cropped-earth-and-moon-from-outer-space-background-1.jpgdi Francesco de Cristofaro

[Questo saggio è stato pubblicato nel fascicolo di febbraio 2015 di “Il Verri”]

1. La prima e l’ultima fotografia del Mondo

Non è osservando la luna, ma osservando dalla luna che Luigi Ghirri delinea – nell’incipit di un libro felice, Kodachrome – la più smagliante pagina di estetica che abbia fatto in tempo a lasciarci:

Nel 1969 viene pubblicata da tutti i giornali la fotografia scattata della navicella spaziale in viaggio per la Luna; questa era la prima fotografia del Mondo. L’immagine rincorsa per secoli dall’uomo si presentava al nostro sguardo contenendo contemporaneamente tutte le immagini precedenti, incomplete, tutti i libri scritti, tutti i segni decifrati e non. Non era soltanto l’immagine del mondo, ma l’immagine che conteneva tutte le immagini del mondo: graffiti, affreschi, dipinti, stampe, scritture, fotografie, libri, films[1].

Sono passati pochi anni dalla prima fortunata esposizione modenese del fotografo; prima di quel­l’epi­fania seguita allo sbarco sulla luna, nella quale i suoi occhi incontrano contemporaneamente la rappresentazione del mondo e tutte le rappresentazioni del mondo in una volta sola, egli ha già ritratto paesaggi, ombre, nuvole; dando vita a un’originalissima poetica che insiste sul confine tra realtà e finzione, attra­verso «un reportage sull’alienazione in cui si mescolano rivalse sociali, kitsch, echi naturalistici in un tra­­gico divertissement»[2]. Ma non smette di parlarci ossessivamente del­l’il­lu­sio­ne, così inconsueta per il suo tempo, di una restituzione integrale dell’immagine del mondo. Un’illusione che viene subito squarciata:

[…] questo sguardo totale, questo ridescrivere tutto, annullava ancora una volta la possibilità di tradurre il geroglifico-totale. Il potere di contenere tutto spariva davanti all’impossibilità di vedere tutto in una volta sola. L’evento e la sua rappresentazione, vedere ed essere contenuti si ripresentava di nuovo all’uomo come non sufficiente per sciogliere gli interrogativi di sempre[3].

L’artista non si arrende, giacché ha dalla sua non soltanto la consapevolezza della labilità del reale, della incrinatura irrimediabile fra le parole e le cose; ma anche i dispositivi della sua peculiare tecnica, quelli che gli consentiranno di operare rispetto alla realtà qualcosa come un’adaequatio ortottica. In questo modo il cosmo o il suo doppio composto di segni opachi – ciò che chiama «geroglifico» – potranno essere decifrati:

Questa possibilità di duplicazione totale lasciava però intravedere la possibilità di decifrazione del geroglifico; avevamo i due poli del dubbio e del mistero secolare, l’immagine dell’atomo e l’immagine del mondo, finalmente una di fronte all’altra. Lo spazio tra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande, era riempito dal­l’infinitamente complesso: l’uomo e la sua vita, la natura. L’esigenza di una informazione o conoscenza nasce dunque tra questi due estremi; oscillando dal microscopio al telescopio, per poter tradurre e interpretare il reale o geroglifico.

Il reale o il geroglifico, ci dice la nitida e numinosa «filosofia dell’arte» di Ghirri: due sistemi che si escludono a vicenda, eppure sono intercambiabili. Il problema si sposta così, quasi impercettibilmente, dal rapporto tra il frammento e la totalità a quello tra gli oggetti e le loro rappresentazioni. Quasi il fantasma della cosa possa presentarsi a tradimento, inquietante e ostinato, al cospetto della cosa: in una fisica della storia che frappone tra l’«infini­ta­men­te piccolo» e l’«infinitamente grande» l’esperienza dell’uomo.

Siamo partiti da una prospettiva capovolta e da ciò che ne consegue: una sorta di lirismo straniante, dimidiato. Ma già due anni prima che l’uomo mettesse piede sulla luna, il nostro pianeta era stato cristallizzato, nella sua creaturale consistenza, da quella visuale eccentrica. Per rispondere all’invito di Dino De Laurentiis di contribuire al film collettivo Le streghe, Pier Paolo Pasolini aveva ripreso un suo vecchio soggetto, abbozzato in fumetti («molto colorati e molto impressionistici»[4]) e mai realizzato: Il buro e la bura. L’e­pi­sodio avrebbe riportato in epigrafe l’enigmatica ammissione che «visto dalla luna, questo film che s’in­ti­to­la appunto La Terra vista dalla Luna non è niente e non è stato fatto da nessuno…»[5]; e avrebbe raccontato, in una forma volutamente sgangherata e, come si usa dire oggi, “neopicaresca”, le avventure di Cian­cicato Miao (Totò) e Baciù (Davoli), padre e figlio che elaborano il lutto per la morte di Crisante­ma e muovono, senza direzione, alla ricerca della donna ideale. Quando credono di averla trovata nella per­sona di Assurdina Caì (la Mangano), Ciancicato ne chiede la sua mano e l’ottiene; così che in breve tempo la stamberga dei due uomini diviene una casa decorosa. A questo punto la fiaba accede alla logica del capitalismo e al­l’in­­cu­bo della storia. Padre e figlio architettano una soluzione per arricchirsi: Assurdina dovrà salire sul Colosseo e lì minaccerà di suicidarsi; il pathos spettacolare della scena sarà il mezzo per racco­gliere quattrini tra gli spettatori commossi. Ma qualcosa va storto: la donna, scivolata su una buccia di banana, precipita davvero nel vuoto. Disperati, i due tornano a casa: dove trovano Assurdina che, anche da morta, è lì e fa esattamente le stesse cose che faceva prima. «È la felicità, è la felicità» – gioiscono gli uomini. Questa trama assurda è suggellata da una didascalia che recita: «Essere morti o essere vivi è la stessa cosa».

Il visionario cortometraggio, di ispirazione dichiaratamente indiana, incorse nella prevedibile critica di professare una morale rinunciataria e nichilistica; ma sembra più persuasiva l’idea di Serafino Murri, secondo cui l’anima profonda della pellicola (che poi la apparenta ad altri episodi pasoliniani, come La ricotta e Che cosa sono le nuvole?) sarebbe «un malcelato invito a non accettare la logica imperante»[6]. Perché noi null’altro risultiamo essere, quando l’occhio di chi guarda sia posto all’altezza di quello stesso astro che pure sogniamo, con superomistica hybris, di ridurre a dimensione antropica: marionette insensate, funzioni di una pantomima che ci sovradetermina e ci irride. Spogliate di orpelli e di maschere, la nostra vita e la nostra morte si equivalgono, e allora tanto vale essere lunatici, «lunari quel tanto che basta per prendere le distanze dai tentacoli mostruosi del nonsenso sociale e dei suoi schematismi da marionette». Se quella di Ghirri era stata la prima istantanea del mondo, questo di Pasolini sembra esserne l’ultimo fotogramma.

2. Nere lune

Il 1967, l’anno de Le streghe, è lo stesso di una strana e celebre polemica di Natale tra Italo Calvino e Anna Maria Ortese. L’«emozione culturale» di cui si dibatte è il nuovo assalto al cielo; l’evento che l’ha suscitata, la missione compiuta nella primavera del 1961 da Gagarin. Già una decina di anni prima, tra il ’58 e il ’59, all’indomani del successo di Lunik III (una stazione interplanetaria sovietica aveva trasmesso le immagini della faccia nascosta della luna), lo scrittore ligure si era confrontato proprio con Pier Paolo Pasolini: da un lato, nelle parole di questi, la critica radicale all’alienazione tecnologico-religiosa, il paventato rischio di «una nuova forma, centuplicata, d’evasione, di pretestualità», l’assimilazione dei razzi ad aspirapolvere[7]; dall’altro, in Calvino, la speranza – formulata con un modo incongruo, basculante tra l’ottativo e l’im­perativo – che il satellite «possa dare all’uomo la dimensione dello spazio […]. Voglio che faccia operare sulla terra. E pensare all’universo. Voglio che dia più spazio ai pensieri umani»[8].

Adesso, però, l’abisso si era spalancato. E lo spazio letterario sembrava intento a serrare le file. Le scienze si erano disumanizzate; il «lassù puro e sublime» era stato sostituito, secondo Blanchot, «da un nuovo assoluto, dallo spazio degli scienziati, che non è altro se una possibilità calcolabile»[9]. Se la Ortese deprecava quella che le pareva una sacrilega violazione dell’ultimo spazio intatto dall’uomo, Calvino riteneva «troppo comodo» lo scutinio consolatorio delle costellazioni, quasi si trattasse d’una tattica di diversione dalle «brutture terrestri». Fino al punto di provocare il lettore, a onta di secoli di lirica contemplazione della luna: perché i cultori di quest’ultima non possono in alcun modo limitare la loro esperienza alla fissazione di «un’immagine convenzionale», ma avvertono la necessità di stringere con essa «un rapporto più stretto», di scorgervi qualcosa di più. Desiderano, anzi, «che la luna dica di più»[10].

Si deve soprattutto a un acutissimo storico delle rivoluzioni scientifiche, Massimo Bucciantini, la recente attenzione verso quello scambio di lettere intitolato a Il rapporto con la luna; scambio non privo di scar­ti e di ripensamenti, se nell’articolo stampato lo scrittore ligure aveva deciso di espungere questo straordinario passaggio, oggi rintracciabile nell’Archivio Calvino:

Anche questo sarebbe fare del cielo un prolungamento della terra e dei suoi mali, e tanto vale allora vederlo lottizzato… da una società immobiliare, o adibito a parcheggio, a supporto per pubblicità luminosa, oppure adoperato come una lavagna per segnare le traiettorie delle future armi totali: almeno così quella fallace immagine consolatoria andrebbe in fumo e la nostra critica al mondo com’è si farebbe più assoluta ed esigente[11].

Può forse intravedersi, in lontananza, il volto della bionda eroina che, ormai dentro la luna, strilla «Pubblicitààààààà» nell’estrema scena dell’estrema opera di Fellini, La voce della luna (che Paolo Fabbri ha ricondotto a una coerente filiera di immagini felliniane, da Le tentazioni del dottor Antonio a Toby Dammit a Ginger e Fred[12]), liberamente tratta dal bellissimo Poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni[13]: in quella scena il mattacchio Ivo, dopo aver percorso in lungo e in largo la Pianura Padana cercando di ascoltare la voce della luna che sale dai pozzi, trasmette l’essenza del pensiero, suo e dell’autore: «Eppure io credo che se ci fosse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire». Ma prima ancora di una così superba e indecidibile sequenza, questa pellicola anti-consumistica e anti-postmoderna ci aveva raccontato, con la cifra stilistica tra l’onirico e il madornale che è tipica del secondo Fellini, la presa della luna a opera dei tre fratelli Micheluzzi, e la diretta televisiva con i megaschermi sistemati nella piazza del paese, e le dichiarazioni vuote delle autorità presenti, come il vescovo che proclama di non dover chiedere nulla all’astro – poiché «tutto è già stato rivelato» – , e lo sfogo anarcoide di Onelio, ultimo pastore errante («Di chi è la colpa? Cosa sono venuto a fare io in questo mondo? Come mai nessuno ci viene a spiegare cosa si vuole da noi? Cosa ci hanno fatto nascere a fare?»), culminato nel suo sparo contro il teleschermo, e lo scioglimento dei lacci che tenevano il satellite prigioniero della terra.

Questo sogno di una luna atterrata, caduta o catturata (sogno simmetrico alle innumerevoli fantasticherie di viaggi selenici, da Luciano a Verne, da Wells a Kubrick), ha radici antiche: se è vero che già la Pharsalia lo immagina nelle forme di maleficio magico, con esiti d’apocalisse[14]. Mentre un autore più prossimo per cronologia e per poetica, Tommaso Landolfi, attribuisce al satellite – ha scritto Antonio Prete – la capacità di effondere «una luce mineralizzata, per così dire, declinata di volta in volta come giada, topazio, alabastro, opale», proclive ad «avvolgere le cose, prive di contorno, in un bagliore di diamante che è come la nebbia», e ad «inzuppare di sé i vestiti, come di ghiaccio»[15]. Insomma, una luna così lucente da esser proprio qui, poggiata sopra la nostra stessa terra, dentro i nostri oggetti, perfino nelle nostre coscienze.

Era stato però l’Ottocento maturo, romantico e simbolista, a far brillare l’incubo: in senso proprio, come nella Dantons Tod di Büchner, dove il prigioniero Camille fantastica di ghermire l’astro precipitato nella sua cella; o in senso metaforico, come nel poemetto in prosa di Baudelaire Desir de peindre, in cui la donna amata viene trasfigurata prima in un sole negro, poi in una luna inquietante, stregonesca, baccante:

Je la comparerais à un soleil noir, si l’on pouvait concevoir un astre noir versant la lumière et le bonheur. Mais elle fait plus volontiers penser à la lune, qui sans doute l’a marquée de sa redoutable influence; non pas la lune blanche des idylles, qui ressemble à une froide mariée, mais la lune sinistre et enivrante, suspendue au fond d’une nuit orageuse et bousculée par les nuées qui couren; non pas la lune paisible et discrète visitant le sommeil des hommes purs, mais la lune arrachée du ciel, vaincue et révoltée, que les Sorcières thessaliennes contraignent durement à danser sur l’herbe terrifiée![16]

Nel film di Fellini i trasparenti omaggi a Leopardi (la presenza d’un suo ritratto nella stanza del protagonista e le riprese testuali, specie dal Canto notturno di un pastore errante dell’Asia e da Alla luna) inducono però a postulare come archetipo un malnoto idillio giovanile del poeta recanatese: il frammento XXXVII, convenzionalmente detto Spavento notturno o Odi, Melisso. Due pastori, Alceta e Melisso, parlano tra loro, con quella che a Fubini parve una «compiaciuta semplicità e apparente popolarità e ingenuità del discorso»: Alceta racconta di una terribile visione, in cui ha visto la luna cadere nel suo orto e spegnersi a poco a poco, lasciando intorno «come un barlume, o un’orma, anzi una nicchia»[17]; Melisso gli replica con sottile ironia («E ben hai che temer, che agevol cosa / fora cader la luna in sul tuo campo»), perché in effetti egli ritiene, proprio come il poeta, che quella luna sia il segno di una capacità di meravigliarsi e di fantasticare che soltanto la poesia ingenua, nel suo puro incanto, può garantire. Le voci dei pozzi e degli astri, che l’Alceta di Leopardi e l’Ivo di Cavazzoni/Fellini possono ancora udire, saranno allora un privilegio di supremo valore, interdetto a quanti si fanno accecare dalle luci del progresso, dai riflettori e dalle telecamere puntati su quella luna che crediamo di avere, in un modo o nell’altro, conquistato e antropizzato.

3. «Che padre ci sarebbe voluto per il romanzo italiano?»

Ed è forse proprio in questo buco nero, dove la poetica felliniana sembra collassare (sconfessando o­gni deriva postmoderna e abbracciando, attraverso la nuda semplicità della luna, il paradigma della natura), che si torna ad avvertire la consanguineità di Calvino e l’appartenenza comune a una costellazione leopardiana. Che è innanzitutto tematica, ma finisce poi per avvolgere i modelli concettuali, i canoni stilistici, le genealogie culturali. Se la «voce della luna» non sa pronunciare che una parola-feticcio (pubblicità), in Marcovaldo il beniamino del narratore e i suoi lettori possono ammirare l’alternanza tra i venti secondi in cui scintilla lo «Gnac» di un’insegna monca e gli altrettanti in cui «si vedeva il cielo azzurro variegato di nuvole nere, la falce delle luna crescente»: il chiaro di luna che i futuristi volevano uccidere sembra aver chiuso in modo positivo gli ardui negoziati con la modernità. Allo stesso modo, il sogno felliniano di una luna terragna, discesa tra gli umani e tra le loro miserie, può richiamare quell’apologo cosmogonico di Ti con zero in cui la su­per­ficie terrestre, un’unica megalopoli tutta di lamiera, plastica, resina, plexigas, cristallo, viene ricoperta da una coltre di «fanghiglia» e di «polpa mucillaginosa», ossia la sostanza di cui è composta la «molle luna» (che è anche il sintagma-soglia del racconto); e può anche, per converso, riportare alla mente quella distopia cosmicomica in cui l’obsolescenza del satellite appare ormai insopportabile al popolo dei consumatori di una «Manhattan che s’allunga fitta di grattacielo lucidi come setole di nylon di uno spazzolino da denti nuovo nuovo»: sicché una gru si accinge a trasportare in discarica l’astro, che verrà però salvato dalle figlie della luna che danno il titolo alla narrazione. Ne sortirà un’entropica e vitalistica palingenesi, con «savane e foreste» che soppiantano la «pimentazione luminosa» della giungla urbana[18].

Calvino, insomma, finisce per comporre più di una «operetta morale» selenica – un secolo dopo Leopardi, molti dopo Galileo, moltissimi dopo Luciano di Samosata. Ma non è questo il punto. Il punto è come scrive. Il punto è che tende a restituire l’entropia col massimo della precisione, il caos con il cosmos. Sempre in quel carteggio con la Ortese aveva scritto, a proposito di Galileo – definito «il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo» – che «appena si mette a parlare della luna innalza la sua prosa a un grado di perfezione ed evidenza e insieme di rarefazione lirica prodigiose. E la lingua di Galileo fu uno dei modelli per la lingua di Leopardi, gran poeta lunare»[19]. Sono affermazioni provocatorie quanto famose; come è famoso il risentimento che provocarono in Carlo Cassola – né soltanto in questi.

Così, non al livello delle immagini e delle allegorie dovrà porsi la conclusione di questo breve discorso-patchwork; bensì al livello delle «categorie italiane». E visto che – come è ormai noto dopo gli studi di Agamben, Cortellessa, Belpoliti, Barenghi ed altri[20] – quando si parla di «Ca­tegorie italiane» (nonché di «Ali Babà») si parla del sogno di una cosa, vale a dire di ipotesi falsificabili di storiografia, di “canoni altri” mai portati a compimento, quello che mi accingo a riprendere è un brano, perfettamente rifinito eppure rigettato, del saggio calviniano Mancata fortuna del romanzo italiano (1953). A me pare che, se si volesse scrivere una controstoria della letteratura italiana, la pagina deterrebbe una potenzialità ineguagliabile di straniamento e di decostruzione:

Che padre ci sarebbe voluto, allora, per il romanzo italiano? Un tipo movimentato e spadaccino come l’Alfieri o il Foscolo? 0 uno di quei tipi traboccanti dl vitalità plebea come il Porta o il Belli? 0 un grande creatore di caratteri come il Rossini o il Verdi? Forse nessuno di questi. Per me il padre ideale del nostro romanzo sarebbe stato uno che parrebbe lontano più d’ogni altro dalle risorse di quel genere: Giacomo Leopardi. In Leopardi erano vive infatti le grandi componenti del romanzo moderno, quelle che mancavano al Manzoni: la tensione avventurosa (quell’islan­de­se che se ne va solo per le foreste dell’Africa, e quella notte tra i cadaveri nello studio di Federico Ruysch e quell’altra sulla tolda di Colombo), l’assidua ricerca psicologica, il bisogno di dare nomi e volti di personaggi a sentimenti e ai pensieri suoi e del secolo. E poi la lingua: la via ch’egli indicò fu quella dei massimi effetti coi minimi mezzi, che è sempre stato il gran segreto della prosa narrativa. Ma è soprattutto di Leopardi il racchiudere nel giro d’un luogo noto, d’un paese, d’un ambiente, il senso del mondo. E qui il suo seme non tardò a dar frutto: alle voci, ai rumori etc.[21]

Il giudizio sulle manchevolezze dell’autore dei Promessi sposi (tanto più singolare qualora si pensi che proprio in quel 1953 si inaugurava una decennale e ampia «inchiesta Manzoni» intorno al progetto, mai realizzato, di un film tratto dal romanzo[22]) mutò presto; forse addirittura subito, se si considera l’autocen­su­­ra intervenuta per questa pagina pur così bene elaborata. Un sentiero interrotto, quindi. Eppure, quel­la idea balenata in testa a Calvino non smette di turbarci e di interrogarci per la radicalità dei suoi assunti, per il coraggio intellettuale di qualcuno che s’affida a una critica del gusto e dell’im­pres­sione, per il nitore con cui viene enunciato un presunto «gran segreto» della prosa, un teorema della lingua: teorema che sembra il corollario di quell’altro di cui si è detto più sopra, imbastito intorno a Galileo e postulante, insieme, il massimo dell’evidenza e il massimo della rarefazione. Le contraddizioni, le prove controfattuali, le aporie di quella «falsa partenza» del saggista sono palesi a occhio nudo, come spesso capita in Calvino (lo ha fatto notare, con perfida intelligenza, Claudio Giunta[23]): sembra quasi che egli scriva di getto o pensi ad alta voce, in continua esitazione e provocazione, edificazione e disfacimento, ostensione e occultamento; d’al­tra parte, le galassie sono mobili per definizione, e i canoni sono costruiti per essere superati.

Così, se da un lato appare irricevibile, ancorché estremamente suggestivo, l’azzardo critico di un Leopardi più abile di Manzoni sul tavolo da gioco del romanzo, dall’altro non si possono che sottoscrivere le straordinarie pagine delle Lezioni americane dedicate al poeta di Recanati: a cominciare da quelle in cui è indicato co­me colui che, nel solco di Galileo e della sua «incantata sospensione», ha insegnato a praticare «una attenzione estremamente precisa e meticolosa […] nella composizione d’ogni immagine, nella defini­zione minuziosa dei dettagli, nella scelta degli oggetti, dell’illuminazione, dell’atmo­sfe­ra, per raggiungere la vaghezza desiderata». In questo modo, ci dice ancora Calvino, Leopardi realizza il miracolo della «leggerezza» (altri avrebbe detto: della «naturalezza»), facendo assomigliare il linguaggio alla «luce lunare»[24].

Quella luna che compariva nella prima e nell’ultima fotografia del mondo; quella luna che avevamo final­mente potuto vedere (forse davvero per pensare di nuovo all’universo), e che era scesa in terra a turbarci o a consolarci; quella luna che aveva gettato l’ultima sfida alla tecnica dell’uomo, alle sue ingegnerie aerospaziali, ai suoi artigianati stilistici: quella stessa luna diveniva ora, nel testamento saggistico di Calvino, l’em­blema carismatico d’una scrittura capace di restituire, al tempo stesso con «esattezza» e con «leggerezza», l’infinità dei mondi. Nel frattempo il critico aveva potuto anche rendersi conto, al pari dello scrittore, della complessità e dell’intrinseca «molteplicità» di questo mondo, dei «rapporti di forza» che lo innervano[25], dei personaggi, talora anche lunatici ma sempre formati di pasta vera, che vi brulicano. Aveva forse scoperto di quale sostanza soda, e di quale realismo creaturale, avesse bisogno la ricetta della narrativa moderna – quella della terra posta sotto la luna. Anche il romanzo italiano gli sarà parso un po’ meno orfano.

Note 

[1] L. Ghirri, Prefazione, in Kodachrome, introduzione di P. Barengo Gardin, Punto e virgola, Modena 1978, p. 5.

[2] Ibid., p. 9.

[3] Ibid., p. 5. Anche la citazione che segue si trova nello stesso luogo.

[4] P. P. Pasolini, Lettere, a cura di N. Naldini, Einaudi, Torino 1986, p. 625.

[5] Id., Le regole di un’illusione, a cura di L. Betti e M. Gulinucci, Fondo Pier Paolo Pasolini, Roma 1991, p. 138.

[6] S. Murri, Pier Paolo Pasolini, Il Castoro-L’Unità, Milano 1995, p. 73. Anche la citazione che segue si trova ibid.

[7] Cfr. P. P. Pasolini, Una moderna forma di evasione? (1959), in Id., Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano 1999, pp., 731-733: 733.

[8] I. Calvino, Dialogo sul satellite (1958), in Romanzi e racconti, III, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, edizione diretta da C. Milanini, Mondadori, Milano 1994, p. 233.

[9] M. Blanchot, La conquista dello spazio, «Il Menabò», 1964, 7, pp. 10-13: 11. Blanchot è uno degli autori al centro del raffinato percorso critico di C. Colangelo, La verità errante. Viaggi spaziali alla prova del pensiero, Liguori, Napoli 2010.

[10] I. Calvino, Il rapporto con la luna (1967), in Saggi, a cura di M. Barenghi, Mondadori, Milano 1995; ma ci riferiamo alla più completa versione della lettera contenuta in Id., Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, Mondadori, Milano 2000, p. 975-977: 976. Lo scambio apparve sul «Corriere della Sera» del 24 dicembre 1967.

[11] Ibid., p. 975. Il saggio a cui faccio riferimento è invece M. Bucciantini, Italo Calvino e la scienza, Donzelli, Roma 2007.

[12] P. Fabbri, Fellini e la madre di tutte le tentazioni, in Id. (a cura di), Lo schermo “manifesto”. Le misteriose pubblicità di Federico Fellini, Guaraldi, Rimini 2002, pp. 7- 15: 10.

[13] La voce della luna (Italia, 1990), regia di F. Fellini, soggetto di F. Fellini, E. Cavazzoni, T. Pinelli; E. Cavazzoni, Il poema dei lunatici, Bollati Boringhieri, Torino 1987.

[14] Una genealogia del motivo in L. Reitani, Luna, in Dizionario dei temi letterari, diretto da R. Ceserani, P. Fasano, M. Domenichelli, Utet, Torino 2007, pp. 1311-1317.

[15] A. Prete, Trattato della lontananza, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 129.

[16] C. Baudelaire, œuvres complètes, éd. de C. Pichois, Gallimard, Paris 1975, vol. I, p. 340.

[17] G. Leopardi, Opere, a cura di S. Solmi, Ricciardi, Milano-Napoli 1956, p. 167.

[18] Mi rifaccio qui al ragionamento di F. Ghelli, L’amara cuccagna. Su «Marcovaldo», la pubblicità, la rivoluzione dei consumi, «Intersezioni», XXVII, n. 1, aprile 2007, pp. 81-110.

[19] I. Calvino, Lettere, cit., p. 976.

[20] Si vedano: G. Agamben, Categorie italiane, Laterza, Roma-Bari 20112; A. Cortellessa, Profanare il dispositivo, ibid., pp. 169-190; Ali Babà. Progetto di una rivista 1968-1972, «Riga 14», a cura di M. Barenghi e M. Belpoliti, Marcos y Marcos, Milano 1988.

[21] I. Calvino, Mancata fortuna del romanzo italiano (1953), in Id., Saggi, cit., pp. 1507-11: 1508 (Nota dell’A.; Calvino professa di aver tagliato il passaggio per signorilità nei confronti di Bollati, ma non è detto che sia il caso di credergli: «Nel manoscritto l’accenno a Leopardi “romanziere”, che mi era stato suggerito dall’amico Giulio Bollati, era sviluppato in un passo che in seguito eliminai per non anticipare il tema d’un saggio che Bollati aveva in mente di scrivere»).

[22] Cfr. ora l’appassionante dossier a cura di S. S. Nigro e S. Moretti: Promessi sposi d’autore, Sellerio, Palermo 2015.

[23] Cfr. C. Giunta, Le «Lezioni americane» venticinque anni dopo: una pietra sopra?, «Belfagor». LXV, 6, 2010, pp. 649-666.

[24] I. Calvino, Saggi, cit., vol. II, pp. 652. Si vedano le importanti conclusioni cui giunge A. Asor Rosa, «Lezioni americane» di Italo Calvino, in Letteratura italiana. Le opere, diretta da A. Asor Rosa, IV. 2, Einaudi, Torino 1995, pp. 953-996: 973.

[25] Si allude qui alla classica lettura manzoniana di Calvino: Il romanzo dei rapporti di forza (1973), in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Einaudi, Torino 1980, pp. 267-278.

[Immagine: La Terra vista dalla Luna].

4 thoughts on “La nuova mappa della luna

  1. ok, grazie, allora aspetto il vostro invito….un giorno vicino o lontano
    salutoni
    SB (da Pistoia)

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