di Morena Marsilio ed Emanuele Zinato
[Questo saggio è uscito sul numero 18 dell’«Ulisse»]
I. Premessa
L’avversione “tetragona”(2) dei prosatori contemporanei all’istituto della “poetica”, vale a dire la diffusa reticenza, forse più marcata che nei poeti, a dare una definizione del proprio lavoro, a prendere posizione o a esibire modelli e tradizioni, scelte di stile e di genere, è argomentata da Andrea Cortellessa nella sua introduzione a La terra della prosa. Tuttavia, come è noto, reticenza e negazione sono spie o sintomi eloquenti che necessitano, e che indirettamente esigono, un supplemento d’indagine. In mancanza di attestazioni autocoscienti e di ricostruzioni condivisibili, lo stato “liquido” o immediato del campo letterario lascia spazio alle mappature idiosincratiche, parodiche e aggressive, dominanti a esempio in ciò che resta del dibattito culturale sui quotidiani: significativa, a questo proposito, la “palude degli scrittori” disegnata da Franco Cordelli su “La Lettura”(3). Se è vero che il variegato campo degli scrittori italiani odierni può nascondere gruppi che non si riconoscono come tali, e in cui ognuno per conto proprio o per “bande” persegue lo stesso fine (la mera sopravvivenza editoriale), i giudizi di valore e la nomenclatura utilizzati da Cordelli sono, prima che satirici, deformanti e distruttivi: all’individuazione di stili o idee sul fare artistico sostituiscono infatti la spettacolare carrellata di maschere o di caricature – “senatori”, “gruppo misto”, “dissidenti”, “novisti”, “moderati”, “conservatori” e “vitalisti” – cui da più parti si è polemicamente risposto(4). Paolo Di Stefano sempre su “La Lettura”(5) ha proposto da parte sua una categorizzazione per temi di molti romanzi contemporanei, all’insegna per lo più dell’ibridazione tra fiction e non fiction riconosciuta come costante non solo italiana, senza delineare tuttavia poetiche comuni, esibite o condivise.
La fine delle poetiche di gruppo nel campo della narrativa, del resto, si può datare già a partire dalla metà degli anni Ottanta del Novecento:
A prima vista il decennio precedente [ossia gli anni Ottanta] appare come un crogiuolo di esperienze eterogenee che si lambiscono, si incrociano, ma rimangono nondimeno individuali; non si riuniscono, cioè, in unità (poetiche).(6)
L’identità, il successo e il lancio dei “nuovi narratori” sembrano affidati in quel decennio per la prima volta esclusivamente a esigenze editoriali e generazionali piuttosto che all’ autocoscienza formale, alla ricerca critica e alle scelte di stili. Le poetiche dichiarate sopravvivono solo ai margini di questo massiccio fenomeno: ma si tratta di fatti presto rubricati come “di nicchia” e le ultime poetiche di gruppo del Novecento sono forse ravvisabili nel Gruppo 93 (in cui operano anche prosatori, come Lacatena o Ottonieri)(7) o, per un altro verso, negli scrittori che collaborano alla terza serie della rivista “Nuovi Argomenti” diretta da Enzo Siciliano(8).
La trasformazione da un assetto di linee e di movimenti a un pulviscolo fungibile di produttori individuali è esemplificabile anche partendo dalla pluriennale vicenda di “Ricercare”, il Laboratorio di Nuove Scritture di Reggio Emilia ideato nel ’93 da Nanni Balestrini e Renato Barilli, e poi dalle rubriche di Tirature, l’osservatorio di Vittorio Spinazzola che ha descritto annualmente il rapporto tra gli autori, l’editoria e i molteplici aspetti della produzione libraria e multimediale. A esempio, un’antologia famosa come Gioventù cannibale (uscita nel 1996 a cura di Daniele Brolli) segna l’avvenuta indistinzione fra una tendenza letteraria (i Cannibali) e una linea editoriale (Einaudi Stile Libero).
Intesa nel suo significato minimo e operativo (una serie di concetti-termini che guidano l’attività dello scrittore nelle scelte tematiche, di genere e di stile) la nozione di poetica tuttavia non solo costituisce una mediazione preziosa ma è anche un dato ineliminabile che riguarda ogni operazione di scrittura, a prescindere dal riferimento a gruppi e tendenze o dal condizionamento del mercato. Se, tradizionalmente, nella critica italiana del Novecento, a partire da Luigi Russo e poi da Luciano Anceschi, la nozione di poetica ha assunto il significato di “complesso di idee alle quali uno scrittore consapevolmente si attiene nella concretezza del suo lavoro”(9), si può ragionevolmente affermare che, anche oggi, ciascuno scrittore continua a disporre inevitabilmente di una propria idea di scrittura così come ogni donna e ogni uomo, più o meno consapevolmente, si orienta in base a una propria concezione del mondo e contribuisce a modificare visioni del mondo altrui.
I tratti persistenti e sotterranei delle poetiche individuali dei narratori italiani contemporanei sono ravvisabili, a esempio, nelle risposte di Covacich, Fois, Genna, Lagioia, Nove, Pascale, Pugno e Trevisan all’inchiesta Ritorno alla realtà? promossa dalla rivista “Allegoria” (n. 57, gennaio/giugno 2008)(10). Le cinque domande riguardavano la diagnosi sulla fine del postmoderno dopo l’11 settembre, il nesso fiction–non fiction, il rapporto con la tradizione del realismo, i problemi di stile e di linguaggio e, infine, il valore civile o la marginalità della letteratura. Le risposte sono estremamente difformi e molto lontane le une dalle altre: secondo alcuni, a esempio, le categorie di realtà e realismo sono del tutto inutilizzabili, secondo altri conservano un loro valore. Il solo punto di parziale consenso riguarda, forse, il nesso fra l’ossessione per il reale, tipica delle scelte in favore dei fortunati generi anti-finzionali, e “l’angoscia per la smaterializzazione del mondo fisico” (Covacich) o per “la trasformazione in fiction della realtà (Nove). Analogamente, gli otto narratori (Bellucci, Dal Prà, Leogrande, Liberti, Nerazzini, Pascale, Ricuperati, Sorrentino) che hanno partecipato all’inchiesta Il corpo e il sangue d’Italia (2007) a cura di Christian Raimo, sono stati convocati polemicamente dal curatore in antitesi ai modelli diegetici del degrado televisivo “quello accusatorio, di una Striscia la notizia, delle Iene, di trasmissioni di pornografia della notizia come Lucignolo, o il chiacchiericcio ammantato di seriosità dell’ Italia sul due o di Verissimo”(11). Ma ciascuno di essi ha poi intrepretato il proprio mandato, e i generi del diario o del reportage narrativo, con un tasso di invenzione diverso. Antonio Pascale, inoltre, ha utilizzato l’inchiesta sulla “dicibilità” della realtà italiana come un’occasione per formulare i lineamenti di una poetica personale: Il responsabile dello stile(12) è un saggio che – partendo dalla condizione di apprendistato neotelevisivo degli anni Ottanta il cui emblema è stato il fatto di Vermicino(13), – prende le distanze dall’ “estetizzazione del dolore” polemicamente attribuita a Saviano e, con Yehoshua, (a cui il titolo “responsabile” rinvia), insiste sulla necessità di “far esperienza di morale” opponendo i generi del reportage e del personal essay alla fiction(14).
In questa situazione di complessa, pulviscolare eterogeneità, e in presenza di diffuse reticenze, per tentare di ricostruire alcuni dei posizionamenti paradigmatici dei prosatori sarà dunque necessario prendere in esame anche documenti indiretti di poetica: testi non esplicitamente argomentativi (come a esempio il Tolstoj di Lagioia), interviste e scritture critiche in cui si parla di sé parlando d’altri (a esempio, le recensioni di Falco a libri e a mostre fotografiche). Sarà utile, inoltre, per delineare delle costanti, isolare tre ordini di questioni su cui la discussione e le pratiche di scrittura negli anni Zero variamente convergono: 1) Le opposizioni fra finzione e non finzione. 2) Il rapporto con i modelli e con la tradizione. 3) Le poetiche intorno agli spazi della mutazione.
II. Finzione e non finzione
Un indicatore praticabile per dar conto delle “idee sulla letteratura” dei narratori degli anni Zero è senza dubbio rappresentato dalle scelte operative di genere e, tra tutte, dai difformi posizionamenti riguardo alla distinzione, assai insistita sebbene rozza e sommaria, fra fiction e non fiction(15).
Alberto Casadei, nel suo Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo, uscito nel 2007, afferma che nell’epoca della fiction diffusa, la risposta difensiva praticata in modo massiccio dalla prosa è stata la resa verosimile di eventi, autobiografici o cronachistici(16). Uno dei mutamenti più vistosi della letteratura dopo la metà degli anni Novanta è, in effetti, l’emergere massivo di scritture di non-fiction. L’origine di tale fenomeno può essere ascritto a un duplice ordine di fattori; da una parte esso è interpretabile come forma di resistenza alla finzionalizzazione dei media, dall’altra come risposta allo svuotamento e all’uso “necrofilo” che il postmoderno ha fatto dei generi e degli stili(17):
I generi letterari, insomma, restituiti alla postmodernità sono nomina nuda, gusci vuoti con i quali travestire i testi e tutt’al più, in quanto modelli, concorrono a formare quel grande palinsesto al quale attinge la produzione artistica postmoderna nelle sue pratiche citazioniste non innocenti.(18)
Di qui, dunque, il fenomeno della “fusione […] tra fiction e non fiction, scrittura narrativa e saggio, prosa giornalistica e narrazione”(19) cui anche Pischedda ha fatto riferimento già sullo scorcio degli anni Novanta.
In questo contesto, se ogni scrittura è caratterizzata da un certo tasso di artificio, e se sembrerebbe più corretto parlare di forme a finzionalità più bassa (diario, reportage) o più alta (racconto, romanzo)(20), c’è tuttavia una chiara differenza fra chi predilige lo scrupolo documentario e la verosimiglianza e chi mostra invece di preferire l’ideazione di una storia “inventata” che permetta l’extralocalità e la polifonia dei personaggi e che richieda al lettore quella che due secoli fa Samuel Coleridge ha definito la sospensione dell’incredulità(21). Per tentare di orientarsi tra le varie posizioni degli scrittori in proposito, e necessariamente senza ambizioni esaustive, potrà essere utile, dunque, soffermarsi su alcune spie significative: su alcune dichiarazioni autoriali o su esplicite scelte di genere.
Affinati, a esempio, nel contesto dominante dell’inesperienza, scrive di essere viceversa “condannato all’esperienza”: in apertura di Vita di vita (2014), afferma e ammette “Non posso inventare niente”(22) e nell’intervista a Massimo Rizzante torna più volte sulla necessità, per la sua scrittura, di ripristinare l’Erlebnis:
L’esperienza per me è determinante, è la scintilla della scrittura. Ho scritto il mio ultimo libro, che uscirà nel 2008 [si tratta della Città dei ragazzi], perché il momento della scrittura è un momento di laboratorio, di prova, di fatica, di artigianato. Ecco una cosa a cui tengo molto: la scrittura non può essere strumentale, non deve esserlo.(23)
Dopo aver accennato ai suoi viaggi in luoghi allegorici del “secolo breve” che hanno fatto da sfondo alle sue prove narrative (Hiroshima e Nagasaki, Auschwitz, Volodka, ma anche Asiago, Cassino, Berlino), aggiunge:
Chi va in questi luoghi estremi comprende che solo il desiderio di conoscenza è la vera risposta, ed è il motivo per cui uno scrive. La ragione della scrittura è quella di trovare un senso a ciò che sembra esserne privo.(24)
Con Affinati siamo dunque davvero “lontano dal romanzo”, come suggerisce la raccolta di recensioni in cui Cordelli segnala la forza innovativa dello scrittore romano.(25)
All’estremo opposto, invece, si collocano prosatori di grande qualità, la cui produzione sembra destinata a farsi più robusta allo scadere e oltre gli anni Zero. Narratori come Fois, Lagioia, Bajani, Falco, Pugno, Sarchi, Rastello non producono in prevalenza “oggetti narrativi non identificati” ma, per approssimarsi alla verità e all’autenticità, insistono viceversa nell’inventare storie, oltre la mera attendibilità. E lo fanno, a volte, con un elevato grado di consapevolezza. Se Fois sinteticamente dichiara per l’inchiesta promossa dalla rivista “Allegoria” “La letteratura resta ancora e sempre il territorio della vera finzione come percorso che produce senso critico e riflessione”(26), e Pugno, nella medesima occasione, afferma “La narrazione può essere uno strumento efficacissimo per falsificare la realtà”(27), un esempio di lucida riflessione autocosciente è dato da Verità, realismo, autenticità, uno scritto di Alessandra Sarchi:
I personaggi dei miei romanzi vivono dentro di me, e di me, in una misura che non saprei dire, ma se così non fosse non potrei mai dare loro vita sulla pagina perché io per prima non li sentirei vivi, credibili. Quello che è richiesto allo scrittore è uno sforzo costante non solo di attendibilità, per quella basterebbe del buon giornalismo, ma di empatia vera e propria: sentire quello che i suoi personaggi sentono, forgiare i loro pensieri come se fossero i propri, animarli delle proprie ossessioni. La materia di ciò che scrivo sta dentro di me e nella mia realtà, non meno che i fatti più o meno rilevanti che mi accadono ‘per davvero’ ogni giorno.(28)
Un caso estremo di rielaborazione finzionale della cronaca, capace di creare un personaggio dotato di voce e punto di vista tali da produrre sospensione di incredulità e identificazione straniante, appare quello di Paolo Sortino che in Elisabeth (2011) muove dal “caso Fritzl” per re-inventare la storia della ragazza autriaca segregata e abusata dal padre per più di vent’anni, madre a sua volta di sette “figli-fratelli”. Nel paratesto, Sortino inserisce sia l’antefatto reale(29) da cui ha preso le mosse, sia un’Avvertenza in cui precisa la sua posizione rispetto alla scelta di genere effettuata:
Sebbene la maggior parte dei personaggi, dei luoghi e delle vicende narrate siano reali, questo romanzo va inteso come opera di fantasia in ogni suo più piccolo dettaglio. I riferimenti onomastici, topografici e storici che coincidono con la realtà rispondono all’esigenza di costruire intorno al drammatico fatto di cronaca dal quale ho preso ispirazione uno schema utile a raccontare esperienze universali.
Tra possibilità e scelta si muove ondivaga la totale libertà della mia Elisabeth e degli altri personaggi, per i quali ho inventato una vita che non vuole essere né migliore né peggiore di quella reale, ma solo possibile. Ecco perché, nonostante sia diffusa all’interno del romanzo una certa aderenza al reale svolgimento dei fatti, la presente opera non possiede alcun valore documentario.(30)
I critici che si sono occupati di Elisabeth ne hanno colto, in effetti, il fondo visionario e l’impasto romanzesco:
Se per parlare del presente Sortino ha scelto la storia di Elisabeth, lo ha fatto per gli strati di senso che comprime, e insieme per la sua inossidabile enigmaticità […]; quindi per la potenziale ricchezza strutturale del disegno, per la sua disponibilità a farsi apologo e mito. […] Se si continua a credere nel romanzo come struttura, scoperta e profezia, questo di Sortino è un romanzo vero – non un esperimento, né una buona azione.(31)
Tra le varie modalità con cui viene interpretato il rifiuto della fiction, oltre al romanzo ibrido(32), uno spazio rilevante occupa anche il ricorso, particolarmente insistito e esibito, all’autofinzione. In questo secondo caso è indicativa la presa di posizione di Mauro Covacich per il quale la propria scelta autofittizia risponde a un bisogno di autenticità da condividere con il lettore. Si tratta di una scelta etica con la quale mira a “abbattere il filtro della finzione”(33):
Dal mio punto di vista la scrittura è sempre un’udienza in cui io sono sia il giudice che l’imputato, e posso scrivere soltanto se sono messo in una condizione di disagio, non di agio. Se sono inchiodato con le spalle al muro da un’idea, dalla situazione, dall’argomento, dalle vicende, se sono messo in una condizione di disagio posso scrivere: nel senso che sono costretto a dire la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità. Ma “qual è la verità”? La tua versione dei fatti? Sì, l’unica verità che conosco: la mia verità. Altrimenti è mestiere.(34)
In modo diverso rispetto a questa posizione si colloca l’autore di autofiction(35) forse più significativo del panorama italiano, Walter Siti, che ha dedicato alla questione del realismo “una bieca ammissione di poetica” dal significativo titolo Il realismo è l’impossibile (2013): la tesi di fondo è che in letteratura il realismo, lungi dall’essere mera riproduzione mimetica del reale, ne sia un gioco illusionistico, una sorta di Trompe-l’oeil, ne riveli piuttosto “lo strappo”(36). Proprio in virtù di questo atto paradossale che il narratore può compiere, Siti giustifica l’operazione di far convivere nelle sue autofiction fatti inventati con altri realmente accaduti:
L’io sperimentale che (a partire da un’illuminazione di Kundera) ho eletto a protagonista della mia cosiddetta autofiction, non è un testimone della verità – è un cazzarone, un trickster.
[…]
L’io dell’autofiction oscilla tra empiria e letteratura: mentre si sforza di dare carne e sangue alle parole, si trova tra le mani un’identità cartacea e depotenziata. Sa che la sua mimesi è spesso mimesi di immagini virtuali, che il suo è un realismo nell’epoca della de-realizzazione.(37)
Dunque, negli anni in cui l’imperversare del reality televisivo ha dato luogo per contrasto a quella che Donnarumma chiama “l’ossessione nei confronti della realtà”(38), accanto alla scelta “tradizionale” per la fiction “pura” e all’ opzione, sempre ambigua e sfuggente, per l’autofinzione, sembra imporsi una terza via, ossia quella di affidarsi alla non-fiction, al diario, al reportage e alla cronaca, generi che funzionano per lo più come un serbatoio per una narrativa destinata a rimanere in fieri e a negarsi al gioco fittizio(39).
In molti casi, come nel già ricordato Il responsabile dello stile di Pascale, sembra venire esibito esplicitamente, su scala etica, un rigetto della cosiddetta “ragione finzionale”(40). Il lungo e interessante saggio pone al centro della sua critica “la tecnica del carrello o del riflettore”, ossia, fuor di metafora, non tanto il problema della rappresentazione del dolore – oggi al centro di tante narrazioni letterarie, filmiche e televisive – ma dello “specifico alfabeto” usato per rappresentarlo(41). In Pascale, a ben guardare, sembrano coagularsi le contraddizioni, o almeno le tensioni contrapposte, di questa generazione di scrittori ipermoderni: egli dichiara la sua predilezione per il genere fiction sia in occasione della già nominata inchiesta di “Allegoria” (“Il modello ideale, almeno per me, è quello della fiction. […] Approvo e prediligo tutte quelle storie dove c’è un personaggio che si muove lentamente, con piccoli scatti”(42)) sia nel saggio pubblicato nell’antologia curata da Raimo(43). Ma è proprio qui che viene a galla lo svuotamento di valore che il genere finzionale subirebbe ai nostri giorni: se, per Pascale, la forza del narratore consiste, secondo la lezione di Yehoshua, nel creare “un personaggio che piano piano sviluppa un conflitto”, di fatto oggi “l’esperienza dell’identificazione” tra lettore e personaggio starebbe venendo meno a causa di quel processo di teatralizzazione del sé che ha invaso le nostre vite. Del resto, per dar conto delle linee di tensione affrontate nel testo, Pascale si interroga anche sulla plausibilità dell’inserimento di un fatto inventato nelle scritture di non fiction, riferendosi nella fattispecie a Gomorra:
Ma in un reportage, in un’intervista qual è allora il tasso legittimo di invenzione (per arrivare alla verità)? Soprattutto in alcuni casi specifici, come quelli che riguardano il reportage (anche se narrativi) su fatti di camorra, il tasso di invenzione sopportabile (primi che arrivi la carrellata) è più basso rispetto a quello tollerato da altri generi narrativi?(44)
Un reportage che estremizza la scelta non finzionale è quello di Viola e De Majo, Italia 2. Viaggio nel paese che abbiamo inventato (2008)(45). Il paradosso narrativo che i due autori perseguono è quello di fissare nel loro diario di viaggio quanto di posticcio, irreale e fungibile, ci sia lungo il territorio italiano:
si tratta infatti di un viaggio attraverso una specie di nazione parallela (come suggerisce il titolo ammiccante ma nondimeno assai efficace): il Mulino Bianco, Cogne, la Federazione di Damanhur, San Giovanni Rotondo, la Risiera di San Sabba […]. Luoghi insoliti e ordinari, dunque: ma irrimediabilmente alterati dalla televisione, ovvero trasformati in simboli devozionali, politici, ludici, o ancora trasfigurati o svuotati del loro senso originario.(46)
Per tirare provvisoriamente e schematicamente le fila del discorso, l’intera questione delle ibridazioni tra fiction e non fiction sembra dislocarsi su tre poli, trasversali all’intero campo delle scritture:
- La questione etica. Scrittori propensi al genere ibrido come Affinati, Arminio e Pascale(47) parlano, seppure con sfumature difformi, di “partecipazione civile” e di “responsabilità”. Al contempo, tuttavia, sono rinvenibili “frammenti di impegno” fra gli scrittori che in modo prevalentemente finzionale rielaborano traumi storici(48): Rastello, a proposito di Piove all’insù (2006), dichiara:
Al un certo punto decisi di fare un’inchiesta sul golpe Borghese. […] La forma giornalistica paradossalmente era diventata un legame paralizzante; c’erano cose che potevano essere dette soltanto mescolando narrazione e cronaca. Costruii personaggi e plot per poter dire le cose che non avevo diritto di dire da giornalista. Senza mescolare le due forme: il problema era la responsabilità personale su quello che volevo raccontare.(49)
Ancora più significative sono le parole di Laura Pugno la cui scrittura disegna mondi “altri” (Sirene, 2007) o un reale perturbante (Sleepwalking, 2002)
come io cerco di abitare concretamente nel mio corpo, così allo stesso modo la mia scrittura impara ad abitare nella storia e nel territorio, passa da una posizione atopica, astorica, disincarnata a una posizione territoriale, storica, incarnata. […] sento un’affinità tra questi due movimenti che portano dalla bellezza di una perfezione astratta alla bellezza di un’imperfezione reale.(50)
- Le scelte di lingua e di stile. La sperimentazione stilistica e la ricerca formale possono abitare tanto le scritture finzionali quanto quelle non finzionali: anzi in questi anni si è forse intensificata la presenza di romanzi ibridi dotati di una potenza espressiva tale da renderli a tutti gli effetti “opere letterarie”. Le dichiarazioni di Lagioia a questo proposito sono di grande chiarezza e efficacia:
Ciò che conta – il vero spartiacque – è la lingua. Un romanzo scritto con un linguaggio giornalistico non è intrinsecamente un’opera letteraria, ma al massimo un editoriale brillante dilatato a 200-250 pagine. Di contro, un apparente saggio o […] un’opera di non-fiction, quando usa una lingua, un impianto, uno spirito che è quello della letteratura, allora è un’opera letteraria nonostante la mancanza di una trama canonica, o di un normale uso drammaturgico di eventi e personaggi.(51)
- La persistenza di polifonia e plurivocità. Per quanto i romanzi ibridi possano conferire l’aura del personaggio d’invenzione anche a persone reali – Gomorra ne offre più di qualche esempio – gli scrittori di fiction sono tuttora maggiormente disposti a ricorrere alle risorse narratologiche che gravitano intorno alla nevralgica categoria del personaggio, non scomparsa né del tutto fagocitata dalla finzione mediatica, quanto piuttosto “relativizzata” nella contemporaneità(52). La creazione di personaggi d’invenzione, attraverso il loro punto di vista e l’intreccio di voci(53), permette ancora al lettore di uscire da sé, di identificarsi in vite altre, non sempre empatiche. A proposito dei ragazzini poco realistici che si trovano al centro del suo romanzo d’esordio, Il tempo materiale (2008), Giorgio Vasta ha dichiarato:
Normalmente abbiamo a che fare con i bambini all’interno delle narrazioni come portatori di ingenuità e tenerezza. La mia idea non era tanto rendere questi personaggi estranei all’esperienza delle tenerezza: il mio desiderio era far compiere a chi leggeva un itinerario probabilmente più tortuoso, più articolato, per riuscire ad arrivare alla tenerezza, cioè fare in modo che questa non fosse subito data ma che fosse qualcosa che ci si meritava attraverso la lettura. Da qui le loro caratteristiche che non sono, da un punto di vista cognitivo-linguistico, realistiche e che provano da subito a stabilire un certo tipo di patto con chi legge.(54)
In ultima istanza, gli esempi più convincenti della fiction italiana contemporanea, al novero dei quali va avvicinato anche il nome di Siti che, dopo la trilogia, sembra interpretare sempre più il romanzo come “antropologia del presente”(55), incoraggiano a ritenere che il processo di identificazione tra lettore e personaggio sia ancora voluto e ricercato sia dal narratore che inventa, sia dal lettore disposto a sottoscrivere il tradizionale patto narrativo. L’invadenza del reality, quindi, non ha svuotato o compromesso definitivamente la possibilità di raccontare storie inventate che svelano le molteplici sfaccettature del reale.
Per concludere, dunque, la “terra della prosa” si presenta oggi davvero polimorfa: aperta a tutte le possibilità inventive come alle varie strategie di contaminazione, ci pare all’insegna di quella che Cortellessa definisce “dispersione”: “espansione e deriva, senza direzione apparente, dei materiali più vari e eterocliti”(56). La parola chiave qui è apparente: le voci di autocommento e di poetica autoriale cui si è fatto riferimento ci dicono infatti che ciascuno degli autori non è privo di direzione ma, al contrario, compie una precisa scelta di campo, di genere e di stile e che tale posizione rispecchia un determinato modo di guardare al mondo e alla vita contemporanei.
III. Narratori senza padri?
Una rilevante cartina al tornasole, a un tempo psichica e politica, per misurare le idee dei prosatori contemporanei riguardo al proprio fare artistico è la questione del rapporto con i “padri”, ossia la querelle sui modelli e sulla tradizione. Sulla scena letteraria italiana, dagli anni Novanta in poi, il conflitto generazionale per il riconoscimento, in un mercato di beni simbolici sempre più asfittico come quello dei valori umanistici, esplode con virulenza, tanto da far pensare a una vera propria interruzione di eredità e di tradizione.
Innanzitutto occorre considerare che i narratori nati dopo gli anni Sessanta hanno in larga maggioranza una formazione principalmente extraletteraria e non italocentrica. Per la costruzione del loro immaginario, tendono a contare di più la musica, il fumetto, il cinema e la letteratura straniera, specie nordamericana (da Truman Capote a Bret Easton Ellis) che i modelli letterari nostrani: “La popolarità e l’influenza di Forster Wallace mi sembrano esemplificare perfettamente quel declino del «modello dei padri» in favore di quello dei «fratelli maggiori»”(57).
In questo contesto di “mutazione” dei codici si inscrivono anche i pesanti giudizi sul valore della nuova narrativa da parte della critica militante “tradizionale” (Berardinelli, Ferroni, Mengaldo). La drammatica distanza tra i linguaggi della vecchia e quelli della nuova generazione è attestata, a esempio, dall’aspra polemica avviata nel 2004 da Romano Luperini con un articolo su «L’Unità» dal titolo Intellettuali, non una voce: “Fortini, Sciascia, Volponi, Pasolini, Calvino, la Morante non hanno lasciato eredi. Il postmoderno italiano è stato questo genocidio”. Il successivo, largo dibattito, soprattutto in rete, inerente il “ritorno al reale”, ha assunto talvolta curvature analoghe(58).
Va detto, in anteprima, che il rifiuto di una tradizione costituisce una costante degli scrittori dell’età moderna, epoca che attua la reinvenzione dell’idea di gioventù e lo spostamento da Ulisse a Telemaco nelle narrazioni(59). Il conflitto tra vecchi e giovani è dunque un costante fattore indicativo sul piano delle dinamiche del campo letterario: usando la terminologia di Thibaudet ripresa da Giacomo Debenedetti nel Romanzo del Novecento, si può dire che anche per gli anni Zero il ricambio generazionale coincide con la “successione degli imperi”(60). Qualcosa di simile si è verificato negli anni Sessanta, con le aspre polemiche dei neoavanguardisti che, contro Pasolini, i neorealisti e le “Liale”, eleggevano padri letterari eretici (da Beckett a Gadda) e strumenti critici “aggiornati” (dalla fenomenologia alle scienze umane). Lo schieramento su basi generazionali, tuttavia, in epoca postmoderna ha assunto più volentieri i tratti dell’avvicendamento sul mercato. A prescindere dalle diverse opinioni sulla profondità della cesura culturale e antropologica in atto, è evidente che la mutazione cavalcata per esempio da Baricco nei suoi fortunati articoli sui Barbari(61), sta all’origine della difficoltà del dialogo intergenerazionale che caratterizza le scritture critiche e letterarie degli ultimi due decenni.
Prendendo ancora come emblemi del conflitto le tante risposte polemiche all’articolo di Luperini del 2004, tra tutti è di certo il più sintomatico lo scritto di Tiziano Scarpa. Uscito sul “L’ Unità” e ripubblicato in Nazione indiana corredato dall’immagine del celebre dipinto di Goya in cui Crono divora i figli, il testo di Scarpa, oltre a un’invettiva e a una chiamata alle armi, rivolta a un campo allargato che comprende Moresco, Ammaniti, Busi, Veronesi, Genna, i Wu Ming, e molti altri, è soprattutto un accanito rifiuto dei Padri:
Il padrista è Crono che tenta di divorare e annientare le generazioni che lo seguono. È Crono perché si mette in una prospettiva cronistica, temporale, generazionale: i paragoni fra trent’anni fa e oggi! Vale a dire: Valori Calcificati contro Vita Culturale in Ebollizione. I libri degli ultimi tre anni… Luperini ha letto Kamikaze d’Occidente di Tiziano Scarpa? Ha letto i Canti del Caos di Antonio Moresco? E I cani del nulla di Emanuele Trevi? E Io non ho paura di Niccolò Ammaniti? E A perdifiato di Mauro Covacich? E Nel condominio di carne di Valerio Magrelli? E La camicia di Hanta di Aldo Busi? […] Ha visto che sono sorte riviste culturali e politiche come Carmilla, I Miserabili, Nazione Indiana? Ha mai verificato quante traduzioni dei romanzi italiani circolano all’estero? Il padrista dice: “Non siete nemmeno figli. Semplicemente non siete.” (…) Eppure siamo qui. Vivi e fortissimi. In attitudine di combattimento e di sogno. Non abbiamo paura di Crono perché non è nostro padre. Non abbiamo padri. Rifiutiamo questa logica generazionale. Non riconosciamo in nessun luogo alcun padre o madre. Semmai creature: fratelli, sorelle, amici, avversari. Vecchi o giovani che siano. Esseri umani. Comuni mortali.(62)
Al di là dell’occasione specifica (la polemica con un maestro della critica del Novecento) che ha generato questo breve testo di poetica “aggressiva”, va notato che l’immagine di Crono funziona perfettamente come figura di un più generalizzato rifiuto di un’intera tradizione, percepita come castrante e divorante: “Non abbiamo padri” è infatti la conclusione, a un tempo orgogliosa e beffarda.
Ciò non di meno, le prese di posizione sul rapporto con i padri letterari da parte degli scrittori degli anni Zero non sono affatto univoche. Le differenze interne al campo possono essere esemplificate, in forme paradigmatiche, dagli opposti atteggiamenti di Eraldo Affinati e di Nicola Lagioia riguardo a uno stesso grande maestro della narrativa realista europea: Tolstoj. Va notato, in anteprima, che questi due scrittori dalle poetiche così difformi, divergono nettamente anche per le scelte di genere e tematiche: Lagioia in favore di una narrazione finzionale e della rappresentazione della gioventù, Affinati viceversa di una scrittura rigorosamente veridico-testimoniale e incentrata sul tema della paternità.
Veglia d’armi. L’uomo di Tostoj di Affinati (1998) e Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare se stessi) di Lagioia (2001)(63) dunque possono essere considerati come due testi esemplari, simmetrici e contrari.
Il saggio Veglia d’armi. L’uomo di Tolstoj è il primo libro di Affinati ed è significativamente dedicato ai morti. Sin dall’esordio, la scrittura di Affinati si propone come una verifica personale di testi, memorie e luoghi: i libri successivi hanno infatti la forma di narrazioni autobiografiche in prima persona in cui l’autore ritorna sui luoghi della Seconda guerra mondiale, da Auschwitz (Campo del sangue) a Hiroshima e a Cassino (Compagni segreti), e cerca di desumere dal viaggio le ragioni postume per costruire un senso condiviso oltre il pericolo del nichilismo, declinando così in chiave didattica le ragioni del ritorno(64). In Veglia d’armi, Affinati assume, rivendica e attualizza il grande narratore russo come vero e proprio emblema di paternità e tradizione:
Il Novecento è passato agli atti come un secolo introspettivo e antinaturalistico (…). Eleggere Lev Nikolaevic Tolstoj viene considerata una scelta di retroguardia. Egli si porta dietro la reputazione olimpica del grande realista, la bravura del riproduttore, […] la luce della fede, una lacca splendida che non serve a niente nella caverna dell’umanità scoperta dalla psicanalisi, priva persino del furore nicciano che tanti spiriti ha, spesso banalmente, contagiato.
Alle esigenze coscienziali del ventesimo secolo è parso rispondere meglio l’autore dei Karamazov, cioè colui che – secondo la terminologia di René Girard – allo scopo di superare il suo doppio rinuncia ai valori del padre, piuttosto che quello di Anna Karenina, il quale per tutta la vita cercò di realizzare il senso della paternità. Respingere il padre significa allontanarsi da Tolstoj.(65)
Come si può notare, Affinati, la cui scrittura saggistico-testimoniale è per buona parte incentrata sul recupero della figura paterna – prima ancora che schierarsi rispetto alla situazione del suo tempo, cerca di sgombrare il campo dal fardello culturale del primo Novecento (modernismo e nichilismo). Il libro infatti si apre sull’opposizione fra Dostoevskij e Tolstoj e si chiude sulla dicotomia tra Tolstoj e Proust. Oltrepassare il rischio di nichilismo, che costituisce per Affinati l’eredità nera del Novecento(66), lottare “contro il nulla che ci assedia” significa rimettere in discussione, o letteralmente “mangiare”, mediante la veridicità testimoniale, la forma romanzesca:
In Tolstoj il racconto mangia se stesso, apre un varco continuo allo scrittore che vi inserisce una speciale notazione di vanità esistenziale. Proust parte sempre dall’approfondimento individuale e la sua parola diventa uno specchio dei contenuti della coscienza. […] Proust ci informa che l’arte […] ammala: Tolstoj invece voleva guarire, essere più sereno.(67)
Tolstoj è dunque, in questo saggio d’esordio, soprattutto un pretesto per fondare una propria poetica. Va tenuto conto che la rivendicata paternità di Tolstoj non rinvia alla nota posizione lukacsiana sul realismo borghese. Affinati sembra al contrario accostarsi, mediante un’idea di scrittura come prassi didattica, ai sostenitori della centralità dell’etica nell’attività letteraria: tema assai diffuso nella riflessione letteraria occidentale fra fine secolo e anni Zero da Wayne Booth a Nussbaum, da Yehoshua all’ultimo Segre.
In base a tale scelta, dopo Hiroshima e dopo Auschwitz, il narcisismo che a molti sembra implicito nella finzionalità e nei piaceri del testo, appare a Affinati in qualche modo colpevole. Mentre altri prosatori costruiscono la propria identità a partire dal confronto con autori della letteratura nordamericana (come fa Tommaso Pincio in Lo spazio sfinito, 2000 reinventando Kerouac o Arthur Miller in destini immaginari), Affinati sembra dunque riconfigurare una propria costellazione paterna a partire da Tolstoj e da Rigoni Stern. Si tratta di “miti personali” che non gli impediscono il dialogo con Sebald, Coetzee, McCarthy e con molti autori più “condivisi” dalla sua generazione, come risulta dalle pagine di Compagni segreti(68). Ma si tratta anche di modelli supremi che fondano una volta per tutte la sua scrittura su una rigorosa costellazione di concetti-chiave come responsabilità, educazione, testimonianza, pellegrinaggio, memoria, ritorno, e sulle scelte di ibridazione fra saggio e racconto.
Per il Dizionario affettivo della lingua italiana Affinati ha curato infatti la voce Responsabilità(69), mentre in numerose interviste rivela insofferenza per il genere romanzo:
Cerco di superare la catalogazione per generi. Sento la convenzionalità del genere romanzesco, che quindi mi lascia un po’ insofferente, ma anche il saggio da solo non mi soddisferebbe perché sarebbe troppo razionale e freddo. Il diario da solo sposterebbe troppo l’attenzione su di me. A me piace mischiare, anche quando prevale un genere.(70)
L’alta consapevolezza delle scelte “ibridanti” relative ai generi e dei nessi tra etica, responsabilità e esperienza fanno della poetica di Affinati un cartellino segnaletico esemplare per la definizione di quegli “oggetti non identificati” dominanti negli anni Zero, a cui variamente appartengono anche i testi di Saviano, Albinati, Pascale, Arminio.
Anche per Nicola Lagioia il romanzo metaletterario Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare se stessi) uscito nel 2001 nei giorni dell’attentato alle Torri Gemelle, costituisce l’opera di esordio. Pure in questo caso Tolstoj è un pretesto per mettere a punto, tramite una finzione, le coordinate di una poetica. Il punto di vista di Lagioia sui modelli e sulla tradizione, tuttavia, non potrebbe essere più lontano da quello di Affinati. Innanzitutto si tratta di un abbozzo di un romanzo di formazione: forma simbolica della modernità incentrata non sulla paternità, dunque, ma sulla gioventù perennemente insoddisfatta e irrequieta. Chi dice “io” è un giovane protagonista piantato dalla sua ragazza: aspira alla scrittura ma non riesce ad andare oltre le tre pagine, sogna invano il grande romanzo e s’imbatte in Tolstoj. Il grande scrittore, stufo della vita a Jasnaja Poljana, è infatti scappato a Roma e vive in un monolocale sulla Nomentana:
Tolstoj. Questo sì che è un grande romanziere. I piedi ben piantati nella pianura russa. La barba lunghissima. Il fiato grosso di chi ha scritto Guerra e pace. Alcune stravaganze dovute alla vecchiaia ma grande robustezza di argomenti nel complesso.(71)
Mentre Affinati onora con solennità la tomba del padre culturale(72), il personaggio di Lagioia finisce per liberarsene con delittuosa, ironica disinvoltura:
Pur di non starmi a sentire Tolstoj si affaccia alla finestra e se ne resta con le braccia sul cornicione a contemplare il panorama urbano. Io non perdo un minuto. Non ci penso due volte. Mi avvicino alle spalle e lo butto di sotto.(73)
Il libro assume la forma di un duello tra il vecchio scrittore, icona suprema della tradizionale capacità delle arti di dare un senso al mondo, e il giovane inconcludente, iconoclasta e situazionista che si muove nella mente, tra codeina e nembrutal, o nello spazio, in auto o in eurostar. Il testo si presenta anche, ironicamente, come un manuale o un prontuario per il buon uso del passato: la ricetta suggerita fin dal titolo consiste nell’abbandonare sulla spiaggia Guerra e pace e nel riprenderlo a distanza di ore, lasciando al caso e alla marea il compito di depurare un romanzo altrimenti destinato a non essere letto:
Disponete sul bagnasciuga i sei volumi, uno dopo l’altro, in fila ordinata. Allontanatevi. Guerra e pace al tramonto, il mare sullo sfondo…Molto bene. Dovete assicurarvi che nessuno passi nelle prossime ore. Aspettate che sia del tutto buio. Andate via. (…) Tornate sulla spiaggia. Il fiato pesante di whisky, la camicia a brandelli, un occhio pesto, tornate sulla spiaggia. Se tutto è andato bene Guerra e pace è ancora lì, sul bagnasciuga. (…) Noterete che il mare, nel suo casuale movimento, ha fatto un lavoro geniale. (…) Le pagine che i lettori medi non sopportano perché sospenderebbero la narrazione e che perfino la critica ufficiale ritiene “accessorie”, tanto da suggerire di saltarle, soltanto quelle resteranno. (…) Congratulatevi pure con voi stessi. Avete trasformato Guerra e pace in un capolavoro filosofico. Avete preferito una vacanza intelligente al più banale turismo sessuale.(74)
Questo atteggiamento ludico e irriverente nei confronti della tradizione, facilmente definibile come postmoderno, è tuttavia solo uno schermo. Lagioia, approfondendo il modulo del Bildungsroman ha in seguito prodotto uno dei romanzi generazionali più rilevanti e tragici degli anni Zero (Riportando tutto a casa, 2009) non riducibile al postmodernismo e, nelle sue dichiarazioni di poetica, è tutt’altro che incline a confondere letteratura alta e di consumo:
Che lettore mi aspetto? Un appassionato di letteratura, capace magari di non condividere la mia poetica e il mio romanzo ma rimanendo sempre sul territorio comune dell’esperienza letteraria. Sarò un po’ snob, ma non considero letteratura i romanzi di Faletti, e quelli di Dan Brown, e quelli per esempio di Ken Follet. Si tratta di comunicazione (o intrattenimento) a mezzo testo scritto, in certi casi anche orchestrata molto bene, e rispettabile per questo. Se Il codice Da Vinci è però letteratura, io sono un cretino e Antonio D’Orrico un critico letterario. Attenzione, non potete cavarvela con il semplice fatto che io sia un cretino: dovete prendervi pure D’Orrico.(75)
La poetica, ironicamente esposta in Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare se stessi), potrebbe essere dunque così sintetizzata:
In fondo non ho fatto altro che essere figlio del mio tempo. Le cosiddette tematiche del postmoderno, più che ricalcate, andrebbero semmai approfondite, indagate con altri mezzi e altri stili, questo sì, ma il campo da gioco rimane lo stesso in cui si muovono Žižek e Baudrillard, DeLillo, Houellebecq, Dick, Easton Ellis e compagnia cantante. Il che non significa non mantenere un ponte, saldissimo, con la tradizione. Da questo punto di vista biasimo la spericolatezza di certe avanguardie. Credo ad esempio a un pannello di riferimento rigidamente shakespeariano per ciò che riguarda la resa artistica dei sentimenti umani. Brama di potere, gelosia, tradimento…siamo abitati dagli stessi demoni di sempre. Ma cosa accade se al posto delle streghe del Macbeth ci sono i Teletubbies (…). Insomma, la fine della modernità non è – purtroppo o per fortuna – la fine dell’uomo. E dunque non è la fine del raccontare storie.(76)
Accostare brutalmente la Nomentana a Tolstoj, i Teletubbies a Shakespeare o, come vedremo, il McDonalds a Hiroshima, non produce affatto in Lagioia un effetto di ilare smaterializzazione del passato né colloca la sua scrittura finzionale nei territori dell’intrattenimento e dell’evasione. Al contrario, come è stato scritto, le strutture tipiche del postmodernismo nei suoi libri vengono adibite a contestare, implicitamente, i presupposti stessi della postmodernità(77). Lagioia ritorna infatti sul problema dei padri e dell’eredità culturale nella prefazione(78) a Nessuna militanza, nessun compiacimento. Poveri esercizi di critica non dovuta di Antonio Tricomi(79). In questo recente testo egli si pone lo stesso problema da cui prendeva le mosse Affinati (il nichilismo, l’eredità del Novecento) e, sorprendentemente, rilancia la funzione della scrittura e dell’attività intellettuale e il “principio speranza”:
Siamo ancora così ossessivamente interessati a Joyce, a Freud, a Kafka, a Proust, a T.S. Eliot, a Pirandello, a Montale, a Picasso, a Trakl, a Musil, a Stravinskij, a Simone Weil, a Faulkner, persino a certi tardivi modernisti come Malcolm Lowry, perché nelle loro opere è possibile rinvenire un momento di grande verità, generatosi proprio mentre il mondo imboccava per ben due volte al bivio il sentiero sbagliato (il più rovinoso e tragico possibile). (…) Ci addormentammo sotto il sole di Hiroshima, ci risvegliammo nel frastuono di un McDonald’s. (…)
In questo contesto beckettiano si svolge (comicamente, neanche fosse un momento di Giorni felici o Finale di partita) la nuova polemica tra vecchi e giovani. Qual è il rimprovero che i giovani intellettuali, in Italia, si sono sentiti fare nell’ultimo decennio da chi c’era prima di loro? I padri hanno accusato i figli (…) di aver agito nel vuoto, cioè fuori dai fortini e dalle chiese ormai distrutte (i luoghi che avrebbero dovuto tenerli al riparo dalle bassezze contagiose del mondo dei consumi e dello spettacolo neocapitalistico) che quegli stessi padri non erano riusciti a difendere. (…)
Se però – e qui, nella cronaca della grande mutazione, ci sono finalmente piccole gemme di speranza concreta – si smette per un attimo di considerare il secondo Novecento (le sue illusorie garanzie) come metro di paragone, e si guarda la Storia da una visuale più ampia, ci si rende conto che nessuna speranza è mai perduta, da sempre. (…)
Se Cervantes concepì Don Chisciotte in carcere e Antonio Gramsci morì come sappiamo, con quale coraggio annunciamo la fine del mondo portando come prova il crollo del mercato editoriale o la revoca delle nostre tutele sindacali? I tempi sono duri, più di quanto fossero nel passato recente, non più di quanto siano sempre stati, e il nichilismo è come al solito un vicolo cieco e una manifestazione d’arroganza.
Ecco allora, evitando di cadere nel tranello di considerare il mondo nato ieri o l’altro ieri, che l’attività intellettuale torna a mostrarsi necessaria e sempre possibile. Connaturata all’uomo come esigenza e prerogativa di specie. E soprattutto irta di difficoltà. Quelle difficoltà e scomodità che, per circa un quarantennio, ci eravamo stupidamente illusi di aver lasciato fuori dalla porta. (80)
I padri letterari sono additati sia tra i maestri attuali, da DeLillo a Ellis che tra i grandi modernisti, da Kafka a Malcolm Lowry. Ma compaiono anche i saggisti del Novecento, come Simone Weil e Gramsci. Guardando al nesso fra dichiarazioni di poetica e concrete realizzazioni creative, si può notare come Lagioia, reagendo dall’interno a una concezione del letterario come pratica derealizzante, recuperi una fiducia nella narrativa d’invenzione come realtà rappresentata. Ed è, in Lagioia come in Sarchi o in Falco soprattutto la rappresentazione prensile, figurale, dinamica dello spazio mutato, oltre all’invenzione dei personaggi, a costituire uno dei banchi di prova su cui si esercita la forza della scrittura di un’intera generazione, adolescente negli anni Ottanta, che ha consumato la propria “linea d’ombra” giovanile nel passaggio del secolo, in uno dei paesi più corrotti e sfigurati dell’occidente(81).
IV. Poetiche dello spazio
Il cosiddetto ritorno alla realtà ha generato un nutrito dibattito, assai rilevante per dar conto delle differenze all’interno del campo delle poetiche(82). Le questioni sollevate implicano una verifica – all’altezza dei problemi del presente – del concetto di mimesi. Proprio per tali ragioni, un terreno di confronto tra le idee sulla letteratura e le scritture degli anni Zero può riguardare la rappresentazione dello spazio, elemento mimetico per eccellenza e punto di convergenza di pratiche multidisciplinari e intermediali. Non a caso, Cortellessa ha dedicato molta attenzione(83), nell’introdurre i narratori degli anni Zero, alla nozione foucaultiana di eterotopie, nonché a una tradizione esplorativa e spaziale della nostra recente letteratura che va da Zanzotto e Celati fino a nuove prose cartografiche degli anni Zero, fra cui quelle di Falco e di Arminio.
Nell’area umanistica, con interessanti estensioni anche in campo urbanistico e architettonico, sono attive nuove forme di indagine(84): quella geocritica, in particolare, converge sull’idea che i luoghi siano definiti in base alla presenza dei soggetti e delle loro diverse modalità percettive e discorsive; in particolare il legame tra letteratura e geografia umana è un dato di fatto evidente da tempo per più ragioni:
innanzitutto la letteratura fornisce un complemento alla geografia regionale, in seguito permette di trascrivere l’esperienza dei luoghi e dei loro modi di percezione e infine esprime una critica alla realtà o all’ideologia dominante(85).
Tale prospettiva ha dato vita a esperienze editoriali particolarmente significative e prolifiche: la serie sulle capitali del mondo di Unicopli, Le città letterarie, e i numerosi titoli della collana Contromano di Laterza dedicata invece al panorama nazionale, per lo più ma non esclusivamente urbano(86). Questo ambito di ricerca riguarda, in modi diversissimi, anche Franco Arminio e Giorgio Falco, non solo nelle loro realizzazioni artistiche (Terracarne, 2011 e Geografia commossa dell’Italia interna, 2013, e L’ubicazione del bene, 2009 e Condominio Oltremare, 2014) ma anche nelle riflessioni di poetica.
I due autori sono assai lontani tra loro per origine geografica (irpino il primo – lombardo il secondo), per formazione e per professione (insegnante elementare e “paesologo” l’uno – dapprima impiegato in un’azienda di telecomunicazioni e ora esclusivamente scrittore l’altro), per scelte stilistiche (creaturale e ipocondriaco, incline all’accumulo retorico e alla ridondanza lo stile di Arminio – chirurgico, iperrealistico e essenziale al massimo grado quello di Falco).
Se ricostruire la poetica di un autore loquace e poco finzionale come Franco Arminio può risultare piuttosto lineare, in quanto i suoi scritti in prosa offrono generose dichiarazioni in questo senso, per Falco è invece necessaria un’operazione di scandaglio nel “sottobosco” delle sue scritture giornalistiche e dei blog che lo riguardano(87): incline alla fiction, è un esempio piuttosto evidente di reticenza nell’esplicitare i modelli della propria scrittura e il ruolo che vi attribuisce quale chiave di lettura del mondo.
La sua più importante dichiarazione di poetica, per quanto implicita, risulta essere quella compresa nella voce Laterale curata per il Dizionario affettivo della lingua italiana:
Sono a mio agio quando non sto in quello che è considerato il centro. Preferisco stare defilato, non completamente fuori dal centro ma neppure inglobato. […] Il laterale per me è come un messaggero tra l’immagine centrale e ciò che è marginale, anche sfuocato, ciò che non si vede chiaramente, l’ignoto che sta fuori, sul bordo. Ecco, bordo è un’altra parola che mi piace, però per me implica anche un punto da cui precipitare. Per il momento preferisco laterale.(88)
Nel breve testo che dedica al suo concetto di lateralità, Falco fa ricorso anche a un’osservazione del fotografo Guido Guidi secondo il quale il punto di vista da cui si scatta una foto può mutarne radicalmente il significato:
il prete al centro dell’altare rappresenta Dio, ma appena si sposta anche solo di un paio di metri, appena diviene laterale vicino al leggio da cui predica, il prete ritorna uomo. (89)
La poetica della lateralità di Falco, unita all’assunzione di modelli fotografici per lo più di matrice statunitense(90), sembra consistere innanzitutto, dunque, nella predilezione per una prospettiva dislocata, marginale da cui guardare al mondo. È interessante notare come un concetto non dissimile compaia anche in Arminio che in Chiodi di pane, appunti sul confine, una delle prose inserite in Geografia commossa dell’Italia interna, scrive:
Io vivo di avvistamenti come una sentinella, sono sul bordo, nella mia vita non ho mai frequentato nessun centro. […] stare sul bordo, omettere il centro, attraversarlo senza fermarsi, c’è un solo centro possibile nella nostra vita, questo centro è la morte, dunque fin quando siamo vivi è solo questione di orlo, di bordo, di confine”.(91)
Tuttavia in Arminio il concetto acquisisce valenza diversa: carnale e fisico, in una continua osmosi tra malessere del corpo e agonia dei paesi irpini, la sua scrittura finisce per “svolgere l’autopsia del paesaggio” e per “redigere nuovi referti”(92); il campo figurale prescelto è di tipo biologico, medico-anatomico:
E il mio paesaggio è un corpo martoriato: penso alla lunga emorragia dell’emigrazione e poi agli improvvisi ribollimenti del cratere, alle faglie che lo attraversano. – scrive Arminio in Circo dell’ipocondria – Dal giardino al paesaggio, dal paesaggio al paese, grembo che marcisce senza farmi uscire. Il paese come utero inverso, luogo da cui non si esce, né in forma umana, né come rivolo di sangue. Utero, ossario, recinto dell’apprensione dove una siepe spinosa di pensieri infelici ogni tanto vira e stringe verso l’imbuto dell’angoscia. Abitare il mio paese e abitare il mio corpo a un certo punto sono diventati una cosa sola, un abisso.(93)
Esatta e geometrica risulta invece la lateralità di Falco che attribuisce alla scrittura la capacità, propria del linguaggio fotografico, di ricomporre il caos della vita in una sorta di puzzle ordinato: il campo figurale è, in questo caso, fotografico e visivo. Nella scrittura, come nelle foto cui Falco si ispira, ogni particolare, a prima vista insignificante, concorre a creare il quadro d’insieme finale(94). Si veda, a questo proposito, l’illuminante recensione alla mostra americana del 2009 del fotografo William Eggleston, uno dei preferiti tra i suoi modelli:
Sembra che il fotografo usi l’accetta: oggetti, animali, persone sono spesso tagliate ai bordi, così da rivelare un movimento interno alla composizione, il dinamismo di infiniti angoli possibili. Nelle immagini coesistono tensione e calma, ma lo stato di quiete è sempre qualcosa di provvisorio. […] William Eggleston ha attraversato l’esistenza cercando un varco nel caos del quotidiano, ha lottato alla ricerca dell’equilibrio preciso tra tensione e calma, e ha trovato il mondo reale – come lui stesso definisce la sua opera – trasformando immagini qualsiasi in qualcosa di molto diverso: un’unica, certa fotografia. Per raggiungere – usando le parole di Robert Adams – un silenzio adeguato.(95)
Nel corso della citata lezione presso la Scuola Galileiana, Falco si è soffermato sulla foto in cui Egglestone fissa in primo piano un triciclo nella Memphis degli anni ’60: il giocattolo, proprio per la prospettiva inusuale e sghemba da cui è ritratto, si trasforma in presenza allarmante. La calma suggerita dalla foto – “un silenzio adeguato”, appunto – è in realtà più apparente che reale: chi la guarda si aspetta da un momento all’altro l’irruzione di qualcosa di dirompente. È quello che capita, del resto, in molte pagine della narrativa dello scrittore, laddove l’attenzione al dettaglio, spesso ripreso da una prospettiva insolita, trova un suo significato nel quadro complessivo narrato(96).
Al codice prediletto, corporeo e medico o visivo e fotografico, corrispondono due diverse spazialità cui gli scrittori si rivolgono. Falco rappresenta la pianura padana antropizzata e cementificata da insediamenti residenziali e industriali, commerciali e vacanzieri(97). È il medesimo non-luogo che, del resto, fa da sfondo anche ad alcune recensioni apparse su La Repubblica relative, non a caso, a mostre fotografiche o a libri di fotografie di noti artisti:
L’Italia di Guido Guidi – scrive nel 2011 riguardo la raccolta A map of Italy – è l’Italia laterale, rimossa dagli stessi residenti, […] è la nazione passata dalla civiltà contadina a quella industriale. […] Possiamo dire che l’opera di Guidi sia la sommatoria di due sottrazioni: gli avanzi del mondo contadino e le scorie del mondo industriale.(98)
E due anni prima aveva scritto, relativamente a una mostra del fotografo Olivo Barbieri che ha ritratto Milano da un elicottero in volo:
Barbieri assegna nuova dignità e significato alla consunzione visiva dei luoghi. Ha fotografato dall’alto la città della videosorveglianza, dei varchi elettronici, dei dissuasori, in cui immagine e linguaggio si saldano in un flusso potente, spettrale.(99)
Arminio, invece, guarda alle larve dei paesi appenninici al confine tra Campania e Basilicata bloccati nella loro premodernità dal terremoto dell’80; è il Sud “dell’osso”, come ama definirlo in contrapposizione a quello “della polpa” rappresentato, a suo dire, da Saviano:
Le cose vere si sentono quando ci spingiamo in un paesaggio non presidiato dagli umani: per questo amo l’Italia senza capannoni e officine, l’Italia che sta nei nidi alti degli Appennini. […] Basta cercare i margini del nostro mondo, i luoghi sfrangiati, dimessi.(100)
Falco e Arminio, pur partendo da presupposti diversi, rilevano come dato costante insito nello spazio che li circonda un senso di desolazione, di malattia che l’Italia sembra emanare, da qualunque prospettiva la si osservi, “paesologica” o periurbana(101):
il lavoro di Guidi – per Falco – suggerisce una malattia continua, debilitante, che costituisce l’essenza stessa del nostro stesso vivere. Una febbriciattola, 37,2 di temperatura, che muta in lievi oscillazioni e smottamenti silenziosi.(102)
La mattina del 5 dicembre 2012 nel paese di Sant’Angelo dei Lombardi ho camminato per un’ora senza incontrare nessuno […]. – scrive Arminio – Non ho incontrato animali, neppure un cane, un gatto. Un paese muto. Non ho sentito un canto, non ho visto un sorriso, un saluto gentile. Tutto nella mattina di Sant’Angelo si svolge secondo la regola aurea della desolazione che governa l’inverno dei paesi, ma non pensate a qualcosa che si ripete, che rimane fissa. La desolazione che c’era un anno fa o un mese fa aveva qualcosa di diverso. È una frana che si muove lentamente, senza mai fermarsi.(103)
Si noti allora come le metafore prese dal linguaggio specifico del dissesto geologico, frana per Arminio/ smottamento per Falco, delineino uno sguardo desolato sull’Italia che ha però ancora una volta esiti assai differenti tra i due: lo scrittore di Bisaccia, più incline alla prassi, va sui luoghi, li fotografa, li descrive, anzi li ascrive alla disciplina da lui stesso inventata, la paesologia(104), inserendosi nel solco di una consolidata tradizione italiana che fa del reportage una scrittura vivace e aperta alle contraddizioni del presente; in questo senso Iacoli insiste a più riprese sul fortissimo legame che lega l’esperienza di Arminio a quella di Celati, e prima ancora, alla tradizione della narrativa di viaggio di Soldati e Piovene:
Una siffatta convergenza poetica, mediante l’ascolto approfondito dei luoghi minori, mediante l’insistenza su una posizione centrifuga, porta alla luce la disarmonia della condizione dell’intellettuale rispetto al suo tempo, la valorizzazione della poesia del residuale (un tempo perduto che si sedimenta e tramuta nello spazio, marginale e all’apparenza uniforme, monotono, difficile a cogliersi nella sua specificità), le contraddizioni patenti dell’Italia contemporanea.(105)
La desolazione e lo smottamento fissati sulla pagina di Falco sono invece i prodotti di un’ottica volutamente dislocata, che mira a spostare i punti di osservazione da quelli comuni, a smontare preconcetti e a scardinare immagini date per scontate: ancora una volta è un articolo dedicato nel 2011 all’eccentrica fotografa americana Diane Arbus(106) a parlarci di questo aspetto che passa per osmosi anche nella poetica dello scrittore:
[…] ogni buona fotografia è uno strappo, la lacerazione di ciò che ancora non si vede, stupore sommesso dello sguardo. Arbus mostra quello che la produzione – di cose, servizi, merci – nasconde, in attesa dell’abituale – più o meno scintillante – incantesimo. La fotografa crea la sua realtà trasferendo gli stereotipi quotidiani, ritraendo le convenzioni in uno schema differente, in cui proprio l’artificio è cifra stilistica e politica.
Foto di un ebreo gigante, ritratto a casa con i suoi genitori nel Bronx (1970)
Travestito con la sua torta di compleanno (N.Y.C., 1969)
Un analogo “strappo”, una simile “lacerazione” e una non diversa strategia dello sguardo caratterizzano la costruzione narrativa e i montaggi di Falco. Nei sei racconti pubblicati nel luglio del 2009 su “La Repubblica” si ricostruisce la genesi edilizia dell’immaginaria Cortesforza e la ferita inferta al paesaggio dalla costruzione delle “villette geometrili” di cui già dalla fine degli anni Ottanta parlava Celati(107). Ancora più interessante risulta l’inventata Blockburg, stereotipata e convenzionale cittadina bavarese da cui prende le mosse La gemella H: specchio riflettente, a livello di rappresentazione spaziale, di quella “zona grigia” con la quale Falco “sloga” i preconcetti sui quali si modella una visione banalizzante del nazi-fascismo(108).
La poetica dello spazio dei due autori è attestata anche dalla diversa predilezione per i mezzi di attraversamento del paesaggio(109). Per Arminio appare essenziale l’esperienza del camminare nel cuore dell’Appennino:
Per camminare non mi resta che prendere la macchina fotografica e farmi un giro lontano dalla piazza, nel museo delle porte chiuse che è diventato il mio paese. […] Nei miei testi continuo a fare l’elogio dell’andare fuori, però anche nei miei giri paesologici di fatto passo molto tempo in macchina. Faccio camminate brevi, spesso mi prende lo sconforto e mi rimetto in moto in cerca di un altro paese.
Insomma, quando si parla di penuria di esperienza, bisogna ricordare che sta diventando impossibile proprio quella fondamentale, del camminare.(110)
Per Falco, invece, l’osservazione del paesaggio dall’auto risulta una modalità privilegiata perché, ancora una volta, laterale; sembra che il finestrino diventi una lente di ingrandimento sui dettagli dello spazio attraversato, che si trasformi nel mitico cannocchiale a gettone della sua infanzia, definito da Cortellessa “accumulatore di tempo”(111):
All’interno dell’ausilio ferroso tarato sulla moneta inserita c’era la possibilità di vedere lo spazio ingigantito, mediato dalla percezione personale e dai soldi, dal punto di vista: insomma, il paesaggio.(112)
Questa modalità di rivolgersi allo spazio circostante si ripete e si potenzia nel corso degli attraversamenti autostradali:
L’autostrada dà l’idea di stare sul bordo, di correre lungo i margini, nonostante il tracciato dell’autostrada sia sempre al centro di qualcosa. Questa finta teorica marginalità, per quanto mi riguarda, è l’aspetto più convincente dell’autostrada. Dislivelli, svincoli, viadotti, gallerie formano un paesaggio in cui «si è passati dal film intimista ai grandi orizzonti del western», secondo Augè.(113)
Anche a Falco non è sconosciuta l’esperienza del camminare corredata in Condominio Oltremare dalla fotografia di Sabrina Ragucci(114): con questa operazione i due sembrano rifarsi alla storica collaborazione tra lo scrittore Celati e il fotografo Ghirri messa in atto con Verso la foce negli anni ’80 e, più di recente, con il documentario Case sparse- Visioni di case che crollano(115).
Due diverse tensioni conoscitive e rappresentative animano, dunque, gli autori, che si riallacciano a linee già presenti nella nostra storia letteraria. Falco può richiamare alla mente la nota predilezione per lo sguardo ordinatore di Calvino(116): Esattezza e Visibilità sono sezioni delle Lezioni americane assai significative in questo senso. Arminio, per contro, evidenzia una consonanza con la poetica carnale di Zanzotto, dal cui testo Esistere psichicamente mutua l’espressione “terra-carne”, ma al quale lo avvicinano anche alcune prose dedicate al paesaggio veneto, letto secondo la categoria del trauma:
ciò cui oggi si dà il nome di benessere, coincide con l’infierire contro la madre terra e i paesaggi in cui essa si era costituita lungo i milioni di anni: paesaggi in cui essa aveva accettato e accarezzato la presenza umana, scaglionandola lentamente in armonie progressivamente integrate. […] Resta ferma, insomma, la convinzione che la poesia debba ostinarsi a costituire “il luogo” di un insediamento autenticamente “umano”, mantenendo vivo il ricordo di un “tempo” proiettato verso il “futuro semplice” – banale forse, ma necessario – della speranza(117).
Rappresentazione della Pianura o dell’ Appennino, poetiche della fotografia o dell’ipocondria, claustrofobia del non-luogo e “umanesimo delle montagne”(118): questi i poli tra cui Falco e Arminio si muovono, attenti entrambi a delineare sulla pagina lo spazio nella sua densità e nei suoi “effetti di realtà”. È possibile forse ipotizzare che anche Arminio e Falco, seppure ciascuno dal proprio specifico “orlo”, dal proprio peculiare “margine”, possano condividere l’explicit de Il realismo è impossibile:
Se dovessi trovare, per il realismo come lo intendo, un verbo riassuntivo, indicherei il verbo sporgersi.(119)
Conclusioni provvisorie
L’attraversamento del labirinto delle idee sulla letteratura dei prosatori contemporanei permette di delineare, in breve, alcune congetture provvisorie.
Idee e poetiche sono termini che in campo estetico rinviano alla riflessione, cioè a una componente razionale presente nell’atto artistico: ciò comporta l’ipotesi che sia ancora una forza attiva della scrittura la presenza di una serie di concetti che guidano l’attività dello scrittore “in rapporto con tutto quel che egli sa del pensiero, delle ideologie, delle credenze, della società”(120). Questa centralità dell’autocoscienza, infatti, non sembra essersi spenta nella contemporaneità, pur assumendo forme pulviscolari: le idee sulla letteratura continuano a modificarsi per le sollecitazioni dei mutamenti del contesto. In tal modo, le poetiche costituiscono un campo di forze che, facendo riferimento alla sociologia dei processi culturali di Bourdieu, si potrebbe definire come “capitale simbolico”(121).
Detto ciò, le tensioni, le convergenze e i posizionamenti dei prosatori contemporanei possono essere schematizzati in tre “campi” principali:
1) Le opposizioni fra finzione e non finzione. Se, per molti osservatori “gli scrittori più interessanti, acuti e provocatori scrivono non fiction” e il romanzo oggi è “culturalmente irrilevante”(122), uno sguardo critico meno appiattito sul contemporaneo mostra come i romanzi d’invenzione e l’identificazione romanzesca siano ancora fatti meno periferici di quanto esiga la vulgata corrente. Con Celati di Finzioni occidentali , del resto, si possono trattare “verosimile” e “immaginazione” come “tipi di testualità letteraria e sociale” che hanno iniziato a divorziare, come le parole dalle cose, in epoche a noi lontane e decisive per la fondazione del moderno(123). I mutevoli posizionamenti degli scrittori odierni lungo l’ideale scala graduata fra cronaca, realtà e invenzione non costituiscono dunque una “novità” ma il precipitato “ipermoderno” della lunga storia del meticciato dei generi letterari(124).
2) Il rapporto con i modelli e con la tradizione. Oltre il black out del dialogo tra generazioni e dopo il trionfo dell’intertestualità permanente, sembra tornata l’abitudine degli autori a scegliere con consapevolezza dei modelli, a selezionare il proprio canone: non si pensa qui solo al Leopardi di Moresco o al Pasolini di Saviano né tantomeno al Calvino di De Carlo, quanto piuttosto al nuovo rapporto con il modernismo, da Faulkner a Kafka, che circola fra gli scrittori italiani più recenti, congiuntamente a un oscillante canone della contemporaneità (da DeLillo a Houellebecq, da Easton Ellis a Capote, da Sebald a Munro), sempre percorso e attraversato da riferimenti visivi, filmici e mediatici. Va dunque ipotizzata “una persistenza di poetiche moderniste come vera, sebbene discontinua, costante della letteratura dal Novecento a oggi”(125).
3) Il campo della realtà spaziale e territoriale. La riflessione diretta o indiretta sullo spazio, presente in molti autori, rinvia al più generale problema della rappresentazione della realtà, rubricata forse troppo schematicamente come “ritorno al reale”. Il riconoscimento dell’ instabilità epistemica del termine “realtà” e la debolezza del “dogma del realismo ingenuo, che postula […] un’assimilazione diretta (illusoria) tra realtà e finzione”(126) non impediscono tuttavia di parlare anche per gli anni Zero dei codici mediante i quali la letteratura interroga il mondo, e dunque di “nuove realtà e di “nuove finzioni”(127). La ricerca intorno agli “effetti di spazialità”(128) messa in atto dai prosatori contemporanei può essere considerata il banco di prova privilegiato di questa dialettica del realismo(129). La realtà territoriale italiana negli ultimi decenni si presenta infatti come un’entità non più definibile con gli strumenti urbanistici tradizionali. Gli scrittori contemporanei si sono rivolti in gran numero alla rappresentazione dei nonluoghi italiani, utilizzando sia i fortunati generi nonfinzionali sia il romanzo d’invenzione e consentendo una “dicibilità” di fenomeni urbani e antropologici altrimenti sempre più sfuggenti all’analisi delle stesse discipline predisposte a studiarli.
Note
(1) Di questo testo, discusso e pensato da entrambi gli autori, il primo, il terzo e il quinto paragrafo sono di Emanuele Zinato, il secondo e il quarto di Morena Marsilio.
(2) “ Non è certo un dato nuovo l’avversione degli autori contemporanei all’istituto della “poetica”, invece assai pregiato dalla tradizione del moderno (immagino perché avvertito come ideologico, e in ogni caso vincolante per le proprie scelte a venire); ma mi ha colpito registrare una resistenza così tetragona come quella opposta dai narratori ( a fronte di un atteggiamento ben più “aperto”, da qualche tempo ormai, dei poeti”. A. Cortellessa, Introduzione a La terra della prosa. Narratori italiani degli anni Zero, (1999-2014), Roma, L’Orma Editore, 2014, p. 23.
(3) F. Cordelli, La palude degli scrittori, in “La Lettura” del “Corriere della Sera”, 25 maggio 2014, pp. 10-11. Sul rischio reale di giudizi critici basati su gusti e idiosincrasie personali si veda “Il Verri”, n. 35, Ottobre 2007, p. 19, dedicato alla “Bibliodiversità”.
(4) Si vedano le risposte di Alfonso Berardinelli e di Christian Raimo, apparse rispettivamente su “Il Foglio” del 01/06/14 http://www.ilfoglio.it/articoli/v/117645/rubriche/il-critico-con-la-palude-in-testa.htm e sul blog culturale della casa editrice Minimum Fax http://www.minimaetmoralia.it/wp/contro-i-polemisti-per-i-mediatori/.
(5) P. Di Stefano, La realtà è viva, viva la realtà, in “La Lettura” del “Corriere della Sera”, 21 dicembre 2014, p. 11.
(6) R. Palumbo Mosca, L’invenzione del vero, Roma, Gaffi Editore, 2014, p. 22.
(7) Cfr. P. Cataldi, Le idee della letteratura, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1994, p. 186.
(8) “c’è, ad esempio, un’agguerrita pattuglia di scrittori, riuniti per lo più attorno alla rivista “Nuovi Argomenti”, ben decisi a inseguire un’idea forte di letteratura come ermeneutica del mondo e della storia. […] la rivista rappresenta lo spazio forse più rilevante per la sperimentazione di forme diverse di narrativa, che ibridano il romanzo con generi differenti come l’inchiesta, il saggio, o il pamphlet politico” in R. Palumbo Mosca, L’invenzione del vero, cit., p. 26 e p. 29.
(9) A questo proposito cfr. E. Zinato, Le idee e le forme. La critica letteraria in Italia dal 1900 ai nostri giorni, Roma, Carocci Editore, 2010, p. 13.
(10) L’inchiesta ha suscitato un vivace dibattito ora sintetizzato da M. Ganeri, Reazioni allergiche al concetto di realtà. Il dibattito intorno al numero 57 di «Allegoria» in Finzione, cronaca, realtà. Scambi, intrecci e prospettive nella narrativa contemporanea a cura di H. Serkowska, Massa, Transeuropa, 2011, pp. 51-68. Sul ritorno alla realtà va segnalato inoltre il volume Negli archivi e per le strade. Il ritorno alla realtà nella narrativa di inizio millennio, a cura di L. Somigli, Roma, Aracne, 2013 che raccoglie gli interventi dell’omonimo convegno canadese tenutosi nel maggio 2010.
(11) Il corpo e il sangue d’Italia a cura di Christian Raimo, Roma, Minimum Fax, 2007, p. 6. Sul testo in questione si veda anche l’apprezzamento complessivo di R. Palumbo Mosca, L’invenzione del vero, cit., p. 70-71.
(12) A. Pascale, Il responsabile dello stile in Il corpo e il sangue d’Italia, cit., pp. 52-95.
(13) C. Boscolo – S. Jossa, Finzioni metastoriche e sguardi politici dalla narrativa contemporanea, in Scritture di resistenza. Sguardi politici dalla narrativa italiana contemporanea, a cura di C. Boscolo – S. Jossa, Roma, Carocci, 2014, pp. 15-28 in cui ci si sofferma su come il fatto di cronaca sia stato rivisitato da G. Genna, Dies Irae, Milano, Rizzoli, 2006. La morte di Alfredino Rampi è stata ripresa letterariamente anche in N. Lagioia, Riportando tutto a casa, Torino, Einaudi, 2011.
(14) Il testo di Pascale, anche per la presa di distanza da Saviano, ha fatto discutere. Cfr. anche Responsabilità dello stile, seminario a cura di A. Cortellessa e A. Pascale tenutosi il 5 marzo 2008 presso la sede romana della casa editrice Laterza nonchè l’intervento di Beppe Sebaste al link http://beppesebaste.blogspot.it/2008/03/etica-della-prosa-sulla-responsabilit.html .
(15) Sui temi e sulle prospettive qui affrontati Emanuele Zinato ha presentato di recente alcune possibili linee interpretative cui si rimanda in Autofinzioni occidentali, in http://ricomporreinfranto.com/. Il blog segnalato raccoglie inoltre una serie di interventi tenuti presso il Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari dell’Università di Padova nella primavera del 2014 su iniziativa di un gruppo di studenti.
(16) A. Casadei, Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 125.
(17) Per quanto concerne la finzionalizzazione diffusa dai media si vedano in particolare A. Scurati, La letteratura dell’inesperienza. Scrivere romanzi al tempo della televisione, Milano, Bompiani, 2006, pp. 48-56 e D. Giglioli, Senza trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio, Macerata, Quodlibet, 2011, pp. 16-20. Qui a p. 15, si legge: “l’indebolimento delle barriere tra realtà e finzione che sta dietro a molte delle poetiche postmoderne, con il suo corredo di pastiches, citazioni, ibridazioni, intertestualità forsennate, dissoluzione del soggetto, perdita di profondità. E più in generale quella mescolanza di scetticismo nichilista e di realismo ingenuo che fa da liquido amniotico al senso comune di una società in cui l’immagine del mondo è stata quasi interamente requisita dai mass media.” Per l’uso dell’aggettivo “necrofilo”, si veda C. Benedetti, Pasolini contro Calvino, Torino, Bollati Boringhieri, 1998 pp. 17-18.
(18) M. Di Gesù, Palinsesti del moderno. Canoni, generi, forme nella postmodernità letteraria, Milano, Franco Angeli, 2005. p. 51.
(19) B. Pischedda, Modernità del postmoderno, in “Belfagor”, LII, 1997, 5, pp. 580-581.
(20) “Eppure, nella fiction (chiamiamola così), l’esibizione dei dati e dei nomi della realtà è a mio giudizio più insistita che nei romanzi di due secoli fa, anche se, per paradosso, la realtà è rubata dal campo del nemico: quello dell’enciclopedia mediatica, agente prima della derealizzazione. E soprattutto, il successo della non fiction rivela una rottura di confini che nel postmoderno era impensabile, e che trascina, per citare ancora Aristotele, la poesia nel campo della storiografia.” in R. Donnarumma, “La fatica dei concetti. Ipermodernità, postmoderno, realismo” in Tecnologia, immaginazione e forme del narrare, Ed. L. Esposito, E. Piga, A. Ruggiero, Between, IV, 8 (2014), p. 4 in http://www.Between-journal.it/.
(21) Palumbo Mosca, proprio a proposito del principio della sospensione dell’incredulità del lettore, scrive dopo essersi soffermato su alcune opere di non fiction e sui loro tratti costituivi: “Il luogo comune della suspension of disbelief è così ribaltato: il lettore di un testo che gioca, esasperandola, sull’ambiguità di fiction e non-fiction è portato ad aumentare la sua incredulità, e non a sospenderla, per continuamente mettere alla prova i diversi livelli di verità del testo (documentale, storico, mitico)” R. Palumbo Mosca, L’invenzione del vero, cit., p. 62.
(22) E. Affinati, Vita di vita, Milano, Mondadori, 2014, p. 11.
(23) Finzione e documento nel romanzo, a cura di M. Rizzante, W. Nardon e S. Zangrando, Trento, Università degli Studi di Trento, 2008, p. 19.
(24) Ivi, p. 20.
(25) F. Cordelli, Lontano dal romanzo, a cura di M. Raffaeli, Firenze, Le Lettere, 2002, pp. 283-287. La sezione dedicata allo scrittore romano si intitola “Affinati. Campo dell’allegoria guerriera”. In particolare a p. 287 si legge: “Perché allora, Campo del sangue modifica la nostra scena letteraria? Perché, in modo risoluto, vuole colmare, e di fatto colma, la distanza che separa, dall’azione, quella parola (novecentesca), raffinata, sfibrata, debolissima: ormai sul banco degli imputati.”
(26) “Allegoria”, n. 57, 2008, p. 11.
(27) Ivi, p. 22.
(28) A. Sarchi, Verità, realismo, autenticità, in http://www.alessandrasarchi.it/ .
(29) 1979, città di Amstetten, capoluogo della Bassa Austria.
Sotto la minaccia della guerra fredda, il cittadino Josef Fritzl ottiene le concessioni edilizie necessarie a costruire un bunker antiatomico nelle fondamenta di casa.
Nel dicembre 1982 viene indagato per lo stupro di due donne, e condannato a diciotto mesi di reclusione. Uscito di prigione completa la costruzione del bunker.
Qualche settimana più tardi vi rinchiuderà sua figlia Elisabeth.” P. Sortino, Elisabeth, Torino, Einaudi, 2011, p. 3.
(30) P. Sortino, Avvertenza in Elisabeth, cit.
(31) G. Simonetti, Il sottosuolo. Su “Elisabeth” di Paolo Sortino (e sul romanzo contemporaneo) in https://www.leparoleelecose.it/?p=993; per il romanzo di Sortino di rimanda anche a R. Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2014, pp. 120-121.
(32) “A partire da un’analisi dell’esistente, e delle diverse possibilità aperte al genere, mi sono proposto di ragionare sul perché la forma del romanzo ibrido mi sembri oggi quella più auspicabile” R. Palumbo Mosca, L’invenzione del vero, cit., p. 15. L’intero suo saggio è volto a dimostrare questa tesi di fondo dichiarata fin dalla Premessa dedicando particolare attenzione ai lavori di Pascale, Franchini, Saviano, Affinati.
(33) M. Covacich, Prima di sparire, Torino, Einaudi, 2008.
(34) M. Italia, Intervista a Mauro Covacich in http://www.arabeschi.it/intervista-a-mauro-covacich/.
(35) Sul tasso di saggismo insito nelle autofinzioni di Siti insiste Emanuele Zinato in Autofinzioni occidentali: “Se c’è un valore in questo testo è la forza consequenziale dell’argomentazione a tutto campo, cioè una critica della società che oggi viene decretata potentemente desueta: esercitarla vuol dire essere dell’altro secolo, dell’altro millennio, fuori dal mondo. E allora serve una maschera finzionale” in http://ricomporreinfranto.com/.
(36) W. Siti, Il realismo è impossibile, Roma, Nottetempo, 2013, pp. 7-15.
(37) Ivi, p. 76 e pp. 64-65.
(38) R. Donnarumma, Il vero e il reale. Testimonianza e documento nella narrativa italiana di oggi in http://ricomporreinfranto.com: “Questi scrittori come Saviano o Langewiesche, non credono minimamente in una realtà oggettiva, ma si può dire che raccontino in maniera molto enfatica un’esperienza soggettiva di una realtà che è già stata messa in forma e ha già avuto una riproduzione discorsiva. Vi è sempre e comunque il filtro del soggetto che si appropria delle cose, e che tenta di strapparle alla derealizzazione”.
(39) G. Simonetti, Declino e fine della letteratura “di una volta”. Alcune tendenze del romanzo italiano contemporaneo in http://ricomporreinfranto.com . Tuttavia Simonetti considera i romanzi ibridi, insieme a quelli di genere, come “definitiva resa della letteratura”: “Entrambe rifiutano quello che è invece caratteristica di un’idea “forte” di letteratura, ovvero l’idea che una grande opera letteraria abbia un’identità precisa, autonoma, individuale, che non ha niente a che fare con i “formati”.
(40) Cfr. F. Muzzioli, Teoria e radicalità. Una rassegna non rassegnata tra le posizioni letterarie attuali, in “Moderna”, IV, 1, 2002, pp. 29-44.
(41) A. Pascale, Il responsabile dello stile in Il corpo e il sangue d’Italia, cit., p. 75 e ss.
(42) “Allegoria”, cit., pp. 20-21.
(43) Cfr. A. Pascale, Il responsabile dello stile in Il corpo e il sangue d’Italia, cit., pp. 88-90.
(44) Ivi, p. 81.
(45) C. De Majo – F. Viola, Italia 2. Viaggio nel paese che abbiamo inventato, Roma, Minimum Fax, 2008.
(46) M. Di Gesu’, I paralleli. Narratori contemporanei e classici italiani a confronto, Palermo, Edizioni di Passaggio, 2009, p. 82. Sul testo in questione si sofferma a lungo anche R. Palumbo Mosca, L’invenzione del vero, cit., pp. 219-231 in riferimento all’ascendenza del modello statunitense di Forster Wallace.
(47) Una certa aria di famiglia si respira anche tra critici come A. Casadei, R. Palumbo Mosca, R. Donnarumma, già citati in questa sede. Cfr. anche P. Antonello, Dimenticare Pasolini. Intellettuali e impegno nell’Italia contemporanea , Milano, Mimesis, 2013 . Alla controversa questione del rapporto tra letteratura e politica si propone di dare risposta Scritture di resistenza, a cura di C. Boscolo – S. Jossa, cit., p. 10: “ da una parte l’idea dell’impegno come rappresentazione della realtà ai fini della sua trasformazione in senso etico e civile; dall’altra l’affermazione di un impegno che sta solo nella prassi della scrittura. Tra questi due poli è oscillata un po’ tutta la produzione letteraria italiana del Novecento: siamo ancora dentro questo paradigma o ne siamo usciti?”.
(48) Cfr. A. Casadei, Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo, cit., pp. 107-109. Ma il libro che ha aperto la discussione sull’“impegno postmoderno” è quello di J. Burns, Fragments of Impegno. Interpretations of Commitment in Contemporary Italian Narrative. 1980-2000, Leeds, Northern University Press, 2001
(49) A. Cortellessa, Introduzione a La terra della prosa. Narratori italiani degli anni Zero, (1999-2014), cit., p. 589.
(50) Ivi, p. 289.
(51) “Allegoria”, cit., p. 16.
(52) “Se da un lato la prima [la letteratura] si configura come un laboratorio in cui si scandiscono i passi alterni del reale e del possibile e in cui si simulano e si sperimentano valori e situazioni, dall’altro lato l’«identificazione-con» (Ricoeur), propria della dialettica del personaggio, non si presenta più come una miseria psicologistica, ma come il primo passo della comprensione di una possibilità dell’essere che ci mette sempre in tensione e in questione” E. Testa, Eroi e figuranti. Il personaggio nel romanzo, Torino, Einaudi, 2009, p. 5. Cfr. anche R. Palumbo Mosca, L’invenzione del vero, cit., pp.91-104.
(53) Cfr. C. Segre, Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino, Einaudi, 1991.
(54) I. Giannini, Intervista a Giorgio Vasta in http://www.mangialibri.com/node/5348.
(55) R. Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, cit., p. 156-157.
(56) A.Cortellessa, Introduzione a La terra della prosa. Narratori italiani degli anni Zero, (1999-2014), cit., p. 64.
(57) R. Palumbo Mosca, L’invenzione del vero, cit., p. 219.
(58) Per la discussione sull’intervento di Luperini, cfr. Intellettuali, letteratura e potere oggi, a cura di F. Marchese, Quaderni di Allegoria, 6, 2005. Per il dibattito intorno al cosiddetto “ritorno al reale” cfr. M. Ganeri, Reazioni allergiche al concetto di realtà. Il dibattito intorno al numero 57 di «Allegoria» in Finzione, cronaca, realtà. Scambi, intrecci e prospettive nella narrativa italiana contemporanea, cit., pp. 51-68.
(59) Cfr. F. Moretti, Il romanzo di formazione, Garzanti, Milano, 1986, pp. 9-26.
(60) G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento. La letteratura del nostro secolo in un grande racconto critico, Milano, Garzanti, 1998, p. 11.
(61) A. Baricco, I barbari. Saggio sulla mutazione, Milano, Fandango, 2006.
(62) T. Scarpa, La generazione dei padristi in http://www.nazioneindiana.com/2004/02/26/la-generazione-dei-padristi/.
(63) E. Affinati, Veglia d’armi, Milano, Mondadori, 1998; N. Lagioia, Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare se stessi), Roma, Minimum Fax, 2001.
(64) “In questo senso io non invento mai una storia. Ritorno sulle sue ragioni” in Le ragioni del ritorno: Eraldo Affinati risponde a Massimo Rizzante in Finzione e documento nel romanzo, cit., p. 14.
(65) E. Affinati, Veglia d’armi, cit., pp. 12-13.
(66) Basti a questo proposito scorrere l’elenco di scrittori suicidi esibito in Campo del sangue.
(67) Ivi, p.130.
(68) Cfr. E. Affinati, Compagni segreti, Roma, Fandango, 2006.
(69) “Un tempo avrei avuto timore di questo concetto. La cultura novecentesca mi ha educato a fuggire, a perdermi, ad essere gratuito, arbitrario, senza catene, privo di radici. Solo così sarei riuscito a conoscere una realtà speciale, invisibile alla maggioranza. Ed in virtù di questo privilegio esclusivo, come artista, nel caso in cui avessi commesso un danno, avrei anche potuto non pagare il prezzo del risarcimento. La storia del ventesimo secolo ha espresso, ai miei occhi, un severo monito nei confronti di tale poetica. Con gli anni ho compreso che la responsabilità non è un animale feroce, ma il nostro limite; tutti ne abbiamo uno: se non lo accettiamo, trovando lì e non altrove, la vera libertà, saremo infelici. In particolare sento di essere responsabile della parola scritta e orale perché, oltre ad aver pubblicato libri, sono anche insegnante” in Dizionario affettivo della lingua italiana, a cura di M. B. Bianchi con la collaborazione di G. Vasta, Roma, Fandango, 2008, p.163.
(70) C. Mazza Galanti, Intervista a Affinati in http://www.minimaetmoralia.it/wp/intervista-a-eraldo-affinati/.
(71) N. Lagioia, Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare se stessi), cit., p. 11.
(72) Cfr. E. Affinati, Compagni segreti, cit., pp. 239 -242.
(73) N. Lagioia, Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare se stessi), cit., p. 99.
(74) Ivi, pp.51-52.
(75) T. Scarpa, Occidente per principianti è un capolavoro in http://www.nazioneindiana.com/2004/10/25/occidente-per-principianti-e-un-capolavoro/. Si tratta di una conversazione tra Scarpa e Lagioia sul libro di quest’ultimo, allora appena pubblicato.
(76) A. Casadei, Occidente per principianti di Nicola Lagioia: da Bari a Roma all’Italia al mondo, in “Italianistica”, XXXVI, 1-2, Gennaio-Agosto 2007, p. 257.
(77) A. Cortellessa, Introduzione a La terra della prosa. Narratori italiani degli anni Zero, (1999-2014), cit., p. 197.
(78) N. Lagioia, I tempi migliori ( i tempi peggiori) in https://www.leparoleelecose.it/?p=16149.
(79) A. Tricomi, Nessuna militanza, nessun compiacimento. Poveri esercizi di critica non dovuta, Giulianova (Te), Gallad edizioni, 2014.
(80) N. Lagioia, I tempi migliori ( i tempi peggiori) in https://www.leparoleelecose.it/?p=16149.
(81) “Se conoscesse la geografia cittadina, se solo non avesse passato tutta l’infanzia in un incubatoio fatto di abitazioni signorili e associazioni filantropiche, concluderebbe che lo Sghigno imbocca il lungomare verso San Giorgio oppure si muove in direzione di Japigia. Invece pensa solo: Per di qua o per di là. Così, camminando sotto il sole di maggio, scopre che il suo mondo rappresenta un’infinitesima porzione di quell’aperta vastità cittadina che è Bari negli anni ottanta.” N. Lagioia, Riportando tutto a casa, Einaudi, Torino, 2009, pp. 101-102.
(82) Cfr. M. Ganeri, Reazioni allergiche al concetto di realtà. Il dibattito intorno al numero 57 di «Allegoria» in Finzione, cronaca, realtà. Scambi, intrecci e prospettive nella narrativa contemporanea, cit., pp. 51-68.
(83) A. Cortellessa, Introduzione a La terra della prosa. Narratori italiani degli anni Zero, (1999-2014), cit., pp. 46-58.
(84) Cfr. «Moderna», Letteratura e spazio, IX, 1/ 2007; G. Iacoli, La percezione narrativa dello spazio. Teorie e rappresentazioni contemporanee, Roma, Carocci, 2008; G. Alfano, Paesaggi, mappe, tracciati. Cinque studi su Letteratura e Geografia, Napoli, Liguori, 2010; F. La Porta, Uno sguardo sulla città. Gli scrittori italiani contemporanei e i loro luoghi, Roma, Donzelli, 2010; M. Mininni, Approssimazioni alla città. Urbano, rurale, ecologia, Roma, Donzelli, 2013; Il senso dello spazio. Lo spatial turn nei metodi e nelle teorie letterarie, a cura di F. Sorrentino, Roma, Armando, 2010; F. Marocco – M. Mininni, Nuovi strumenti (fenomenologici) per la rigenerazione urbana: l’apporto del racconto e del romanzo nel progetto dello spazio perturbano in “Planum. The Journal of Urbanism, n.27, vol.2/2013, pp 180-186; La geografia del racconto. Sguardi interdisciplinari sul paesaggio urbano nella narrativa contemporanea, a cura di D. Papotti e F. Tomasi, Bruxelles, P.I.E. Lang, 2014.
(85) B.Westphal, Geocritica. Reale finzione spazio, Roma, Armando, 2009, p. 50.
(86) D. Papotti, Racconti di città: strategie di interpretazione urbana nella collana «Contromano» in La geografia del racconto. Sguardi interdisciplinari sul paesaggio urbano nella narrativa contemporanea, cit., pp. 35-57.
(87) Particolarmente utile, dunque, è la consultazione degli articoli – scritti dal 2009 – pubblicati su La Repubblica e elencati nel suo blog Linea bianca – Giorgio Falco https://linea.wordpress.com/ e i contenuti dell’incontro che si è svolto presso la Scuola Galileiana dell’Università di Padova nel novembre 2014 nell’ambito di un ciclo di appuntamenti con gli autori dal titolo L’ombra lunga del genere. Oltre al blog di Falco, si può consultare anche quello di Sabrina Ragucci al link http://sabrinaragucci.wordpress.com/.
(88) Dizionario affettivo della lingua italiana, cit., pp. 110-111.
(89) Ivi, p. 111.
(90) F. Tomasi, Immagini della megalopoli padana ne L’ubicazione del bene di Giorgio Falco in La geografia del racconto. Sguardi interdisciplinari sul paesaggio urbano nella narrativa contemporanea, cit., p. 96.
(91) F. Arminio, Geografia commossa dell’Italia interna, Milano – Torino, Mondadori, 2013, pp. 7-8.
(92) F. Arminio, Viaggio nel cratere, Milano, Sironi, 2003 p. 14.
(93) F. Arminio, Vento forte tra Macedonia e Candela, Bari, Laterza, 2008, p. 102.
(94) Per esemplificare questa metodologia e questo obiettivo della sua scrittura, nel corso della lezione alla Scuola Galileiana Falco ha fatto riferimento al racconto dell’Ubicazione del bene “La gente è più forte di tutti”. Si rimanda inoltre ancora a F. Tomasi, Immagini della megalopoli padana ne L’ubicazione del bene di Giorgio Falco in La geografia del racconto. Sguardi interdisciplinari sul paesaggio urbano nella narrativa contemporanea cit., pp. 96-98.
(95) “Egglestone ha scattato quell’immagine quasi da sdraiato, dal punto di vista di un insetto, così il triciclo del bambino – come molti altri oggetti del nostro quotidiano – è diventato qualcosa di spaventoso, inquietante, per nulla innocente, e il cielo grigio è parso assorbire meglio il manubrio arrugginito, mentre sullo sfondo un’auto parcheggiata sotto il patio osservava muta la scena, e lateralmente, la parte posteriore di un’altra auto sembrava volesse aggiungere qualcosa.”: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2009/08/26/william-eggleston-lo-sguardo-democratico-dell-america.html.
(96) “L’allegoria sulla quale si apre Un altro ancora di Giorgio Falco esemplifica a meraviglia la concretezza con cui il trattamento degli spazi altri, nei nostri migliori narratori, condensa in un tempo materiale quella maledetta, forse salvifica indeterminatezza del mondo. Il cannocchiale a gettone, scrostato ruvido antigrazioso, si rivela un vero e proprio accumulatore di tempo – come altri oggetti sui quali si fissa catatonico lo sguardo del narratore nell’Ubicazione del bene – proprio in quanto avvicina lo spazio lontano e allontana quello prossimo.” A. Cortellessa, Introduzione a La terra della prosa. Narratori italiani degli anni Zero, (1999-2014), cit., p. 60.
(97)B. Secchi, Tra letteratura e urbanistica, Pordenone, Giavedoni Editore, 2011, pp. 16-17: “La crisi si è consumata, l’impresa tessile fondata due o tre generazioni prima non esiste più. Ciò che resta è il grande rimpianto di quel mondo e la rabbia per le politiche insipienti che l’hanno distrutto o non si sono preoccupate di aiutarlo a salvarsi. […] È il popolo della “città diffusa”, che la cultura piccolo borghese di molti miei colleghi urbanisti è stata incapace di capire, fermandosi a un giudizio banalmente estetico della città che si veniva formando in Veneto, in Brianza, lungo la costa adriatica”.
(98) http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/08/09/se-garage-fienili-raccontano-italia.html. In Condominio Oltremare, del resto, Falco rappresenta proprio la somma di queste due sottrazioni, fermo restando che l’industria cui egli fa riferimento è quella delle vacanze negli anni del boom. Si veda in particolare G. Falco – S. Ragucci, Condominio Oltremare, Roma, L’Orma Editore, 2014, pp. 20-24.
(99) http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2009/10/24/fotografie-autore-dal-cielo-sopra-milano.html. Per avere un’idea del tipo di foto realizzate da Barbieri si può consultare il sito: http://mag.sky.it/mag/arts/photogallery/2009/11/03/olivo_barbieri.html#5.
(100) F. Arminio, Geografia commossa dell’Italia interna, cit., p. 33. Ma tutte le sezioni di Terracarne sono di gran lunga eloquenti in questo senso. Di questo testo si segnala in particolare la sezione dal titolo “Vocabolario”, nella quale Arminio ci offre alcuni dei lemmi più significativi della sua visione del mondo (Appennino, Bar, Contadino, Desolazione, Emigranti, File, Geografia, H, Irpinia, Luoghi, Morti, Neve, Ozio, Piazza, Qui, Rancore, Silenzio, Terra, Urbanistica, Vecchi, Zappa): F. Arminio, Terracarne, Milano, Mondadori, 2011, pp. 161-172.
(101) Il periurbano viene definito come lo spazio più dinamico dell’urbanistica perché è la zona al limite tra città e campagna, che non è più città e non è ancora campagna. È senza dubbio la meno “progettata” e ordinata ma è, dal punto di vista letterario, una forte calamita di storie, tanto più nel panorama delle scritture contemporanee. Si veda a questo proposito l’articolo F. Marocco – M. Mininni, Nuovi strumenti (fenomenologici) per la rigenerazione urbana: l’apporto del racconto e del romanzo nel progetto dello spazio perturbano, cit.
(103) F. Arminio, Geografia commossa dell’Italia interna, cit., p. 108. Ma l’incipit stesso di questa raccolta di prose è significativo a questo proposito; si veda a p. 3: “E allora la ricognizione dei luoghi è il frutto di uno spostamento d’attenzione, dal sintomo del corpo al sintomo del luogo, dall’ipocondria alla desolazione”.
(104) Il termine paesologia è quello che Arminio sceglie per dare il suo contributo al Dizionario affettiva della lingua italiana, cit., p. 150: “La parola che amo di più è una parola da me inventata: paesologia. Indica lo studio dei paesi, una sorta di etnologia soggettiva, più vicina alla poesia che alla sociologia. Mi rendo conto che si tratta di una definizione assai vaga. Potrei anche dire che la paesologia è una forma di attenzione per i paesi come sono adesso. E con questo posso anche indicare una parola come “attenzione” presente nel vocabolario e nella mia mente, almeno quando scrivo.”.
(105) G. Iacoli, L’invenzione della “paesologia”. Franco Arminio e le nuove zone del racconto in Italia, in “Compar(a)ison.”, Nouveaux Territoires, Bruxelles, P. Lang, 1/ 2008 pp. 78-80.
(106) “ Arbus è celebre per i ritratti delle persone ai margini della società: nani, freaks, disabili, travestiti. artisti di circhi periferici, mangiatori di lamette, il gigante Eddi Carmel, alto quasi due metri e mezzo per duecentocinquanta chili” in http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/12/20/se-la-fotografia-diventa-politica.html.
(107) “Già dalla seconda metà degli anni Ottanta, lo sviluppo immobiliare di Cortesforza ha coinciso con la migrazione da Trezzano sul Naviglio, Corsico, Cesano Boscone, Buccinasco. Cortesforza ha perso la sua natura rurale per trasformarsi in un suburbio residenziale a diciotto chilometri da Milano. Molti terreni agricoli della famiglia Cairoli sono diventati edificabili negli ultimi venticinque anni.” in http://milano.repubblica.it/dettaglio/come-cortesforza-e-diventata-cio-che-e/1680124. Si confronti con il seguente brano di Celati: “Sopra l’argine comprensorio in direzione di Pieve d’Olmi, dalla strada sopraelevata vedo molte vecchie corti abbandonate. Sono gruppi di costruzioni a quadrato con cortile interno e ingresso ad arco, dove la linea dei tetti a volte culmina nella guglia d’una chiesetta incorporata nella corte. Ho sbirciato in un paio di quei cortili, c’erano strumenti agricoli abbandonati e paglia per terra. Gli abitanti delle corti sono andati tutti a vivere in quelle villette geometrili sparse nelle campagne, e il bestiame è stato traslocato in grandi capannoni industriali” G. Celati, Verso la foce, Milano, Feltrinelli, 1989, p. 32.
(108) Cfr. Cortellessa, Introduzione a La terra della prosa. Narratori italiani degli anni Zero, (1999-2014), cit., p. 53.
(109) Nell’introduzione al suo saggio su letteratura e geografia, Alfano si sofferma su come sia mutata la percezione dello spazio in letteratura passando dalla prospettiva fissa e centrale con cui si guardava al paesaggio, tipica del mondo antico, a una mobile e veloce, caratterizzante la modernità: “Al dominio dello sguardo stabile e centrale si contrappone uno sguardo mobile, che trascorre liberamente tra gli oggetti che gli si offrono durante lo spostamento. Tutto può diventare meritevole di attenzione, ogni cosa può presentare spunti per una riflessione” in G. Alfano, Paesaggi, mappe, tracciati. Cinque studi su Letteratura e Geografia, cit., pp. 26-27.
(110) F. Arminio, Geografia commossa dell’Italia interna, cit., pp.34-35. Cfr. anche R. Palumbo Mosca, L’invenzione del vero, cit., pp. 135-136.
(111) A. Cortellessa, Introduzione a La terra della prosa. Narratori italiani degli anni Zero, (1999-2014), cit., p. 60, già ripresa in nota 14.
(112) Si veda la trasposizione in termini narrativi dell’esperienza nel racconto inserito ne L’ubicazione del bene “Un altro ancora”. L’articolo è stato redatto nel 2013 per tracciare una panoramica sui rapporti tra scrittori e paesaggio italiano: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/01/06/sguardi-italiani-dalle-foto-di-ghirri-alla.html.
(113) http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/03/27/che-cosa-raccontano-le-nostre-autostrade.html: si tratta di una recensione del 2012 al libro Il paesaggio dell’autostrada italiana, commissionato da Autostrade per l’Italia. “Il finestrino è infatti uno schermo tra soggetto e oggetto dal carattere del tutto nuovo, se è vero che sulla sua superficie s’incontrano la vista sul mondo esterno e la proiezione dello sguardo stesso. I due estremi della conoscenza vengono così ad aderire e anzi a sovrapporsi, a confondersi, e la soggettività diviene puro divenire: scorrimento.” scrive G. Alfano, Paesaggi, mappe, tracciati. Cinque studi su Letteratura e Geografia, cit, p. 53.
(114) G. Falco – S. Ragucci, Condominio Oltremare, cit. Si veda anche nel blog di Ragucci il reportage fotografico da lei stessa commentato effettuato a L’Aquila tra settembre e ottobre 2013 nel quale si legge: “Nell’ottobre del 2013 con lo scrittore Giorgio Falco siamo andati alla nuova città dell’Aquila. Giorgio Falco, in quei giorni, non è voluto entrare nel centro storico ancora distrutto, nemmeno ha voluto lambirlo. In effetti, il centro della città è sembrato non avere necessità di alcuna relazione con l’esterno, una chiusura incondizionata che esclude l’ambiente circostante, in una posizione insulare, appunto.” in http://www.doppiozero.com/materiali/clic/laquila-d-abord-l-bord.
(115) http://www.doppiozero.com/materiali/parole/condominio-oltremare-0. Su questa collaborazione si veda anche quanto ne scrive Falco nell’articolo già citato Sguardi italiani, dalle foto di Ghirri alla paesologia.
(116) M.Belpoliti, L’occhio di Calvino, Torino, Einaudi, 2006.
(117) A. Zanzotto, Luoghi e paesaggi, a cura di M. Giancotti, Milano, Bompiani, 2013, pp. 152-153. “C’è una circolarità di relazioni, secondo Zanzotto, tra il paesaggio e l’uomo; il paesaggio influisce sulla formazione dell’individuo, e a sua volta l’individuo influisce sul paesaggio rivedendolo attraverso il filtro dell’emozione e dell’idea che ne ha elaborato”, scrive il curatore nell’Introduzione p. 18.
(118) F. Arminio, Geografia commossa dell’Italia interna, cit., pp. 21-23.
(119) W. Siti, Il realismo è l’impossibile, cit., p. 79.
(120) F. Fortini, Nuovi saggi italiani, Milano, Garzanti, 1987, p. 318
(121) Cfr. P. Bourdieu, Le regole dell’arte .Genesi e struttura del campo letterario, Milano, Il Saggiatore, 2005.
(122) “For better or for worse, the greatest storytellers of our time are the nonfiction writers”: L. Siegel, Where have all the Mailers gone? in http://observer.com/2010/06/where-have-all-the-mailers-gone/ . Fin dal titolo -la cui trasposizione italiana potrebbe equivalere a “Dove sono andati a finire i Camilleri del nostro tempo?” – si richiama l’idea che gli scrittori di fiction siano ormai spariti dalla scena: Norman Mailer è infatti un noto narratore americano.
(123) G. Celati, Finzioni occidentali, Torino, Einaudi, 1975, pp. 15-16.
(124) Si può affermare che i generi letterari costituiscono un campo di forze attraversato incessantemente da ibridismi o da contaminazioni. P. Bagni, Il campo di forze dei generi, in Generi letterari. Ibridismo e contaminazione, a cura di A. Sportelli, Roma – Bari, Laterza, 2001, pp. 3-9.
(125) R. Donnarumma, “La fatica dei concetti. Ipermodernità, postmoderno, realismo” cit., p. 9 http://www.Between-journal.it/.
(126) F. Bertoni, Realismo e letteratura, Torino, Einaudi, 2007, p. 303.
(127) Ivi, p. 247 e p. 281.
(128) S. Cavicchioli, Spazio, descrizione, effetto di realtà, in Flavio Sorrentino (a cura di), Il senso dello spazio. Lo spatial turn nei metodi e nelle teorie letterarie, cit., pp. 19-38.
(129) F. Bertoni, Realismo e letteratura, cit., p. 303.
[immagine: Giovanna Ricotta, Fai la cosa giusta (gm)]
Quest’inizio secolo sembra il regno della stupidità. Tutto vale se è spettacolo, si assiste alla spettacolarizzazione del mondo.
Prefigurare un rinascimento della parola scritta è professione di ottimismo: ma si può essere ottimisti oggi? Talvolta preferisco lo scetticismo: Non vorrei fare un esame delle poetiche, ma solo una riflessione -diceva Conrad che prima si crea l’opera e poi si riflette su di essa.Io, per conto mio, ho sempre amato, nei libri, le persone che hanno molte inquietudini, incertezze dubbi, che fanno fatica ad esistere, e a volte tornano indietro per verificare i propri dubbi. Essi cercano se stessi, attraverso gli altri, attraverso frammenti di storia e che si legano e si frastagliano, si ricollegano.
Questo è L’UOMO DEL NOSTRO TEMPO, QUELLO CHE SI GUARDA ALLO SPECCHIO E VEDE QUELLO CHE GLI DICONO GLI ALTRI DI Sé..SE è VERO CHE LA LETTERATURA è UNA FORMA DI CONOSCENZA, SI DEVE CERCARE DI CONOSCERE QUEST’UOMO E DI PENETRARE IL SUO CUORE DI TENEBRA, SCOPRIRE I SUOI DESIDERI E LA SUA IMMAGINAZIONE, LA REVERIE. Forse Sarà UNA RICERCA SENZA FINE, FORSE LA LETTERATURA è UN’ILLUSIONE dietro la quale si apre un’altra porta su una ulteriore illusione..Bachelard diceva :è necessario rivendicare le droit de rever. Forse può sembrare poco, ma,a pensarci bene è una grande prerogativa. Se l’uomo è ancora capace di illusioni, forse è ancora ‘libero’.Si usa per l’allegoria,il surreale l’analogia, che è poi relazione tra un tempo fatto parola e un tempo fatto già cenere e che cercherà di tornare parola, è la vertigine del ricominciare ,della girandola dei destini,della vertigine dell’enigma, del ritorno.,dolore della lontananza della trasposizione di tempo. E’ nel varco tra lontananza e prossimità,tra assenza e presenza, tra evocazione e descrizione che nasce la storia., il dialogo del momento presente con il ricordo, con le schegge del tempo, di voci che tornano di lontano.Le schegge giungono da stelle spente, come mare ,nuvole, Ed era chiaro,nella lontananza di anni luce, che stavamo sbagliando. E non è triste che le stelle che stiamo guardando piene di raggi accecanti, siano già morte? E che , mentre io ti guardo da vicino, tra me e te ,tra me e voi già si è insinuato un angolo piccolissimo di distanza? E’ fisica quantistica, questa. E il problema del nostro tempo, E se c’è una poetica dovremmo chiederci quanto dura il nostro racconto, la nostra realtà che prolunghiamo ancora , quanto durano le parole, gli intrecci, le luci delle parole, con cui cerchiamo di raccogliere quello che possiamo, che riusciamo a inventare per non diventare fossili, o per tentare di ridare vita a una voce che ci ha raggiunto improvvisamente da lontano, a una nuvola che abbiamo perso, a una persona che è scomparsa dalla nostra storia. E’ storia tempo, persone, luce, rovescio il nostro problema. memoria che allaga la mente e non ci fa scomparire definitivamente.
E’ andato anche il tempo dei miei linghi colloqui a parco Comola con Salvatore Bataglia, mentre ,con la sua vena affabulatoria, mi parlava della langue d’oc e d’oil, dell’amore nel ME e dei contemporanei: Joyce, Woolf, Sartre, Moravia, svevo, Pratolini. E io, quasi bambina ancora con le mie pagine del Grande Dizionario, e la mia libera docenza , imparavo imparavo. Fu in uno di questi giorni mi parlò della maternità,quasi volesse consigliarmi. Ed è stata la mia maternità una cosa potente e tragica, allora non capii cosa mi voleva dire con le sue parole dolci e ,quasi di favola. Forse perciò vorrei fare un salto temporale , per capire cosa mi aveva detto. E oggi avrei io tante cose da dirgli sul nostro tempo, mi piacerebbe tornare indietro nel tempo. Per sentire quella voce che ogni tanto mi
raggiunge non so da dove. Gli portei dei libri, forse Sostiene Pereira, forse Lovell, Stoner. Libri di poesia, anche.
E’ il tempo il problema del nostro tempo, i frammenti, infilare le perle all’indietro. Fare un piccolo salto nell’universo della letteratura e ascoltare il mare, la lontananza, le voci, le parole. Il Tempo.
Il saggio è interessante, lungo e articolato, io sarò breve.
A me pare che la mancanza precipua della nostra attuale narrativa sia quella che in Italia c’è sempre stata: rimaniamo indietro rispetto al momento storico, straordinariamente veloce, complesso e ambiguo, che viviamo. Tranne poche eccezioni, la maggior parte dei nostri scrittori continua a concentrarsi su temi sociali, familiari, psicologici o “borghesi”, “morali”. Ultimamente ho letto tre libri stranieri di diverso valore ma che hanno in comune un approccio moderno con la parete verticale della modernità, con le domande radicali di senso che tornano a risuonare, specie l’antica e sempre nuova: chi è l’io umano? Chi siamo noi? Questi tre romanzi sono La coscienza di Andrew di Doctorow, Annientamento di VanderMeer e I fratelli Friedland di Kehlamnn. Marcano una differenza anzitutto cognitiva, secondo me. E cioè sono più in sintonia coi tempi, con l’accelerazione incredibile che la fisica, la scienza e l’epistemologia impongono oggi a chiunque pretenda di pensare. Provano, rischiano. Posso del resto sbagliarmi, anzi mi piacerebbe…
@Enrico Macioci
Personalmente, da lettrice e da studiosa, non ho mai vissuto e interpretato la produzione letteraria italiana con senso di inferiorità rispetto a quella straniera. Ho sempre guardato alla nostra letteratura per quanto di pieno ci dà, piuttosto che per i vuoti che lascia. Forse “sento” nel profondo una sua peculiare fisionomia che, se viene forzata per emulare altri, diventa macchietta grottesca.
Epistemologia, fisica, scienza sono sempre state marginali, purtroppo, nella storia della cultura italiana: forse al momento non possiamo scalare quella che lei chiama « la parete verticale della modernità». Tuttavia, credo anche che rappresentare «temi sociali, familiari, psicologici o “borghesi”» abbia comunque una sua forza cognitiva rispetto a quel che siamo, a quel che siamo diventati e, ancor più, rispetto a quello verso cui stiamo ancora mutando. Mi pare che alcune voci della nostra prosa raccontino molto dell’antropologia italiana odierna e non credo che alcune di queste rappresentazioni siano necessariamente inferiori a quelle della migliore narrativa internazionale.
@ morena marsilio
Di certo la narrativa italiana non deve sforzarsi di emulare le altre, e in effetti quando lo fa diventa spesso macchietta. Di certo i temi sociali e antropologici hanno un loro peso e una loro importanza, non voglio negarlo. La mia domanda però è questa: perché negli Stati Uniti, o in Francia o in Germania ci si mette al passo coi tempi (o almeno ci si prova) e da noi no (o comunque meno)? Perché non si può affrontare questa parete verticale, anzi direi questo tempo velocissimo e quasi precipite – certo con il nostro stile e la nostra ben precisa identità? Identità che però deve diventare molto più flessibile se vuole adattarsi a cambiamenti che oramai non sono più all’ordine del decennio o dell’anno, bensì del mese o del giorno. Secondo me se non proviamo a fare questo (e ci sono alcuni che tentano) perdiamo una grossa opportunità. La letteratura è astratta dal contesto solo fino a un certo segno. Credo che debba incarnare quanto più pienamente possibile lo spirito del tempo, interpretarlo, decifrarlo, renderlo intelligibile e dotarlo di senso; fare dunque cultura; riuscire poi in certi casi persino a guardare oltre.