di Claudia Crocco
[Il 1 giugno esce in libreria il nuovo libro di Milo De Angelis, Incontri e agguati, nella collana Lo Specchio di Mondadori. Alcuni testi si possono leggere in anteprima qui. Per l’occasione pubblichiamo una lunga intervista con De Angelis, uscita sul numero LI di «Semicerchio», che si conclude con una poesia tratta dalla nuova raccolta.
Questo testo è il risultato di un dialogo stratificato in un paio d’anni, fatto di incontri dal vivo e scambi di email. Rileggendo le mie osservazioni, alcune mi sono sembrate un po’ ingenue. Anche le interviste portano il segno del tempo: oggi farei domande diverse, e renderei più precise alcune mie considerazioni critiche. Ma dedicarsi allo studio di poeti contemporanei vuol dire anche ammettere i limiti della critica come esegesi ed interpretazione senza per questo svalutarla. De Angelis è uno dei poeti più citati e antologizzati degli ultimi quarant’anni, eppure la sua opera rimane ancora scarsamente commentata, in parte oscura. Il successo di pubblico e la fortuna critica non sono andati di pari passo con la comprensione del suo ruolo nella storia della poesia del Novecento (cc).]
CC: Di recente alcuni studiosi, anche molto giovani (fra questi, Lorenzo Babini e Damiano Springhetti), e un esperto della tua poesia, Luigi Tassoni, hanno iniziato uno studio variantistico dei tuoi testi[1]. Vorrei iniziare da qui. La vulgata critica considera la tua poesia quanto più distante possibile dal lavoro a tavolino presupposto dalla variante. Tu stesso spesso racconti di avere scritto in uno stato di trance (soprattutto negli anni Ottanta, dunque Millimetri e Terra del viso). Eppure, le tue poesie presentano molte differenze fra le loro diverse edizioni[2], che testimoniano un certo labor limae. Non mi soffermerò sulle varianti, sulle quali altri lavorano e stanno lavorando; ma vorrei provare a fare alcune considerazioni che mi sembrano utili a chiarire il ruolo della tua poesia nella letteratura italiana del Novecento.
C’è un capitolo di Poesia e destino intitolato «Andare a capo (Autobiografia)», nel quale questa contraddizione sembra ricomporsi e trovare senso. Vorrei citarne un passo che mi sembra significativo:
Poi, dopo gli anni del liceo e dell’università, ho cercato qualcos’altro: un andare a capo ancora più lontano dal senso […], che fosse innalzabile da una specie di dettatura, la quale imponeva di spezzare una frase senza spiegazioni e di amare questa spaccatura in una visione totale della poesia, non di quella poesia […]. Allo stesso modo: il termine ‘dettatura’ non esclude minimamente le infinite correzioni e varianti, scrupolosamente impegnate a ripetere fedelmente ciò che è stato dettato. La variante non è così una disobbedienza – questo mai, pena lo sperimentalismo – ma al contrario un tendersi più acuto dell’orecchio al comando, un «udito ineccepibile».[3]
MDA: Rileggo queste mie antiche riflessioni che tu sei andata a snidare. C’è qualcosa di vero nell’idea di ‘dettatura’: le varianti sono tentativi di raggiungere ‘quella’ voce originaria, voce che non era dato percepire nitidamente nella sua prima manifestazione. C’è qualcosa di vero e di tradizionale, con una suggestione legata alla mantica greca, a Delfi, alle parole oscure dell’oracolo e a tutto uno sfondo antico così pressante in Poesia e destino. Ma ora, dopo avere scritto sette libri di poesia, vorrei essere più preciso. Innanzitutto le varianti non sempre sono un’approssimazione riuscita alla prima voce, non sempre rivelano un ‘udito ineccepibile’. La mitologia della sottrazione può condurre a errori veri e propri. Parlo in generale ma parlo anche di me. Io sono già di natura un poeta ellittico e sottrarre ulteriormente può generare l’insensato. Faccio un esempio. Nella poesia di Somiglianze intitolata Un secondo i versi «tutto è meno meschino / di una fedeltà a se stessi per dimostrazione» («Almanacco dello Specchio», 1975) diventano nella versione definitiva «tutto è meno meschino / di una fedeltà». Questo è un errore. Sono passato da un verso faticoso ma esatto a un verso più essenziale ma impreciso. Perché mai la ‘fedeltà’ dovrebbe essere il peggiore dei mali? Quella fedeltà dimostrativa sì, certamente. Ma non ogni fedeltà. Ecco che a forza di sottrarre si perviene a una banalità.
Seconda osservazione. E qui riprendo uno spunto di Luigi Tassoni, che più di ogni altro ha riflettuto su questo nodo. Quanto più un libro è pensato nelle sue sezioni e nelle singole poesie, tanto meno sarà fitto e martellante il ruolo delle varianti. Nel mio caso i libri immuni da questo demone sono tre: Tema dell’addio, Biografia sommaria (in parte) e questo mio prossimo Incontri e agguati. E tutti e tre sono libri in cui è stato forte l’impegno costruttivo, la meditazione che precede ciascuna sezione e poesia. Viceversa, là dove sono andato allo sbaraglio, senza sapere dove mi avrebbe condotto ciascun verso, le varianti hanno cominciato a dilagare, raggiungendo in Millimetri una quantità di pagine di gran lunga superiore a quelle del libro. Somiglianze è una via di mezzo: ci sono diverse varianti ma non in numero esasperante come in Millimetri, Terra del viso e Distante un padre. E tali varianti sono dovute anche al lungo intervallo temporale (1969-1976) che ha separato le prime poesie dalla pubblicazione dell’opera. Ma attenzione: questo non è un giudizio di valore e l’espressione che ho usato prima, ‘andare allo sbaraglio’, significa molte cose: in certi casi può creare confusione, in altri al contrario può portare una maggiore verve associativa, un brio che nasce proprio da questo inventare impreparato.
CC: Quello che mi colpisce delle tue varianti è che segnalano la presenza di nuclei originari, che poi evidentemente sono diventati fulcro e motore della poesia. Da qui la variante: le poesie esplorano, cercano di sviscerare qualcosa. Non solo nella pagina appena citata, ma anche nel corso di altre interviste, parli di «dettatura»[4]. Ora, ho l’impressione che alcuni di questi nuclei siano già delineati in Poesia e destino, dove raccogli testi giovanili, addirittura risalenti al tuo periodo liceale: ad esempio le immagini di Atalanta, lo sport, la corsa; la riflessione sulla tragedia e sull’andare a capo.
MDA: È vero, certamente sono uno scrittore concentrico. Pochi nuclei, sempre quelli, che rimbalzano da un libro all’altro sotto una pioggia di riprese, variazioni sul tema, insistenze, digressioni, ritorni, conferme. Nuclei già presenti nella giovinezza? Direi di sì. Non ho mai pensato che i tratti fondamentali di un carattere possano cambiare. Nella mia infanzia non c’è stato altro che lo sport: tutti i pomeriggi, tutti i giorni dell’anno, passati a giocare a pallone, a formare le squadre, a ideare nuove finte, tiri, dribbling, traversoni, rovesciate, colpi di tacco e tutto il repertorio di un giovane milanista innamorato di Schiaffino e di Gianni Rivera. Però è anche vero che tra un’azione e l’altra cominciavo a immaginare, ad avvertire malinconie, a sentire la mancanza di un’ alleata al mio fianco, di una bella giocatrice con cui parlare e scambiare pareri ed emozioni. Anche in un campo di calcio, come vedi, può nascere una poetica. E anche una partita – se è davvero una partita leggendaria – può insegnarci qualcosa sulla questione delle varianti. Prendiamo quella partita, la più memorabile della mia adolescenza. Era la finale del campionato scolastico, da disputare sabato 27 giugno 1964 in un campo a nove vicino al Parco Lambro, finale a cui ci eravamo preparati per tre anni, tutto il tempo della scuola media, con innumerevoli prove, tentativi, cambi di ruolo e di schema, innesto di nuovi giocatori e persino un nuovo allenatore che avevamo fatto venire dal settore giovanile di una squadra di serie C. Non parlerò in dettaglio di questa partita e non dirò nemmeno come andò a finire, perché l’ho già fatto in un’altra intervista e soprattutto perché il punto non è questo. Il punto è che la partita in questione diventa una sorta di archetipo, o meglio quella che potremmo definire una metafora dinamica. Dinamica e in perpetuo movimento: quella partita non è la stessa se viene cantata pochi anni dopo, nel 1970 (Somiglianze) oppure nel 1990, oppure adesso. Non è la stessa se il poeta abita ancora lì e passa tutti i giorni davanti a quel campetto oppure se è andato in un’altra città e sente il velo dell’esilio… non è la stessa cosa se uno dei ragazzi è morto e porta sulla partita un’ombra scura e un’esistenza incompiuta… se il poeta segue ancora il calcio oppure ha abbandonato quel mondo interamente… oppure… oppure e ancora oppure. Sì, quella partita è un’immagine che trascorre in mezzo alle stagioni, muta volto e passa di libro in libro sospinta da una brezza di varianti.
CC: Nella seconda metà degli anni Settanta la tua poesia e quella dei poeti che facevano capo al gruppo milanese formatosi intorno a «Niebo» viene definita orfica; successivamente si parlerà di ‘riflusso’ e di ritorno al privato. Anni dopo dirai che «noi di Niebo cercavamo qualcosa che non ha luogo, anzi lo chiedevamo a voce alta: un’eternità poetica, appunto, un’eternità senza appoggio e senza paradiso»[5]. Recentemente la storiografia critica ha iniziato a contestualizzare quell’esperienza in modo più attento. Le idee neoromantiche, esistenzialiste e irrazionaliste fanno parte di un tentativo di indicare l’irriducibilità dell’uomo alla sua dimensione sociale: da un lato, si tratta di una reazione alla Neoavanguardia e alla corrispondenza fra impegno politico e intellettuale in quegli anni; dall’altro, inizia a imporsi un nuovo modo di essere poeti – spia di un mutamento sociologico più ampio –, che per la prima volta viene colto dal Pubblico della poesia (a cura di A. Berardinelli e F. Cordelli, Lerici 1975 e Castelvecchi 2004). Una sezione di quel libro, non a caso, si intitola «Come credersi autori?»: riprende un verso di Bisognava, tua poesia inserita in quell’antologia e poi confluita in Somiglianze.
MDA: «Niebo» nasce nella seconda metà degli anni Settanta, che da una parte erano anni percorsi dai passatempi sperimentali (quelli del Gruppo 63 erano in piena forma e creavano seguaci) e dall’altra erano gli anni più feroci del terrorismo, anni impregnati dalla militanza integrale e da un’idea di politica come priorità unica e indiscutibile. E infatti discutere con quelli di Lotta Continua o di Servire il Popolo era inutile, come ho avuto ampiamente modo di constatare. Avevo già avuto al liceo Berchet un professore maoista e ostile a ciò che amavo, Francesco Leonetti, con cui il contrasto è stato sanguinario. E anche dopo mi è successo più volte di vivere divergenze politiche senza scampo. Ricordiamo che «Niebo» nasce nello stesso anno e nello stesso mese in cui a Milano nasce Prima Linea e che non pochi simpatizzanti vennero ai lunedì di via Rosales con il loro incrollabile ottimismo a spiegarci che la rivoluzione era alle porte e che non era il caso di distrarsi con la poesia. Con loro lo scontro era obbligato. Mi bastava quel tono edificante e sicuro di sé a farmi rabbrividire. Senza contare che io cercavo infinitamente di più di una rivoluzione di classe, qualcosa di ben più violento, decisivo, totale e mortale, qualcosa da cui ero braccato ogni giorno e ogni notte e che sfondava la mia vita come un terremoto. Vivevo in uno stato di allerta permanente, dialogavo con l’emergenza, avevo sete di verità durature e di sparizioni ignote ai notiziari del telegiornale. Impossibile parlare con queste persone. Egualmente vano era il dialogo con i cultori della semiologia o con i maestrini della psicanalisi, professionisti della descrizione, uomini e donne senza anima che osservavano le cose del mondo per strutturarle o destrutturarle, senza mai ustionarsi con il loro fuoco o annegare nel loro pianto, senza mai pronunciare un sì ardente o un no intrattabile. Schierarsi con la poesia e difenderla dagli infami era da una parte un dovere politico e dall’altra un dovere assoluto, che non apparteneva solo a quel tempo e a quegli scontri, ma riguardava la solitudine di ognuno di noi, le sue più antiche e segrete passioni, quelle in cui ciascuno ha creduto da sempre e ha sperato con tutto se stesso che rimanessero vive e originali, che non venissero sepolte dai volantini dell’opinione ‘condivisa’.
CC: A quell’altezza storica Somiglianze costituisce un momento di svolta, dal mio punto di vista, soprattutto per due motivi. Il primo riguarda il modo di rappresentare «la funzione umana che dice io in poesia», per usare un’espressione icastica di Fortini: chi prende la parola include situazioni e lessico inediti per la versificazione italiana, ma attraverso uno sperimentalismo diversissimo da quello imperante in quegli anni. La voce poetica è fuori da qualsiasi prospettiva ideologica. È scissa, spesso disperata; questa scissione interiore (o fra interno ed esterno) viene rappresentata spesso attraverso dialoghi o incontri erotici. Tuttavia l’io dei testi conserva una tensione verso l’assoluto, tipica del genere lirico[6], ed è anche incredibilmente vitale. Termini o sintagmi lessicali che si ripetono sono quelli riconducibili alle parole «attimo» (alla quale si lega la traduzione e la condivisione di alcune parti del De rerum natura di Lucrezio, sulla quale mi soffermerò fra poco) e ‘gioia’ («Eppure era per la gioia» è un verso che torna spesso in Somiglianze). Proprio l’attimalità e la gioia – complementari alle ‘pastiglie’ e alle immagini ricorrenti di suicidio – rappresentano un polo vitalistico del personaggio poetico e un motivo di fascino dei tuoi libri. Gli attimi sono momenti attivati dalla tensione sessuale oppure dal gesto atletico, nei quali non avviene una rivelazione di senso (come poteva avvenire nelle epifanie delle Occasioni), ma si percepiscono concentrazione vitale e autenticità – e questo sospende il senso di panico. Coerentemente, l’interruzione è possibile soltanto in modo atomistico, franto, temporaneo: gli incontri che determinano gli attimi ricordano da vicino il clinamen di Lucrezio, spesso richiamato nelle tue dichiarazioni di poetica. Alla luce di questo, mi interessa approfondire due aspetti. Il primo riguarda il modo di includere l’alterità all’interno del testo e della rappresentazione dell’io. Nelle tue interviste si comprende l’importanza che ha avuto per te la lettura di Nel magma e Su fondamenti invisibili di Luzi, soprattutto per la costruzione dei dialoghi. Ultimamente hai messo in luce anche il ruolo di Pavese. Vorrei chiederti quanto hanno contato questi due autori, e poi la lettura di Lacan negli anni di «Niebo».
MDA: Hai sollevato molte questioni di rilievo. Provo ad affrontarle una per una, sperando di non perdere il filo. Comincio dall’ultima domanda. Cosa hanno rappresentato per me Mario Luzi, Cesare Pavese e Jacques Lacan? Iniziamo da Mario Luzi, che insieme a Campana, Montale, Caproni e Sereni è stato il poeta a cui ho subito guardato, fin dagli anni del liceo. Di lui ho ammirato l’arte del dialogo. Prima di Luzi (e di quel libro eccellente che è stato Nel magma), il dialogo non esisteva nella poesia italiana. Non esisteva quel chiaroscuro, quel precipitare nel profondo, quel formarsi di un carattere e di una zona silenziosa, la parte celata della parola, il suo cono d’ombra. Detto questo, devo però aggiungere che essenzialmente Luzi mi è lontano e non l’ho mai considerato un vero maestro. Era un uomo troppo equilibrato, troppo giudizioso e incolume, capace di resistere alle intemperie e di temporeggiare, troppo lontano dalla possessione tragica, un uomo che nella vita ha allontanato da sé l’abnorme, lo scalpitante, l’invasato. Cesare Pavese invece alla tragedia si è avvicinato seriamente e mi ha insegnato sul piano umano verità indelebili. È stato un padre severo, con gli altri e con se stesso, non addolciva il giudizio, non usava palliativi, sapeva mostrare l’emergenza. Ed è stato un uomo che dava al libro un’importanza capitale, come di fronte a una corte d’appello. Eppure Pavese non è stato per me un maestro nella poesia. Ho amato più Feria d’agosto, Dialoghi con Leucò e Il mestiere di vivere che non i suoi versi. Mi chiedi poi di Jacques Lacan e del peso che ha avuto nella mia formazione. Lacan è stato un affetto (non un amore) piuttosto tardivo, incontrato negli anni parigini. Sentivo in lui la passione scrutatrice per la singola parola e per le sue più remote incrinature. Era un uomo magistrale e tagliente – architettura tedesca e finezza francese – ed era anche un ammiratore di Rimbaud, Bataille e Blanchot, un uomo pertanto capace di inoltrarsi nelle zone buie dell’altro. Proprio da Lacan ho appreso qualcosa di cruciale sull’alterità, una nozione (ma direi anche un demone) che è entrato in Somiglianze. L’alterità (altération) non è il passaggio da uno stato all’altro, non è un cammino metamorfico o un percorso trascolorante tra le parvenze (Ovidio) bensì una crepa subitanea e letale che si spalanca nel dialogo, qualcosa che impedisce di chiudere l’accordo e getta l’altro in un luogo indecidibile, a portata di sguardo e a perdita d’occhio, dove ciascuno è appunto «ce dont autrui détient le secret». Altri uomini o scrittori per me importanti? Certamente. Giorgio Colli (vale a dire il ponte con Nietzsche), Elémire Zolla (ponte con Nisargadatta e certe zone dell’induismo advaita), Sergio Quinzio incontrato più volte a Roma nel 1990-91 e convinto che il Cristianesimo dovesse morire nella storia, come il suo fondatore. Giovanni Raboni, rabdomante della parola, capace di cogliere le increspature più invisibili. Angelo Maria Ripellino, che per primo mi parlò con trasporto di Marina Cvetaeva, quando sembrava vietato persino nominarla. Franco Fortini, gran lettore e gran censore di versi facili. Ma questi, più che maestri, sono stati degli insegnanti: a volte di raro talento, ma pur sempre insegnanti. Per essere maestro, occorre avere un’anima ben più grande e innocente, in senso letterale. Posso fare due nomi di maestri? Piero Bigongiari e Franco Loi, creature davvero nobili e disarmate in cui ho riconosciuto l’eredità russa di Miškin e di Alioscia, che hanno saputo donare in pura perdita.
E qui mi fermo con la biografia e ritorno alle tue domande. L’attimo? Sì, una vera e incrollabile ossessione. Anche la mia attenzione alla fotografia (non a caso vivo con Viviana Nicodemo) è legata all’attimo, che non è mai statico, quando è davvero un attimo destinale. Raccoglie in sé le stagioni, fa convergere in se stesso il tempo che precede e quello che segue. E il grande fotografo, come il grande poeta, fissando quell’istante fecondo, crea l’alone di un’altra storia sfiorata, di qualcosa che può essere. È un istante che bisogna cogliere tra i mille possibili, è l’istante cruciale, il kairòs. Evoca una stagione mentre annuncia la prossima. Ecco, il kairòs è questo congiungersi delle epoche, questo movimento centripeto con cui il passato e il futuro confluiscono nell’attimo. Ricordo e profezia, memoria e promessa, atomo gremito di tempi. Il fatto è che una sola immagine può contenere un tale vigore, una tale attesa, un tale spaesamento da irradiarsi fuori di sé e diventare un mondo. Questo intreccio di singolare e di cosmico è tipico della lirica, dagli antichi a oggi, da Alcmane a Bonnefoy. E infatti la fotografia è sorella della lirica. Potremmo dire così: la fotografia sta alla lirica come il video sta al racconto e come il film sta al romanzo. Al pari della lirica, la fotografia narra ciò che avviene una sola volta. E proprio perché avviene una sola volta, porta con sé l’ombra delle esistenze escluse, che circondano come una moltitudine l’unicità del momento, lo caricano di dinamismo e di forza cinetica. In questo senso fotografia e lirica sono esperienze iniziatiche, ossia esperienze che, mostrandoci un tempo intero nel tempo microscopico dello scatto, tendono all’epifania. Tendono allo svelamento del significato recondito dietro a quello immediato. L’attimo non è fermo, se ci pensi. Tutte le parole che lo esprimono nella nostra lingua sono parole di moto permanente: momento (movimentum), istante (partici- pio presente), e attimo, a-tomo, qualcosa che giunge nudo ed essenziale dopo infinite divisioni, nucleo carico di imminenza da cui scaturisce la vita, come insegna Lucrezio: «Guarda i raggi del sole quando rischiarano l’oscurità della stanza e vedrai un esercito di atomi vorticare nel fascio di luce, ingaggiare una lotta infinita, vedrai scoppiare battaglie, schierarsi truppe e squadroni, succedersi senza tregua scontri e ferite. Vedrai l’eterno agitarsi dei corpi nel vuoto (De rerum natura II, 117-122)».
CC: Il secondo aspetto di novità che troviamo in Somiglianze è il ruolo della tragedia. Le tue poesie rinnovano la rappresentazione del tragico, che per tutto il Novecento (ma già da molto prima, come tu stesso ricordi con i riferimenti alla tragedia greca in Poesia e destino) è un contenuto fondamentale della poesia. Ne parli diffusamente in Poesia e destino, facendo riferimento al lessico hegeliano. La tragedia in senso hegeliano è una ricerca continua di limite (una tesi sopraffatta da una sintesi). Eppure, «Nei pochi poeti tragici del Novecento europeo, appare puntualmente l’identità tra la tragedia e il disprezzo di un rimedio». Nelle tue poesie si allude continuamente al suicidio; ma in queste pagine si legge che anche togliersi la vita sarebbe un rimedio, così come assumere atteggiamenti stoici. Entrambe sarebbero soluzioni facili per «attutire l’impatto tra telos e contingenza». Insisto su questo, perché penso che proprio la coesistenza di tensione utopica e anti-ideologismo caratterizzi profondamente la tua opera.
MDA: La tragedia? Parola ricorrente in Poesia e destino e non soltanto lì. È un’esigenza imperiosa, tota litaria, per chiudere i conti con il paradiso e il sorriso ebete dell’avvenire. Ma non esiste da sola. Confina con la gioia (altra parola ripetuta) perché non si dà tragedia nelle sabbie mobili di uno spirito depresso. La tragedia non si concilia con l’umor nero e nemmeno con la malinconia. Ha bisogno di un contrasto acceso, vivido e feroce, uno «sfondo di canzoni felici» come dice Viceinte Aleixandre nelle sue saettanti distruzioni amorose. Per quanto concerne il suicidio, bisogna distinguere. Esiste il suicidio del mondo classico e in particolare stoico come punto d’onore o come dimostrazione di saper morire al momento giusto. Seneca ne parla continuamente nelle Lettere a Lucilio: il suicidio non è subire uno scacco ma è un modo per evitarlo e occorre scegliere, dopo avere valutato le altre possibilità, la via migliore tra le tante che la morte ci offre (unus introitus ad vitam, exitus multi: «uno solo è l’ingresso nella vita, molte le strade per uscirne»). Qui non pulsa il respiro tragico. E nemmeno nel suicidio guerriero o nel suicidio per eccesso di vitalità – Mishima, Hemingway. Questo respiro invece lo avvertiamo nel tuffo di Paul Celan o nell’agosto torinese di Cesare Pavese, deciso fino in fondo a morire e nel medesimo tempo incerto come un bambino smarrito: il tragico si dà sempre in un dissidio maestoso tra due potenze che sono al tempo stesso interamente giuste e interamente incompatibili (dike contro dike). E arrivano perciò a generare quello sgomento forsennato che in Poesia e destino ho definito l’impatto tra telos e contingenza. Tale impatto nell’universo greco precipita sempre nel dilemma tragico. Poi invece prevarrà storicamente lo sfondo antieroico e provvidenziale dell’ebraismo, dove il soffio salvifico di un Creatore riporta tutto alla dialettica tra peccato e redenzione (adikia/dike) finendo così per prosciugare il fiume cruento della tragedia.
CC: L’utopia come presenza di un altrove, d’altronde, lascia alcune tracce in molti testi. In una recente intervista Babini sottolinea il lessico cristologico o cristiano dell’ultima poesia di Biografia sommaria, Costruzione con i fiammiferi («l’ora del presagio», «la creazione», «qualcos’altro / che comprenderà la morte», p. 234). Tu confermi la presenza di quel lessico, ma ne rifiuti le possibili implicazioni religiose. Questo mi ha fatto venire in mente un’altra questione. Una poesia che mi ha sempre colpito di Somiglianze è L’isola sarà guardata nella sua bellezza (p. 50), anche per la possibile vicinanza con La gronda di Fortini[7]. Nella prima parte della poesia sembrano essere presenti due voci. La prima è quella di un soggetto cui sono associati due concetti centrali (varianti-refrain nei tuoi libri): «panico e ansia». La seconda è quella di qualcuno che è «già salvo»: questo permette, per contrasto, di identificare come potenziale suicida la figura emersa nella prima parte. Il senso di questo testo cambia sensibilmente se si attribuiscono gli ultimi due versi («L’isola sarà guardata nella sua bellezza/non importa se da noi o da altri») alla prima voce o alla seconda. Molti elementi (ad esempio, la presenza delle «pastiglie») lo ricondurrebbero ad una costellazione di testi in cui ricorre il suicidio, presenti in Somiglianze (T.S., per esempio) e in Millimetri, nei quali, però, non è mai presentato uno spazio diverso, di possibile superamento della contrapposizione fra storia collettiva, da un lato, e sofferenza individuale, dall’altro. Oppure questo finale è un’illusione?
Torniamo alla poesia segnalata da Babini, e consideriamola in parallelo all’Isola. Alcuni mesi fa mi hai scritto che «ci sono tre linee del pensiero occidentale che mi sono estranee: Cristianesimo, Marxismo, Capitalismo»[8]. Penso sia vero; eppure, prendiamo atto delle tracce che lasciano nei tuoi testi. Secondo Babini, inoltre, inizialmente ci sono più riferimenti alla «contingenza» e alla politica, talvolta mutuati dalla fenomenologia di Hegel, come in Lo stato conferito (p. 63), Un perdente (p. 48), Lo scheletro del pesce (p. 25) All’incrocio di ed… (p. 11),Voci sotto il giorno (p. 38). A me pare che questo tipo di lessico continui a essere presente nei libri degli anni Novanta: sto pensando ad uno dei testi finali di Biografia sommaria, Semifinale (p. 234). Se non sbaglio, i primi versi sono «La Doxa mi chiede per chi voterò…».
MDA: Cara Claudia, anche questa domanda ne contiene al suo interno altre due o tre. Siccome vedo che ti stanno a cuore gli appuntamenti con la storia e le immersioni nel fuoco del presente, ti do questa bella notizia in anteprima: un capitolo del mio prossimo libro è interamente ambientato nel carcere di Opera, il carcere di massima sicurezza in cui insegno da anni. Il capitolo si intitola appunto «Massima sorveglianza» e narra di un detenuto che ha massacrato la giovane moglie. È colmo di riferimenti concretissimi: dal corpo speciale degli ispettori, ai sonnolenti magistrati di sorveglianza, alla costruzione di un’attenuante. Tutto questo è pervaso da un’aura demoniaca e ultraterrena che vedrai. Ma ne parlerò meglio trattando più avanti la specifica questione del carcere. Ora torno alle tue domande sui singoli testi. Per quanto riguarda Costruzione con i fiammiferi, la presenza del lessico cristiano è dovuta alla trama stessa del poemetto, che è un dialogo, a volte pacato e a volte acceso, con un insegnante di religione conosciuto negli anni Sessanta all’Istituto Gonzaga di Milano e poi ritrovato all’Università Statale. E certamente frequentare per otto anni il Gonzaga (sono fuggito in seconda liceo insieme a un amico d’infanzia, Riccardo Faini, ferito anche lui dalla ristrettezza spirituale del mondo salesiano) avrà pur lasciato qualche traccia lessicale nel mio dizionario. D’altra parte questo vale anche per il marxismo (con cui in quegli anni era inevitabile confrontarsi, rappresentando una vasta porzione dell’intelligenza contemporanea) come ha notato Walter Siti nel suo commento a Un perdente uscito su «Repubblica» a fine marzo: «fuori c’è la storia, le classi che lottano», «le grandi leggi del profitto», «Cosa fare». Ma ora veniamo alla poesia che ti sta a cuore e che tu peraltro hai già affrontato nel tuo studio del 2012. La poesia si intitola L’isola sarà guardata nella sua bellezza e appartiene alla raccolta Somiglianze. Per il lettore che non la conosce o non la ricorda, la cosa migliore è riportarla qui di seguito.
L’isola sarà guardata nella sua bellezza
Anche la faccia, al risveglio
ogni volta, panico e ansia
di diventare diversa:
un secolo intero scorreva
nei suoi movimenti
perché era l’unicità.
Eppure qualcuno, già salvo,
sfidando i suicidi vicino al letto e le pastiglie
che cadono dalle mani
qualcuno sta dicendo:
l’isola sarà guardata nella sua bellezza
non importa se da noi o da altri.
CC: Vorrei tornare al rapporto con Franco Fortini. La poesia La buona notte, in Biografia sommaria (p. 231) è molto bella, e riprende anche un titolo usato da Fortini in Paesaggio con serpente (Torino, Einaudi 1984). Poi c’è L’isola sarà guardata nella sua bellezza, di cui si è già detto, in Somiglianze; in Terra del viso è presente Rimanendo (p. 129), con dedica esplicita a Fortini. Mi piacerebbe sapere di più del rapporto con Fortini, e delle circostanze in cui sono stati scritti questi tre testi.
MDA: Il legame con Fortini è stato tempestoso, questo si sa. Ma è stato anche duraturo. E questo è meno scontato, visto che dall’inizio alla fine ci hanno diviso molte cose importanti. Tutto il mio Novecento, che passava per Campana, e Pavese, si opponeva al suo novecento brechtiano. E viceversa il suo fervore marxista mi era estraneo. Qualcosa però ci univa su un piano umano sotterraneo – starei per dire esoterico – e ci spingeva a gesti d’affetto. Molte sue lettere incoraggianti sono giunte in momenti per me ardui e d’altro canto credo di avere dato tutto me stesso nell’analisi delle sue traduzioni di Paul Éluard e delle ultime poesie di Questo muro, commentandole verso per verso[9]. Dicevo di un legame tempestoso, con punte violente. Una volta ad Amelia fece chiamare i carabinieri dalla moglie e trascorsi una notte in guardina. Nel 1982 minacciò di denunciarmi per una lunga lettera (scomparsa anche questa) in cui rispondevo a una sua stroncatura epistolare di Poesia e destino, libro definito repellente sul piano politico. La mia lettera era sarcastica ed eccessiva, ma forse faceva chiarezza sulle ragioni che rendevano impossibile un rapporto tra noi. Partivo dalla sua perentoria liquidazione di Marina Cvetaeva per contrapporre la mia grande stima per lei e trarne conseguenze insanabili sul piano dei nostri valori. Il legame con Fortini si interruppe in effetti con quelle due lettere e divenne intermittente. Qualche cartolina, qualche sua telefonata, gli incontri alle letture di poesia, allora poche. Ciò non gli impedì di compiere gesti generosi. Recensì con intelligenza Terra del viso su «Panorama» e mi regalò una quantità di libri in occasione dell’incendio di via Rosales che distrusse tutta la mia biblioteca[10]. Cercai di ricambiare lasciandogli in portineria un’introvabile edizione dei Fleurs du mal. Fortini il giorno dopo mi lasciò un biglietto di ringraziamento (questo ce l’ho ancora) nella casa dei miei genitori in viale Majno, confessandomi che l’autore da lui più amato in assoluto, quello che avrebbe salvato dal diluvio universale, non era Dante e nemmeno Brecht, ma proprio Charles Baudelaire!
Detto questo, considero Fortini un ottimo insegnante (soprattutto sul piano orale) capace di leggere una poesia con ampiezza di registri, trovando all’istante nessi, legami, attinenze e intrecci nell’intera poesia italiana ed europea del suo tempo. Ma non lo considero un maestro. La parola ‘maestro’ è per me una parola sacra, che affonda la sua verità nel mondo greco, latino e indiano e che implica una grandezza d’animo ignota a Fortini, innalzando la figura magistrale in una zona di purezza aliena da ogni competizione con i suoi alunni. Rimane ferma invece la mia stima per il poeta, che giudico – dopo Sereni, Luzi e Caproni – tra i maggiori del suo tempo. Ritengo che Una volta per sempre e Paesaggio con serpente siano dei libri davvero importanti (superiori a quelli del primo Fortini, non c’è dubbio, ma forse anche a Composita solvantur) con delle vette vere e proprie, se penso a poesie come L’attesa, Una risposta, La partenza, La promessa e appunto La buona notte, forse la mia preferita in assoluto, che ha ispirato i versi di Biografia sommaria a lui dedicati.
CC: «Dunque è vero, il daino sfugge all’agguato e varca il canto del daino ed evade verso l’amore che straccia il richiamo e dice ancora la sua unica parola: ‘adesso’»: è una frase tratta dalla Parola innamorata (a cura di G. Pontiggia, E. Di Mauro, Milano, Feltrinelli 1978). Qui sono antologizzate cinque tue poesie intitolate Frammenti di regione e sette prose; la plaquette ha il titolo Più bianco allontanato. Le parole che ho citato sono quasi identiche a quelle di una poesia di Somiglianze: «e pensa al tempo / e alla sua unica parola d’amore: ‘adesso’» (La luce sulle tempie, p. 8). I versi presenti in Più bianco allontanato tornano molte volte, sia in Millimetri, sia in Terra del viso, sia in Distante un padre. Anche questi, dunque, sono nuclei originari della poesia?
I testi della Parola innamorata mi hanno ricordato La corsa dei mantelli (Milano, Guanda 1979), uscito l’anno successivo: qui troviamo la stessa atmosfera onirica, la successione di immagini fiabesche o mitologiche, la figura di un adolescente che rincorre una sacerdotessa (o, in questo caso, «principessa») e dei bambini («Muore un oscuro ingannatore: / tra la natura e l’ordine ci sono i bambini / che già scoprono le mani / Luca! Gridano dentro la città / Ma nell’olio sciolti i battesimi / non sono mai stati nel tempo»). La scrittura procede per immagini, talvolta ripetendo alcune frasi con leggere variazioni, quasi come riportando un sogno. La corsa dei mantelli e le poesie (e prose) confluite nella Parola innamorata sono stati scritti nello stesso periodo? Il daino e Daina sono due parti di uno stesso soggetto? Chi è Daina?
MDA: Più bianco allontanato, la prosa lirica uscita nella Parola innamorata, è un testo che ho sempre considerato confuso e poco convincente (e infatti non l’ho mai riproposto), ma continuo a trovarlo utile come archivio di spunti, suggestioni, versi e ritmi definiti meglio nei libri successivi: un torrente impetuoso dove scorrono detriti e relitti in attesa di una forma compiuta. È stato scritto in effetti nello stesso periodo de La corsa dei mantelli, e ne conserva molti echi e risonanze: il timbro onirico, l’aura adolescente, la figura del daino che poi diventa Daina.
Il daino è un animale che ho sempre amato. Il suo mantello estivo, rosso e maculato, il suo modo di correre e saltare, la brevità della sua vita. Da lui deriva il nome della fanciulla guerriera protagonista della Corsa dei mantelli. Ma non solo da lui. Il nome ‘Daina’ accoglie in sé in modo direi miracoloso – per anagramma e spostamento, per vicinanza mitica e letterale – un ampio numero di significati che mi riguardano. Innanzitutto Diana, la dea della caccia. Poi Dania, un candido amore infantile. Nadia, che è Nadia Campana, conosciuta allora, ma anche Nadia Comaneci, la bella ginnasta rumena e la Nadia che muore a braccia aperte in Rocco e i suoi fratelli. E poi, nelle vicinanze, Nadja, la folle creatura di Breton, il suo capolavoro. Dalia, mio fiore prediletto. Adina, l’elisir d’amore, la bambina ebrea che ho conosciuto in Monferrato. E infine il Nada e il Nadie spagnoli, i Danai, le Naiadi, un tourbillon che si agita in queste poche lettere e che slitta dall’anagramma al segno di un destino. E infatti è un nome destinato, Daina. È il nome della ragazza che avrei voluto con me nelle partite. Avremmo fatto azioni magnifiche. Ci saremmo amati a prima vista. E comunque in ogni donna ho inseguito frammenti di Daina. Così, a un certo punto della mia vita – nel 1977, durante l’ inverno passato a Varsavia – ho deciso di mettere in campo l’immagine che ha attraversato la mia infanzia e la mia fantasia: una ragazza che entra nella banda dei maschi, nelle sfide, nelle corse, nelle gare. Non si limita a guardare, facendo il tifo per l’uno o per l’altro, ma mette in gioco il suo animo spartano, agonistico, indomabile, come una ragazza della via Pál. E così è nata Daina, la protagonista di questo racconto, l’adolescente efebica e audace, lunare, casta e selvaggia, figlia di Artemide più che di Venere. Figlia soprattutto di Atalanta: è sempre in corsa, Daina, e tutto il racconto è attraversato dalla sua falcata imprendibile.
Ma forse la vera protagonista della Corsa dei mantelli è l’adolescenza. L’adolescenza è uno scisma. È un luogo di separazioni violente, di rotture definitive, di solitudini imperscrutabili, come quella di Daina dopo avere incontrato la Signora del viottolo nella sala d’aspetto. L’adolescenza, come la poesia, è illegale. Non è il luogo degli accordi o della politica, poiché nell’accordo c’è una forma di menzogna, che il ragazzo magico ha deciso di sventare, intuendo che la maturità ha un vol- to orribile: il volto di uno spettro e di un tradimento. Così, attraverso inizi senza seguito, arretra dalla mutazione che lo renderà adulto. Punta alle affinità, ai fratelli di sangue, al legame inesorabile tra due creature che non si conoscevano prima e che proprio lì, in quel cortile e in quella partita, trovano la loro alleanza, fondano un patto giurato. E tentano di mantenere l’assoluto attraverso abbandoni fulminei, un istante prima che il buon senso lo catturi. Come nelle intercettazioni telefoniche: bisogna smettere di parlare un attimo prima di essere localizzati. Così nella banda bisogna cambiare gioco e luogo un attimo prima che il mondo assennato si avvicini. Ed è per questo che il luogo adolescente risulta introvabile da qualunque indagine adulta, ossia poliziesca. Nelle mappe che vorrebbero definirlo manca sempre qualcosa: se c’è il massimo dettaglio, mancheranno le coordinate; se ci sono le coordinate, la singola scena scompare. Con le sue domande totali e fulminee, l’adolescenza è la vera protagonista della Corsa dei mantelli.
CC: Nel Pubblico della poesia alcuni testi presentano varianti rispetto alla loro versione in Somiglianze: mi interessano i cambiamenti di La somiglianza[11] e di Non andare[12]. Nel primo caso, c’è un femminile che diventa maschile; nel secondo, vengono espunti dei versi finali. Il cambiamento del femminile in maschile si lega a quello che hai appena detto a proposito di Daina?
MDA: Cominciamo dalla prima poesia che hai citato, La somiglianza. In effetti nella prima versione era una ragazza a lanciare il giavellotto e dunque ‘a far ritornare l’infanzia’. Perché diventa un ragazzo? Perché mi sembrava necessario togliere ogni sfumatura sensuale alla scena e far prevalere la bellezza del gesto. Non volevo che lo sguardo fosse distolto dalla pura presenza atletica. Certo, amavo anch’io Angela Nemeth – la grande giavellottista ungherese –, amavo la grazia e la potenza della sua spallata. E può darsi che la poesia sia nata con la sua immagine. Ma poi si è spogliata di ogni ‘fascino’, ha voluto giungere alla sua geometria, al bianco e nero dei suoi contorni. Mi sembrava che un elemento femminile aggiungesse una nota decorativa fuori luogo, spostasse altrove l’urgenza dell’interrogazione che da lì si genera. Credo che sia questa la ragione per cui l’atletessa è diventata un atleta. Per quanto riguarda Non andare, la cosa è ancora più semplice. I versi in corsivo all’inizio e alla fine – quelli rivolti alla persona amata – mi sono sembrati a una rilettura troppo sentimentali, quasi una canzonetta. In un primo tempo mi parevano necessari per animare la descrizione e conferirle risonanza emotiva. Un po’ come avviene in Lavandare con quel puro endecasillabo «quando partisti come son rimasta». Solo che in Pascoli la cosa funziona benissimo e nel finale si viene a creare un pathos soave. Qui no. Qui diventa un’aggiunta melodrammatica che sporca la scena. La quale, nella sua secchezza, contiene già in sé uno sgomento e regge benissimo da sola.
CC: È ricorrente anche l’associazione di «atleti», «panico» e «pastiglie». Vorrei che mi parlassi di poesia e sport. L’attività atletica è importante soprattutto in Somiglianze e Biografia sommaria, ma è anche al centro di Quell’andarsene nel buio dei cortili. Quello che mi ha colpito di più è la rappresentazione del gesto atletico come ciò che attiva il riempirsi di senso di un istante. Mi sembra che l’attività sportiva sia il corrispettivo degli incontri erotici: si tratta di esperienze del tutto fisiche, che però determinano istanti quasi epifanici in Somiglianze. Un intreccio fra i due tipi di intensità vitale è presente in alcune poesie, come Manovre per l’attimo. Ho trovato una corrispondenza in alcuni passi di Poesia e destino. Qui contrapponi il modo in cui la bellezza atletica viene rappresentata da molti poeti che discendono da Pascoli (sono «spettatori contemplanti», nei quali c’è sempre la retorica del non poter partecipare, e che colgono nella bellezza atletica soltanto la sua ombra mesta e materna) ad altri, che riescono a rappresentare «il momento in cui c’è un intreccio tra razionalità del divino e razionalità del corpo. […] La fusione di sforzo supremo e armonia riproduce nelle membra una vicenda cosmogonica, un caos che diventa ordine necessario delle cose». Poche poesie – si legge – si sono avvicinate alla grandezza del mito atletico, che «è una grandezza imprescindibile da quella dell’adolescenza e della banda, perché nella banda non c’è posto per gli storpi; anzi, l’unico atto leale verso costoro è escluderli senza riserve o scuse. Non c’erano e non ci sono vie di mezzo tra i ragazzi di una squadra».
Mi interessano questi due aspetti: il legame fra sport e disciplina, ferrea legge morale («l’angolo etico / che portiamo intatto»); la dimensione adolescenziale, che spesso fa da sfondo alle rappresentazioni di attività sportive. L’adolescenza crea un tempo sospeso: credo che tu abbia ripreso soprattutto questo aspetto in Quell’andarsene nel buio dei cortili.
MDA: Partendo dalla fine, vorrei aggiungere qualcosa a quanto hai appena detto. È vero: l’adolescenza disegna un tempo mitico. Una manciata di anni si estende all’infinito e appare improsciugabile. L’infanzia è trascorsa, i genitori sono alle spalle, la maturità è ancora lontana, laggiù, oltre i cortili. Rimane questo tempo sospeso, tempo di gare, di partite di calcio, di corse puntate al filo di lana, di porte disegnate con il gesso sui muri. Qui ogni ragazzo comincia a misurare se stesso, le sue doti e i suoi limiti, le qualità interiori, il coraggio, la lealtà, la precisione, la capacità di esprimere queste doti al momento giusto ma anche di tenerle segrete quando l’anima della squadra lo richiede, quando la partita esige una dedizione silenziosa. Il ragazzo impara dunque a scrutarsi e poi a scegliere per affinità elettiva i suoi fratelli di avventura, quelli che saranno, con altri nomi, gli amici destinati ad accompagnarlo per tutta la vita. E i valori dell’adolescenza sono sempre eroici: il rischio, l’eccesso, l’avventura senza risparmio al limite delle proprie forze, un nobile destino da attuare. È il tempo in cui tutti i modelli ereditati dalla famiglia appaiono nella loro sconcertante pochezza. Ma anche quelli che ci aspettano tra pochi anni, oltre i muri del cortile, sembrano vuoti, figli di un subdolo accordo sociale. Tutti i grandi romanzi dell’adolescenza, dai Ragazzi della Via Pál di Molnar ai Turbamenti del giovane Törless di Musil da La città e i cani di Vargas Llosa, al Grande amico Meaulnes di Alain Fournier, al Signore delle Mosche di Golding, tutti insistono su questa guerra di valori: da una parte le gerarchie inflessibili ma giuste della banda giovanile, dall’altra i proclami retorici del mondo adulto, di un preside, di un politico, di un padre.
Il legame tra adolescenza e gesto atletico è molto stretto, perché lo sport è un luogo di lealtà e fonda naturalmente una scala di valori. Ogni ragazzo sa se è abbastanza veloce per prendere parte alla staffetta e dare il suo contributo alla vittoria, se gioca davvero bene a pallone e se merita di entrare nella squadra. Lo sport sancisce una gerarchia più limpida di ogni altra attività umana. E la letteratura si è sempre sentita attratta da questa chiarezza. Ha saputo impiegare tutta la gamma delle sue sfumature per cantare le angeliche imprese di Fausto Coppi e il volo matematico di Valery Brumel, ma anche la corsa piagata di Emil Zatopek, lo scacco di Poulidor, la smorfia amara degli eterni secondi.
Vengo al punto. Nella poesia antica, come sai, l’atletismo era riconducibile in linea diretta al divino. Basti pensare ai giochi funebri in onore di Patroclo (Iliade XXIII) oppure a Pindaro/Bacchilide, ma anche al Teocrito del duello tra Polluce (figlio di Giove!) e Amico, e in parte anche al mondo latino con il Virgilio di Eurialo e Niso. Questo oggi è impensabile, ovviamente, e sarebbe ridicolo proporlo sotto mentite spoglie. Impensabile è anche lo sport cavalleresco di Poliziano o di Torquato Tasso (la gara di scherma tra Argante e Tancredi). C’è qualcosa invece che non solo è pensabile ma è anche atteso e ci reclama: un canto volto in alto, un canto che non si accontenta del timbro elegiaco tipico del nostro novecento, da Saba in poi.
Chiediamo qualcos’altro. Esiste in qualche pagina del nostro tempo? Credo di sì. E faccio due esempi: La polvere e il fuoco (1997) di Roberto Mussapi, con due poesie magistrali su Gaetano Scirea e Stefania Belmondo, che diventano antichi eroi tuffati nel rosa della «Gazzetta» e nella telecronaca popolare dei nostri giorni. Oppure il primo canto dell’ Angel di Franco Loi (capp. XIII e XIV), con quella partita di calcio a Città Studi dove tutti noi entriamo fisicamente nel palpito degli scontri, nelle urla e nel sudore, con una presenza così attuale da diventare assoluta.
Per quanto mi riguarda – ritorno brevemente alla tua domanda – ho affidato all’attimo, ancora una volta, la durata delle mie creature atletiche, la permanenza breve e inesauribile di Donata De Giovanni e di Stefania Annovazzi, la loro eterna falcata adolescente (Biografia sommaria, 1999). È l’attimo di cui ho parlato prima, a proposito della fotografia. Ma in più è un attimo agonistico, ossia raggiunto dopo un lungo esercizio, una liturgia di gesti che lo preparano, una disciplina. Come il poeta deve disciplinare i suoi strumenti per renderli sempre più carichi di forza e farli esplodere nella fiammata di un verso perentorio, così l’atleta conosce una lunga, paziente e puntigliosa preparazione invernale che gli permette, quando inizia la stagione all’aperto, l’uscita subitanea dai blocchi di partenza e il guizzo bruciante sul traguardo.
CC: Vorrei tornare di nuovo su Lucrezio. Ti cito un passo tratto da un tuo intervento di poetica, nel quale parli di un’esperienza giovanile:
Nel De rerum natura ci sono duecentocinquanta versi (IV, 1037-1287) in cui il poeta disegna un’epopea del fallimento amoroso, affermando fin dall’inizio di voler smascherare la violenza celata dietro le cerimonie dell’amore, la prova di forza estrema e inflessibile che si nasconde dietro i veli del corteggiamento e delle frasi convenzionali, quelle che potevano piacere ai neoteroi e alla loro idealizzazione della donna. L’amore è una folle e tormentosa lotta senza tregua e senza vincitori. L’amore è una lacerazione. E questo verbo, «lacero», appare più volte nelle pagine di Lucrezio. «Il seme cresce dentro di noi…». L’immagine della ferita, comune a tanta poesia d’amore, non riguarda qui una sofferenza spirituale, un’assenza, una lontananza. No, è una ferita fisica, cruenta, ha un sapore di battaglia. L’audacissima figura del sangue che sprizza dalla ferita, con tutta la sua simbologia sessuale, rimanda al contesto bellico cui ci ha abituati Lucrezio quando entra in scena Eros. Ed è significativo che il brano si chiuda con una frase sarcastica: Lucrezio ci dice che l’amore si riduce a un’ombra di dolcezza, anzi a qualche goccia di dolcezza – altra allusione erotica – prima che sopraggiunga, tra gli amanti, il gelo definitivo[13].
MDA: Il quarto libro del De rerum natura è uno dei capolavori della letteratura di ogni tempo. Non mi stanco mai di leggerlo, tradurlo, scoprire nuovi tesori. C’è qualcosa di arcaico e insieme di contemporaneo. Arcaica è la furia che investe gli amanti con la sua energia erotica e animale. Attuale è questa solitudine di corpi separati, divisi interamente l’uno dall’altro, che si guardano muti, attoniti e solitari come in un romanzo russo o in un dipinto silenzioso di Edward Hopper. C’è poi il senso dell’incubo che circola per tutto il poema e che lì si infittisce, con progressioni oniriche da film dell’orrore. Sono tra le pagine più terribili che siano mai state scritte sull’amore. Corpi che si cercano disperati, corpi che si affannano nel vuoto. Corpi avvinghiati nell’angoscia di non potersi congiungere e di non potersi nemmeno separare. Il seme dell’uomo descritto come un fiume in piena che non trova sbocco nell’essere amato e si dirige urlante verso altri corpi. Tutta un’atmosfera di guerra e di sfida all’ultimo sangue. Gli amanti si affrontano come nemici in battaglia per conquistare il piacere e tutto il loro lessico è un lessico di guerra, improntato al gergo militare, all’attacco o alla difesa, alla breccia nell’altrui fortezza, allo sfondamento, al trionfo definitivo sul corpo dell’altro immobilizzato e vinto. Mi chiedi se questo stato di conflitto permanente e di tensione bellica è entrato in Somiglianze. Direi di sì. Direi che Lucrezio, pur nell’enorme distanza culturale di due millenni, ha agito come energia sotterranea capace di scuotere con violenza i contorni visibili della scena. Certo la psicologia di Lucrezio è elementare, come tutta la psicologia del mondo antico (bisognerà aspettare il medioevo stilnovista per entrare nei meandri dell’universo amoroso) mentre Somiglianze è naturalmente un libro di chiaroscuri sottili e di sfumature interiori, figlio del Novecento e della coscienza infelice. Però quell’impeto di distruzione, quell’energia segreta che nel De rerum divide i corpi con violenza ha nutrito gli strati profondi del mio libro, gli ha consentito di giungere a certe prove spietate (cfr. la poesia Una prova) e gli ha permesso insomma la crudeltà veritiera della frase da te citata: dire ‘non ti amo’ e amare i poeti che hanno osato dirlo. Lucrezio non poteva pronunciare quella frase perché il suo tempo glielo impediva, ma ha preparato il terreno e ha fecondato una semina, le ha permesso di venire alla luce venti secoli dopo.
CC: Mi piacerebbe che tu mi parlassi delle tue esperienze in carcere, di come questo ha influenzato la tua poesia.
MDA: Il carcere mi accompagna da una vita intera. Quando stavo a Roma, accompagnavo Giovanna a Rebibbia – dove ha lavorato per vent’ anni – e a mia volta come professore sono passato in ruolo nella Casa di reclusione di Opera, dove tuttora insegno e dove resterò fino al termine dei miei giorni scolastici.
«Anche per lei, Prof., fine pena mai» dicono sorridendo i miei detenuti. Cosa mi hanno portato tutte queste stagioni trascorse in gattabuia? Innanzitutto, sul piano umano, alcuni incontri che hanno lasciato il segno. Un mio alunno ha pubblicato un libro nella collana della ‘Vita Felice’. E seguirlo in questa avventura poetica, vedere crescere e realizzarsi il suo talento – che continua tuttora a dare dei frutti – è stata un’esperienza appassionante. E questo vale anche per altri detenuti che hanno pubblicato in riviste legate al carcere e per altri ancora con i quali mantengo rapporti epistolari, oppure che incontro di persona se si trovano in semilibertà o in libertà condizionale.
Fin dall’inizio, appena entrato in carcere, ho intuito una presenza che era già in me e che in nessun luogo era forte come lì, tra quelle mura. La presenza dell’esilio. L’esilio fa sentire il suo richiamo in ogni penitenziario, ma ancora di più a Opera, che ha un numero rilevante di detenuti ‘ostativi’[14], ossia con la certezza giuridica di non potere più uscire da lì, nemmeno per un giorno. Parlare in classe dei grandi esiliati della letteratura – parlare di Dante o di Tasso, di Ovidio o di Rimbaud – crea sempre risonanze profonde, così come leggere in quel luogo «né più mai toccherò le sacre sponde» oppure «Straniere genti, l’ossa mia rendete / allora al petto della madre mesta» e discutere delle varie forme di esilio, su cui i detenuti perpetui riflettono da sempre, come il loro professore.
Ho scritto articoli e ho tenuto seminari sull’insegnamento nei penitenziari. Ma non mi era mai successo che tale esperienza entrasse direttamente nei miei versi. Ora succede. O meglio: succederà tra poco con il mio nuovo libro. E questo avviene in seguito al lungo contatto epistolare con un detenuto che è stato anche mio brillante alunno. Questo detenuto, dopo aver taciuto per mesi, è riuscito finalmente a raccontarmi in un tema qualcosa della sua vicenda. Mi ha accennato al grande amore della sua vita, una giovane donna siciliana, che è stato anche il suo crimine più grande e il suo perpetuo rimorso. Tutto questo mi è stato detto a frammenti e filamenti, ritagli di una storia enigmatica e prorompente, fatta di gelosia tenebrosa e di totale possesso reciproco, fatta di sangue intravisto, dedizione febbrile, promesse travolte, pause di piena armonia, incanti stupefatti e buio nella mente. Ho provato a scrivere in versi il suo delitto. Un capitolo del mio futuro libro racconta questo gesto, le visioni che l’hanno preceduto e quelle che lo inseguono ancora adesso. Lo racconta in un’aura sospesa tra i traffici penitenziali e il soffio metafisico, lo intreccia alle altre vite e alle altre morti che irrompono nelle mie giornate carcerarie, le interminabili camminate nei corridoi fumando sigarette alla menta e prendendo appunti su un quaderno tascabile. Il poemetto mantiene questo tono di diario quotidiano e celeste e mescola la mia esistenza a quella fisica del carcere e delle figure da cui è popolato: uno scalpiccio di agenti e di preti, volontari compiaciuti, parenti a testa bassa, gatti che bussano alla mensa, ispettori che mostrano le loro tre stelle. Non ti anticipo altro. Lo leggerai l’anno prossimo come secondo capitolo di un libro che si intitola probabilmente Incontri e agguati.
CC: C’è una poesia pubblicata su rivista nel 1975 su «Paragone», che non confluisce in Somiglianze. Si intitola Esterno. Tornerà in Terra del viso, ma con un titolo diverso, Brasadé (lo nota Damiano Springhetti nel suo lavoro in corso su Millimetri); mentre Esterno diventa il titolo di un’altra poesia della stessa raccolta. Tuttavia proprio Esterno era uno dei titoli ai quali avevi pensato già per Somiglianze. Come mai questo cambiamento? Che valore ha l’esterno, per chi scrive? Cos’è? È l’altra persona?
MDA: Il titolo Esterno – come possibile sostituto di Somiglianze – ha creato un vero e proprio dilemma, soprattutto con l’avvicinarsi della pubblicazione, nel corso del 1975 e all’inizio del 1976, durante la correzione delle prime bozze. Sentivo che Esterno era forse la scelta più ricca di significati, ma non volevo rinunciare a quello che per me, fin dai tempi del ginnasio, doveva essere il titolo del mio primo libro: Somiglianze, appunto, con quel richiamo a Baudelaire ma soprattutto con l’idea fissa di trovare il mio simile, il fratello, il compagno di squadra e di poesia, l’affine elettivo, quello con cui fondare l’alleanza. Certo, Esterno rimaneva un titolo perfetto e mi ha fatto soffrire fino all’ultimo. Conteneva un tratto legato al cinema (ero un cinefilo accanito) e anche al gergo sportivo (gli esterni di una squadra, vincere su un campo esterno). Ma soprattutto trascinava con sé il senso di un’estraneità (sentirsi esterno alla vita) e insieme il fascino di una realtà oggettiva e separata da noi: il mondo esterno, ciò verso cui ci muoviamo. Alla fine è rimasto Somiglianze e va bene così. Ricordo che Giovanni Raboni (direttore della collana di Guanda e lettore raffinato) cercava di calmarmi intorno a questa scelta, che era diventata un’ossessione, con lettere e telefonate, dubbi e ripensamenti a getto continuo. «A questo punto non pensiamoci più e teniamo Somiglianze. Vuol dire che Esterno sarà il titolo del tuo prossimo libro». Ma il libro successivo andava in un’altra direzione ed era giusto che si chiamasse Millimetri. Lo stesso vale per gli altri cinque titoli, ognuno consono a quel tono e a quello stile. Così Esterno non è mai diventato titolo di libro e mai lo diventerà.
CC: «Dove sei stata / per tutta la mia vita?» (Un perdente); «Dove sei stata / per tutta la mia vita…» (Cartina muta); «È questa la corsa che lascia la sua veste e, messaggera, trascina la carrozza, dimentica gli errori piccoli e varca finalmente la linea dove ogni testamento è preso dalle vertigini e non può più chiedere le date, e anzi uccide la lingua che domandava a qualcuno ‘dove sei stato per tutta la mia vita?’» (La parola innamorata, p. 73).
Cosa puoi dirmi riguardo a questo verso? Qual è la storia delle poesie che ho citato?
MDA: Mi ha seguito come un refrain, questo verso bello e sentimentale. Ho cercato ogni volta, nelle varie poesie, di dargli un’intonazione diversa. Ironica e amara in Un perdente, malinconica in Cartina muta, onirica e concitata in quel frammento della Parola innamorata. Un perdente è una delle prime poesie di Somiglianze. La stesura definitiva è del 1973, ma l’abbozzo iniziale risale a qualche anno prima. Ricordo che nell’ottobre del 1969 la feci leggere a una sensibile compagna di classe del liceo Berchet, Simonetta Pagliani, che l’apprezzò e mi scrisse un’intera lettera di commento. Un perdente inizia con «Fuori c’è la storia / le classi che lottano» e traccia l’immagine di un uomo che rinuncia al mondo e si rinchiude nella sua stanza. Ma anche lì viene sconfitto. Il suo scacco si raddoppia. Dopo un litigio profondo ed estremo con la donna amata, non sa troncare il legame e cede al richiamo erotico. E per di più pronuncia la frase fatidica, per convincersi che la donna del suo destino è proprio lei: «dove sei stata / per tutta la mia vita?». Cartina muta è una delle mie preferite. Nasce dopo molti tentativi e varianti – caso raro in Biografia sommaria – e ora ne sono pienamente convinto. È una poesia narrativa, un breve poemetto che racconta l’ultima sera trascorsa con una cara amica e poetessa, Nadia Campana[15], morta tragicamente nel giugno del 1985. Narra di una lunga passeggiata che abbiamo fatto insieme – dalla Comasina a Città Studi – e la progressiva sensazione di morte che ci accompagnò in quel tragitto. Di morte, ma anche di tremore, di gioia intravista, di preghiera, di vicinanza perduta, di sforzo affannoso e palpitante per ritrovarla. Una sera di lunghi e costernati silenzi, nella quale la domanda «dove sei stata per tutta la mia vita?» si avvia per un nuovo sentiero. Non è più la dichiarazione di un amore e neppure di un’attesa finalmente coronata. No. Al contrario, è il dubbio sgomento che la vita di lei si sia giocata altrove e che averla creduta vicina sia stata solo un’illusione.
CC: Cosa puoi dirmi del tuo nuovo libro?
MDA: Sono interamente impegnato nel libro a cui ti accennavo. Ci lavoravo da anni con pause, rinvii e intermittenze. Ma questa estate tutto si è fatto più pressante ed è riuscito ad addensarsi per raggiungere una lezione compatta. Così ho trascorso su queste pagine ogni pomeriggio della mia estate cittadina e proprio in questi giorni dell’intervista mi sto avviando a ultimare l’opera. Mi sembra bello concludere il nostro lungo dialogo con una poesia del nuovo libro.
Non puoi immaginare, professore, quante cose restano nascoste in una fine, non puoi
capire il pietrame triturato che diventa la tua vita
eppure era bella, lo ricordo, era quella
che il vigore cosmico chiedeva, una giovinezza di frutteti,
l’arte suprema che mia madre augurava.
Nella punta di questa matita, caro amico, c’è il mio destino, nella punta
aguzza e fragile che scrive sul foglio l’ombra di ogni frase e scrive
le mura cieche, l’attenuante e il soliloquio, vedi, il mio destino è proprio qui, in questo
immobile trasloco, in questo impercettibile sorriso che un uomo offre
al mondo prima di sparire.
(Milo De Angelis agosto 2014)
NOTE
[1] L. Babini, Indagine su ‘Somiglianze’ di Milo De Angelis tra ‘esattezza’ e ‘spaesamento’, Tesi di Laurea Triennale discussa il 26/09/2012, Università del Sacro Cuore di Milano, Facoltà di Lettere e Filosofia; L. Tassoni, Varianti e altri démoni per Milo De Angelis, in «Semicerchio» 42 (2010) pp. 79-82; Luigi Tassoni, Lettura delle varianti e poesia contemporanea, in La metamorfosi digitale. Scritture, archivi, filologia, a cura di A.M. Morace e D. Caocci, ETS, Pisa 2014, pp. 181-201, dedicato alle varianti di L’oceano intorno a Milano. Il lavoro di Damiano Springhetti su Millimetri non è ancora stato pubblicato nel momento in cui è stata trascritta questa intervista.
[2] Parlo di ‘diverse edizioni’ per riferirmi alle plaquettes degli anni Settanta apparse su rivista (a partire da «Almanacco dello Specchio», 1975; «Nuova Corrente», XIX, 1982, n. 88; «Almanacco dello specchio», 1983), e alle edizioni di libri veri e propri (le due di Somiglianze, Guanda 1976 e 1990; le due di Millimetri, Einaudi, 1980 e Il Saggiatore, 2013; l’Oscar Poesie, Mondadori 2008). Le citazioni contenute in questo dialogo, quando non indicato diversamente, sono tratte sempre da M. De Angelis, Poesie, Milano, Mondadori 2008.
[3] M. De Angelis, Andare a capo. (Autobiografia), in Poesia e destino, Bologna, Cappelli 1982, pp. 16-7.
[4] Si parla di rapporto tra varianti e dettatura in particolare in tre interviste: E. Rega, Intervista a Milo De Angelis, «Gradiva», 27-28, New York, 2005; G. Fantato e A. Manstretta, «La Mosca di Milano», 3, ottobre 1998, poi in Biblioteca delle voci. Interviste a 25 poeti italiani, a cura di L. Cannillo e G. Fantato, Ed. Joker, 2006; Uno sguardo verso l’indeducibile, L. Sorrentino, Milo De Angelis: l’imperativo categorico e l’infinito presente, trasmessa su Rai News il 24 aprile 2007 e ora in http:// www.rainews.it/ran24/rubriche/incontri/autori/deangelis.asp. Queste interviste sono ora incluse in M. De Angelis, Colloqui sulla poesia, a cura di I. Vincentini, La Vita Felice 2008.
[5] Aldo Nove, Continuo a credere nell’ispirazione. Dialogo con Milo De Angelis, in «Liberazione», 17 agosto 2006, ora in M. De Angelis, Colloqui sulla poesia, cit., p. 150.
[6]«Si trattava di essere moderni nell’assoluto, e di rimanere assoluti di fronte all’impatto con la contingenza», M. De Angelis, Poesia e destino, cit., p. 148.
[7] Le due poesie sono accostate da Massimo Gezzi in un’intervista del 2006: cfr. M. Gezzi, Incontro con Milo De Angelis, in «Atelier», XI, 44 (2006), pp. 33-47, ora in M. De Angelis, Colloqui sulla poesia, cit., pp. 119-38.
[8] Questo il testo della lettera (18 febbraio 2013): «Cara Claudia, Provo a spiegarmi meglio riguardo a ‘L’isola’. Rileggerla mi crea ogni volta un turbamento. È la poesia che, più di ogni altra, ha finito per dire qualcosa che non intendevo dire. Ma si sa che ogni poeta viene superato nelle sue intenzioni da ciò che scrive e dunque deve accettare i significati ulteriori e imprevisti della sua parola. Tutti voi avete dato agli ultimi due versi un valore di verità e di profezia. Il ‘qualcuno’ che li pronuncia avrebbe vinto una sfida: nonostante gli orrori del suicidio, alla fine prevarrà la bellezza. Ecco, ti confesso che in quel novembre del 1969 (‘L’isola’ è tra le prime poesie del libro) io volevo dire più o meno il contrario. Volevo mettere in opposizione l’esperienza autentica dell’unicità e quella consolatoria dell’utopia, la verità della distruzione e la fuga nell’isola. C’era insomma una sfumatura sarcastica nei confronti di chi pronuncia quella frase finale e ignora la tragedia del morituro e delle sue disperate pastiglie. E c’era anche una punta di meravigliato disprezzo (‘Ah, l’uomo che se ne va sicuro’ di montaliana memoria) nel definirlo ‘già salvo’. Certo, mi rendo conto che voi (tu con intelligenza e altri prima di te con qualche semplicismo) avete le vostre buone ragioni. D’altra parte ho usato un verbo (‘sfidando’) che con la sua accezione valorosa finisce per suffragare la vostra tesi. E se l’ho usato, ci saranno state in me delle spinte che, oscuramente, andavano nella vostra direzione. Diciamo che è una poesia attraversata dalla scissione e che si presta a due verità contrastanti. Dike contro dike. Non è questa l’anima della tragedia? Due valori, entrambi giusti ma opposti, si fronteggiano. E l’uomo tragico, scegliendone uno, sente poi tutto il peso di quello che pretendeva di escludere. Un abbraccio, Milo De Angelis».
[9] (Nota di Milo De Angelis) Tutte queste lettere, detto per inciso, non sono presenti nell’epistolario ufficiale conservato a Siena e curato dallo stesso Fortini. Ignoro cosa abbia portato alla distruzione del nostro carteggio: decine e decine di lettere
[10] (Nota di Milo De Angelis) A proposito: ricordo che la moglie Ruth, dopo avermeli gentilmente portati a casa con la sua macchina, mi disse: «Questi libri sono per lei, De Angelis, e aggiungo che alcuni sono anche miei. Glieli regalo volentieri. Ma sappia che io non ho mai visto di buon occhio il suo legame con Franco e farò di tutto per ostacolarlo».
[11] Questo il testo presente nel Pubblico della poesia (a cura di Berardinelli e C. Cordelli, cit., p. 258): «Il terrore era diverso / nelle borgate, camminando in fretta / quell’assolutamente / oltre / che dai libri usciva nella storia / radendo le bancarelle, d’estate. / Domanderemo perdono / per avere tentato, nello stadio, / chiedendole di lanciare un giavellotto / perché ritornasse l’infanzia. / Non si poteva / ma la somiglianza era noi / nell’immagine di un altro, ravvicinato, nel sole / come non cedere / volevamo trattenere il nostro senso / ma verso lei / in un gesto da rivivere: chi poteva sancire / che tutto fosse al di qua? / Prese la rincorsa, tese il braccio…»; e questa la versione presente in Somiglianze, (p. 44): «Era / nelle borgate, camminando in fretta / quell’assolutamente / oltre / che dai libri usciva nella storia / radendo le bancarelle, d’estate./ Domanderemo perdono / per avere tentato, nello stadio,/ chiedendogli di lanciare un giavellotto / perché ritornasse l’infanzia. / Non si poteva / ma la somiglianza era noi / nell’immagine di un altro, ravvicinato, nel sole / volevamo trattenere il nostro senso / verso lui / in un gesto da rivivere: chi poteva sancire / che tutto fosse al di qua? / Prese la rincorsa, tese il braccio…».
[12] Questo il testo che si legge nel Pubblico della poesia (a cura di A. Berardinelli e C. Cordelli, cit., p. 253) a p. 253 : «… e amami anche quando ogni cosa finirà, / ogni cosa, anche questa promessa / che ora, tremando, mi fai… / un’altra azione, nella vigna, per cogliere / questo moscato polveroso e dolce / tra le formiche / che percorrono il sudore / della schiena, affrettandosi / in un sole che asciuga tutto / mentre la pianura si allarga, e qualcosa / che era enorme scompare/ scivola dal terrore fino al disagio / di diventare indifferente, fino all’ultimo / tremito, nulla / …amore, non posso, non c’è fedeltà, mai, se ora vivo / non posso, l’ho tanto voluto, ma le onde / mi trascinano / tra poco sorriderò anche di questo grido… »; questa, invece, la versione che si trova in Somiglianze, con il titolo Diventare (p. 40): «Un’altra azione nella vigna, per cogliere / questo moscato polveroso e dolce / tra le formiche / che percorrono il sudore / della schiena, affrettandosi / in un sole che asciuga tutto / mentre la pianura si allarga, e qualcosa / che era enorme scompare / scivola dal terrore fino al disagio / di diventare indifferente, fino all’ultimo/ tremito, nulla».
[13] M. De Angelis, in La scoperta della poesia, a cura di C. Gubert e M. Rizzante, Pesaro, Metauro 2008, pp. 17-26.
[14] (Nota di Milo De Angelis) L’ergastolo ostativo, a differenza di quello comune, ha carattere di perpetuità inderogabile e nega che il detenuto possa accedere, come premio di buona condotta, a pene alternative. Si chiama così appunto perché ‘osta’ a ogni possibile beneficio di legge. Come puoi immaginare, per le sue implicazioni etiche si tratta di una questione spinosa e controversa – che personalmente seguo da vicino a livello di convegni, comitati e proposte di legge – ed è soprattutto una questione molto sentita all’interno di Opera. La detenzione ostativa esiste solo nel nostro paese e nasce negli anni Novanta come misura emergenziale dopo la strage di Capaci. Ma quello che doveva essere un provvedimento temporaneo è poi rimasto immutato nel tempo, spesso inasprito dal regime speciale di alta sicurezza, il famoso 41 bis, che tra l’altro non consente di frequentare la scuola. Tale forma di ergastolo, a detta di vari giuristi, contrasta con l’articolo 27 della Costituzione sulle finalità rieducative della pena. Inoltre, cancellando ogni speranza di ritorno alla cittadinanza, sancisce di fatto la morte del detenuto tra le mura carcerarie.
[15] (Nota di Milo De Angelis) Pochi mesi fa sono usciti dall’editore Raffaelli di Rimini due volumi che raccolgono tutta l’opera di Nadia Campana, in versi e in prosa. Mi sembra uno dei libri più belli e necessari pubblicati in questi anni.
[Immagine: Milo De Angelis].
Desidero pubblicare, finalmente, a 74 anni – scrivo poesia dal 1973, prima pubblicazione in “Nuovi Poeti Italiani, 1”, Torino, Einaudi 1980 -, ultima: “Tutte le poesie (1973-2009)”, Roma, Gaffi Editore, 2011 – in mezzo, ad esempio: “Tesoro da nulla (1983-1989)”, premiato dalla giuria del “Laura Nobile”, presieduta da Franco Fortini, nel dicembre del 1989 ed edito da Vanni Scheiwiller, All’Insegna del Pesce d’Oro, nel 1990 -, e altre pubblicazioni -, desidero pubblicare “Gli amori terreni (2009-2012)”, con Mondadori – Lo Specchio -, o con Einaudi, nella collana bianca: è possibile? Ho inviato ad entrambe le case editrici il manoscritto. È possibile che il mio lavoro di poesia – inviato alle due case editrici -, venga, finalmente, edito nella collana bianca – Einaudi -, o pubblicato con Mondadori – Lo Specchio -? Una mia poesia, presa a caso dalle 734 pagine di “Tutte le poesie (1973-2009)”:
(vita)
mi conquistano le date
migratorie – quel partire
in volo degli uccelli –
quei viaggi celesti –
sortilegio resistente –
istintivo – sapiente
del dirigersi – andare –
quel venirci a trovare
pur senza conoscerci –
miracolata specie – immune
dalla certezza fatale
del tracciato –
In: “dalla finestra il cielo (2009)”, da “Tutte le poesie (1973-2009)”, 2011
A.C.L.
Mi limito a poche brevi annotazioni su alcuni punti di questa intervista. Non condivido il disprezzo (che non è critica) di De Angelis nei confronti del Gruppo 63 (non si trattò solo di «passatempi sperimentali») né la genericità nell’indicare le posizioni politiche a lui avverse. A Milano poi, in quegli anni, non c’erano solo Lotta Continua e Servire il popolo. C’era Avanguardia operaia, in cui ho militato fino al 1976. C’erano quelli del Movimento studentesco della Statale, de «il manifesto», del «Gruppo Gramsci», ecc. E i militanti di allora non furono gli invasati demoni dostoevskiani che egli oggi presenta come «infami». Anzi in quel contesto di aperto conflitto («”Cercate di capire/ questa sera ci ammazzano /cercate di /capire!”») infami potevano diventare o essere *anche* i difensori della poesia come «dovere politico» e «dovere assoluto».
Se si desiderasse davvero approfondire quel contesto sociale e politico di allora andrebbe detto che vi si scontrarono anche due modi d’intendere la poesia. E ancora oggi non sento di dar torto a quanti, pur amando la poesia (e senza affatto pensare che la rivoluzione fosse alle porte), erano insoddisfatti di una *certa poesia* e tentarono, proprio impegnandosi in politica, di cercare altrove cosa mancasse. (Per alludere meglio a quanto qui dico in fretta, rimando ad un vecchio film di Andrej Tarkovskij, « Andrej Rublëv»).
Che poi non ci siano o non ci siamo riusciti o che, attorno a quello scontro – per nulla comunque riducibile, come sostiene De Angelis, a conflitto tra politica degli «infami» e eroici e puri *difensori della Poesia* -, crebbe anche tanta erbaccia (millenarismi, vuoti ottimismi, discorsi dal «tono edificante e sicuro di sé», rozzi rifiuti fino alle pseudo teorizzazioni del «suicidio degli intellettuali») è altra cosa. E va detto che quei fenomeni di ribellismo o sovversivismo cieco andavano capiti meglio, anche perché moltissimi partecipanti a quelle lotte erano appena degli “acculturati di massa” – figli di operai, di immigrati, di piccolissima borghesia – spesso appena usciti dagli oratori o evasi da deprimenti condomini dell’hinterland.
Ma a De Angelis ricorderei altre due cose:
– proprio lui ebbe l’occasione e la fortuna di intrattenere rapporti diretti con Franco Fortini, cioè con uno dei pochissimi a Milano che quegli estremismi li seppe criticare con intelligenza e dottrina ma senza snobismo, riconoscendovi verità balbettate «con le parole dell’errore»;
– in quel 1997, in cui nascevano «Niebo» e «Prima Linea», uscivano di Fortini «Questioni di frontiera» e, su «il manifesto», i suoi numerosi articoli. Quel libro e quei pezzi sul «giornale comunista» parlavano di politica, di storia, ma anche di poesia e delle questioni, care a De Angelis, della «solitudine di ognuno di noi, le sue più antiche e segrete passioni, quelle in cui ciascuno ha creduto da sempre e ha sperato con tutto se stesso che rimanessero vive e originali».
Non so se egli lesse e meditò quei pensieri. Ma è certo che erano diretti anche a chi, sempre come lui afferma, aveva «sete di verità durature e di sparizioni ignote ai notiziari del telegiornale». E però proponevano una via ben più ardua di quella suggerita dai cultori della «parola innamorata» o dai poeti dell’Assoluto, insegnando appunto che «uno dei segni di grandezza di un’opera di poesia e d’arte consiste nella sua capacità di scartare con un gesto gli “amici della poesia”, di puntare ai suoi “nemici” ossia di accettare di mostrarsi nella propria dimensione non-letteraria e non-poetica» ( F. Fortini, Questioni di Frontiera, p. 147, Einaudi, Torino 1977).
Oggi però, giugno 2015, poco importa rammaricarsi per la ribadita estraneità di De Angelis al «fervore marxista» di Fortini. (Anche se non so come la concilia con la sua medesima affermazione che col marxismo «in quegli anni era inevitabile confrontarsi, rappresentando una vasta porzione dell’intelligenza contemporanea»). E importa pure poco che egli giudichi Fortini «un ottimo insegnante (soprattutto sul piano orale)» e non un maestro. (Tanto maestro di un De Angelis, che da un certo orecchio (politico) proprio non ci sentiva e non ci sente, Fortini proprio *non poteva esserlo*).
È invece lecito chiedergli se, seguendo la sua strada e i suoi maestri, abbia davvero trovato il “qualcosa” che valeva «infinitamente di più di una rivoluzione di classe, qualcosa di ben più violento, decisivo, totale e mortale», che noi cercammo “buttandoci a fare politica”. E anche fargli notare quanto sia sgradevole e ingeneroso che egli – obliquamente – metta in dubbio la «grandezza d’animo» di Fortini e insinui l’esistenza in lui di una meschina volontà di «competizione con i suoi alunni». (E, infine, perché ricordare che «una volta ad Amelia [Fortini] fece chiamare i carabinieri dalla moglie» – il che procurò a De Angelis «una notte in guardina» – senza chiarire per quali motivi ciò accadde?)
“in quel 1997, in cui nascevano «Niebo» e «Prima Linea», uscivano di Fortini «Questioni di frontiera» e” > in quel 1977….
La città di Milo De Angelis è una città di rovine scolastiche, ma ancora parlanti, con un linguaggio più rarefatto ma proprio per questo più ineludibile (l’ampiezza delle ombre che è sempre maggiore e più pervasiva dell’oggetto che le produce). E’ una città di atleti-samurai e del loro eroismo quotidiano, un paesaggio lunare ma fertile, abitato, un parco della preistoria in cui sono confitti i rituali memorabili dell’adolescenza. Uno tra questi, assieme alla scuola, è la pratica sportiva, elemento costante della poesia di De Angelis, che egli avvicina con un taglio realistico, di resoconto cronachistico, per accedere meglio però a un suo uso metaforico. Nella poesia di De Angelis lo sport – soprattutto l’atletica e il calcio, ambiti privilegiati – è un’esperienza nella quale, alla rievocazione dell’evento agonistico circoscritto e fulmineo, apparentemente persino illogico o banale, si annoda l’allegoria del cimento come presenza esistenziale e resistenziale, l’esperienza tangibile del nostro passaggio quando esso ci sembrava contatto eterno e immutabile, punto fermo del nostro esserci, nostro vessillo irrevocabile. Sullo sfondo di questo scenario poetico possiamo ascoltare gli echi di un periodo di ambizioni e perseguimento dell’assoluto, di appartenenza, in cui l’utopismo storico degli anni Settanta, più sfumato, e quello universale della giovinezza si intrecciano rafforzandosi reciprocamente nelle rispettive aperture e prospettive. Milo De Angelis condensa nei suoi versi, appunto, questa congiuntura storico-anagrafica, questa concomitanza tra la forza dell’idea e quella della giovinezza, convergenza che egli ha attraversato in pieno e che pervade l’altezza della sua lirica costituendone anche la chiave.
Volevo inviare un saluto e un affettuoso segno di stima e di ricordo sempre in me vivissimo e presente al poeta Milo De Angelis, nonché all’ormai son tanti anni defunta consorte Giovanna Sicari di cui ho uno splendido ricordo anche di talune poesie che di lei conservo nel mio archivio personale. Attualmente sono attivo come pianista e tastierista in collaborazione con poeti e con attori di teatro di Roma e lavoro anche come bibliotecario. Ho un vivo ricordo del periodo in cui preparavo la tesi di laurea in Estetica che ho dedicato al poeta e ad altri due importanti artisti del Postmoderno italiano a me molto cari e a cui ho dedicato ancora un’ulteriore trattazione, purtroppo rimasta ancora inedita. Sono il dott. e maestro Gianfranco Biancofiore di Roma e ringrazio dell’opportunità offertami di questo commento alla suddetta intervista a Milo De Angelis e mi farebbe piacere risentirlo anche solo per sentire come sta e se dovesse capitare a Roma. Grazie ancora.