo rock. I poeti ufficiali si nascondono dietro le loro scrivanie e i loro libri. Mescolano e affinano parole e rime. Si applaudono fra loro e si complimentano, premiandosi a vicenda per le venti copie vendute. Hai la sensazione che oltre la capacità combinatoria, oltre la perfezione formale, non esista un’anima. Nei poeti rock, più o meno maledetti che siano, questa anima è eccentricamente viva e pulsante.[2]

Dunque i «poeti rock» sarebbero i discendenti diretti dei poeti romantici, ovvero, suggerisce l’autore, dei poeti autentici. Il poeta è per Tondelli «colui che tragicamente vive fino in fondo […] il conflitto fra arte e vita», che si consuma in nome dell’ideale, che incarna esemplarmente lo scontro eterno tra io e mondo. Parlando di Jim Morrison, Tondelli lo presenta impegnato nella «ricerca della propria individualità in contrasto con il mondo esterno»: «Ecco riemergere la diversità del poeta – continua –, la sua estrema sensibilità che cerca di spezzare le catene del sentire comune». Naturalmente quella che Tondelli dipinge è soltanto una tipologia di poeta, storicamente collocata, tra le tante concezioni che si sono avvicendate nel corso della storia del genere. Ma lo scrittore emiliano sembra dimenticarlo, per assolutizzare un’idea di poesia che, emersa in epoca romantica[3], è a tutt’oggi quella dominante, e che possiamo chiamare espressivistica[4]. Spogliato delle caratterizzazioni ottocentesche, immerso nella nostra contemporaneità, il poeta romantico sopravvive nell’idea che il senso comune oggi ha di ciò che dovrebbe essere il poeta (e l’artista in generale): un essere dotato di una sensibilità superiore, che lo porta a vivere più intensamente (e spesso più tragicamente) degli altri, e ad esprimere con più forza i sentimenti che, in maniera diminuita, tutti proviamo. Nell’esprimere se stesso – obbligo etico ed estetico primario dell’uomo e dell’artista moderno – il poeta riesce ad esprimere tutti. Questo compito, sostiene Tondelli, non è più assolto dai «poeti ufficiali», incastrati in giochi formali del tutto sterili e incapaci di comunicare con chi è al di fuori della ristretta cerchia degli iniziati, bensì dai poeti-musici di area rock. La crisi di mandato sociale che investe la poesia contemporanea è da tempo oggetto di un ricco dibattito che non possiamo ripercorrere, ma che si nutre spesso dell’intuizione implicita nelle affermazioni di Tondelli, ovvero che esista un legame non casuale tra l’ascesa dei «poeti rock» ed il declino di legittimità, nello spazio artistico del secondo Novecento, di quelli «ufficiali». Il nodo cruciale di questo ideale passaggio di testimone risiede nella rivoluzione epocale del sistema delle arti che nella seconda metà degli anni Sessanta, sotto il segno dell’industria culturale, ha aperto la strada della legittimazione artistica alle forme popular. Per ciò che riguarda specificamente la popular music, questa mutazione ha dei tempi precisi, e dei protagonisti. Uno di questi è Lou Reed.

Dallentertainment allarte

Ciò che avviene nel campo delle arti nel torno di anni tra il 1963 e il 1967 ha per molti versi la portata di una vera e propria rivoluzione. E, come per ogni rivoluzione, i fenomeni che ne costituiscono i tratti salienti affondano le proprie radici nei secoli precedenti: così, per la rivoluzione pop, i presupposti fondamentali risiedono, semplificando molto, nell’affermarsi da un lato dell’estetica romantica dell’espressivismo e dall’altro della pratica mercantile e industriale dell’arte caratteristica della cultura borghese capitalistica. Saltando di necessità i passaggi di questa storia secolare, possiamo tracciare le linee generali dell’attuale configurazione del sistema culturale dominante nelle società post-industriali, che vede il trionfo del principio nominalmente democratico e tendenzialmente anarchico dell’arte nella società di massa. Questo principio si articola in due punti che si implicano a vicenda: 1) le scale di valore sono determinate dal gradimento di un pubblico che ha la possibilità di esprimere il suo giudizio costantemente e in molti modi (tra cui, fino ad oggi, il principale è stato l’acquisto diretto); 2) in un contesto estetico di natura espressivistica quale quello vigente, l’arte è qualcosa che tutti, senza alcun discrimine, possono praticare. Se arte è esprimere se stessi, e non piuttosto la dimostrazione di determinate qualità tecniche al servizio di un potere superiore (la committenza aristocratica, Dio), allora chiunque può mettersi in gioco, e la differenza tra riconoscimento e oblio si stabilisce soltanto in base all’ampiezza del coro sociale che un artista riesce a sollevare. In questo contesto, le arti per così dire più avvantaggiate nella conquista di un posto di rilievo nel canone contemporaneo saranno quelle nate nell’alveo della comunicazione di massa, dal momento che la loro configurazione interna, la loro natura, è omologa al sistema oggi dominante. I campi pop parlano di ciò che ci circonda, inglobando il presente tanto nell’ordine dei contenuti quanto, ancor più, nelle forme dell’espressione, e pertanto sono rivestite di un forte mandato sociale, ratificato grazie alla loro capacità di riflettere l’esperienza dell’uomo contemporaneo. In questo senso la popular music ha compiuto quel sorpasso rispetto alla poesia tradizionale di cui parla Tondelli: se il contenuto espressivo dei testi delle canzoni è tutto sommato omologo a quello della poesia “libresca”, ovvero lo scandaglio e la conseguente articolazione in termini lirici dell’esperienza umana, i primi hanno sulla seconda un vantaggio sociale enorme determinato dal fatto di essere oriundi della nuova forma della cultura che si va affermando nel secondo Novecento, che privilegia la dimensione spettacolare e il veicolo orale/aurale sull’esperienza solitaria della lettura.

Affinché potesse raccogliere il testimone della lirica dalla poesia scritta, la popular music ha dovuto subire una radicale mutazione interna. Nata come intrattenimento leggero per gli adolescenti, caratterizzato da forti elementi di convenzionalità a livello tanto testuale quanto musicale e dal predominio netto di una fruizione di tipo coreutico (le feste danzanti a suon di rocknroll e ballad lacrimose da ballare cheek to cheek), proprio nel torno di anni che abbiamo segnalato all’inizio del paragrafo la popular music ha mutato pelle e anima, trasformandosi in quello che oggi riconosciamo come una forma d’arte, ossia un veicolo per l’espressione di sé. Naturalmente la musica da intrattenimento non ha smesso di esistere da un momento all’altro, e anzi forma tuttora una fetta considerevole del panorama popular. Lo sdegno che intellettuali come Theodor W. Adorno o, come vedremo in seguito, Delmore Schwartz mostravano negli anni Sessanta verso la musica leggera e la sua testualità mediocre e ripetitiva fa il paio oggi con le (condivisibili) critiche al pop mainstream. Ma è certo che se gli stessi Adorno e Schwartz fossero stati messi davanti a dischi come Rock Bottom di Robert Wyatt, Bish Bosch di Scott Walker, Amnesiac dei Radiohead, o Berlin di Lou Reed, giusto per fare qualche nome, avrebbero trovato non poche difficoltà a liquidarli come musica, appunto, leggera. Ciò che dunque avviene alla metà circa degli anni Sessanta è un fenomeno che possiamo descrivere come differenziazione interna del campo “popular music”, che si espande ad accogliere le contorsioni esistenziali, anche tremendamente pesanti, di nuovi artisti non più ancorati ai mezzi ereditati dalla tradizione (la pagina scritta, la musica “colta”) ma al contrario affascinati dalle possibilità espressive di un campo ancora tutto da esplorare.

Ad aprire la strada fu Bob Dylan, che iniziò ad innestare su un genere, il folk, tradizionalmente caratterizzato da un alto tasso di coinvolgimento con la cruda realtà (opposto all’evasione leggera del rocknroll delle origini) un autorialismo rinnovato che, sganciandosi dai modi corali, appunto folklorici, del passato, si dedica alla messa in forma di un’esperienza individuale unica e irripetibile, che non può più essere assimilata a quella di un dato gruppo, ma può soltanto essere fatta propria da una fruizione di tipo moderno: non quella del folk, dove vige una sostanziale indistinzione tra autore e pubblico, ma quella delle arti moderne, il riconoscimento della propria irripetibilità e unicità in quella di un altro essere umano. La lezione di Dylan attraversò l’oceano, raggiunse Liverpool e generò – o meglio contribuì a generare – il nuovo pop dei Beatles, che a partire grosso modo da Rubber Soul (1965) compiono una svolta che vediamo dipinta in questi termini nelle parole di John Lennon:

Presi a pensare alle mie emozioni. […] Invece di proiettare me stesso in una situazione, volevo cercare di esprimere quello che sentivo, così come avevo fatto con i miei libri. Penso sia stato Dylan ad aiutarmi a rendermi conto di questo […]. Prima […] non consideravo che i testi o qualcosa di queste canzoni avesse una qualche profondità. Era solo un gioco. Poi, ho iniziato ad occuparmi personalmente delle mie canzoni, a scriverle non più in modo distaccato, oggettivo, ma in modo soggettivo.[5]

Come chiarirà anche McCartney in modo ancora più laconico, a quel punto della storia dei Beatles, ma anche della popular music in generale, «era cominciata l’arte»[6]. E l’arte comincia tanto nella ricerca di suoni inediti e personali, non più passivamente modellati sulle richieste dell’industria dell’intrattenimento diretta al target commerciale costituito dagli adolescenti delle società occidentali, quanto nell’espressione di contenuti testuali di carattere assolutamente soggettivo, non più la messa in scena di situazioni generiche e largamente fungibili ma il racconto di esperienze di vita vissuta, il riversamento sul pubblico della propria intimità.

Note

[1] Questa terminologia è mutuata da G. Mazzoni, Sulla poesia moderna, Bologna, Il Mulino, 2005, cui la prima parte di questo intervento deve la sua impostazione. Per inquadrare le relazioni tra poesia e canzone, Mazzoni parla anche di rapporto figurale, nei termini in cui «l’arte più recente [la canzone] esaspera alcuni elementi archetipici dell’arte più antica [la poesia], accentuando e inverando certe strutture del genere che la poesia del passato tendeva a occultare».

[2] Cfr. P. V. Tondelli, Poesia e rock, in Id., Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta, Milano, Bompiani, 1993.

[3] Per una analisi accurata del passaggio epocale che porta all’affermarsi della concezione romantica di poesia, vedi G. Mazzoni, Sulla poesia moderna, cit.

[4] Mutuando la terminologia da Charles Taylor, Mazzoni chiama espressivistica «la teoria dello stile che s’afferma all’inizio dell’Ottocento», una concezione estetica che risponde all’atteggiamento etico, individuato da Taylor come fondativo dell’identità moderna, secondo cui «il senso della vita» risiede «nella manifestazione della propria differenza soggettiva», o, nelle parole del filosofo canadese, nell’«obbligo di vivere all’altezza della propria originalità». Cfr. Mazzoni, Sulla poesia moderna, cit., p. 138 e segg.; C. Taylor, Sources of the Self. The Making of the Modern Identity, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1989; trad. it. Radici dellio. La costruzione dellidentità moderna, Milano, Feltrinelli, 1993.

[5] Cfr. The Rolling Stone Interview: John Lennon, in «Rolling Stones», 4 feb. 1971, p. 28. Cit. in S. Frith, Sociologia del rock, Milano, Feltrinelli, 1982, p. 157-158.

[6] Cfr. M. Hertsgaard, La musica e larte dei Beatles. A day in the life, Milano, Baldini&Castoldi, 1995 (2002), p. 215.

[Immagine: Lou Reed (gm)].

 

3 thoughts on “Popular Poetry. Rock e poesia

  1. A proposito del rapporto (fumoso) tra testi musicali e poesia e su (ottime) analisi di testi musicali, mi permetto di rimandare a un libro uscito l’anno scorso, “Nonsense e Popular Music” di Alberto Rossi. Un testo davvero completo e ben strutturato. Forse a volte un po’ troppo erudito, ma è peccato veniale.

  2. “Ciò che caratterizza il testo musicale è la sua natura intrinsecamente orale-performativa: un testo musicale nasce per essere cantato, dunque esposto oralmente attraverso quella particolare forma di esecuzione che è il canto. Cantare un testo vuol dire eseguirlo melodicamente, intonandolo secondo una successione determinata di suoni musicali, ovvero utilizzando i fonemi che compongono le parole per comporre un movimento melodico. E non solo: il testo musicale viene cantato sopra una musica, è parte integrante della composizione musicale, dunque a questa deve accordarsi in modo tale da formare quel tutto che chiamiamo canzone.”

    Non sempre. Un qualsiasi testo nasce per vari motivi, a volte per essere cantato, a volte no. Uno può scrivere un testo per i fatti suoi e poi successivamente decidere di usarlo per una canzone. Molte canzoni hanno un cantato che non ha nulla di melodico. La melodia di un cantato viene spesso composta prima di avere il testo, che poi si piegherà a quella melodia. I modi in cui un cantato si inseriscono in un pezzo, o viceversa se la musica viene costruita attorno al cantato, nulla cambiano della natura, che non esiste, del testo. Nella maggior parte dei casi di testi per musiche pop, il senso di un testo sta solo nelle parole. La natura orale-performativa del testo musicale mi pare una favola, però se qualcuno prova a spiegarmelo magari cambio idea. Eventuali momenti in cui una parola viene cantata con più o meno enfasi, in maniera diversa su disco o live, non cambiano la sostanza. La differenza è l’uso che si fa del testo, non una differenza intrinseca. A meno di sostenere che una volta che un cantante usasse una poesia come testo questo atto trasformerebbe il testo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *