di Andrea Bajani
[Questo articolo è uscito su «Alias»]
In barba a ogni retorica della novità a tutti i costi, Il posto di Annie Ernaux è stato a suo modo uno dei casi letterari dell’anno scorso. Il romanzo era uscito in Francia nel 1983, si era trasformato in un libro di culto, e grazie all’Orma editrice è arrivato in Italia a trent’anni di distanza. Ma la letteratura, quando è letteratura, semplicemente succede. E l’eco della detonazione di quel racconto limpido e struggente di un’ascesa di classe è viva ancora oggi in chi l’ha letto. Quella storia era la storia di quella particolare forma di congedo che è il lutto: la morte del padre, il commiato da lui e di conseguenza da quel pezzo di mondo che morendo il padre si era portato con sé. La provincia, la Senna Marittima, la bassa Normandia. Il posto metteva in scena una sorta di inevitabile crudeltà dell’esser felici da figli nonostante i genitori. Ovvero: una madre e un padre che desiderano per la figlia l’emancipazione dal mondo dentro cui l’hanno cresciuta, e poi quell’emancipazione che arriva come un tradimento, con tutto lo strazio di genitori e figli che stanno dai due lati delle stesse parole, perché non le combinano più nello stesso linguaggio.
In meno di centoventi pagine Il posto metteva insieme una vittoria e una sconfitta, come organi diversi di uno stesso corpo. La vittoria di una donna che ce la fa a sganciarsi dalla provincia e di due genitori che hanno fatto di tutto perché ci riuscisse, e poi il fallimento di tutti e tre: la tristezza di un dialogo mancato e l’accettazione di una specie di abiura. Gli anni, che l’Orma pubblica ora nella traduzione accurata, come già per Il posto, di Lorenzo Flabbi, è in parte il complemento, venticinque anni dopo (il romanzo è uscito in Francia nel 2008), di quella storia dolorosa e dolcissima. Pur essendo assai più lungo e esplicitamente ambizioso, Gli anni rappresenta in qualche modo l’archivio aggiornato agli anni Duemila dei materiali che hanno generato Il posto. È un catalogo, tra privato e pubblico, di ciò che è successo tra il 1941 e i cosiddetti anni Zero. In Francia, nella vita dell’autrice, nel mondo. La guerra, l’inverno glaciale del ‘42, la Liberazione, il silenzio steso su Auschwitz, la ricostruzione, la scuola come alternativa alla distruzione, la ripresa, la scoperta del sesso, il benessere, la comparsa di una nuova società (“La società adesso aveva un nome, si chiamava Società dei consumi”), la ribalta degli oggetti e il desiderio di possederli prima ancora che di usarli. E ancora: l’Algeria, il Vietnam, il 68 (“Il primo anno del mondo”) la sinistra, il recupero del ‘noi’, il femminismo, l’aborto, la contraccezione, i genitori sempre più sbiaditi nelle foto di famiglia, la loro ottusa comprensione e l’incomprensione conseguente. Quindi: l’Aids, gli anni Ottanta, l’89 (“Il nuovo veniva dall’Est. Non si finiva più d’estasiarsi di quelle parole magiche, perestrojka e glasnost”). E poi: da figli diventare madri e padri di figli sempre più cresciuti, accompagnarli, pensarsi a loro vicini e poi di colpo cominciare a non capirli. Infine: sentirsi non capiti dai figli, capire troppo tardi i genitori lasciati a sbiadire nelle foto. Poi gli oggetti: la loro invasione, la messa in scacco di un’intera epoca con una lavatrice, le persone zittite con un televisore, il mondo tappato dagli auricolari di un walkman (“Con il walkman la musica penetrava per la prima volta il corpo, ci si poteva vivere dentro, murati dal mondo”), l’invasiva incosistenza digitale, il telefonino (“Di tutte le novità il telefono cellulare era la più miracolosa, la più sconcertante”).
Il tutto in paragrafi brevi, con la stessa densa e suadente scrittura piana che abbiamo conosciuto ne Il posto, ma con un’assertività maggiore, una frammentarietà programmatica: un po’ appunti, un po’ la necessità di non fermarsi, non indugiare, percorrere tutta la linea del tempo. A distanza di tanto tempo, Gli anni rappresenta il giustificativo, più che la giustificazione, di quell’abiura descritta ne Il posto. Ancora di più: è il faldone, in forma di catalogo, di un fallimento. Un tempo, un’epoca, è fallita, e di quell’epoca fallita l’autrice sente di dover dare conto prima di tutto a se stessa. Annie Ernaux applica la procedura di un curatore fallimentare. Mette i lucchetti alle porte, sigilla gli ingressi: nulla di quello che è successo, nulla di quello che è contenuto dentro quel tempo, verrà toccato. Nulla deve essere manomesso. Ernaux è una scrittrice di primo valore: sa che ciò non è possibile, che la memoria manomette, che il sentimento ha un passepartout per aprire tutti i lucchetti del mondo.
C’è qualcosa di straziante, dunque, in questo tentativo di Annie Ernaux di mettere i sigilli al Tempo perché qualcuno lo possa maneggiare, perché si possa “salvare qualcosa del tempo in cui non saremo mai più”. Perché se sarà stato un fallimento, agli occhi dei figli, così come è stato un fallimento per lei il tempo dei suoi genitori, che si possa almeno consultare l’inventario. Ne Gli anni, Ernaux fa quello che farebbe appunto un curatore fallimentare: per quasi trecento pagine si barrica dentro quel Tempo sigillato e passa in rassegna tutti gli anni che ha vissuto. È un lavoro immenso e per certi versi monotono: passa in rassegna il tempo, solleva oggetti, li cataloga e li archivia. Poi altri oggetti, e sguardi e poi minuti, secondi, ore, sentimenti, illusioni, slanci, false partenze, derive, lutti. Gli anni è un torrenziale inventario del tempo scaduto, di un tempo fallito che non si può che mettere via in buste per riuscire forse un giorno ad usarlo. Nel produrre un inventario, Annie Ernaux dà una grande lezione di poetica: sa che non si può inventare senza inventariare, che non c’è storia che non passi per questo nominare le cose che ci sono. Soltanto partendo da lì – da quell’elenco stilato con la postura procedurale di una perizia – si può provare a raccontare, a inventare una storia che di quei referti sia una delle tante possibili combinazioni. Non la più verosimile, e nemmeno necessariamente la migliore. Ma una storia, che tolga i sigilli al Tempo e ne proponga un altro che abbia un senso. Quell’inventario e quella storia, sembra dire la Ernaux, sono ciò che bisogna passare ai figli perché sappiamo con che materia i genitori hanno tentato di fabbricare loro un mondo, e che bisogna leggere ai genitori silenziosamente, fuori tempo massimo, per dir loro che ci si è provato. Gli anni è così l’inventario a posteriori di quello che c’era dietro Il posto. Tante cose, tante giustificazioni per provare a dare forma a una dolore e a una felicità. Il dolore di sapere che “tutte le immagini scompariranno” (questo l’incipit del libro) e qualcosa di simile alla felicità di sapere che se anche scompariranno, le parole ne figlieranno delle altre nella testa di chi legge. Così fallisce la memoria, d’altra parte: con i sigilli e gli inventari. Così vive la letteratura, con le storie che vengono, le sorprese, i rimpianti, e i conti che non tornano anche se gli archivi sono in ordine perfetto.
[Immagine: Annie Ernaux (gm)].
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