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di Massimo Raffaeli

[Questo articolo è uscito su «Alias»].

La musa di Umberto Saba fu tanto ambigua e ancipite da realizzare, specie se valutata in retrospettiva, una combinazione in cui il maschile e il femminile non tanto si confondevano quanto si identificavano. E infatti la sua raccolta eponima, Trieste e una donna, e il suo romanzo terminale e postumo, Ernesto, potevano sì cambiare referenti e destinatari ma restituivano senz’altro una medesima temperatura del sentire, un unico slancio a quella che il poeta chiamava la “calda vita” ovvero, quale sinonimo dello slancio e insieme della ricezione sentimentale, la sua “amorosa spina”. Elettivo e profondamente arrischiato fu quanto a ciò il suo rapporto con il figlio del collega libraio antiquario Emanuele Almansi, un ragazzo della classe 1924, Federico, cui sono tacitamente dedicate alcune poesie del Canzoniere (fra le altre Per un fanciullo ammalato, Tre poesie a Telemaco, Vecchio e giovane) nonché diversi aforismi di Scorciatoie e raccontini e specialmente, cosa rara per il poeta triestino, la lunga prefazione al volumetto delle liriche di Federico Almansi medesimo, Poesie (1938-1946), pubblicate a Firenze da Fussi nel 1948 e di recente riproposte nel complessivo Attesa. Poesie edite e inedite (Sedizioni 2015).

Della parabola breve e tragica di Federico oggi si occupa il bellissimo volume di chi gli fu amico ed è un fuoriclasse delle nostre lettere, Emilio Jona, il quale gli dedica Il celeste scolaro (Neri Pozza, “I narratori delle tavole”, pp. 222, € 16.00), un’opera che assembla con mano leggera documenti, lacerti epistolari, memorie e reinvenzioni dal vivo senza mai confondere o ibridare il vero e il verosimile: “Saba vide un adorabile adolescente aggirarsi come un gatto, estraneo e indipendente, nella casa paterna, un gatto che leggeva le sue poesie, lo ascoltava incantato e lo guardava come un dio disceso per lui dal cielo in terra. Fu una reciproca folgorazione e il volto del poeta amico invase lo spazio prima occupato dal chiaro e onesto volto del padre, da cui Federico vide scendere lacrime amare per quella amicizia che Emanuele percepiva come un odio a sé e distruttiva per il figlio”. Conosciutolo fanciullo a Padova, Saba ritrova Federico nello splendore della giovinezza a Milano nella nuova casa di Emanuele in cui è ospite, nel suo eterno andirivieni da Trieste, fra il novembre del ’45 e il maggio del 1948.

Il ragazzo, non meno attraente e singolare nella fisionomia, tuttavia è molto mutato perché alle sue prime prove poetiche (e, va aggiunto, prove narrative di ascendenza favolistica) la vita, che per lui si immagina rovinosamente rapida in quel frangente, ha addizionato l’amore andato a male per una ragazza e l’esperienza di partigiano in armi, ben più rischiosa per un giudeo braccato, nella Repubblica dell’Ossola. Ma prima che un reduce, ancora giovanissimo, Federico è un ragazzo ammalato di mente, un abulico preso dentro ubbìe e chimere tutte sue, che prosegue e inconsciamente aggrava le ataviche malinconie e le brusche inversioni psichiche di suo padre Emanuele, uomo afflitto dai debiti e chiuso dentro al matrimonio contratto con una donna troppo differente da lui, Onorina, la madre di Federico, una pastora analfabeta scesa dai monti del Piemonte occidentale col suo carico di vitalità inesplosa e di affetto mutamente intransitivo. Fatto sta che la notte del 16 maggio del ’52 Emanuele, oppresso dai sensi di colpa e da una disperazione cui non sa più dare un nome, appoggia la canna di una pistola alla nuca di Federico che sta dormendo nel suo letto e tenta di ucciderlo, il che vuol dire, per la sua mente allucinata, che tenta o presume di salvarlo dalla stessa follia da cui si sente minacciato in prima persona. La sentenza, al processo, sarà mite per quest’uomo dignitoso e morbosamente scrupoloso che al ritorno a casa si darà come obiettivo la salvezza di Federico dall’inferno degli ospedali psichiatrici. E questo è proprio il baricentro del libro di Jona: il ritorno a casa di Federico, la ricostruzione di un focolare domestico, il prolungato autunno di colui che era stato un ragazzo splendente e ora è un adulto opaco, appesantito, un ex poeta dal talento astrale e ora è invece un mite grafomane, il titolare di un immenso epistolario vanamente indirizzato a qualcuno (amici come Jona, parenti residui) ma per lo più spedito a nessuno.

Federico sopravvive al padre di molti anni, tra i ricordi e le figure superstiti di un focolare da tempo assiderato, e si spegne a Milano nel dicembre del 1978, quando ha appena cinquantaquattro anni: il libro che gli dedica Emilio Jona, uno dei tre presenti nel cimitero del Musocco al momento delle esequie, è un atto di struggente pietas rerum, il solo possibile kaddish replicato in solitudine, a tanta distanza di spazio e di tempo, in onore di un amico indimenticabile e, nella giovinezza, inseparabile. (Qui va detto che sia la compattezza di un libro che si legge in una sola presa di fiato sia la ricchezza polifonica dei livelli di scrittura che vi si intramano danno piena testimonianza del rilievo di un autore, poligrafo, con cui la nostra cultura non ha ancora debitamente fatto i conti. Biellese della classe 1927, tra i fondatori di “Cantacronache”, editore dei Canti popolari del Nigra per Einaudi e di due ponderose antologie per Donzelli – Senti le rane che cantano. Canzoni e vissuti popolari della risaia, 2005 e Le ciminiere non fanno più fumo. Canti e memorie degli operai torinesi, 2008 – Jona ha fra l’altro pubblicato saggi, romanzi, testi teatrali e uno splendido volume di poesie, La cattura dello splendore, che uscì da Scheiwiller nel 1998 con una prefazione di Pier Vincenzo Mengaldo). Degli anni solitari di Federico, quelli di una vera e propria autoreclusione, scrive Jona: “Federico aveva un intimo impulso alla dignità, alla compassione, alla grazia, ma viveva ormai in un alternarsi incontrollato di chiarezza e di delirio, e sotto una coltre di dolcezza e di bonomia nascondeva una totale disperazione. Lo dominavano la spada della noia, lo spleen, il torpore, il deformarsi della realtà, le voci di altri mondi, di altri linguaggi, sino al passaggio dai pensieri ai gesti più aggressivi verso di sé e verso gli altri, un tentativo di evirarsi, l’appiccare un incendio ai mobili di casa, gesti che provocavano il ricovero, sempre più frequenti, nelle pubbliche istituzioni manicomiali”. Sono gesti che il tempo placherà o smaltirà progressivamente avviandolo in uno spazio di silenzio insonorizzato nonostante la grafomania e, a momenti, taluni intervalli di resipiscenza. Saba era morto da trent’anni ed era inesistente da quasi quaranta il “buon maestro” che aveva dedicato al celeste scolaro, per l’occasione “nobile giovinetto”, la n.157 delle Scorciatoie infatti intitolata Federico e l’educazione, dove si dice di un narcisismo portato alla oltranza e al dileggio, quasi alla provocazione permanente, ma che in realtà si scopre come una segreta, e tanto più impellente, richiesta d’amore, di paterna e indulgente protezione. Era stato appunto Federico Almansi a dettare alcuni fra i versi più puri, e disperati, che mai siano usciti da una adolescenza: “Ho visto una madre che assassinava/ il figlio con un bacio troppo avido,/ e il cuore oggi ne porta il segno.// Ho visto l’odio nei suoi occhi celesti,/ dove affiora una bontà non morta:/ amore per un cielo sconfinato,/ per un paese non dimenticato.”

[ immagine: foto di Wolfang Tillmans (gm)]

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