cropped-ml_helmut-newton_02_1100.jpgdi Emanuele Canzaniello

[Da qualche tempo Emanuele Canzaniello lavora al progetto di un libro formato esclusivamente da recensioni di film immaginari. Presentiamo una sequenza dal piano dell’opera e una scelta di tre prose brevi].

Questo libro propone una delle variazioni possibili del tema «lezioni d’inesistenza» ancora da esplorare. Tentativi del genere, nel secolo che perdura ancora dal 1896, l’anno di Marcel Schwob, sono una parte non marginale di quello che oggi ci concediamo di non definire più postmoderno. Uno dei punti certi in questa mappa di una letteratura nutrita di se stessa e di una sottrazione matematica e progressiva di referenti reali, è J.L. Borges. La sua Storia universale dell’infamia non ricostruisce biografie minime di personaggi quasi del tutto ignoti, come fanno invece le Vite immaginarie di Schwob, ma altera e deforma deliberatamente biografie esemplari, ridotte alla stemmatica di alcune geometrie del caso. Da lì alle Interviste impossibili di Giorgio Manganelli (1975) la tentazione sarà stata breve. Ancora meno divaricato e ampio lo scarto tra le interviste e i suoi Salons (1986), sorta di paragrafi di critica d’arte (o lirica o lirocritica) immaginaria o quanto meno liberata dal dovere di un’osservazione ravvicinata del proprio catalogo di referenti oggettuali.

Lontano da ogni pretesa di accostamento, il mio tentativo forse somma in sé alcuni tratti e metraggi degli esempi citati e di molti altri dimenticati, come i precedenti perduti di alcune recensioni immaginarie forse apparse su Positif negli anni ’60. In breve: prose di una o due pagine che ripropongono alcune movenze della recensione giornalistica cinematografica, ma intorno a un nucleo appena disegnato di film mai stati, mai realizzati, ma che forse avrebbero potuto vedere la luce, e rigare il nitrato. I criteri all’interno della finzione: il film in sé deve essere opera di fantasia, ma alcuni titoli, alcuni personaggi possono essere reali. La formula prevede anche l’utilizzo di attori reali e celebri, noti registi, noti fotografi, cui si attribuisce di aver girato quel film, interpretato quel ruolo.

(…)

L’idea del suicidio, presente nella prima idea di titolo, si è lasciata dedurre dalla quantità di trame e di finali che rovinano in disfatte. Accanto a quest’aspetto non mancano lo smorzato e il beffardo dell’esecuzione, una rapidità d’azione che viene fuori da una barocca ipertrofia di volumi. L’insieme dei testi va sentito anche come una lontanissima eco del racconto breve, deve restituire in un paragrafo di due pagine il gusto per una miniaturizzazione del narrare. Prototipo del libro palmare.

Molte delle trappole narrative allestite rappresentano un’attitudine alla morte volontaria, a un certo abbandono alla disgregazione. Quest’inclinazione della meccanica narrativa può essere sfruttata per dare unità a una materia fatta sì di singoli pezzi, ma che deve saldamente formalizzarsi in un libro compatto, dal fuoco prospettico riconoscibile e pulito. La nota ultima e più prolungata del testo vorrei che suggerisse al lettore l’idea che tutta l’arte offra il suo appagamento più sottile e costante proprio in virtù di quel suo concedersi in forme estatiche; la percezione che nella vita non si possa fare altro che perdere tutto, in ogni istante. Che il fatto estetico sia rigore e regesto di abbandono, di rovina dell’organico.

Nude With Air Mattress (1984) Helmut Newton

Chi di voi non avrebbe voluto guastare con il dono cinetico l’immobilità delle foto impagabili di Helmut Newton forse aveva ragione. La scoperta recentissima di questo film mai compiuto del più famoso fotografo di moda potrebbe quasi irritare quanti hanno amato lo smalto irrestituibile delle sue composizioni statiche, i suoi istanti scenici, le sue parate di nudi in divisa.

Eppure chi non poteva non desiderare che il fantasma si animasse, che la bellezza minerale trascolorasse tra i movimenti di camera, libera da otturatori e ombre di posa. Guardare i documentari sui lavori preparatori e sulle sessioni di lavoro dei vari set di Newton poteva suggerirci cosa sarebbe stato un film di questo genio felice.

Armata o scuola di balletto, il suo era un esercizio estremo di messa in ordine dei corpi, coreografo di drammi della postura; dalle cavalcature da camera di Saddle III (andate a guardare le foto) alle stanze contigue dell’Hotel room, Place de la République, le sue foto aspettavano un racconto. Il racconto di cosa succede qualche istante dopo quello che abbiamo visto in Chateau d’Aunoy I, dove una donna incede nuda a mantello spiegato su un prato, in un vecchio giardino, di corsa, presto, scappando e portando con sé una bambina nuda, e bendata. Per chi sta affacciata alla finestra Winnie a Nizza? Cosa è successo a Brescia, villa Ferrari, dalle 11 alle 12.30, sul bianco scalone dell’estate ’81? L’azzurro rinascimentale e acrilico delle piscine e dei cieli a Saint-Tropez nel ’76 per il Calendario Pentax non contenevano già dei set pronti, turgidi e torniti di sole? E la sua Eve del ’93 a Montecarlo, con un tavolino di vetro in trasparenza, raggiante su un bacino pelvico seduto in posa, rilassata e adagiata, ancora svestita ma già pronta a un’evoluzione marziale, con indosso l’elmo a punta prussiano, quali dichiarazioni di guerra o film in costume prometteva? E quella signora dalla pelliccia aperta sulla nudità messa spalle contro un albero, abbondante e matura come le statue della decadenza, cosa aspetta a raccontare tutto all’autista che la segue ancora per Max Schmid dal ’95, in un bosco fuori Berlino? Infine non potrei non dirvi la mia preferenza per la storia di quella donna appoggiata al frigo, in una comune cucina americana quasi vuota, con un cestino in vista e la faccia di Newton spiegazzata su un giornale messo lì nella spazzatura, ai piedi di lei. Signori, che ironia.

Ma dobbiamo rassegnarci ormai, il film è stato montato e non soltanto come un insieme in movimento di quelle atmosfere. Girato nel ’92, la sua incompleta fortuna dura fino al 2012, quando viene presentato a Parigi in occasione della prima retrospettiva al Grand Palais. Eseguito, provato per sei mesi negli anni novanta e mai terminato, il film vede la luce oggi dopo una gestazione postuma durata dieci anni, strappandolo con il forcipe agli archivi gestiti da madame June.

Tuttavia la storia c’è anche sullo schermo e si vede. E non sarà del tutto sbagliato accostare per un attimo questo film alla liquida patina transgender e transpsichica di Mulholland drive (2001) di Lynch.

La storia è trasparente, quasi quanto supponente. È la storia di Pasifae nel sud della Francia, tutta vibrata nel rumore di finimenti e scuderie, nella lucentezza del cuoio da monta e da stivali. Un castello dai giardini in simmetria assiale, un set di marmo vegetale. Una donna (Nadja Auermann) di nobiltà italiana antichissima sposa di un francese, proprietario delle terre. Divisa, lei e la scena, tra le fughe allo Chateau de Gairault a Nizza e le piscine d’hotel a Montecarlo, tanto quanto l’intero décor lo è tra le atmosfere di buon taglio anni ’60 nel primo caso, e i colori abbronzati di luce così anni ’80 nel secondo. Questa Pasifae asseconda al piacere sessuale non i tori minoici ma un’escalation divertita e affine, assoggetta al chiaroscuro fotografico degno di Jacques Tourner e dei suoi baci di pantera, un amplesso con una Cadillac nera, o con un finto aggressore saltato sul balcone da riviera, da Caccia al ladro equivoca. La Auermann è Giulia, una splendida ereditiera-top model, e di fatto interpreta se stessa, quanto la pellicola in movimento scorre nel letto dell’imitazione fotogenica. Eppure niente slabbra in questo labirinto mondano e in quest’anatomia della carne, feste e silenzi proustiani nella società presieduta dal marito allo chateau e fughe nei giardini circostanti per lei, attratta dalla monta irresistibile dei cavalli, del manto equino. Newton sa rivelarci segretamente persino il sospetto che di quella monta il movimento sia piegato ad altri fini, si perda in un’autopalpazione dell’ineffabile lucentezza dei muscoli sotto pelle, delle vene in rilievo imperlate di sudore, dello smalto cangiante di quell’animale che contiene in sé i grandi marmi, i gruppi scultorei dei grandi ponti romani. Indimenticabile il tableau vivant che riproduce il celebre dipinto di Antoine Wiertz, La belle Rosine. L’incarnato, questa volta di Barbara Edwards, posa davanti a un cadavere annerito, di esumazione recente, una cosa, così simile alle cose accatastate nei campi di sterminio. Un colpo agghiacciante nel centro nervoso del film.

Patmos (2014) – Emmanuel Carrère

Un’ascesi mondana, e un’ascesa a Patmos, al monastero di San Giovanni Teologo. Una sequenza iniziale sul mare intorno all’isola, in traghetto, prima di arrivarvi. Celebrità monastiche, cocktail di anziane dame policrome che hanno conosciuto i ricordi di Dalmazio, dell’Impero mentre moriva. I signori possono accomodarsi, le mura sono bianche, la vista è splendida. Di questo film si è ospiti naturali. Stabilisce per noi parentele e filigrane di Albertine, fa di noi una fuga ed è lui stesso a fuggire da noi. A pochi fotogrammi di distanza, una festa, luci sul mare, qualcuno lascia suonare La Pianista, una signora impeccabile e guantata che entra in un peep-show e raccoglie e annusa un fazzoletto inseminato.

Girato come un documentario, Patmos, di Emmanuel Carrère è un movimento centrifugo di elementi biografici manipolati con grande abilità. Proprietario di una casa sull’isola, lo scrittore francese dirige la propria architetturale visione del promontorio e della vita eremitica. Vara un documentario di finzione, dove lui stesso più che recitare è in scena, abita il film, perché lui abita lì, in quella casa così simile all’omaggio di pietra che arrossa la punta del Massullo, la villa caprese di Malaparte. Ed è intorno alla sua casa greca e dentro le ville povere abitate dal mondo in un preciso momento di agosto, che scopriamo Dio. Nato dai materiali accumulati per un documentario sul monastero dell’isola, sull’ortodossia di croci e d’oro dell’estremo Egeo, il film conserva innumerevoli tracce di mosaico, tessere magnifiche, di quell’intento iniziale. Conosce i luoghi di preghiera e li percorre, ma è indifferente al gusto apocalittico che vende bene l’isola. Una severità piena di sole ne intaglia la fotografia. Per quella via in lamina d’oro si veste e celebra nel film una storia eccentrica, un elemento che altera il profilo del documentario spoglio. Ma del documentario conserva il mondo e in quelle pieghe si diverte a modellare abiti di taglio perfetto. Il coniugio è presto celebrato tra le feste liturgiche e la mondanità sacra, ma non è invadente, non è manifesto, è piuttosto casto. Ci si accorge appena che dall’ora del lavoro in monastero, si scenda la sera in giardini che ospitano il turismo celebre. Una conduttrice della televisione italiana o il re di Grecia, legittimo per sola discendenza, in legami di parentela con l’ultimo Luigi decapitato di Francia. Un lontano parente di cui parlare con affettuosa apprensione. Michel de Grece recitato par lui même, sodomizza il pubblico con la sua scatologia universale. Narra di come il mondo sia diviso e divisibile in tre ordini distinti, e di Patmos ne fa il modello miniato. Al vertice dei pudori e di tutti gli onori vivono les gens, incastonate nella grazia delle dimore di Chora, sotto le mura monastiche. Essi sono re e ricordi dei re, alcuni sono indicati invece come discendenze di lontane divinità, familiari al turchese delle mura di Babilonia. Poi vengono gli inglesi, subito dopo dio. Patrimoni non intaccati dalla perdita della schiavitù, i cui figli vivono di spiagge, chiari come la sabbia. Subito dopo gl’inglesi viene il pop, le celebrità inattuali, vecchie copertine, artisti e galleristi. Non digradanti ecco poi le mansioni del sesso d’alto lignaggio, la prostituzione museale e monumentale di gens raccolta lì da tutto il mondo. Riciclaggio e redenzione, liquidi indiscutibili e sempre accolti della finanza giovane. Su tutti il vero privilegio è la genealogia. Il secondo ordine è già gleba, costituito com’è da nongens, da chi sostiene tutte le attività del creato. Michel de Grece dice di averla vista all’opera in un libro d’ore di stupenda fattura. Come tra la nobiltà e il popolo vi è il nulla, così il n’y a rien tra questi primi due ordini estivi, e in questo nulla solo il turista sopravvive, senza nascita, senza nome. La cosa più preoccupante, avverte il principe, è che tra i turisti ci sia chi aspiri a far parte della gens, una devianza che meriterebbe il carcere.

Al centro di questa come di tutte le conversazioni c’è Carrère, si parla con lui, e attraverso lui godiamo di una catabasi mondana, divertente, altera, perfettamente falsa, impassibilmente vera. Tra gli invitati, senza distrarci troppo, un giovane uomo dichiara di essere un rifugiato politico, di aver ucciso Berlusconi; non ha nemmeno trent’anni. Parla di un colpo di pistola, di azalee. Poi ci sono le bellezze, i più giovani sono ungheresi, armeni, così perfetti da sembrare appartenere a razze estinte, a ordini di templi mai riportati alla luce. Si prostituiscono, probabilmente. La tonalità dei gesti, il ballo quasi immobile e l’accoglienza dimostrata alle parole di alcuni anziani, e in alcuni casi, la posizione inginocchiata o semidistesa si fanno notare in mezzo agli alberi. Pisanello, una sant’Anastasia, qualcuno sta per partire, castelli traforati su in alto.

E in alto la vita dei monaci scuri, il sandalo e la preghiera. Non stupitevi di questa difficile amalgama, il film non soffre schizofrenie, anzi gode di questa studiata divaricazione e si dimostra molto prensile in entrambe le ricostruzioni, archeologica l’una quanto l’altra. Carrère prega con loro e si fa tramite dei due set, presiede alle duplici cerimonie, confonde i suoi ospiti e non impressiona gli eremiti, che lo lasciano stare tra loro come si fa con le mosche. E lui ricambia, per lo più non inventando storie; finge di ricordare quello che gli è stato riferito, di mettere insieme dei fatti sparsi, di circostanziarli in una forma che ha il gusto della conversazione, opposta e affine al silenzio suggerito dalla regola. Ma quello che conta è altro, il vero centro di tutto è il cuore di un uomo solo, il cuore dell’igumeno. Non uno sconvolgimento ma costantemente una meditazione, una meditazione su qualcosa d’invisibile al cinema. Una casistica minuta e una vasta teologia dell’amore; il profilo di un uomo invecchiato ma imponente, dalla barba in cui nidificano le Scritture, dalle labbra di vino. Il monaco igumeno dell’isola monastica ama e ama una donna, risorsa e ispirazione carnale. Non conosciamo il monaco, né ci viene presentato bene da Carrère, ma conosciamo lentamente il suo tormento. Non importa che egli ami, non è la tentazione il suo cardine, non il discrimine della carne e dei corpi, il tremore del film è la febbre ferma dell’amore che non può riaversi, non può riavere se stesso e non può cibarsi d’altro. L’abate ortodosso sa che nemmeno in confessione potrà rivelare ad altri il suo segreto. Sa che cedervi al pensiero è già colpa, eppure l’incessante grazia del film vuole altro, allude ad altro. In immagini e gradienti di silenzio è in questa natura di confessione impossibile dell’amore che è ospitato il materiale ottico ispezionato, allocato in quello scarto come nella vera cava dell’Apocalisse. Un incesto dell’animo con se stesso. Il monaco può accettare di amare, ma fuori di sé non può rendere nulla di quest’amore, può aspettare che passi. Restituire quest’attesa in pochi gesti, pochi volumi di corpi nello spazio, restituire la pace che può esserci sulla pelle segnata di una mano, sondare la preghiera come esorcismo contro l’amore, vedere quella condizione di sudore, questo conta nella singolarità dello sforzo filmato.

Conta meno che l’igumeno venga ritrovato morto tra le mura della sua cella, morto appena prima o appena dopo aver ricevuto la sua donna in confessione. Lascerò che seguiate da voi il finale, dopo la visione, a voi la scelta tra le due ipotesi che resteranno ancora in piedi: il suicidio prima che avvenisse la confessione o l’omicidio successivo.

Così fan tutte (1977) – Alberto Arbasino

Un lungo equinozio della gelosia, un imbarazzante trattato delle passioni, nitido nella sua geometria non dimostrata, tutto a esclusivo vantaggio della notte. Cercherò di essere chiaro: questa è una commedia atroce, non si può credere alla lettera dello scherzo. Arbasino al suo esordio alla regia nel ’77 eseguiva impeccabilmente questa cerimonia reiterabile.

Un certo interesse basico per l’archeologia erotica e fossile dei propri amanti è solo una condizione preliminare per godere del soufflé monogamico tirato su nel nostro peplum da camera. Una spiccata propensione a soffrire per il tradimento, attenendosi però alla sua codifica nel canone operistico occidentale, è gradita.

Siamo dalle parti del Girotondo di Schnitzler ma esclusivamente in sogno. Luci blu e qualche divano per un allestimento mozartiano ad opera di un Super-io erotomane, scenografo dell’effimero.

Potrebbe essere pornografia, è vero, se tutto non assomigliasse così squisitamente a una commedia americana anni cinquanta. Alberto ama sua moglie, Monica (Charlotte Rampling) lo ama, la loro elocutio amorosa non è inferiore all’inventio a letto. Tuttavia nella loro relazione l’ipertrofia dell’elocutio che discute e conversa inizia a sostituirsi alle pratiche del corpo. La prima sfida alla cine(ma)tica dei corpi è dettata da un’esigenza di costruire teatro da camera a partire dalla bellezza dei loro dialoghi. Scarnificano la loro relazione eseguendo meravigliose arie d’opera. La loro sincerità di coppia è totale, giurata e condivisa e molto poco cortese, irrimediabilmente post ’68. Non praticano masturbazione se non condivisa, tra loro tutto è detto. Le pratiche erotiche immaginate e vissute in sogno sono discusse con libertà, ma questa condivisione inizia a turbare qualcosa. La gelosia è invitata e corteggiata di frequente da entrambi, e da entrambi desiderata. La fedeltà tra loro resta assoluta. Gli scambi di coppia onirici sempre più frequenti, sempre più minacciosi. Le avventure di lei escludono quasi sempre il coinvolgimento di uomini; lei in sogno dispone solo di oggetti e altre donne. Alte ed eleganti scrivanie suggeriscono le posture di alcune magnifiche scene che scambiamo per realtà. I sogni di Alberto sono prima molto sporadici, poco rilevanti, poi s’infittiscono s’inalberano, si dispiegano. Inizia un dramma di coriandoli. La gelosia della Rampling acuisce la pericolosità dei sogni di lui, e più ne chiede e più ne ha, i tradimenti continui l’affascinano ogni mattina al risveglio, a colazione insieme. L’angoscia paradossale di sognare donne che non siano Monica, che non siano lei, la sola legittimata dall’Io, irretisce Alberto che non riesce più a sognare altro che donne, e sempre diverse.

Ma non riescono nemmeno a smettere di raccontare: una lunga notte di Sherazade in un appartamento sul lago di Como. Nessun’alterazione tra loro, nessun’incrinatura, una grazia impeccabile. Si vestono bene, si amano, villeggiano dai vicini. Lui inizia a fare uso di sonniferi e morfina per rendere il sonno più profondo, più pesante, privo di sogni. Non serve, dorme poche ore e piene d’incesto: con suo padre, con la madre di Monica. Le confessioni iniziano a diventare parziali, le omissioni alimentano solo una nevrotica esigenza di dirsi tutto, sempre; i rimorsi per i dettagli tralasciati bruciano. Inspiegabilmente si consumano, ma sempre giovani, sempre divertenti. Rivivono la scena d’apertura de La dolce vita: di notte, per non dormire, fanno lunghe passeggiate in auto con vista sul lago. Nella campagna nei pressi di Milano caricano una giovane con loro, parlano, si fanno invitare a casa di lei in città; passano la notte chiusi in una camera, sul letto della prostituta.

Inventano strani giochi da tè nei pomeriggi a villa d’Este, sfogliano foto di viaggio o di quadri e a partire da lì si raccontano le loro fantasie, descrivono i dettagli più precisi delle composizioni d’orgia che si potrebbero realizzare coinvolgendo i soggetti e gli ambienti di ogni singola immagine, montati e integrati poi con quelli di altre foto e altri ambienti. Invitano una coppia di amici per allargare il gioco. Uno splendore di precisione carnale e ipervisibile, fino a due anni prima sconosciuto anche a Salò di Pasolini, e qui tutto affidato alla parola, scherzosa, insostenibile.

Monica confessa sempre più distesamente di venire ogni mattina, di produrre fantasie innocue non genitali. Alberto non dorme più. Pochissimi film a mia memoria riescono a produrre un’atmosfera di tensione più convincente a partire da una motivazione così inconsistente, che si fa perdonare per la capacità di diluirsi in una risata brillante, in un elogio non troppo nascosto della grande civiltà della conversazione. Forse solo Buñuel riesce alla stessa maniera nell’affresco della civiltà à la table. Eppure, se la forma corrisponde a un elogio classico di quella civiltà, l’agitazione interna che si respira è quella di una camera ardente, di un funerale per la scomparsa di quel mondo. E in fondo direi che si tratta di un funerale ilare, di un candidato compiaciuto, voglioso di morire.

Lei lo ha addormentato con una classica dose di barbiturici.

[Immagine: Helmut Newton, Crocodile Eating Ballerina, da the Pina Bausch Ballet Keushleitslegende, Wuppertal, 1983 (gs)].

2 thoughts on “Elogio cinematografico del suicidio o Dizionario dei film inesistenti

  1. Chi sa perché, ma queste recensioni finte ricordano molto quelle vere di Arbasino (me ne viene in mente una, particolarmente agghiacciante, dell’Arabella di Strauss alla Scala nel 1989 o giù di lì; volendo, la si può trovare in internet): elenchi interminabili di titoli e nomi, accostamenti arditi tra piani e cose diversi, prosa fiorita che ha come unico fine l’autocompiacimento dello scrivente, ecc. … Non so se sia un effetto voluto, né se il risultato è positivo. Ciò che manca a questi testi per renderli leggibili è una certa dose d’ironia, che Arbasino impiega sempre, come rimedio alle proprie manchevolezze e perché, in fondo, non crede poi molto all’importanza dell’oggetto recensito. A differenza del caso presente, in cui l’oggetto inesistente è trattato colla massima serietà.

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