[Alcune settimane fa Giacomo Raccis e Paolo Di Paolo hanno pubblicato un sondaggio intitolato I vecchi e i giovani, uscito sul numero 7 della rivista «Orlando esplorazioni». Su LPLC sono stati pubblicati i risultati e una introduzione; nello spazio dei commenti si è creata una discussione sul senso e sul metodo dell’iniziativa. Da qui è venuta l’idea del questionario che pubblichiamo oggi.
Il sondaggio di «Orlando» si riferiva a un segmento temporale preciso (i nati fra il 1945 e il 1965). Ragionare su una ottica generazionale e su autori viventi, ma già affermati, ha senz’altro alcuni vantaggi. Ciononostante, si possono fare due riflessioni. La prima è che così si escludono automaticamente autori non più viventi, ma che sentiamo ancora come contemporanei, nonché scrittori e poeti dall’esordio tardivo. La seconda è che questo criterio induce a fare una previsione sulla lunga durata, ma non a prendere la parola su autori la cui formazione è più vicina a quella degli intervistati. Nella storia della letteratura la cronologia è importante, ma lo è anche la sincronia delle opere. Da queste due considerazioni sono derivate alcune delle domande che seguono.
Altre parti del questionario rappresentano un tentativo di approfondire o di precisare aspetti metodologici del sondaggio di partenza: cosa si intende con successo, in riferimento a un libro? Quanto contano l’alto numero di vendite o il consenso critico, perché un’opera sopravviva nel tempo? Quali sono i luoghi che ne veicolano la diffusione, quali le forze del campo letterario che appaiono più rilevanti a chi ne fa parte? Gli interventi che proponiamo non pretendono di rispondere a queste domande; ma potranno essere utili per una ricognizione futura. E, ci auguriamo, per innescare un dibattito.
Nelle prossime settimane pubblicheremo le risposte degli intervistati. Il criterio che li lega è anagrafico: sono nati fra il 1978 e il 1991. Non si tratta solo di studiosi e dottorandi. Alcune delle persone coinvolte scrivono su siti e blog letterari, su giornali e riviste cartacee, su riviste accademiche; altre lavorano in case editrici, oppure si occupano di letteratura in modo indiretto: non scrivono pezzi critici sui libri che leggono, ma ne promuovono la diffusione fisica e virtuale. Infine, abbiamo voluto interpellare giovani studiose che non si dedicano professionalmente al contemporaneo, ma ne hanno una ottima conoscenza; il loro sguardo è arricchito dal confronto con la tradizione o con altre discipline umanistiche].
Mimmo Cangiano
1) Partiamo dalla domanda del sondaggio di «Orlando»: «Chi tra gli scrittori che oggi hanno tra i quarantanove e i sessantanove anni continueremo a leggere in futuro?». Tu come risponderesti, e per quali motivi? Ti chiederei anche di spiegare cosa, secondo te, inciderà di più per il loro successo.
Rendo omaggio al vincitore del precedente sondaggio e mi schiero con chi pensa che Michele Mari sia uno degli autori che continueremo a leggere. Recentemente L.A. Kauffman ha affermato su Jacobin che il “consenso” è un concetto sopravvalutato. Forse ha ragione, ma comunque, per farne a meno, dobbiamo essere tutti (o quasi tutto) d’accordo. Consenso a parte, credo che continueremo a leggere Mari perché i suoi libri riescono ad esprimere, ad altissimo livello, la narrativizzazione di un certo mainstream critico-linguistico-‘politico’ in cui pochi di noi fanno fatica a riconoscersi. Dai lasciti landolfiani/manganelliani, alla riflessioni benjaminiane, alla capacità di muoversi con abilità lungo le direttive di ricerca delle poetiche post-moderniste (e senza mai assoggettarsi a queste), Michele Mari è uno di quegli autori in grado di farsi carico della tradizione per adattarla all’interpretazione dei tempi in corso. In tal senso, e per la sua consapevolezza riguardo alla propria operazione, è quasi un classico.
In parte, un discorso similare (con riferimento diretto a tradizioni più specifiche) si potrebbe fare per Walter Siti, per Valerio Magrelli, e forse per Elena Ferrante, che è, ad esempio, perfettamente riuscita a cogliere alcune tematiche critico-politiche che vengono da oltreoceano.
Mi ha molto sorpreso l’assenza dalla classifica di Valerio Evangelisti. Visto che penso che la presenza di autori come Baricco o Veronesi possa solo essere dettata dalla popolarità in libreria di quest’ultimi (e certo anche ciò è ragione fondamentale di lettura futura: sappiamo ancora chi fu Carolina Invernizio mentre si è perso nel tempo uno scrittore come Ugo Bernasconi), l’assenza di Evangelisti è singolare perché ci troviamo di fronte ad un autore che oltre ad essere estremamente popolare, produce una letteratura – a livello tematico-critico – di altissimo livello (purtroppo assolutamente non supportata da un pari livello di ricerca linguistica). Evangelisti racconta in forme fantastiche (di livello assai più basso, invece, i suoi ultimi due romanzi “realistici”) la lotta storica fra capitale/potere e lavoro, riuscendo a tenere insieme una notevolissima quantità di riferimenti critico/storico/filosofici (dal sindacato al reichismo di sinistra, dall’Autonomia al terrorismo al mondo della Tecnica, all’intreccio di foucaultismo e marxismo, e la lista sarebbe lunghissima), i quali per me lo rendono uno degli autori che meglio è riuscito a raccontare – in quel problematico miscuglio retorico di incitamento e consolazione – la situazione storica di una significativa fetta di popolazione.
Come è facile capire le mie scelte sono dettate dalla capacità degli autori qui citati di cogliere una parte significativa delle tematiche circolanti (e si torna al consenso), proponendo una letteratura in grado di riflettere, criticare, valutare, ecc., le tematiche stesse. Poi è chiaro che non c’è nessun “tempo” che dividerà i “buoni” dai “cattivi”: ci sono dialettiche e conflitti storici (sociali e ideologici) in cui, come lettori, facciamo la nostra parte.
2) Dove hai sentito parlare per la prima volta di questi autori, e da chi?
Di Mari ho sentito parlare verso l’inizio degli anni 2000. Non mi ricordo chi me ne parlò.
Di Siti me ne parlò, più o meno nello stesso periodo, un amico romano.
A Magrelli sono arrivato, anche qui negli stessi anni, grazie ad amici poeti più navigati come Giancarlo Sissa ed Alberto Bertoni.
La Ferrante l’ho scoperta circa tre anni fa. Lavorando nell’ambito dell’Italianistica statunitense è impossibile non sentirne parlare.
Evangelisti l’ho scoperto, almeno 10 anni fa, grazie a Carmilla. Si legga la bella monografia che gli ha dedicato Luca Somigli.
3) Secondo te quale genere letterario è destinato ad avere fortuna nei prossimi anni? Poesia, romanzo, scritture ibride?
Perché l’Estetica, lo Storicismo e il Romanzo nascono praticamente negli stessi anni? Gli anni che portano alla Rivoluzione… A questa domanda mi pare si possa rispondere solo così. Cioè possiamo rispondere solo se smettiamo di considerare la letteratura quale sistema in qualche modo autarchico e auto-riformantesi.
Seppure (forse!) Hegel non ci aiuta più a dare il primato al romanzo, credo ci aiuti ancora una straordinaria intuizione di Bachtin, un’intuizione che dice (ed è in nuce la migliore interpretazione del Modernismo che io conosca) che quando il romanzo diventa il genere dominante, la teoria della conoscenza diventa l’approccio filosofico dominante (e viceversa). Lukács l’avrebbe messa in un altro modo: avrebbe detto qualcosa tipo “pensate che sia un caso che nel momento in cui i nuovi sistemi produttivi – incentrati sul processo di razionalizzazione e su quello di specializzazione con la conseguente perdita della visione del prodotto d’insieme – conducono gli uomini sulla strada di una progressiva atomizzazione sociale, cadano le grandi costruzioni metafisiche e le credenze in saperi e orizzonti di pensiero condivisi? Credete che sia un caso che Dio muoia proprio in quel momento? Credete che sia un caso se il romanzo modernista, con la sua insistenza su soggettivizzazione e contingenza, nasca in quel momento? Credete davvero sia un caso?”
Come il romanzo modernista ha significato un’amplificazione dei presupposti soggettivisti/psicologisti connessi al romanzo tradizionale, così il romanzo post-modernista ha significato un ulteriore ampliamento di questi. E ha continuato ad egemonizzare senza posa le altre forme di scritture, le ha inevitabilmente attratte nella sua orbita, le ha costrette cioè ad operare seguendo (anche quando in contrasto) le sue modalità di funzionamento. E ha egemonizzato anche la critica: è comune ormai la necessità, al fine di esaltare un autore, di porlo ‘criticamente’ fuori dal suo più tradizionale ambito di riferimento per metterlo in connessione con ciò che rappresenta, canonicamente, il livello più alto della letteratura novecentesca (cioè il grande romanzo modernista). Per fare giusto un esempio si pensi di quanti autori ‘realisti’ si siano ormai esaltati – pensando di far loro un piacere – gli aspetti, cosiddetti, modernisti. Sono naturalmente solo esempi, ma credo spieghino le direttive egemoniche.
Se non siamo usciti ancora da questo tipo di egemonia filosofica (che sottende precisi elementi strutturali alle sue spalle, e qui il riferimento obbligato è sempre La distruzione della ragione di Lukács), non siamo neanche usciti dall’egemonia narrativa. È vero che negli ambienti culturali sono presenti una moltitudine di proposte differenti, ma tanto in questi, tanto poi al livello di “socializzazione” di tali proposte (che è fino a prova contrario il piano che conta davvero, perché è quello in cui tutti ci muoviamo), l’egemonia del romanzo mi pare ancora incontrovertibile.
Mi scuso per la risposta parecchio sincopata, ma una replica articolata a tale domanda richiederebbe un saggio a sé. Sanguineti usava dire che il ‘900 (e intendeva ciò che il ‘900 comporta a livello culturale) finirà quando finirà il capitalismo. Ecco: mi piacerebbe fosse mantenuta tale connessione anche in riferimento ai generi, che non vuol dire, ovviamente, che il romanzo è il genere del capitalismo: vuol dire che l’egemonia di un genere risiede nel suo rapporto dialettico con elementi che non sono esclusivamente culturali.
4) Nell’arco di un decennio possono essere pubblicati libri che entrano a far parte di uno stesso dibattito critico, e che però sono stati scritti da persone nate in momenti molto diversi.
Quali autori consideri significativi – rilevanti dal punto di vista delle categorie critiche con le quali interpreti la letteratura – fra quelli che hanno pubblicato libri fra il 1990 e il 2015?
È difficile che il pensiero non corra subito al New Italian Epic. E in effetti, sebbene continui a considerare questa invocata “fine della postmodernismo” come un trucco della postmodernità, quel saggio (anche per le modalità con cui era costruito: modalità che parevano del tutto scomparse dalla scena letteraria) ha significato un sintomo importante della situazione in cui gli scrittori (ma direi proprio gli intellettuali tout court) si sono venuti a trovare verso la fine degli anni Zero. Lo stesso riferimento al Benjamin dell’allegoria era un segno in qualche modo dei tempi , segno al contempo della volontà di un ritorno – anche politico – a qualcosa che significasse oltre il “frammentario”, pur nell’evidente sconfitta storico-culturale. Poi mi pare anche ci sia il rischio costante che il benjaminismo diventi quasi una consolazione, ma questa è un’altra storia.
Personalmente, invece, ho scarso interesse per il “ritorno alla realtà” di cui pure si parlò molto (e rispetto a cui il saggio dei Wu Ming aveva evidenti punti di contatto). Non mi pare che gli scrittori che più da vicino si sono dedicati alla rappresentazione di “pezzi” di realtà contemporanea abbiano prodotto queste opere imprescindibili. Molto di più hanno fatto quegli scrittori (gli stessi Wu Ming, Scurati, Lagioia) che hanno cercato di raccontare presente e passato (alludendo al futuro) mediante la rappresentazione di vere e proprie dialettiche storiche, inserendo, cioè, la tranche temporale eletta a centro della narrazione all’interno della totalità (più o meno) delle dinamiche che la significano, e anche preparandone il movimento successivo.
Su una linea totalmente opposta, ma non meno significativa, voglio almeno citare il bernhardismo di Trevisan, e soprattutto quello che è forse il romanzo più significativo degli anni Zero: Ad avere occhi per vedere di Leonardo Pica Ciamarra (Minimum Fax, 2003), il vero romanzo-monumento – in Italia – della “disgregazione” (gnoseologica, linguistica, sociale, politica, culturale, ecc.) contemporanea. Più in generale, su tale linea, mi pare che gli autori Minimum Fax abbiano creato un vero e proprio marchio di fabbrica (e vi rientrano certo anche le letture “americane”) che giudicò una delle cose più interessanti degli ultimi quindici anni.
Visto che si parla di “categorie” e di “cosa resterà” mi pare anche giusto fare un minimo di riferimento alla tradizione del “giallo”. I giallisti degli ultimi vent’anni (molti di loro) hanno creato un’interessante dialettica locale-globalizzato (con tutte le coppie binomiche che da qui possono partire) che pure mi pare un sintomo importante dei tempi, o almeno qualcosa con cui la critica dovrà a breve fare i conti. A tratti pare quasi uno Strapaese di sinistra.
Per ciò che concerne la poesia dissi lungamente la mia, ormai qualche anno fa, su Atelier. Qui l’incapacità di fare riferimento a uno o più volumi capaci di dettare linee di tendenze condivise è ormai problema endemico. E risiede certo anche nel fatto che la poesia, assai più che la narrativa, tende ormai sempre più a considerarsi come corpo estraneo a qualsiasi accadere socio-culturale (e il socio-culturale caldamente ricambia). A fronte di un elevatissimo numero di giovani poeti di ottimo livello (Pinzuti, Gezzi, Marchesini, Fantuzzi, Gallerani, Mari, D’Andrea, Temporelli, Padua, Maccari, Testa, e potrei continuare) resta forte la sensazione del sottobosco perenne, di presentazioni in libreria con 5 persone, di scaffali via via più ridotti, di auto-ghettizzazione per una profonda incapacità del “mondo della poesia” di entrare in contatto coi dibattitti di volta in volta più vivi del panorama socio-culturale. Il problema, come più volte e da molti puntualizzato, risiede a mio giudizio proprio nella ovvia relazione col mercato librario. Mi chiedo però se i poeti siano disposti a portare questo punto (su cui pure immagino siano d’accordo) fino alle conseguenze estreme, fino cioè a introdurlo come dato fondante del loro operare. Mi pare che al momento nessuno (o quasi) stia seriamente ragionando su questo.
In risposta a una lettera di un’associazione che gli chiedeva poesie per aiutare la Finlandia in vista di una possibile invasione sovietica, quel democristiano sui generis di Palazzeschi rispose che lui le poesie le inviava volentieri, ma che dei cannoni sarebbero serviti di più. Era la consapevolezza del “saltimbanco”.
Concludo semplicemente dicendo una cosa ovvia: impossibile ormai pensare che gli autori significativi per la letteratura risiedano soltanto fra i letterati. È certo impossibile fare un sondaggio in tal senso, ma la sensazione è che un Foucault (nome a caso!) oggi possa contare per i destini della letteratura anche più di un Roth o di un Bolaño.
5) Passiamo a considerare i luoghi (giornali, riviste specializzate, riviste online, siti e blog; ma anche luoghi fisici come scuole, università, biblioteche, presentazioni di libri) e i modi in cui i libri vengono discussi e commentati oggi. Tendi a pensare al campo letterario come a uno spazio fluido, in cui critica, pubblico, industria dialogano e collaborano (talvolta anche in competizione per l’egemonia) – o a separare diversi campi d’influenza e di azione? Che tipo di interazione c’è (se trovi che ci sia un’interazione)?
L’interazione (tanto in forme di dialogo che di conflitto) non può non esserci, ma più che di spazio fluido parlerei proprio di una guerra di posizione. Così come non può non esserci la lotta per l’egemonia, solo che è più orizzontale del mondo in cui la domanda la descrive, perché inevitabilmente diversi sono gli obiettivi a breve termini delle varie istituzioni.
Poi vale sempre la pena ricordare che la “partita” non si gioca esclusivamente sul piano delle istituzioni culturali (quindi sul piano degli intellettuali).
6) Quali sono le personalità e i luoghi della critica che consideri più seri e affidabili?
Continuo, ahimè, a considerare l’università come lo spazio culturale più “affidabile” per ciò che concerne l’opera di storicizzazione del materiale disponibile. Come continuo a considerare le riviste e alcuni spazi culturali su Internet come il luogo ideale per l’avanzamento e il dibattitto di nuove proposte. Poi, certo, serietà e affidabilità, non sono garanzia di nulla per ciò che concerne il livello di socializzazione, tanto delle storicizzazioni quanto delle proposte, avanzate. Ma qui si dovrebbe parlare di chi/cosa oggi rappresenta la funzione intellettuale descritta da Gramsci (e probabilmente questa funzione non è oggi rappresentata da nulla che tradizionalmente consideriamo come “intellettuale”).
Davide Castiglione
1) Partiamo dalla domanda del sondaggio di «Orlando»: «Chi tra gli scrittori che oggi hanno tra i quarantanove e i sessantanove anni continueremo a leggere in futuro?». Tu come risponderesti, e per quali motivi? Ti chiederei anche di spiegare cosa, secondo te, inciderà di più per il loro successo.
Non mi ritengo all’altezza di esprimere un parere di tale portata né tantomeno di fare previsioni. Vorrei però fare una precisazione per me importante: a contare dovrebbero essere le opere piuttosto che gli autori (la museificazione del nome non è un rischio, ma lo sport ufficiale di quasi tutta la critica, non solo italiana). E alla data di nascita dovrebbero accompagnarsi le date di composizione e pubblicazione delle opere.
Restando nei confini della domanda, posso tuttavia dire quali autori, tra quelli che ho letto (cliccando qui potete accedere alla lista delle 154 raccolte poetiche italiane lette finora, antologie escluse, così da garantire verificabilità e togliere assolutezza alle mie affermazioni – vedrete che ci sono lacune notevolissime), hanno il potenziale futuro di essere letti in maniera non archivistica, ma come dei classici: Milo De Angelis, Fabio Pusterla, e Cristina Alziati. Metterei anche (benché di poco più anziani del limite dei 69 anni), Giorgio Luzzi, Gregorio Scalise e Cristina Annino, tutti e tre ingiustamente ai margini del dibattito odierno.
Perché questi autori? Anzitutto ho nominato solo poeti perché non ho sufficiente competenza negli altri generi, e mi rifiuto per principio di fare nomi di cui non ho letto almeno un’opera intera. Questi autori rinnovano una lezione neoclassica o neomodernista della poesia che punta a densità semantica e a un lessico medio (talora colloquiale, come in Pusterla e Annino) che invecchia più lentamente rispetto a un lessico fortemente connotato da un contesto storico-sociologico. Nella poesia cercheremo probabilmente sempre questo: versi memorabili, senso civile o del tragico, singolarità autoriale, visione complessa e originale del mondo, fedeltà nell’innovazione. Questi autori queste qualità le hanno, sia pure a momenti alterni (il De Angelis di Quell’andarsene nel buio dei cortili mi auguro non rimarrà – tutte le altre sue opere, sì). Altri, no, o meno, oppure non li ho ancora letti per potermi pronunciare.
Veniamo alla seconda parte della domanda, quella riguardante il successo. Anzitutto, bisogna mettersi d’accordo sul significato di questa parola. Se “successo” viene declinato come resistenza e potenzialità future, allora gli autori autentici, con appena un minimo di distribuzione e visibilità, resisteranno nei decenni in piccole sacche o comunità di lettori. Mi sembra questo il caso, per esempio, di Giuliano Mesa. Dopotutto, le potenzialità del testo nel rigenerarsi e donarsi ai lettori è questione intrinseca al testo, capace di trascendere questioni di sociologia letteraria.
Se invece decliniamo “successo” in termini più superficiali (e ufficiali), allora gli autori che più probabilmente continueranno a essere rilanciati (non necessariamente letti e profondamente assimilati) saranno quelli in posizione di relativo potere editoriale e accademico, e che potranno contare su comunità coese per alimentare la loro presenza. Si innescheranno meccanismi per cui, se critici di peso inizieranno a parlare di un tale autore, altri seguiranno, in un circolo (non sempre vizioso, va detto) che si auto-alimenta (del resto, la critica stessa non pare immune a logiche comunitarie che prevalgono sul rapporto privatissimo tra critico e opera in questione). Non è il caso di averne troppo a male, perché anche grandi poeti del novecento hanno avuto queste condizioni di partenza privilegiate (T. S. Eliot dirigeva la rivista Criterion e fondò la casa editrice Faber & Faber, che ha tuttora lo stesso potere di canonizzazione dello Specchio Mondadori). Ma, ripeto, l’opera resiste se ha valore, e il suo valore risiede nella dialettica che riesce, nel suo testo stesso, a inscenare con l’esterno (il mondo) che ha vagliato e introiettato.
2) Dove hai sentito parlare per la prima volta di questi autori, e da chi?
Pusterla l’ho dapprima conosciuto dal vivo, perché invitato al Collegio Santa Caterina di Pavia – a Pavia ho compiuto gli studi universitari tra il 2004 e il 2009. Mi ha subito colpito come poeta già nel garbo, nell’atteggiamento umile e disposto all’ascolto, che poi non ha mai smentito neppure nelle comunicazioni private via mail. Per quanto riguarda De Angelis, probabilmente il successo di Tema dell’addio è stato così popolare e immediato, da farmelo conoscere. Una delle poche raccolte che lessi commuovendomi sinceramente. Da lì lessi poi tutta la sua opera – ora mi sembra che Tema dell’addio vada ridimensionato rispetto ai libri precedenti, perché stilisticamente più pigro, meno innovativo. Cristina Alziati invece si è imposta alla mia attenzione tramite passaparola (un’amica attenta lettrice di poesia), senza contare l’avallo iniziale di Franco Fortini e la prefazione a Come non piangenti da parte dello stesso Pusterla. Insomma, sono arrivato a questi poeti attraverso percorsi soggettivi, ben poco ufficiali – allora non seguivo il dibattito della poesia in rete e nelle riviste (per quanto mi riesce qui dall’Inghilterra) come cerco di fare adesso.
3) Secondo te quale genere letterario è destinato ad avere fortuna nei prossimi anni? Poesia, romanzo, scritture ibride?
Personalmente sarei felice se i generi del racconto breve, della poesia, della saggistica e della critica letteraria (sì, della critica letteraria), avranno più peso in futuro. Ma sta a ciascuno di noi lavorare per imprimere la direzione sperata, anche contro altri centri di potere. Comunque, come detto prima, non mi sento abbastanza competente per rispondere a questa domanda. Inoltre il libro valido per sua natura trascende o confonde i generi, quindi mi auguro che emergeranno opere importanti e del tutto diverse tra loro. E posso scommettere che queste opere, di preferenza, ci verranno da autori non troppo immersi nel nostro contesto letterario, a livello sociologico intendo.
4) Nell’arco di un decennio possono essere pubblicati libri che entrano a far parte di uno stesso dibattito critico, e che però sono stati scritti da persone nate in momenti molto diversi.
Quali autori consideri significativi – rilevanti dal punto di vista delle categorie critiche con le quali interpreti la letteratura – fra quelli che hanno pubblicato libri fra il 1990 e il 2015?
In ordine alfabetico: Cristina Alziati, Antonella Anedda, Cristina Annino, Leopoldo Attolico, Lorenzo Carlucci, Biagio Cepollaro, Andrea De Alberti, Milo De Angelis, Tommaso Di Dio, Gabriele Frasca, Jacopo Galimberti, Marco Giovenale, Stefano Guglielmin, Andrea Inglese, Fabio Pusterla. A questi aggiungerei Roberto Minardi e Dario Bertini, se non che questi due poeti sono anche miei cari amici – non posso ovviamente garantire la stessa imparzialità di giudizio qui. Infine, non cito alcuni autori importanti (Buffoni, Magrelli, Neri, Insana, ecc.) semplicemente perché non li ho ancora letti per esteso.
5) Passiamo a considerare i luoghi (giornali, riviste specializzate, riviste online, siti e blog; ma anche luoghi fisici come scuole, università, biblioteche, presentazioni di libri) e i modi in cui i libri vengono discussi e commentati oggi. Tendi a pensare al campo letterario come a uno spazio fluido, in cui critica, pubblico, industria dialogano e collaborano (talvolta anche in competizione per l’egemonia) – o a separare diversi campi d’influenza e di azione? Che tipo di interazione c’è (se trovi che ci sia un’interazione)?
In generale, mi sembra che il tutto oggi sia molto parcellizzato. Manca un progetto organico di coordinazione fra i vari luoghi, fisici e virtuali – le eventuali eccezioni si possono spiegare col fatto che alcuni attori culturali (critici, giornalisti, autori, etc.) collaborano a varie realtà e riescono a porle in dialogo. Ma mi sembra che siamo tutti troppo presi a dibattere, commentare, presentare nuovi autori, lasciandoci poco tempo per capire quello che hanno già fatto o stanno facendo gli altri. Manca, insomma, una meta-riflessione sulla critica e su spazi di aggregazione fisica. Occorrerebbe un inventario o uno spoglio delle pratiche presso ciascuna rivista/sito/centro di poesia eccetera, per poi tentare sinergie o, al contrario, innalzare fruttuose barricate – scontri di poetiche che investano la sostanza stessa del discorso.
Personalmente, con le poche risorse e tempo che ho a disposizione, cerco sempre di realizzare una qualche unità, fluidità che però non è indifferenziazione – bensì divisione delle competenze all’interno di un progetto comune. Faccio un esempio specifico, tratto dalla mia attività: insieme a Roberto Minardi, Alessandro Mistrorigo e Tomaso Aramini, gestisco una piccola rivista (dopotutto) la cui peculiarità è quella di organizzare laboratori di poesia. Questi laboratori sono piccoli incontri tra autori (della durata di almeno 4 ore), e non hanno nulla a che vedere con festival e letture ufficiali. Sono momenti di scambio e di lavoro sulla propria scrittura, in un’ottica paritaria e orizzontale. Bene, in passato abbiamo invitato autori (tra cui Jacopo Galimberti e Mirko Roglia) dopo averli pubblicati sulla rivista, corredati da breve nota critica. Insomma, dal mandare i versi al confrontarsi di persona: questo è il ciclo ideale, completo, genuino perché lontano dai luoghi ufficiali dove comprensibilmente si tende a dare una certa immagine di sé, magari lasciando da parte il negativo o autocensurandosi (biblioteche, scuole, librerie eccetera). Certo, l’autoreferenzialità è il rischio opposto; ma occorre anche distinguere tra la scrittura come processo personale in mutamento, e il prodotto pubblicato come bene (o male) pubblico anche di mercato. A me interessa di più il primo aspetto, e lì che la poesia vive davvero.
6) Quali sono le personalità e i luoghi della critica che consideri più seri e affidabili?
I critici italiani che ho piacere di leggere sono, tra gli altri, Mengaldo, Testa, Lorenzini, Mazzoni, Zublena e Inglese (e Marchesini per la vis polemica, anche se potrebbe mostrare più attenzione per determinati aspetti formali). Non ignoro che ciascuno di questi critici abbia un suo programma che influenza il taglio dei saggi e gli autori scelti, ma in tutti loro vedo uno sforzo verso l’equilibrio tra selezione e attitudine inclusiva. La parzialità è d’obbligo e inevitabile, ma spesso vorrei che fosse esplicitata apertamente, anziché lasciarla emergere in filigrana. Questo perché per me la critica è un servizio ai lettori, non a se stessa e non agli autori (o è un servizio agli autori solo quando non è indulgente nei loro confronti – le stilettate di Fortini contro i primi Luzi e Zanzotto rimangono per me esempi da seguire). Per quanto riguarda la critica in rete, Stefano Guglielmin e Giacomo Cerrai sono per me punti di riferimento – coniugano un solido bagaglio culturale con un’apertura democratica ad autori spesso poco affermati.
Luoghi della critica che seguo per quanto mi è possibile: la rivista Ulisse (benché la mole della pubblicazione online non sia molto reader-friendly), molti saggi apparsi su Le parole e le cose, qualcosa su Nazione Indiana e 404 file not found. Guardo poi con attenzione a piccole realtà online serie e integre, come Diaforia e Formavera. E ovviamente a In realtà, la poesia, che ho co-fondato con i sodali Luigi Bosco e Lorenzo Mari, e a cui presto si è aggiunto Michele Ortore. Qui scoraggiamo esplicitamente, per regolamento, ogni tentativo di recensione o saggio latamente pubblicitario, e ci prendiamo il tempo per fare peer reviewing – cosa che implica un rapporto dialettico tra critico e critico, e una umiltà nell’accettare le modifiche proposte. Poi ci sono riviste più apertamente accademiche o specialistiche (come Allegoria, o Strumenti critici, dove ho pubblicato un saggio su Sereni) – qui mi taccio perché non sono un italianista, ma uno studioso di poetica in ambito anglosassone e di stilistica.
Martina Daraio
1) Partiamo dalla domanda del sondaggio di «Orlando»: «Chi tra gli scrittori che oggi hanno tra i quarantanove e i sessantanove anni continueremo a leggere in futuro?». Tu come risponderesti, e per quali motivi? Ti chiederei anche di spiegare cosa, secondo te, inciderà di più per il loro successo.
Quando ho ricevuto la mail col sondaggio di «Orlando» ho inteso la cosa così come veniva proposta, ossia come un gioco, e ho fatto i nomi di Walter Siti e Valerio Magrelli. Non credevo che il gioco sarebbe diventato materiale per trarre considerazioni più generali sugli attuali problemi di canonizzazione e di rapporti tra generazioni e dunque sono grata a chi oggi ha voluto estenderlo in un questionario permettendoci di mostrare limiti e criteri di scelta.
Cercando di prescindere dal mio gusto personale io ho provato a pensare a voci significativamente presenti all’interno dei discorsi letterari, accademici e non; inoltre ho deliberatamente voluto proporre un narratore e un poeta pur nella consapevolezza che si trattasse di ambiti con un pubblico e dinamiche di ricezione molto diverse.
Per andare oltre questo livello impressionistico di giudizio sarebbe necessario definire meglio ad un futuro quanto distante stiamo pensando e a quale “noi” fa riferimento la domanda. In generale però direi che se l’intento è quello di fare previsioni a lungo termine la discussione critica dovrà essere considerata un indicatore più affidabile, se invece si parla di un futuro prossimo credo sia meglio guardare ad aspetti come la visibilità e prolificità degli autori o ai dati delle vendite o ai premi.
Ad ogni modo le variabili in gioco nella fortuna editoriale di un autore sono sempre tra loro interconnesse e per essere previste e comprese presupporrebbero una “verifica dei poteri” dell’intera industria culturale contemporanea.
2) Dove hai sentito parlare per la prima volta di questi autori, e da chi?
Non ricordo, ma probabilmente in qualche seminario all’università.
3) Secondo te quale genere letterario è destinato ad avere fortuna nei prossimi anni? Poesia, romanzo, scritture ibride?
Il concetto di “scritture ibride” mi è poco chiaro: più che per identificare situazioni liminali tra generi e sottogeneri della letteratura quali appunto prosa-poesia ma anche romanzo poliziesco, romanzo di fantascienza, ecc., spesso si usa per descrivere opere i cui soggetti legano in modo indefinito finzione e non finzione. Tradotto in un discorso sui generi, questo fa pensare all’ibridazione tra qualcosa di immaginario e qualcosa che invece si attiene più fedelmente al vero (scrittura giornalistica, diaristica, storiografica, ecc.). A me pare però che qualunque scrittura possa dirsi ibrida dal momento che presuppone necessariamente delle scelte autoriali, rappresenta la realtà extraletteraria attraverso diverse gradazioni di realismo e, a prescindere, ne è un sintomo o un modello.
La fortuna di questo tipo di testi prova che negli ultimi anni c’è stato uno sbilanciamento di interesse a favore di quelle opere che in maniera più vistosa hanno aumentato la referenzialità del linguaggio. Le ragioni di questo atteggiamento potrebbero essere ricondotte all’egemonia culturale di una conoscenza di tipo positivistico, nozionistico, interessata a misurarsi con l’imminenza del dato a svantaggio del piano immaginifico e interpretativo; potrebbero inoltre essere ricondotte ad un bisogno di reagire alla finzionalità del postmoderno o al desiderio di mettere in discussione ogni preesistente categoria critica. Per conoscere davvero le ragioni di questa fortuna, come per quella dei singoli autori, andrebbe messa a verifica l’ideologia della critica e dell’intero sistema letterario.
Chiedere che cosa avrà fortuna in futuro, assumendo che ci si riferisca ad una capacità di interessare un ampio numero di lettori, significa quindi chiedere anche una previsione sul trend economico e culturale dell’Italia e del mondo: non ne ho idea, ma mi piacerebbe che si tornasse a guardare alla letteratura per la sua capacità di problematizzare l’esistenza a prescindere dai generi e dagli effetti di reale in essa contenuti.
4) Nell’arco di un decennio possono essere pubblicati libri che entrano a far parte di uno stesso dibattito critico, e che però sono stati scritti da persone nate in momenti molto diversi. Quali autori consideri significativi – rilevanti dal punto di vista delle categorie critiche con le quali interpreti la letteratura – fra quelli che hanno pubblicato libri fra il 1990 e il 2015?
Non è facile rispondere a questa domanda perché se da un lato – come tutti – ho delle preferenze di lettura, dall’altro non sento di aver raggiunto una sufficiente maturità di pensiero critico che mi permetta di argomentare pubblicamente delle categorie estetiche. Mi spaventa il potere intrinseco alla scelta tra sommersi e salvati, ma ritengo che questo sia un compito fondamentale a cui una critica che voglia riconoscere uno spazio sociale alla letteratura è chiamata a far fronte.
Quindi rispondo alla domanda sottovoce coi nomi di Patrizia Cavalli e Walter Siti. Se mi chiedo perché direi per il fatto che mi colpiscono, che trovano parole e figure che ho voglia di ricordare. Provando ad essere più analitica credo che la cosa dipenda dal fatto che nei loro testi sento una tensione viva su più livelli: il rapporto con una situazione contingente da un lato e una certa immanenza dall’altro, il rapporto tra forma e idea, il rapporto tra innovazione e tradizione letteraria. Mi rendo conto che la risposta non è sufficiente ma al momento non saprei aggiungere altro.
5) Passiamo a considerare i luoghi (giornali, riviste specializzate, riviste online, siti e blog; ma anche luoghi fisici come scuole, università, biblioteche, presentazioni di libri) e i modi in cui i libri vengono discussi e commentati oggi. Tendi a pensare al campo letterario come a uno spazio fluido, in cui critica, pubblico, industria dialogano e collaborano (talvolta anche in competizione per l’egemonia) – o a separare diversi campi d’influenza e di azione? Che tipo di interazione c’è (se trovi che ci sia un’interazione)?
Credo che la questione che attraversi questa domanda, a monte, sia quella della difficile distinzione tra una letteratura alta composta da “opere d’arte” prerogativa di un’élite e dei suoi luoghi e una letteratura di consumo destinata alle cosiddette masse e in balia del mercato.
Io non vedo un’impermeabilità tra questi due estremi e penso al mondo letterario come ad uno spazio fluido. Il che non significa che non esistano delle differenze: ad esempio nelle università e nelle riviste specialistiche il dialogo avviene tra persone similmente esperte e verte su questioni di maggiore approfondimento, nei festival o in rete prevede invece l’incontro tra persone con formazioni diverse e quindi richiede un maggiore sforzo traduttivo. Oltre al tipo di interlocutori, cambiano le sorgenti di finanziamento (aspetto tutt’altro che secondario) e le caratteristiche specifiche del medium che agevolano o ostacolano determinati tipi di messaggio.
Anziché stilare un’aprioristica graduatoria di valore tra questi luoghi chiudendoci ognuno nella lobby dei propri simili penso però che sia bene giudicarli in base a quello che in essi accade, al tipo di ragionamenti che si generano e alle intenzioni da cui sono mossi. La priorità infatti non deve essere nei luoghi ma altrove: nella capacità di un confronto critico aperto, motivato dagli eventi della vita stessa, implacabilmente finalizzato a interpretare e agire nel migliore dei modi possibili.
6) Quali sono le personalità e i luoghi della critica che consideri più seri e affidabili?
Per quanto riguarda i luoghi ho parzialmente risposto nel punto precedente. Dovendo fare esempi in rapporto ai miei interessi direi che seguo soprattutto i seminari universitari (meglio se autogestiti dagli studenti come nella recente esperienza patavina del gruppo Ricomporre l’infranto), le pagine culturali dei quotidiani come La lettura del Corriere della Sera o l’inserto domenicale del Sole 24 ore e alcuni blog come Le parole e le cose.
Per quanto riguarda le personalità restando sempre nell’ambito italiano contemporaneo stratificherei il concetto di “serietà e affidabilità” su due livelli: il primo interessa le molte persone che lavorano con onestà intellettuale, che sono aperte al confronto e capaci di argomentare in modo solido le proprie posizioni; il livello successivo, che però presuppone il primo, riguarda le personalità che considero serie e affidabili “qualitativamente”. Quest’ultimo aspetto è però strettamente legato a questioni personali di gusto e di metodo: Mengaldo, Luperini e Berardinelli, ad esempio, sono voci serie e affidabili ma diversamente condivisibili.
Francesca Fiorletta
1) Partiamo dalla domanda del sondaggio di «Orlando»: «Chi tra gli scrittori che oggi hanno tra i quarantanove e i sessantanove anni continueremo a leggere in futuro?». Tu come risponderesti, e per quali motivi? Ti chiederei anche di spiegare cosa, secondo te, inciderà di più per il loro successo.
Quando Giacomo Raccis mi ha chiesto di fare tre nomi, e benché tre nomi non siano certo tantissimi, non ho avuto molta esitazione: Michele Mari, Antonio Moresco e Valerio Magrelli. Questi autori, diversissimi fra loro, sono accomunati secondo me da un forte senso di sperimentazione linguistica e stilistica, che di certo non può passare inosservato né per questo né tantomeno (si spera!) per il prossimo secolo. A prescindere dai singoli gusti individuali, dalla piacevolezza o meno nella lettura, dall’adesione o meno a quei potremmo dire “canoni” che propongono con le loro opere, tutti e tre si fanno portatori e propulsori, più o meno coscientemente, di un approccio alla letteratura decisivo, stringente e in qualche modo anche fondativo, sia in prosa che in poesia, che mi sembra in grado di aprire un solco nella scrittura in fieri anche delle generazioni successive.
2) Dove hai sentito parlare per la prima volta di questi autori, e da chi?
Non ricordo assolutamente le fonti, occupandomi io di letteratura da vari anni, anzi probabilmente essendomene sempre occupata, fin dall’infanzia, prima come semplice lettrice, poi come studiosa, e così via. Così, e forse anche grossolanamente, direi che lo studio e la ricerca mi hanno fatto avvicinare alla poesia di Valerio Magrelli, che di Antonio Moresco ho parlato e scambiato pareri con molti amici critici e scrittori, e che anni fa, il primo romanzo di Michele Mari, prima ancora di conoscerne la levatura, potrei averlo scelto tra gli scaffali di una libreria.
3) Secondo te quale genere letterario è destinato ad avere fortuna nei prossimi anni? Poesia, romanzo, scritture ibride?
La mia risposta sarà un po’ faziosa a questa domanda, data l’innata propensione che nutro per l’ibrido (e non solamente letterario). Sulla fortuna o meno dei generi è sempre difficile pronunciarsi, visto l’andamento cangiante e vorticoso della società in cui viviamo. Bisognerebbe forse prima arrivare a pronosticare quello che politicamente, economicamente e umanamente accadrà nel tempo a venire, e è cosa dura. Posso dire che, tranne alcune eccezioni, il romanzo mi sembra attraversare oggi una fase di profonda stanchezza: il racconto ombelicale, la così detta autofiction o semplicemente lo story-telling sulla precarietà, le famiglie in declino, la provincia distrutta, l’orrida cementificazione urbana, e prima ancora quella più pericolosa delle idee e dei costumi… Non so, gli stimoli mi sembrano, purtroppo, assai pochi, probabilmente perché, avvolti come siamo da questo clima di crisi sociale e sfiducia perenne, non siamo in grado di alzare gli occhi verso l’orizzonte, e quella che più facilmente vediamo è solo una sciatta linea di demarcazione momentanea, deprimente, direi senza dubbio asfittica. (In questo, ad esempio, la “fantasmagonia” di Michele Mari si innesta perfettamente per contrasto.) La poesia, invece, ricorre ancora spesso a forme costituite, che si vorrebbero spacciare quasi per innovative, sperimentali, e però nel senso più nostalgico e deteriore del termine: non vedo, anche qui, tranne rare eccezioni, grande respiro, anche se continuo a sperare in un certo margine di crescita, ovviamente. Alla fine, le forme ibride sono tutt’oggi le più interessanti, per quanto mi riguarda, sia da lettrice che da scrittrice, e penso anche che rispecchino bene il clima più generale che respiriamo tutti, in continua evoluzione, giorno per giorno.
4) Nell’arco di un decennio possono essere pubblicati libri che entrano a far parte di uno stesso dibattito critico, e che però sono stati scritti da persone nate in momenti molto diversi.
Quali autori consideri significativi – rilevanti dal punto di vista delle categorie critiche con le quali interpreti la letteratura – fra quelli che hanno pubblicato libri fra il 1990 e il 2015?
Son felice di questa domanda, perché la restrizione cronologica proposta dall’Orlando l’avevo patita anche un po’. Forse è curioso, o forse no, che proprio a fronte del discorso sulla stanchezza del romanzo contemporaneo mi vengano immediatamente in testa alcuni nomi di prosatori che reputo, invece, validissimi, come Alessandra Sarchi, finissima conoscitrice dell’animo umano oltre che degli apparati critici e stilistici della scrittura narrativa, Giorgio Falco, anche lui attentissimo ai mutamenti sociali e paesaggistici nonché garbato e minuzioso sperimentatore di linguaggi altri, che svicolano anche nella contaminazione ad esempio fotografica, o Gherardo Bortolotti, con la sua visione sempre distopica e talora grottesca, non solo sul contemporaneo ma anche proprio appunto sui plausibili o assolutamente implausibili scenari futuri a venire. Di nomi, poi, potrei farne molti altri, perché la mia percezione sullo stato delle cose è che se è vero che i generi letterari diremmo canonici sono oggi pressoché tutti rimessi in discussione, l’energia vitale della scrittura, e quindi degli scrittori e delle scrittrici anche più giovani è invece in continuo pulsare, in maniera estremamente fluida, e che nei prossimi anni, forse decenni, avremmo ancora molto su cui discutere e per cui lavorare.
5) Passiamo a considerare i luoghi (giornali, riviste specializzate, riviste online, siti e blog; ma anche luoghi fisici come scuole, università, biblioteche, presentazioni di libri) e i modi in cui i libri vengono discussi e commentati oggi. Tendi a pensare al campo letterario come a uno spazio fluido, in cui critica, pubblico, industria dialogano e collaborano (talvolta anche in competizione per l’egemonia) – o a separare diversi campi d’influenza e di azione? Che tipo di interazione c’è (se trovi che ci sia un’interazione)?
Per me la fluidità è assolutamente evidente, come ho detto praticamente in ogni risposta quassù. E quindi anche l’interazione, che poi anche volendo è molto difficile da evitare, oggi più che mai, nell’era sì di internet, ma per fortuna ancora nell’era degli incontri fisici, dei luoghi di aggregazione che alleluia persistono, se così li vogliamo chiamare. Ovviamente editoria e giornali risentono della crisi economica, in modo molto pesante, ma ancora una volta non dimentichiamoci di alzare gli occhi all’orizzonte: di letteratura se n’è sempre fatta tanta, ben prima di Gutenberg! L’interazione è ancora quella che, secondo me, dovrebbe esserci, fra lettori appassionati, assennati scrittori, critici studiosi, e lavoratori del settore editoriale ad ampio raggio, i quali, specie questi ultimi, dovrebbero sì essere un vettore sostanziale, ma che non sono comunque l’unico vettore necessario per la crescita e lo sviluppo della cultura tutta, ieri come oggi e come molto più probabilmente domani. Mal sopporto quelli che si scagliano ad esempio contro l’autoproduzione, o i discorsi passatisti di chi celebra l’autorevolezza dei giornali “di carta” rispetto alla diffusione ad esempio dei blog. I tempi e i modi cambiano, e influiscono certamente sull’arte, ma prima ancora sulla vita: bisogna solo aprire gli occhi.
6) Quali sono le personalità e i luoghi della critica che consideri più seri e affidabili?
Molto più che i luoghi e le personalità, considero affidabili, se così si può dire, le persone. Siano professori con cui ho studiato all’università, saggisti di cui ho letto molte pagine, autori viventi o non più su questa terra, sì ecco, soprattutto autori, dalla cui poetica si impara sempre tanto, a parer mio, per un processo naturale sia di affinità che di presa di distanza. Ma siano anche semplici lettori, dotati di spiccato senso critico, le tante persone che si ha la fortuna di conoscere, che non lavorano affatto nel campo editoriale o “culturale” che dir si voglia, e che la sera, tornati a casa, leggono magari un Thomas Bernhard, un Philip Roth, così come discutono dell’ultimo film di Iñárritu, o delle sonorità di John Coltrane. Ecco: è lo sguardo arguto, profondo, sensibile e intelligente, quella che considero la sfera critica più seria e affidabile.
Giacomo Raccis
1) Partiamo dalla domanda del sondaggio di «Orlando»: «Chi tra gli scrittori che oggi hanno tra i quarantanove e i sessantanove anni continueremo a leggere in futuro?». Tu come risponderesti, e per quali motivi? Ti chiederei anche di spiegare cosa, secondo te, inciderà di più per il loro successo.
Per rispondere a questa domanda ho bisogno di fare una premessa, visto che il sondaggio di cui si parla è stato ideato e proposto da Paolo Di Paolo e me. La nostra intenzione era quella di interrogare la nuova generazione di lettori forti – della quale fanno parte quanti hanno già raggiunto uno status di critici, pubblicando su riviste e giornali, ma anche critici in erba, che si stanno facendo le ossa in rete, e poi chi lavora nell’editoria o nella scuola e che quindi con i libri ha a che fare quotidianamente – sugli scrittori della generazione che oggi, nel panorama della letteratura italiana, appare la più matura, avviata verso la conclusione del proprio percorso, ma non ancora postuma (come forse si possono considerare alcuni autori che hanno superato i settanta, che hanno perso tanti compagni di strada e che hanno in mente un contesto letterario che non corrisponde al nostro presente: penso a La Capria, Vassalli, Celati…). In questa nostra domanda, che è poi stata molto semplificata nelle sedi in cui abbiamo proposto gli esiti del sondaggio, chiedevamo di tenere in considerazione, per rispondere, le categorie critiche ed estetiche (se mai ne esistono), ma anche quelle del mercato e della percezione diffusa della letteratura, provando quindi a utilizzare gli strumenti della critica per esprimere un voto che non comprendesse esclusivamente il mondo dei lettori fortissimi. È per questo che nel sondaggio hanno avuto voti molto alti scrittori che l’accademia e la critica militante hanno smesso da tempo di considerare interessanti, come Baricco o De Luca (ma basterebbe superare i confini italiani per rendersi conto che in altre “accademie” la situazione è tutt’altro che simile).
Io personalmente ho scommesso – perché di questo si trattava, di una scommessa, seppur giocata con strumenti in grado di ridurre l’approssimazione – su tre autori forti e cultissimi come Michele Mari, Walter Siti e Antonio Moresco, che seppur indigesti alla gran parte del pubblico della letteratura italiana, hanno trovato per vie diverse un percorso d’accesso al pubblico di massa. Mi riferisco ai premi, alle ospitate televisive, all’insegnamento universitario (e sarà il caso di smetterla di considerare la popolazione delle facoltà umanistiche come un serbatoio di lettori per la letteratura d’élite: come ricordava recentemente Raffaele Donnarumma, non è infrequente sentire laureandi con il desiderio di scrivere una tesi su Sveva Casati Modignani o Carlo Lucarelli: questo fatto è il sintomo di una perduta capacità dell’accademia di fornire agli studenti gli strumenti necessari a distinguere alto e basso, ricercato e mainstream, gustoso e commestibile. In un tale contesto, una platea di studenti di lettere conquistati ai romanzi di Walter Siti o a quelli di Michele Mari è un bottino di lettori guadagnati nello spettro del pubblico di massa). In qualche modo questi tre maestri potrebbero riuscire a chiudere il cerchio che riunisce entro un unico perimetro tutte le altimetrie della massa dei lettori.
Dopodiché, mi rendo benissimo conto che probabilmente fra vent’anni non saranno dei brani scelti dai Canti del caos a figurare nelle antologie delle secondarie inferiori, ma più probabilmente qualcosa di Ammaniti, di Baricco o del Camilleri meno “siculo”; parzialmente diversa potrà essere la situazione nelle storie letterarie per i licei, dove le necessità del canone imporranno quantomeno di proporre agli studenti brani di questi autori che sono peraltro già canonizzati in vita, perché ammiratori e detrattori ne riconoscono unanimemente l’importanza, l’originalità e la caratura di modelli. Siti, Moresco e Mari sono infatti autori che hanno saputo costruire una lingua e un codice narrativo personali e inconfondibili, che li rendono dei modelli già per i contemporanei.
Più idealistica sarebbe poi la risposta che vede i tre selezionati per la loro capacità unica di legare – sempre in modi diversi – l’esperienza della scrittura a quella della loro vita personale – Siti con l’autofiction, Moresco con un investimento fisiologico di se stesso nel narrare e Mari attraverso la mediazione della cultura, che si traduce per lui in natura e vita – facendo sì che i loro libri siano immediatamente identificativi dei loro autori. Ma qui davvero sto fantasticando…
2) Dove hai sentito parlare per la prima volta di questi autori, e da chi?
Sinceramente non lo ricordo più, ma direi che il primo contatto con questi scrittori sia avvenuto negli anni dell’università, ma non all’università. Infatti, non sono stati i professori e le loro lezioni il tramite di questo contatto. Nonostante a Milano la scuola spinazzoliana sproni a seguire con attenzione e sguardo critico la produzione contemporanea, per farne poi un terreno di studio della sociologia della lettura e dei consumi culturali, i corsi istituzionali vertevano prevalentemente sugli autori canonizzati e i classici del Novecento (da Pirandello a Sciascia o Consolo, grosso modo).
Nel caso di Michele Mari, naturalmente, il fatto che fosse un professore della Statale ha fatto sì che i suoi libri fossero sulla bocca di tutti fin dai primi anni, quando ci si incuriosiva dei professori e delle loro personalità, accademiche e non solo. C’è un’intera generazione di studenti della Statale che ha accolto libri come Tu, sanguinosa infanzia o Tutto il ferro della Torre Eiffel nella propria formazione intellettuale grazie a questo contatto diretto. Nel caso di Moresco e Siti, invece, il luogo d’incontro sono stati i primi appuntamenti letterari – presentazioni di libri, festival e rassegne librarie – e la frequentazione dei blog di cultura militante: leggevo o sentivo parlare di nuovi scrittori italiani, sembravano interessanti e non li avevo mai letti. Wu Ming, Giuseppe Genna, Carlo Lucarelli (ahimè!), Tommaso Pincio… Andavo a sentirne le presentazioni e sentivo che nei discorsi di presentatori e presentati tornavano, costantemente, i nomi di questi che venivano additati già come maestri, venerati o discussi. Da lì ho cominciato a informarmi, a leggerli e a leggerne, sui giornali, ancora in rete, fin a quando ho scoperto che anche certa accademia se n’era già occupata e li aveva in qualche modo già “sdoganati”.
3) Secondo te quale genere letterario è destinato ad avere fortuna nei prossimi anni? Poesia, romanzo, scritture ibride?
Qua bisogna fare la stessa distinzione che abbiamo fatto per la domanda sui “futuri venerati maestri”: a quale livello di lettori ci rivolgiamo? Se parliamo del grande pubblico, della massa che non necessariamente acquista i libri di Fabio Volo al supermercato, ma che magari frequenta anche i Festival, come Mantova o Pordenone, ma poi magari va a sentire Augias e Capossela, allora la risposta mi appare scontata: il romanzo nella sua formula più semplice e tradizionale, ovvero la narrazione di intreccio.
Se invece ci riferiamo all’ambito della lettura colta, della ricerca letteraria, allora credo proprio che il futuro sia delle scritture ibride, che mischiano narrazione e saggio, prosa e poesia, autobiografia e finzione. In questo momento e probabilmente per i prossimi anni la sperimentazione di maggior successo critico continuerà a essere quella che gioca con le attese e le percezioni del lettore per provare a spiazzarle, a confonderle, a irretirle attraverso costruzioni non pienamente categorizzabili. L’ibridazione in questo momento soddisfa l’esigenza di novità e garantisce, per mezzo della trasgressione e della deformazione, la sopravvivenza di una radice che affonda nel terreno di una riconoscibilità tradizionale.
4) Nell’arco di un decennio possono essere pubblicati libri che entrano a far parte di uno stesso dibattito critico, e che però sono stati scritti da persone nate in momenti molto diversi.
Quali autori consideri significativi – rilevanti dal punto di vista delle categorie critiche con le quali interpreti la letteratura – fra quelli che hanno pubblicato libri fra il 1990 e il 2015?
Negli ultimi 25 anni di libri importanti e di autori importanti – anche solo per una stagione letteraria – mi sembra che, fortunatamente, ce ne siano stati tanti e tra questi mi viene da fare una distinzione in tre livelli, che riflettono la mia esperienza di lettore.
Ci sono gli scrittori e i libri che ho conosciuto, scoperto e apprezzato “in diretta”, negli stessi anni, e talvolta anche mesi, in cui cominciavo ad affacciarmi al mondo dell’extrême contemporain, come si dice in Francia, e poi, negli anni a venire, quando ho continuato a tenermi aggiornato perché finalmente persuaso che dal presente sarebbero passate tutte le linee che avrebbero portato alla storia (letteraria) di domani. Qui ci metto, innanzitutto, la trilogia di Giuseppe Genna – Assalto a un tempo devastato e vile, Italia De Profundis e Dies Irae – che ha rappresentato per me una sorta di “shock del contemporaneo”: oggi non apprezzo più tanto la prosa violenta e l’ambizione assolutistica di quei romanzi, ne riconosco certe sfasature, gli sfondamenti kitsch, ma all’epoca mi avevano davvero aperto un mondo e oggi sono comunque indulgente nel riconoscere a quei lavori il merito – che peraltro Genna continua a onorare in veste di editor – di aver aperto uno spazio narrativo nella produzione contemporanea. Poi ci metto quelli che ritengo i due romanzi italiani più importanti degli ultimi 7 anni, cioè Il tempo materiale di Giorgio Vasta ed Elisabeth di Paolo Sortino: in loro, che pure hanno scritture diversissime, riconosco le forme di un nuovo impegno del narratore nel proprio tempo. Un impegno che riesce a coniugare la sperimentazione stilistica con una scelta tematica precisa ed esplosiva. Poi metterei anche La vita in tempo di pace di Francesco Pecoraro, che ha segnato il passo della grande narrazione italiana e generazionale. Infine, per questo primo girone, farei anche il nome di Vanni Santoni, che con Personaggi precari ha senza dubbio aperto (o riaperto, vedi Pontiggia) un filone della narrazione che coglie la Stimmung del nostro tempo e che è destinato a trovare nuova linfa.
Nel secondo livello ci sono libri e scrittori conosciuti in differita, a pochi anni dal loro floruit – o dal suo cominciare –, ma “presi” appena in tempo perché potessero ancora segnare profondamente la mia formazione di lettore. E qui ci sono Aldo Nove, di cui tengo tutto da Woobinda alla Vita oscena; e i Luther Blissett di Q, romanzo che con buona qualità letteraria ha segnato una generazione – almeno – di lettori e ha posto le fondamenta per un lavoro di contronarrazione tipico del nostro presente e capace di trascendere le frontiere della realtà romanzesca per assestarsi nel confronto tra i discorsi della realtà vera e propria. Nella lista poi ci devono essere anche Sappiano le mie parole di sangue di Babsi Jones e Lezioni di tenebra di Helena Janeczek, due scritture che condividono il senso della necessità della scrittura, unico valore che – associato a una certa consapevolezza dello stile – io oggi riesco a riconoscere come distintivo del pregio letterario di un libro.
Al terzo livello ci sono infine gli scrittori e i libri che ho letto a una certa distanza dalla loro uscita, una distanza che mi ha impedito di leggerli come propriamente “attuali” e mi ha obbligato a ricorrere a uno sguardo retrospettivo, che mi ha permesso comunque di collocarli precisamente in un quadro della produzione degli ultimi decenni che ancora va stabilizzandosi nella mia mente. Ci sono naturalmente i tre maestri Siti, Mari e Moresco, circa i quali, non a caso, l’impressione diffusa mi sembra sia quella che abbiano già espresso il loro meglio e i cui nuovi libri – fatta eccezione forse per Moresco, il cui progetto è ancora in fieri – vengono ormai recepiti in maniera riflessa rispetto ai riconosciuti capolavori. Ma in questo girone dovrei inserire anche i maestri scomparsi e che, scrivendo in contemporanea ad autori la cui attività oggi è ancora in pieno svolgimento, hanno saputo confrontarvisi con attualità e originalità: penso ad Antonio Tabucchi, ma anche a Emilio Tadini e ai suoi La tempesta o Eccetera, o a Giuseppe Pontiggia e a Vite di uomini non illustri.
Qui mi fermo, limitandomi a pochi nomi che non esauriscono i tre livelli che ho stabilito, ma che scandiscono senz’altro i primi posti di una gerarchia che, nonostante gli sforzi di obiettività critica, non può che essere idiosincratica (e la totale assenza di poeti e poetesse ne è una conferma).
5) Passiamo a considerare i luoghi (giornali, riviste specializzate, riviste online, siti e blog; ma anche luoghi fisici come scuole, università, biblioteche, presentazioni di libri) e i modi in cui i libri vengono discussi e commentati oggi. Tendi a pensare al campo letterario come a uno spazio fluido, in cui critica, pubblico, industria dialogano e collaborano (talvolta anche in competizione per l’egemonia) – o a separare diversi campi d’influenza e di azione? Che tipo di interazione c’è (se trovi che ci sia un’interazione)?
Senza dubbio il campo letterario è un campo fluido, in movimento e trasformazione; a non subire cambiamenti è però la posizione e la figura di chi conferisce patenti di autorevolezza.
Se il web rappresenta la novità più lampante e stravolgente dell’ultimo decennio; se il web ha aperto la strada della parola critica a tanti che, come me, prima avrebbero fatto molta più fatica – non solo per demeriti propri – a trovare una piccola tribuna da cui parlare; se il web ha reso diretta la comunicazione tra autori e lettori, ma anche tra autori e critici (soprattutto delle generazioni più giovani, maggiormente disponibili a infrangere i vecchi usi della comunicazione e della civiltà letteraria); se è vero tutto questo, è vero anche, di contro, che il web resta molto spesso una dimensione con ricadute scarse (o comunque non proporzionali alla mole di lavoro svoltovi) nella realtà materiale. Si salutano con grande entusiasmo i primi – e rarissimi – casi di citazioni da blog e siti nelle quarte di copertina o nelle bibliografie accademiche, ma in realtà si constata ancora un’incommensurabile prevalenza della carta rispetto al digitale, in quanto a potenziale di influenza sui lettori.
Anche per questo, è molto difficile costruirsi un capitale simbolico con l’attività critica in rete – quantomeno negli ambienti più specializzati (parzialmente diverso è il discorso relativo a un giornalismo culturale più pop, genere Linkiesta o Finzioni). In questo campo il web mostra ancora la propria insufficienza, imponendo all’aspirante critico la necessità di condurre una parallela e spesso maggiore attività fuori dalla rete. La rete costituisce così un luogo di esercizio e anche di sperimentazione di linguaggi e codici, ma difficilmente un “curriculum” di recensioni pubblicate su blog anche apprezzati potrà valere qualcosa nel mercato universitario o della critica “libraria”.
La questione poi è anche economica: la carta continua a pagare, seppur poco, mentre in rete la questione della remunerazione del lavoro intellettuale e della produzione critica o creativa rimane oggetto di grandi discussioni (ricordo, giusto un paio di anni fa, questa, che aveva coinvolto alcune riviste e blog letterari), ma non trova ancora una soluzione – perché di fatto mancano le strutture in grado di sostenere un tale onere.
Il vantaggio maggiore della rete mi sembra allora, come già anticipato, di natura relazionale: la facilità di scambio, di confronto e anche di accesso ai contenuti ha permesso di stringere rapporti e anche di mantenere in contatto critici, autori e lettori rifondando, sotto nuove insegne, una comunità letteraria. La natura nuova e in certo senso alternativa di questa comunità fa sì, però, che non possa essere considerata rappresentativa di tutto il mondo letterario: troppe sono ancora le resistenze, le volontarie esclusioni. Qualcosa rimane sempre fuori, inaccessibile e incontattabile. Nondimeno, la facilità del dialogo ha consentito di sviluppare una maggiore maturità nel dibattito, che mi sembra oggi, anche grazie alla facilità di consumo culturale permesso dalla rete, di un livello molto alto (anche a livello medio, non si può negare che la capacità critica sia migliorata).
Per finire, l’industria editoriale continua ad avere poi le proprie logiche, che prescindono quasi del tutto dal microcosmo del web culturale e dei social network, che vengono considerati come terreno su cui misurare i guasti dei potenziali lettori, ma che non rappresentano certo il luogo in cui intavolare discussioni, riconoscere interlocutori o, caso limite, scegliere i propri “lettori editoriali”. Gli unici casi in cui questo accade ancora sono quelli in cui l’editoria non è industria ma artigianato, i casi dei piccoli editori che provano allora a lusingare chi si interessi ai loro libri, anche se perlopiù solo in chiave promozionale.
6) Quali sono le personalità e i luoghi della critica che consideri più seri e affidabili?
Questa risposta riflette in parte quella precedente.
Se parliamo di web (e limitatamente alla letteratura), direi senza dubbio Le parole e le cose e Doppiozero per il livello molto alto di complessità e profondità del pensiero critico, oltre che per la varietà di ambiti d’intervento; a un altro livello, più da giornalismo culturale, dico anche minima&moralia, che ha il pregio di rendere il côté militante della propria critica subito evidente. 404filenotefound e Il lavoro culturale sono invece imprese critiche che stimo e in cui trovo molto spesso contributi interessanti: nonostante l’età giovane di chi le coordina e vi collabora – fatto che implica talvolta anche qualche fisiologica “caduta” –, mi sembra portino avanti un progetto di scrittura critica e di riflessione sul presente (ma potrei dire anche di impegno nei confronti del presente) encomiabile – almeno per chi come me si trova impegnato nella stessa sfida – e destinato a lasciare tracce preziose per il futuro.
Se parliamo di carta, invece, mi viene in mente una critica accademica aperta alle questioni dell’immediato presente, come quella di «Allegoria» o «il verri», che pure si avvalgono di prospettive ideologicamente differenti sul campo letterario. Ma non escluderei anche certa, rarissima, critica giornalistica che, nonostante la crisi e le difficoltà, conserva un notevole spessore intellettuale, e mi riferisco ad «Alias», inserto domenicale del «manifesto».
Poi in realtà, anche in questo campo, il problema è che c’è un’offerta numericamente molto alta e spesso anche qualitativamente pregiata, e non è facile stare dietro a tutto – io per esempio ci ho rinunciato, muovendomi, come un rabdomante, guidato dai consigli o da suggestioni contingenti.
Chiudo segnalando invece una mancanza nel campo della critica letteraria italiana, che è quello delle riviste “da edicola”: mi riferisco a settimanali o mensili che, come il francese «Magazine Littéraire», sanno condurre un discorso sulla letteratura presente in grado di soddisfare le diverse esigenze dei diversi pubblici della letteratura, senza chiudersi nelle astrazioni della critica accademica e dei suoi ponderosissimi bollettini, e neanche scadendo nella neolingua pop di riviste che trattano la letteratura nello stesso identico modo di tutte gli altri campi dell’espressione creativa, come ad esempio fa Rivista Studio. Ci vorrebbero degli spazi in cui la letteratura non fosse solo uno dei tanti termini che confluiscono nell’etichetta giornalistica di “Cultura e spettacolo”, ma avesse una propria centralità; degli spazi in cui le retrospettive si affiancassero alle recensioni, ad articoli monografici e a proposte di letture comparate.
Mimmo Cangiano è nato a Caserta nel 1981. Ha conseguito il Dottorato di Ricerca all’Università degli Studi di Firenze, e sta concludendo un PhD alla Duke University. Scrive su siti letterari e riviste cartacee.
Davide Castiglione è nato ad Alessandria nel 1985. Si è laureato all’Università di Pavia e dal 2011 vive a Nottingham, dove sta completando un Dottorato di Ricerca. Gestisce un sito personale e ha co-fondato il progetto collettivo di critica poetica In realtà la poesia. Ha all’attivo un libro di versi.
Martina Daraio è nata ad Ancona nel 1987. Attualmente vive a Padova, dove svolge un Dottorato di ricerca in Scienze linguistiche, filologiche e letterarie. Scrive su La Balena Bianca, Poetarumsilva, In realtà la poesia.
Francesca Fiorletta è nata a Frosinone nel 1985. Vive a Roma. È autrice, critico letterario e lavora come un ufficio stampa. È redattrice di Nazione Indiana; suoi testi sono apparsi su diversi blog e riviste on line e cartacee.
Giacomo Raccis è nato a Padova nel 1987. Si è addottorato tra Bergamo e Parigi con una tesi su Emilio Tadini ed è tra i fondatori della rivista La Balena Bianca.
[Immagine:Massinissa Selmani, 56 Biennale (gm)]
Cinque risposte a uscita sono tante, anche perché sono tutte ben argomentate. Non si riesce a fare una domanda a testa. Nondimeno si evidenzia la pluralità di approcci, che disorienta un poco.
Forse questo spaventa – ancora una volta – la nascita di un dibattito critico in rete.
Spero di vedere altri interventi, anche non previsti e ancora fuori dagli schemi, in modo da allargare questo sondaggio e poter fare davvero una conta. Sarebbe interessante sentire l’opinione di qualche libraio, ad esempio…
I criteri avanzati per le segnalazioni, infatti, appaiono tutti giusti e fondati, ma non so se riusciremo a metterli in relazione tra di loro senza un vero riferimento al mercato o a una vera linea critica discriminante.
Il rischio è che al di là del sondaggio si resti nel puro esercizio del periodo ipotetico…
Guido Mattia
Troppo anziana (Roma, 1941) per capire…
Per capire il perché critico letterario di quella che fu la scelta – o meglio: decisione -, di far partire un discrimine dal 1945: perché tale data di inizio? Scrittori e poeti nati dal 1940 al 1944 sono nati in quei quattro anni? Forse no, forse non ci sono stati né ci sono scrittori e poeti nati tra il 1940 e il 1944. Sì, sarà probabilmente questo il motivo giacché se un limite di anni di date di nascita – per la disamina che fu fatta -, mi è comprensibile (e generalmente comprensibile), il discrimine tra gli anni 1940, ’41, ’42, ’43, ’44, , e 1945, credo, per me ed anche per altri, risulterebbe meno intellegibile. A meno che non si intenda, come discrimine, una netta separazione tra scrittori e poeti, nati durante gli anni della seconda guerra mondiale, e quelli che, nati nel 1945, si delineano come generazione del pieno dopoguerra, giacché avendo essi – e neanche compiuto – un solo anno nel 1945, appartengono, sembrerebbe, ad altri anni ’40, e per fortuna lontani da date di nascita in periodo di guerra.
Sulle fortune di ascolto per scrittori e poeti, in qualsiasi anno nati e a qualsiasi generazione di appartenenza, e poi di crescita e di sviluppo maturati, le questioni della fortuna di ascolto talmente complesse da districare e individuare – nata nel ’41, ho esordito – in poesia –, in numeri di riviste degli ormai lontanissimi anni ’70 – “Nuovi Argomenti”, ad esempio -, esse, talmente complesse da districare e individuare che davvero non possono essere che benvenuti e più che auspicabili altri e nuovi interventi siano essi di critici letterari, di lettori, di intervistati, di librai, di esperti, anche, a conoscenza profonda di dinamiche editoriali.
@Guido
Hai ragione: la prossima volta ne pubblicheremo solo due o tre.
Comunque anche io sono stata colpita dalla pluralità di approcci, ma non disorientata. In fondo, me l’aspettavo.
Al contrario, forse mi ha sorpresa l’omogeneità di due elementi (stando a questo primo post): 1) il consenso di Michele Mari; 2) tutti gli intervistati sono entrati in contatto con le opere di questi autori anche o prevalentemente all’università (tranne forse Mimmo Cangiano, che però poi nomina l’italianistica statunitense). Mi aspettavo che tutti rispondessero «leggendo Nazione Indiana a inizio Anni Zero» o qualcosa del genere. Ma magari nei prossimi articoli emergerà altro (e in realtà so già che è così).
Devo dire che la cosa che mi inquieta di più è la retorica (non in senso deteriore) del “non sono in grado, non mi sento pronto”. Sappiamo benissimo da mezzo secolo che nessuno al mondo ha davvero una pura autorità in questi discorsi, manco Mengaldo (che mi sorprende vedere citato così tanto). O tacciamo o tagliamo la premessa inutile, no?
La persistenza di Michele Mari continua a sorprendermi. Sbaglio (non ho grande confidenza con i dibattiti critici online) o è un autore di cui si parla poco (almeno rispetto a Siti-Moresco-Trevi-Falco-Lagioia ecc.)?
Giammei, a questo punto sono curioso di sapere cosa ti inquieta di meno? :-). Mengaldo mi pare citato solo due volte.
N.B. Deve essere saltato qualcosa (o si tratta di un refuso) all’inizio della risposta 6 di Castiglione.
@Mimmo
La pluralità di approcci (che anzi era auspicabile credo) e l’arbitraria demarcazione anagrafica, che era in eredità dal sondaggio originale e in fondo non fa male a nessuno (mica è un esperimento statistico). Mengaldo citato due volte mi sembra tanto, anch’io amo molto i suoi studi ma non mi aspettavo che due miei coetanei lo avrebbero nominato in questa sede.
Hai sicuramente ragione, ma il problema è in qualche modo collegato – come sai – a quanto dicevi nel commento precedente, e su cui anche sono d’accordissimo. La perdita di “autorità” del singolo critico è il risultato finale della perdita di “autorità” dei metodi critici stessi (cioè delle Weltanschauung politico/filosofiche a questi collegate, quali che fossero). E pure il “non sono in grado, non mi sento pronto” finisce per dirci qualcosa: apre la consueta finestra sull’infantilismo di una generazione (dico infantilismo provando a toglierci la connotazione negativa: lo dico come lo direbbe ZeroCalcare) e rivela il rischio continuo di una presa di posizione impressionistica e soggettivistica: come se l’Io avesse qualche pass gratuito per il solo fatto di essere un Io, come se il dire “per me” ci assolvesse automaticamente dallo sbagliare.
@Alessandro,
mi sento chiamata in causa. Ti sembrerà incredibile ma non c’è retorica in quello che ho scritto.
Hai ragione quando dici che – per fortuna – non esiste più un’autorità “pura”, ma questo non significa che non ve ne sia alcuna, che non esistano diversi gradi di competenza (a proposito: parlerei più di autorevolezza che di autorità). Oggi si usa sempre più spesso il concetto di “lettori forti” al posto di “critici” o di “studiosi di letteratura” e sembra quasi che aver letto un libro o cento, aver passato la vita a studiare o essersi laureati ieri, sia la stessa cosa pur di mettere in circolo nomi, statistiche e dibattiti.
Le domande di questo questionario erano tra loro diverse e implicavano problemi critici complessi. Le alternative erano tre: tirarmi indietro e rifiutare l’offerta; partecipare sparando nomi e idee a caso; partecipare informando l’ipotetico lettore su quali fossero gli aspetti su cui mi sentivo più competente e quali quelli in cui mi sentivo meno preparata (cercando anche di motivare il perché della mia insicurezza). La terza opzione mi è sembrata la più responsabile. Tutto qua. Non capisco la cosa come possa inquietarti.
Interviste ricche di spunti e interessanti, anche se io, come hanno detto altri, preferivo domande in numero minore e più stringate: condivido la sopravvalutazione del concetto di “consenso”: già altre volte qui si è parlato dei mutamenti del canone come le uscite recenti da esso di Carducci e Quasimodo, e in tempi più passati, come ricordava Cesare Segre in “Critica e critici”, l’uscita del Metastasio, del quale ancora Leopardi affermava “Si può dire […]che un uomo degno del nome di poeta (se non forse il Metastasio) non sia nato in Italia dopo il Tasso».
Comunque io mi sarei aspettato una domanda esplicita sul ruolo delle opere più legate alla cultura di massa e alle logiche di mercato: interessante il fatto che vengano citati Valerio Evangelisti e generi legati alla letteratura di consumo come la fantascienza e il poliziesco nonché Walter Benjamin uno dei primi a riflettere sul ruolo della cultura di massa come non più pensata come standardizzazione e manipolazione delle coscienze delle masse passive ma semmai come fonte di elevazione di cultura e di valori per esse. Certo, la differenza di linguaggio è fondamentale rispetto alla letteratura “colta” detta anche avente “campo di produzione culturale ristretto” come direbbe Bourdieu, ma potrei dire analogamente che le opere teatrali di Shakespeare è bene considerarle come opere teatrali per essere apprezzate, invece che confrontarle con romanzi e poemi, e questo naturalmente non esclude l’affermare che esistono opere teatrale di più alto valore (e quindi da mettere accanto a romanzi e opere in versi di alta qualità) assieme a miriadi di opere teatrali mediocri, così che possono esistere opere legate alla cultura di massa di alta qualità ma in mezzo a miriadi di altre opere legate alla cultura di massa ma mediocri e trascurabili ma non in quanto cultura di massa ma per altri fattori.
Rispondo brevemente a Mimmo Cangiano e Alessandro Giammei perché la loro perplessità sulla premessa del “non sono in grado” può benissimo riferirsi a una delle mie risposte (anzi, al suo incipit). Capisco (e me ne scuso) che possa essere misinterpretata come disclaimer, mancanza di coraggio, o peggio via tranquilla per schivare la responsabilità di un verdetto o giudizio. Io però invito a leggere la questione dal punto di vista opposto: credo che sia d’obbligo l’umiltà del singolo critico (e in questo mi trovo molto vicino alla posizione di Martina), specialmente con domande di questa portata. Nessuno più di chi studia per lavoro conosce i limiti e la parzialità di ciò che dice. Mi sembra, all’opposto, pericoloso travestire dei pareri informati da verità dall’alto. Se c’è una cosa che in ambito anglosassone insegnano bene, è quella di circostanziare i giudizi tramite formule di dubbio (“to the best of my knowledge”, “it seems that”, eccetera). Io ho deciso di andare più in là, perché questo è un punto nodale della mia concezione di critico: ho deciso, come segnala il link (che riporto anche qui:http://castiglionedav.altervista.org/blog/lista-delle-raccolte-poetiche-italiane-lette-finora-per-circoscrivere-i-giudizi/) di esplicitare il bacino iniziale di opere a partire dalle quali formulo il mio giudizio, e cioè quelle che sono riuscito a leggere finora. Questo comporta anche, tra parentesi, segnalare i propri limiti, le proprie lacune, senza vergognarsene e senza scusarle (“nemmeno per la mia ignoranza domando perdono”, scriveva Fortini – e se lo diceva lui…). Questa verificabilità dovrebbero, secondo me, adottarla anche i critici accademici che stimo e che ho citato nel mio intervento. Ecco, ci tenevo a chiarire questo punto. Al di là di questo, come tutti spero si sviluppi una discussione interessante, ma spero che questa discussione, anziché impuntarsi sui nomi (manco fossimo a un campionato di calcio!) si interrogasse su ciò che eticamente, gnoseologicamente, ontologicamente e stilisticamente chiediamo a un’opera. Questo, deduttivo anziché induttivo, deve secondo me essere il nuovo punto di partenza per ridefinire un canone, anziché appiattiirlo su dinamiche extra-letterarie, di consumo culturale insomma.
Rileggendomi mi rendo conto di aver posto la questione in modo antipatico e vi ringrazio per avermi risposto. In generale, più che inquietarmi, mi dispiaccio che ci sia bisogno di alcuni accorgimenti retorici (ripeto che non mi riferisco alla retorica in senso deteriore, ma nel vero senso della parola) per chiarire ciò che penso sia già chiaro dal contesto e dal momento storico in cui discutiamo. Chi, in questa tranche e nella successiva appena pubblicata, non ha sentito il bisogno di adottare quelle formule non ha d’altronde parlato dall’empireo delle verità eterne: segnalare la soggettività e la relatività di quanto si dice è sacrosanto, mi dispiace che il dispositivo per farlo sia l’autocancellazione preventiva da un eventuale novero di soggetti che sarebbero meglio o più in grado di dire qualcosa. E dico questo proprio perché, dopo le formule, ho letto cose che testimoniano del contrario.
Davide,
nel precedente commento mi riferivo anche a me stesso: pur non avendo usato la formula “non sono in grado ecc.”, ho anche io usato degli inevitabilmente apologizzanti “per me”.
Però attenzione a mettere insieme la necessaria modestia intellettuale e il necessario esercizio del dubbio con un limite che finisce per risolversi in relativismo soggettivistico, dimenticando per lo più che tale relativismo è tutt’altro che innocente weltanschauung, ma è anzi un ideologico modus operandi assolutamente in linea coi tempi. Dall’altro lato di questo relativismo non c’è la “verità dall’alto”, c’è il naturale parteggiare che è tentativo di lettura oggettiva (che è per forza di cose sempre un’approssimazione teorica) di una situazione storica e/o culturale.
Io distinguerei due questioni: una riguarda la deriva relativistico-soggettivista come rischio intrinseco alla perdita di “verità dall’alto”, l’altra riguarda, all’interno di questa tensione, l’esplicitazione della posizionalità di chi parla.
Dato che possiamo giudicare solo a partire da un punto di vista relativo, il proprio, è innecessario anteporre un “per me” o un “mi scuso se sono così relativo”, ecc. Sarebbe qualcosa che dovremmo dire tutti, sempre, e allora tanto vale ometterlo.
Questo però non significa che quello che viene detto per descrivere il proprio punto di osservazione sia superfluo o solo una “necessaria modestia intellettuale”. Esplicitare a partire da quali premesse si parla serve, al contrario, a dare spessore all’argomentazione creando un terreno condiviso, un criterio di “verità relativa” che può essere discusso.
Se scrivo che faccio fatica a proporre dei nomi perchè non so bene a quali aspetti do, o vorrei dare, priorità estetica, significa che non sono in grado di riconoscere la posizionalità della mia risposta e ad argomentarla e quindi che la considerazione che merita, o se vogliamo l’autorevolezza, è relativa a ciò.
Questo simmetricamente fa sì che in generale delle “verità” altrui mi interesserebbe conoscere prima i criteri scelti e per quali ragioni, poi i risultati. Altrimenti siamo al tototomi e, sì, in balia di un relativismo impressionistico assoluto.
Da persona priva affatto di studi – da persona estranea all’ambiente letterario -, da persona che coltiva (letteralmente) il proprio orto e cura la propria terra, mi permetto una osservazione, molto a latere: dov’è “il sangue”, la sanità della vita – il sangue, direbbe Flaubert, che gonfia le vene dei cavalli di razza -, in queste risposte, così asfittiche e, a volte, pallide? Dov’è la vita nella sua cifra “vissuta”, sofferta, a volte subìta?
più che autentica passione per la letteratura e la ricerca in molte risposte vedo un mettersi in posa, un’ansia di mostrare al mondo la propria (eventuale) preparazione per far buona impressione. E finora non un nome che vada fuori dagli schemi tracciati da critici già affermati o che si discosti dalle mode letterarie del momento (vedi Elena Ferrante). Bah…
Cara Anna, concordo con lei. Ma non diciamolo: obiettare – Emily Dickinson ci dice – è sempre pericoloso.
Be’, chi rompe il BIP è stato abbondantemente censurato e poi segato nel suo percorso formativo, assai prima di arrivare alla cima formativa dei dottorati in Italia e all’estero su cui fare cassa a venire, quindi c’è poco da meravigliarsi. Giusto su Nazione Indiana, nei commenti sulla piattaforma Eulalia, sono state proposte alcuni giorni fa 14 poesie fulminanti della fu drop-out, suicida bolzanina a trent’anni Lili Hofer ( https://eulalia.nazioneindiana.it/t/14-inediti-di-lili-hofer/1212/14 ). Questi che stiamo leggendo sono bravi ragazzi anodini e compatti, l’importante è sopravvivere. Più che ricerca letteraria, il giochino iniziale dei romani ed il questionario degli universitari è di interesse sociologico, una conta a marcare il territorio, ma non credo ci siano più studiosi dal confine con l’abilità di prenderli di petto: si sono estinti o sono morti tutti, sterminati durante il tragitto. Poi si leggono i baroni lagnarsi che ‘sti benedetti ragazzi producono robe di elevata qualità ma poco originali o che non c’è nessun libro di quelli di prima, i nati degli anni Settanta, a fare da traino letterario, eheheh: ve li siete mangiati tutti e avete allevato lombrichi.
Caro Giuseppe, posso dire che – non volendo io addentrarmi nel discorso sui dottori di ricerca e sui baroni, che non mi compete né riguarda – concordo con lei, se posso permettermi, allorché attesta la cifra sostanzialmente anodina e amorfa, ma al contempo teatralizzata e chic, di questi giovani.
@Giuseppe C
Vorrei solo precisare che NON è un questionario per dottorandi.
Lombrichi lo dica a sua sorella.
Be’ si’, forse sono troppo duro. Diciamo che in Italia si diventa adulti a 35-40 anni ed in certi campi anche a 60-70 fra rinvii, supplenze, graduatorie, rinunce e compromessi. Diciamo anche che fare gruppo (sociale, culturale, amicale) per sopravvivere in queste condizioni è ammirevole e finanche interessante, in via traslata, rispetto all’oggetto stesso del contendere. In ogni caso, finché non avrete e non eserciterete un minimo di potere, non avrete nulla di cui rendere conto ma, forse, neppure nulla da dire a chi vi legge da fuori e cerca una direzione nelle faccende che rappresentate, che hanno ancora un valore sociale fra le tante persone di buona volontà che abitano questo Paese. Tutto qua. Saluti.
Accipicchia come mi struggo di non essere appassionato, originale, sregolato e pieno di vita come lo erano i miei omologhi del passato. I nati negli anni Cinquanta, loro sì che hanno espresso un sagace e coinvolgente punto di vista sulle lettere! Ah come vorrei farmi egregio quanto i quarantenni, fieri antagonisti, o i cinquantenni, maestri in ombra e inascoltate cassandre. Questi dottorandi di oggi sono tutti raccomandati da oscuri vecchi, che li plagiano perché ripetano i nomi di Walter Siti e Milo De Angelis (noti intellettuali di regime, conformi alla condotta dominante) e ci rassicurino con le loro proposte anodine e amorfe. Ci vuole autenticità e cuore, altroché.
Badi: non “appassionato, originale, sregolato e pieno di vita”, ma semplicemente pensante con la propria testa. Non sarei drastico, sui “nati negli anni Cinquanta”, “loro sì che hanno espresso un sagace e coinvolgente punto di vista sulle lettere”: tra loro c’era un Pasolini.
“In ogni caso, finché non avrete e non eserciterete un minimo di potere, non avrete nulla di cui rendere conto ma, forse, neppure nulla da dire a chi vi legge da fuori e cerca una direzione nelle faccende che rappresentate, che hanno ancora un valore sociale fra le tante persone di buona volontà che abitano questo Paese.”
questo discorso potrebbe trovarmi concorde. Ma chiedo di rimando: perché non dovrebbe valere anche per lei? O mi sono perso qualcosa ed esercita “un minimo di potere”, ha qualche influenza più di me, di noi, m’allargo, da qualche parte nel campo letterario?
E in questo caso di stallo, che si fa? incrociamo tutti le braccia o lottiamo per conquistarci qualcosa, pazienza se non è il “potere” nella sua fumosa terribilità (magari un terreno di dialogo)? Le proposte sono benvenute, per parte mia.
@Lorenzo
«In ogni caso, finché non avrete e non eserciterete un minimo di potere, non avrete nulla di cui rendere conto ma, forse, neppure nulla da dire a chi vi legge da fuori e cerca una direzione nelle faccende che rappresentate, che hanno ancora un valore sociale fra le tante persone di buona volontà che abitano questo Paese»
Solo a me sembra una frase terribile, nel senso di vagamente fascista?
Pasolini è nato nel 1922 e ho l’impressione che gli argomenti avanzati dalle persone che finora hanno risposto al questionario dimostrino appunto che tali persone hanno dei motivi per dire quello che dicono. Se poi uno vuole per forza credere che ci sia dietro non so che complotto di anziani manovratori che sussurrano nell’orecchio dei “giovani” ciò che i “giovani” dicono bene. Un certo Kurt Vonnegut (anche lui nato nel 1922) spiegava abbastanza bene che è in sostanza la mancanza di odio nei nati dopo a dar fastidio a chi ha nostalgia degli autonomissimi e appassionatissimi giovani del passato. Chissà, magari aveva ragione lui.
Non credo che Giuseppe Cornacchia intendesse in quel senso, lo leggo da anni e non mi pare il tipo: forse voleva avvertire sul rischio di finire incagliati in un sistema che reputa “fascista” (per usare il termine, ma non lo condivido). Non per fare analisi testuali non volute =) …
Però mi sembra che nel doppio vincolo paralizzante che ha illustrato, finisca per ricaderci anche lui insieme a tanti altri. A questo punto, mi chiedo se abbia senso parlare di un simile vincolo, se corrisponda a verità. Io avrei dei dubbi.
@Claudia
Zitta Claudia, ché oltre a essere giovane sei anche donna e quindi col cavolo che quello che pensi lo pensi con la testa tua: sicuro il tuo uomo ti detta le risposte al questionario di leparolellecòse, risposte che a sua volta gli sono state dettate da un barone a cui ha venduto la sua autonomia e il suo amore per Lili Hofer in cambio di un prestigiosissimo dottorato
Attenzione: non sto attestando un “complotto di anziani manovratori”, né sto facendo un confronto (non ne sarei capace) tra i critici di cui sopra (e soltanto quelli – non l’intera loro generazione) e i critici delle generazioni precedenti. Il mio fuoco, per così dire, è un altro, e certo non polemico: ravviso poca vitalità nelle risposte sopra offerte dai giovani. Poca vitalità rispetto, sì, a quelle che avrebbero offerto talune persone ormai non più tra noi. Questo sì. Ma non sto accreditando complotti, non sto facendo confronti tout court e generalizzatori. Né, in fondo, di essi mi pasco: né nel bene, né nel male.
@Marchese – Sono un “lettore attivo”, socialmente un popolano di altra formazione, self-made nelle vostre faccende. In un ipotetico esercito, sarei il mercenario che rompe le balle per motivi di opportunità: se vincessimo la guerra, infatti, voi fareste le vostre cose a vostro modo, io farei le mie nei miei ambiti, poggiandomi al lavoro della vostra catena culturale. Che voi umanisti vi svegliate, insomma, serve anche a me in contesti in cui come italiani contiamo tutti davvero poco, non solo a livello politico ma anche culturale e quindi di influenza tra cordate di investitori che girano soldi per fare le cose, sostanziale benessere e poi prestigio sociale. Una centrale nucleare, da solo, non posso ancora costruirmela nel mio giardino sotto casa, ma sono ragionevolmente certo che se anche i vostri discorsi salissero di realismo e di pregnanza sul reale, avrei qualche chance eheh.
Carissimi, io non capisco questa polemica che manca totalmente il bersaglio. Perché spostare l’attenzione dal contenuto scritto a chi lo scrive? perché cadere nella trappola di personificare tutto? perché non smontate le nostre argomentazioni, non proponete altri nomi? troppo difficile o laborioso? giocherò allora al gioco che vi piace, e parlerò del me che scrive e di queste questioni marginalissime a cui qualcuno (Giammei e Giuseppe C soprattutto) si è tenacemente attaccato.
Anodini, eccetera – senz’altro, è un dato di fatto, né positivo né negativo per me. Sono un dottorando, un piccolo borghese con volontà di equilibrio e mediazione, lontanissimo dal furore per i cosiddetti maledetti eccentrici ecc. che qualcuno sembra sempre rimpiangere. Personalmente l’anti-intellettualismo mi sembra talvolta uno sport, un partito preso e non si sa bene perché. Non lavoro all’AVIS, non cercatelo qui il sangue. Apro una parentesi.
C’è, in questo sport della rincorsa al diverso, un fraintendimento grande – che, essendo vita e sangue la “vera” letteratura, lo debbano essere anche coloro che la studiano. E allora apro una parentesi nella parentesi. Noi siamo stati chiamati a esprimere un parere da studiosi o esperti (prendete quest’ultima parola con tutta la cautela del mondo). Non da lettori, NON da lettori, ripeto. Il rapporto profondo, “di carne” che posso avere con alcuni autori, è un fatto mio privato e il parlarne non mi rende critico. Critica è distanza, equilibrio, capacità di guardare da lontano pur senza illudersi di non essere parte di un meccanismo più grande. E dunque, interpellato (e per favore, nessun complotto – Claudia Crocco è una studiosa seria e appassionata, che ha legittimamente scelto chi interpellare e perché) io ho vestito i panni pubblici di critico e non quelli personali di lettore. Insomma, non confondiamo le persone con i ruoli, e non pretendiamo che a esporsi siano sempre le prime a discapito dei secondi. Occorre riscoprire il ruolo al di là della persona.
Al tempo stesso, mi sembra risibile l’accusa che manchiamo di potere – e chi lo vuole? Dico il potere che voglio e posso avere – una sfera di influenza su sacche di lettori e autori, che potremmo chiamare carisma o autorevolezza (non le ho, sia chiaro, ma quelli sono obbiettivi). Non capisco perché un’azienda possa fidelizzare i clienti e un critico non debba fidelizzare i suoi lettori e autori. Datemi del capitalista ora!
Detto questo, vi è possibile entrare nel merito, in un merito qualunque? si potrebbe copia-incollare una delle nostre affermazioni, criticarla e smontarla – questo sarebbe assai più fruttuoso per tutti.
Gentilissimo, non ho inteso, per “sangue”, eccentricità, maledettismo, diversità; ho inteso, senza citarle una certa Cristina Campo, la vita, semplicemente – la vita, che mi pare (al di là delle argomentazioni che lei richiede e che non ho il tempo di fare) poco fluente, nascosta sotto paludate teatralizzazioni. Critica, come lei avverte, sarà pur “distanza”, ma è anche risonanza di un autore entro noi stessi, che da “studiosi” meri diveniamo “persone” – e siamo, così, “persone”. Una persona è tale qualunque sia il ruolo accidentale che veste.
Dottorandi o no. Sarà che sono un po’ fuori dal giro. Ma gli intervistati: chi sono?
Basterà avere all’attivo un libro di versi perché ci si definisca “scrittore e critico”, come recita il titolo, e gli si chieda la sua opinione? O basterà un dottorato per definirsi critico letterario? O è sufficiente essere nati negli anni ’80?