cropped-Jeronimo-Voss-Monument.jpg[Alcune settimane fa Giacomo Raccis e Paolo Di Paolo hanno pubblicato un sondaggio intitolato I vecchi e i giovani, uscito sul numero 7 della rivista «Orlando esplorazioni». Su LPLC sono stati pubblicati i risultati e una introduzione; nello spazio dei commenti si è creata una discussione sul senso e sul metodo dell’iniziativa. Da qui è venuta l’idea del questionario che pubblichiamo oggi.
Il sondaggio di «Orlando» si riferiva a un segmento temporale preciso (i nati fra il 1945 e il 1965). Ragionare su una ottica generazionale e su autori viventi, ma già affermati, ha senz’altro alcuni vantaggi. Ciononostante, si possono fare due riflessioni. La prima è che così si escludono automaticamente autori non più viventi, ma che sentiamo ancora come contemporanei, nonché scrittori e poeti dall’esordio tardivo. La seconda è che questo criterio induce a fare una previsione sulla lunga durata, ma non a prendere la parola su autori la cui formazione è più vicina a quella degli intervistati. Nella storia della letteratura la cronologia è importante, ma lo è anche la sincronia delle opere. Da queste due considerazioni sono derivate alcune delle domande che seguono.
Altre parti del questionario rappresentano un tentativo di approfondire o di precisare aspetti metodologici del sondaggio di partenza: cosa si intende con successo, in riferimento a un libro? Quanto contano l’alto numero di vendite o il consenso critico, perché un’opera sopravviva nel tempo? Quali sono i luoghi che ne veicolano la diffusione, quali le forze del campo letterario che appaiono più rilevanti a chi ne fa parte? Gli interventi che proponiamo non pretendono di rispondere a queste domande; ma potranno essere utili per una ricognizione futura. E, ci auguriamo, per innescare un dibattito.
Le prime risposte al questionario si possono leggere qui e qui
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Marco Bellardi

1) Partiamo dalla domanda del sondaggio di «Orlando»: «Chi tra gli scrittori che oggi hanno tra i quarantanove e i sessantanove anni continueremo a leggere in futuro?». Tu come risponderesti, e per quali motivi? Ti chiederei anche di spiegare cosa, secondo te, inciderà di più per il loro successo.

Avendo partecipato al sondaggio di «Orlando», rispondo con la triade che avevo espresso allora, cioè Mari, Siti e Busi, autori caratterizzati da una forte riconoscibilità stilistica e da una singolare propensione alla mescidazione dei generi. Per quanto riguarda Mari e Busi, la qualità letteraria della loro prosa, pure notevolmente differente, li pone come dei punti di riferimento per gli anni a venire, rispettivamente per la riproposizione di una lingua colta e classicheggiante e per la ricerca di un espressionismo venato di coloriture pop, dove si mescolano aulicismi, gergo e oltranza formale. Quanto a Siti, invece, il lavoro di ricerca sul genere dell’autofiction lo pone già come un esempio “da manuale”, tanto che lo si ritrova ampiamente nel dibattito contemporaneo. Si tratta anche di tre autori fortemente idiosincratici, tesi a riproporre molto delle loro personali manie in modi più o meno diretti, non essendo romanzieri tout court. Sul loro successo credo che inciderà in buona sostanza la capacità di essersi smarcati dai richiami delle alte tirature per portare avanti un lavoro di ricerca e di sperimentazioni, cosa che peraltro li ha già fatti uscire dal novero degli scrittori di nicchia e apprezzare da un pubblico più ampio che in loro sta trovando dei riferimenti.

2) Dove hai sentito parlare per la prima volta di questi autori, e da chi?

Durante gli anni universitari a Milano. Mari, in particolare, ho avuto la fortuna di seguirlo come docente di Letteratura Italiana, per cui l’ho conosciuto prima come professore che come scrittore, già circondato da una certa notorietà tra gli studenti, burbero e suadente com’è. Ho affrontato più tardi alcuni suoi libri, mentre invece, come docente, l’ho apprezzato subito moltissimo per il suo insistere sui temi della classicità e del classicismo, che poi ho ritrovato ampiamente filtrati ed espressi nella sua prosa.

3) Secondo te quale genere letterario è destinato ad avere fortuna nei prossimi anni? Poesia, romanzo, scritture ibride?

Di getto non posso che rispondere scritture ibride. Però intendiamoci sull’etichetta. Le scritture più tradizionali che apparentemente, o almeno nella domanda, fanno da contrasto, sono sempre state in un certo grado ibride, o sono andate ibridandosi continuamente. Il concetto di ibrido come categoria in senso lato mi pare che serva a poco. Invece, se ci interessiamo per esempio di scrittura romanzesca, su un piano transmediale allora possiamo dire che oggi c’è una tendenza in atto alla convergenza, alla duplicazione, sovrapposizione, intersezione delle narrazioni attraverso supporti diversi, che coinvolge soprattutto le arti visive. Una tendenza che probabilmente durerà. È l’ovvio caso di narrazioni come Harry Potter, ma pensiamo anche ai nostri Gomorra e Romanzo criminale (libro, film, serie tv). In narratologia del resto si parla già di romanzo multimodale, quel romanzo che accoglie nel testo inserti di altri media, di cui cito solo un esempio recente, Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon. Questo genere di scritture ibride, cioè transmediali, intermediali, cross-mediali sta segnando questo periodo e riuscirà forse a conquistare margini più ampi del mercato editoriale; ma, detto questo, credo che i generi tradizionali continueranno a imporsi. La poesia contemporanea mi pare viva un momento di difficoltà e un calo di lettori. Ma è un fatto che il romanzo vive oggi un momento di straordinaria vitalità: se pensiamo all’ostentato rifiuto del romanzo e al dibattito sulla morte dell’autore che s’è fatto negli anni Sessanta e Settanta, non c’è che sorriderne. Del resto quelle prese di posizione sono ampiamente sconfessate oggi dal punto di vista cognitivo.

4) Nell’arco di un decennio possono essere pubblicati libri che entrano a far parte di uno stesso dibattito critico, e che però sono stati scritti da persone nate in momenti molto diversi.
Quali autori consideri significativi – rilevanti dal punto di vista delle categorie critiche con le quali interpreti la letteratura – fra quelli che hanno pubblicato libri fra il 1990 e il 2015?

Recentemente ho apprezzato molto La vita in tempo di pace di Francesco Pecoraro, un romanzo che ha il pregio di ricostruire un percorso di vita dal secondo dopoguerra italiano fino a oggi attraverso una prosa moderna, aperta, ricca di colore e di guizzi, con uno sguardo che riesce a cogliere anche con sarcasmo gli aspetti più genuini dei personaggi senza mai farne una caricatura (e il rischio in quel libro c’era). Un esordio potentissimo come quello di Paolo Sortino, con il suo Elizabeth, mi ha impressionato per il trattamento del tema e per la sicurezza dello stile. Giorgio Vasta, poi, con Il tempo materiale, che ha trovato il modo per mettere in pagina la distorsione dell’immaginazione con una lingua altamente metaforizzata, iperbolica, sovradeterminata: un linguaggio che normalmente mi respinge, ma che in quel libro è perfetto. Più indietro ci sono le prove dei Wu Ming, l’ultimo Tabucchi, Pontiggia, Giulio Mozzi…

5) Passiamo a considerare i luoghi (giornali, riviste specializzate, riviste online, siti e blog; ma anche luoghi fisici come scuole, università, biblioteche, presentazioni di libri) e i modi in cui i libri vengono discussi e commentati oggi. Tendi a pensare al campo letterario come a uno spazio fluido, in cui critica, pubblico, industria dialogano e collaborano (talvolta anche in competizione per l’egemonia) – o a separare diversi campi d’influenza e di azione? Che tipo di interazione c’è (se trovi che ci sia un’interazione)?

Il campo della critica è fluido e in rapida evoluzione, ovviamente, grazie ai nuovi spazi guadagnati dai blog e dalle riviste accademiche con accesso online. La difficoltà sta nell’intercettare quell’ampia fascia di lettori non specializzati che si tengono lontano non solo dai circuiti accademici, ma anche dalla pubblicistica. I due settori hanno limitati punti di incontro, purtroppo, e salvo alcuni luoghi come LPLC parlano lingue diverse, per lettori diversi, ma soprattutto per pochi nella maggioranza dei casi. A fronte di una positiva pluralità delle proposte, è vero che una estrema dispersione dei luoghi della critica non fa che disorientare lettori e critici stessi. Specialmente sul web, oggi, molti siti fanno da collettori di discorsi critici estemporanei, singole iniziative, più che da promotori di iniziative culturali solidamente preparate, mediate e con possibile ampio impatto sulla scena culturale.

6) Quali sono le personalità e i luoghi della critica che consideri più seri e affidabili?

Tralasciando le riviste accademiche più specializzate, direi che in Italia alcuni punti di riferimento per me sono «Allegoria» e «Tirature», per il dibattito su temi centrali del panorama letterario, «Le parole e le cose» e «Doppiozero» per la buona qualità degli interventi, la funzionalità dei progetti e l’ampia offerta culturale, «Vibrisse» per l’originalità delle proposte di Giulio Mozzi e il dialogo con gli scrittori, un unicum direi, e «Minima&moralia» per l’impostazione schietta e militante. Tra gli inserti dei quotidiani mi pare che da «La lettura» e dal domenicale del «Sole24Ore» arrivino sempre buoni stimoli.  Sulle personalità più serie e affidabili, i nomi da spendere sarebbero molti, a partire dalla scuola di Milano presso cui mi sono formato o da altri studiosi di lunga data come Spinazzola, Mengaldo o Ceserani. Dico due nomi che oggi mi pare stiano movimentando parecchio le acque: Raffaele Donnarumma, con la sua proposta ipermoderna; Matteo Marchesini, extra moenia, per le prese di posizione e lo stile funambolico.

Valentina Fulginiti

1) Partiamo dalla domanda del sondaggio di «Orlando»: «Chi tra gli scrittori che oggi hanno tra i quarantanove e i sessantanove anni continueremo a leggere in futuro?». Tu come risponderesti, e per quali motivi? Ti chiederei anche di spiegare cosa, secondo te, inciderà di più per il loro successo.

È una domanda stimolante e impegnativa, perché di primo acchito mi vengono in mente nomi di scrittori più giovani, segno forse dell’autoreferenzialità di cui si macchia, quasi fatalmente, ogni generazione. Proprio per questo motivo, credo che abbiano perso importanza le etichette, le auto-rappresentazioni e i fenomeni mediatici che avevano caratterizzato l’esordio letterario dei baby boomers in letteratura, mentre alla distanza emergono tendenze più profonde.
Sono convinta del successo futuro delle scritture “abnormi”, proliferanti, abissali – che, nella generazione qui considerata, sono rappresentati soprattutto da autori come Antonio Moresco (n. 1947) e Michele Mari (n. 1955). Credo che il successo di queste voci risieda nella scelta di far corrispondere l’esplorazione di spazi liminali e abissali a un uso altrettanto vertiginoso della lingua, oltre che nella capacità di cimentarsi liberamente con una letterarietà tradizionale senza volerne per forza fare la parodia. La stessa centralità del corpo e della voce si ritrova anche fra i poeti nati fra il ‘45 e il ‘65: penso a voci poetiche come quelle di Valerio Magrelli (n. 1957) e Antonella Anedda (n. 1955), due esempi della tendenza a radicarsi in un luogo che è il corpo, per riprendere la nota definizione che della poesia ha dato Adrienne Rich.
Credo (o almeno spero) che continueremo a leggere le opere di Helena Janeczeck (n. 1964), con la sua lucidissima capacità di toccare i nervi scoperti dell’identità nazionale, e quelle di Laura Pariani (n. 1951) che invece integra una politica quasi memoriale dei luoghi con un recupero di “letterarietà”; anche la straordinaria fortuna di Elena Ferrante—peraltro molto letta anche fuori d’Italia—mi sembra un fenomeno destinato a durare.
Un’ultima precisazione, en linguiste: nella generazione indicata, autori come Paolo Nori (n. 1963) o Tiziano Scarpa (n. 1963) hanno dato un enorme contributo alla costruzione di uno stile parlato, non per forza parodico ma sempre sospeso tra l’oralità e la scrittura. Se anche non si dovessero continuare a ristampare e leggere i loro romanzi, il loro stile, caratterizzato da ritmi precisi e da un fraseggio quasi musicale, lascerà un’impronta ben visibile nella stratificazione della lingua italiana.

2) Dove hai sentito parlare per la prima volta di questi autori, e da chi?

Alcuni li ho scoperti curiosando in libreria, altri li ho incontrati seguendo il dibattito letterario su blog letterari e riviste online, di altri ho sentito parlare in radio, altri ancora mi sono stati consigliati da amici, docenti o colleghi.

3) Secondo te quale genere letterario è destinato ad avere fortuna nei prossimi anni? Poesia, romanzo, scritture ibride?

C’è una fame di non-fiction che non riguarda solo il pubblico italiano, e che porta al successo opere dai tratti comuni: grandi dimensioni, un contatto vitale e fecondo con altre modalità di produzione culturale (reportage giornalistico, blogging), una politica di “displacement” sia geografico che linguistico, e un paradossale iperrealismo in cui un uso straniante degli effetti di realtà si sposa alla finzionalizzazione del dato extra-letterario. Che la si chiami scrittura ibrida, “oggetto narrativo non identificato” o “non-fiction novel”, è innegabile che ci troviamo di fronte a una forma dominante. Non penso solo al caso eclatante di Gomorra, ma anche a libri tradotti dall’estero come Maximum city di Suketu Metha (Einaudi 2006), Europe Central di William Vollmann (Mondadori 2010), o a Operaie di Leslie T. Chang (Adelphi 2010). Sono convinta che questa forma sia destinata a durare, non tanto perché risponde alle mode del momento, ma perché incontra la necessità di comprendere l’intreccio di dinamiche locali e globali. A mio avviso, il cronotopo di questa nuova forma non è tanto la nuova metropoli globale (la Napoli del 2005 o la Bombay del 2004), quanto lo spazio disegnato dal flusso materiale e immateriale di merci informazioni e capitali, o dai sistemi produttivi: ha scritto diversi anni fa Daniel Mato, uno dei più controversi studiosi di comunicazione studi culturali in America Latina, che “ogni industria è un’industria culturale.
Naturalmente non credo che questa forma sia destinata a eclissare tutte le altre, anzi sono sicura che si continueranno a pubblicare con successo romanzi brevi, racconti, raccolte poetiche e autobiografie; tuttavia se dovessi “scommettere” su una forma, punterei su questa. Credo che questo tipo di narrazione – ibrida, lunga, proliferante, “virale” e semi-finzionale – sarà la forma dominante del prossimo decennio.

4) Nell’arco di un decennio possono essere pubblicati libri che entrano a far parte di uno stesso dibattito critico, e che però sono stati scritti da persone nate in momenti molto diversi. Quali autori consideri significativi – rilevanti dal punto di vista delle categorie critiche con le quali interpreti la letteratura – fra quelli che hanno pubblicato libri fra il 1990 e il 2015?

Mi limito a considerare il campo della narrativa, perché è quello che seguo più attentamente. Nel periodo indicato (1990-2015) io identifico due vene o filoni principali, che si definiscono in base soprattutto a fatti di voce, soggettivazione narrativa—in sostanza, in base al rapporto scrittura/mondo.
Da un lato ci sono autori a “focalizzazione esterna” (uso il termine liberamente, non nel suo senso tecnico), che rivolgono lo sguardo verso l’esterno. Si confrontano con la storia, con la crisi, con la criminalità, con l’apocalisse climatica, con la violenza razziale e di genere. Alcuni li hanno definiti autori “realisti” o “neo-neorealisti” ma mi sembra una definizione parziale perché non tiene conto delle continue sofisticazioni narrative, e anche della contaminazione tra culture “alte” e “basse” (che poi, a ben guardare, erano gli elementi più interessanti del New Italian Epic, che rimane a mio avviso una proposta critica degna di nota).
Dall’altro lato, emerge una vena di autori a “focalizzazione interna”, rappresentata non solo dal dilagare dell’autofiction ma anche dalle narrazioni di Nicola Lagioia, Francesco Piccolo, Valeria Parrella, Marco Mancassola, Giorgio Falco: autori forse intimisti, ma certamente non ombelicali, che non prendono per buone le “finzioni” dell’io ma ne mettono a nudo crepe e contraddizioni. Credo che nel lavoro di questi autori, l’insistenza sulla “soggettività” diventi soprattutto un modo per indagare le condizioni di “dicibilità” del reale. Del resto anche l’autofiction può diventare un efficace scandaglio storico e politico, come dimostra il caso di Giuseppe Genna: penso a Dies Irae, Italia De Profundis, e La vita umana sul pianeta Terra, tutti libri scritti (del tutto o in parte) in regime di auto-finzione, vertiginosi per acume storico, narrativo e linguistico.
Oltre al rapporto scrittura/mondo, l’altra categoria interpretativa per me fondamentale è quella del linguaggio. In quest’ottica, forse la trasformazione di lunga durata più interessante, dal 1990 ad oggi, è rappresentata dall’emergere di un’italofonia letteraria, nuove ibridazioni linguistiche che continuano l’aspetto più innovativo e sperimentale delle scritture dialettali. Autori come Amara Lakhous, Igiaba Scegbo, Laila Wadia, Carmine Abate, Anilda Ibrahimi, per citare solo i casi più eclatanti, problematizzano anche linguisticamente l’identificazione, peraltro molto fragile, tra i confini dell’italiano standard e quelli dell’Italia. Le loro sono scritture segnate dai traumi e dai silenzi, dalle molteplici fratture insite nella migrazione e nell’esilio, e di fatto aprono i confini delle “patrie” lettere a nuove identità nomadi e comunità transnazionali. Si tratta di una tendenza destinata a durare: in futuro leggeremo sempre più argot, weird Italians e ibridi linguistici, cementati in idioletti del tutto originali.

5) Passiamo a considerare i luoghi (giornali, riviste specializzate, riviste online, siti e blog; ma anche luoghi fisici come scuole, università, biblioteche, presentazioni di libri) e i modi in cui i libri vengono discussi e commentati oggi. Tendi a pensare al campo letterario come a uno spazio fluido, in cui critica, pubblico, industria dialogano e collaborano (talvolta anche in competizione per l’egemonia) – o a separare diversi campi d’influenza e di azione? Che tipo di interazione c’è (se trovi che ci sia un’interazione)?

Il campo letterario è per sua natura uno spazio fluido, in cui dialogano soggetti e interessi diversi—non solo autori e lettori, ma anche gli editori, la critica, e più in generale i meccanismi di promozione editoriale e di trasmissione intergenerazionale. Semmai, varrebbe la pena di indagare i rapporti di forza e gli squilibri all’interno di tale fluidità: scorrendo i cataloghi cartacei ed elettronici dei grandi editori, o anche semplicemente facendo un giro in una grande libreria, viene il sospetto che la biodiversità delle proposte editoriali sia in pericolo. Personalmente me ne accorgo soprattutto osservando la lingua: alcune tendenze sono sempre più pervasive, e non sembrano più semplicemente il riflesso di un’evoluzione linguistica (con l’affermazione dell’italiano neo-standard, oppure di quel che Ornella Castellani chiamava “lingua di plastica”) ma si condensano in un’aria di famiglia, in una riconoscibilità che è un po’ il marchio di fabbrica della narrativa leggibile, vendibile ma “di qualità.” Si va da fatti pragmatici e grafici come il vezzo di intitolare i capitoli con numeri scritti in lettere, o la pressoché totale abolizione dei segni d’interpunzione per introdurre il discorso diretto, fino al lessico, spesso caratterizzato da un impasto di registri iperletterari e di slang.
Se guardo all’università, mi pare invece che ci sia una crisi profonda dei meccanismi di produzione e circolazione del sapere letterario. All’università si è più studenti che lettori. Lo spazio per uno scambio autentico è minacciato dal rincorrersi frenetico dei crediti formativi, degli esami, degli stage formativi, del curriculum vitae: è la logica della “spendibilità”, che precede e anzi, ti allena alla precarietà. Ecco, da questo punto di vista, temo davvero che nel mondo accademico il dialogo si sia inceppato.

6) Quali sono le personalità e i luoghi della critica che consideri più seri e affidabili?

Forse anche per via del mio posizionamento geografico, mi affido moltissimo alla rete. Pensando ai nuovi luoghi della critica, mi vengono in mente riviste online e blog letterari come Le Parole e Le Cose, Giap, Minima Moralia, Doppiozero, Carmilla, Il lavoro culturale, che offrono spazi di riflessione politica e culturale. Inoltre, pur restando consapevole dei rischi insiti nella “creazione dei canoni”, riconosco la funzione critica delle proposte di mappatura dei fenomeni letterari. Per la narrativa, penso soprattutto alle antologie di racconti, dalla storica e ormai quasi leggendaria antologia Italiana (Mondadori 1991) fino ai Best Off di minimum fax. In ambito critico, seguo più i dibattiti che le individualità, ma guardo, come modello, a sguardi transdisciplinare come quelli di Marco Belpoliti, Franco Moretti, Pierpaolo Antonello.

Guido Mattia Gallerani

3) Secondo te quale genere letterario è destinato ad avere fortuna nei prossimi anni? Poesia, romanzo, scritture ibride?

Partirei dalla terza domanda, non perché l’ordine proposto non favorisca la nascita di un discorso argomentato, ma perché, piuttosto, trovo nella terza domanda la sola possibilità a me rimasta per tentare una risposta a tutte le altre. Questa terza domanda pone una questione centrale: lo statuto ai margini di chi parla, che non è solo un fatto personale, ma un fatto storico che costringe a una presa di enunciazione un po’ particolare, che deve ricorrere continuamente allo stratagemma per auto-fondarsi. Che risposta può dare chi si occupa prevalentemente di poesia e di saggistica italiane, e non è un esperto del romanzo contemporaneo che si pubblica nel nostro paese? Costui ha ancora diritto di parola critica? Lo statuto critico di chi è coinvolto in questo sondaggio permette allora il reintegro di un terzo termine: il genere del saggio (soprattutto non letterario).
Credo che il genere letterario che avrà maggiore ragione d’essere, letteraria ed editoriale, non sarà né la poesia né il romanzo né il non-genere della scrittura ibrida, ma sarà il genere del saggio, nella sua variante meno montaigniana che anglosassone, cioè nella sua versione più logico-scientifica che in quella forma dell’individualismo moderno che il saggio ha contemporaneamente difeso. La fortuna del Capitale di Piketty sta lì a dimostrarlo per il nostro tempo, dopo che quello di Marx o i saggi di Freud sono stati i libri più importanti per il secolo scorso. Se la politica è appiattita ormai sull’economia, anche la capacità di spiegazione della letteratura tradizionale, costituita dai generi della poesia e del romanzo, si ritrova irrimediabilmente ridotta sul fronte del proprio sforzo di comprensione perché la loro modellizzazione ideologica, se non politica, è fuori fase rispetto alle dinamiche del contemporaneo. Spesso siamo ancora in grado di fornire un’estetica più o meno esatta per accompagnare la nostra contemporaneità, ma non siamo più in grado di rappresentarne adeguatamente i meccanismi sociali. La proliferazione dei saggi nel Novecento su svariati campi del sapere offre la possibilità di una rendicontazione di questo sforzo inesausto della comprensione del tempo da una prospettiva storica, senza che ciò impedisca al saggio contemporaneo di manifestare la propria difficoltà a dare un’interpretazione decente del collettivo dalla prospettiva del nostro presente. I lettori futuri, per comprendere il loro tempo, dovranno leggere soprattutto saggi di economia e di ecologia, sempre meno nella forma del libro (com’è il trattato di Piketty). Altro discorso si può fare per le forme ibride, che potranno forse costituire un ottimo e fervente momento di trapasso da una logica residuale dei generi a nuove forme di scrittura, al patto che esse colgano non nella caduta della legge del genere il proprio fondamento (che dall’articolo di Derrida sul genere letterario come forma ibrida tout court trova una giustificazione dell’estetica postmoderna) e nella costruzione di romanzi-saggio o saggi-romanzo il loro fine, ma nella contaminazione tra la letteratura e ciò che letteratura non è la formula necessaria per far emergere altri generi, anche fosse al fine ultimo di salvaguardare la letteratura stessa.

1) Partiamo dalla domanda del sondaggio di «Orlando»: «Chi tra gli scrittori che oggi hanno tra i quarantanove e i sessantanove anni continueremo a leggere in futuro?». Tu come risponderesti, e per quali motivi? Ti chiederei anche di spiegare cosa, secondo te, inciderà di più per il loro successo.

Questo statuto del “noi” pone un altro problema importante, perché presuppone un’unità dei lettori che oggi è ancora meno omogenea del passato. Si dice per esempio che la poesia non è letta. È verosimile, ma parzialmente inesatto. Esiste un mercato del francobollo affatto trascurabile tra i collezionisti, come esistono una cinquantina di libreria in Italia in cui la poesia si vende. Eppure, questo gruppo di fedeli è compatto, ma sganciato dagli altri lettori. Pertanto, se rispondiamo dal punto di vista più largo possibile, cioè quello sociologico, diventa difficile fare previsioni; più probabilmente, nessuno sarà letto, dacché la velocità di ricambio del mercato editoriale di oggi non consente a nessun scrittore (nato oltre quella forbice) d’instaurare un ruolo autoriale sufficientemente costante per poter sopravvivere a se stesso.
Diverso se consideriamo gli scrittori che sopravvivranno presso il loro pubblico più fedele. La fedeltà del pubblico al proprio scrittore (e non l’inverso) mi pare oggi l’unico fattore che dovrebbe preoccupare (e terrorizzare) l’autore, come la categoria del lettore mi pare il ruolo più importante possibile che si possa occupare nell’odierno panorama letterario, perché è una figura più legittimata del critico e dell’autore stesso, essendo il mercato editoriale appiattito sul consumatore (appunto, nessuna differenza tra cultura e prodotto). Mille lettori con un blog possono fare più danno di qualsiasi direttore letterario (se ne esistono ancora). Con un capovolgimento forse inaspettato, a questo punto diventa possibile che gli ultimi lettori del futuro saranno i poeti, e gli scrittori letti saranno, dunque, anch’essi poeti. Ad esempio, la fidelizzazione del pubblico poetico di Milo De Angelis è certa, per restare nella forbice d’età richiesta. La fidelizzazione in ambito accademico di Daniele Giglioli mi pare certa, tra chi vuole oggi usare la letteratura per un discorso serio sul presente (Guido Mazzoni mi sembra non possa rientrare nel criterio generazionale preposto, ma forse faccio confusione io). Li continueremo a leggere perché scrivono saggi su di noi, sui lettori. Lo stesso Valerio Magrelli, per tornare sul lato della poesia, è meno autore che modello di poesia: ha creato un nuovo paradigma di stile poetico facilmente ripetibile; leggeremo in futuro ancora il suo stile, ma non so se i nuovi lettori leggeranno ancora Magrelli. Lascio in sospensione ogni giudizio su Gianni D’Elia, perché credo sempre nelle possibilità di un recupero di autori che si ritagliano precocemente una posizione al margine, e sospendo il giudizio anche su Maurizio Cucchi, perché lo credo uno scrittore più trasversale e imprevedibile, e quindi meno fidelizzabile, di quel che può sembrare dai suoi meccanismi di auto-ripetizione.
Sul fronte della narrativa accreditata, pur non essendo un esperto, mi sento di fare il nome di Mauro Covacich, perché ha raggiunto un giusto equilibrio tra leggibilità e rappresentazione del mondo tale da poter essere letto con profitto da lettori diversi senza che la sua estetica passi inosservata. Ma non sottovaluterei uno scrittore come Vitaliano Trevisan, proprio perché, forse, la sua lingua è quella che verrà parlata in futuro dai suoi lettori, gli ultimi di quella categoria sacerdotale che resta legata a una visione profonda dell’individuo, e dunque del linguaggio.
Lo stesso lettore sta subendo una mutazione antropologica, che cambia oltre la propria anche la faccia di ciò che legge. Gli scrittori di science-fiction potrebbero essere quelli destinati a sopravvivere al nostro tempo, perché potrebbero forse essere i soli da cui diverrà possibile estrarre teorie, schemi, formule e rappresentazioni adatte a spiegarci quei cambiamenti antropologici che stiamo vivendo, oltre l’odierna definizione di umano, superata rispetto a quanto oggi la letteratura riesce a dirci e che appare modularsi verso qualcosa di diverso ogni giorno. La science-fiction potrebbe davvero essere letta un giorno, ma nella stessa maniera con cui lo facciamo oggi, come il romanzo storico del nostro tempo.

2) Dove hai sentito parlare per la prima volta di questi autori, e da chi?

Gli autori li ho letti prima di averne sentito parlare o di parlarne. Quindi in libreria e in biblioteca. O nei festival, la discoteca del letterario. Fanno eccezione i romanzieri (la mia resistenza al romanzo è culturale, poiché parlo da una posizione di margine, e antropologica, dacché il valore cognitivo della trama, dell’attesa, della continuità, del personaggio non mi paiono oggi più centrali). Una scrittrice di romanzi, che ora lavora su un genere che forse attende la sua completa evoluzione come genere letterario e popolare, il fantasy, mi parlò di Covacich e di Trevisan (oggi mi parla di altri, tra cui Michele Mari).

4) Nell’arco di un decennio possono essere pubblicati libri che entrano a far parte di uno stesso dibattito critico, e che però sono stati scritti da persone nate in momenti molto diversi.
Quali autori consideri significativi – rilevanti dal punto di vista delle categorie critiche con le quali interpreti la letteratura – fra quelli che hanno pubblicato libri fra il 1990 e il 2015?

La mia visione della letteratura è quella di una civiltà del libro che mal si coniuga con il contemporaneo aspetto occidentale del testo. Vedo alcuni autori alla ricerca di questo libro, forse non ancora sepolto. La scrittrice di cui parlavo sopra è Giulia Massini, che può forse inserirsi agilmente nella filiera di Michele Mari. Sul saggio ho già fatto i nomi. Per quanto riguarda la poesia delle nuove generazioni, vi sono autori che possono anche aver segnato un margine rispetto a quel poco di dibattito critico possibile nel mondo della poesia, ma nondimeno essi sembrano ancora alla ricerca del libro. Il destino del grande poeta contemporaneo, ha scritto Edoardo Albinati, è di arrivare al Nobel senza essere passato per le librerie. Da un lato, Matteo Fantuzzi e Isabella Leardini hanno ben capitalizzato il loro finora unico libro cogliendo l’occasione di crearsi attorno uno status sociale di riferimento tra i giovani autori, che li hanno presi ad esempio e spesso hanno cercato di modulare da essi una lingua propria che non risultasse così solitaria. Dall’altro, autori come Luca Ariano inseguono da sempre un libro con una costanza stilistica invidiabile ma senza mutuare quelle posture letterarie necessarie per essere considerati “autori significativi”, oggi, anche dalla critica, e soprattutto da alcuni critici, organizzatori ed editori.
Questa questione della postura mi sembra centrale ed è determinate per definire l’autore d’oggi. Proprio dai poeti possono venire gli autori più “significativi” in tal senso, poiché il poeta contemporaneo è perfettamente consapevole (ben prima dei romanziere, che sperimenta la crisi della sua figura da meno tempo) che se si rende impossibile il dibattito critico per evitarne il conflitto il destino andrà giocato al di fuori del testo. L’assenza del libro di poesia di riferimento, da cercare dentro la produzione delle nuove generazioni, su cui si dibatteva anche recentemente, non è una mancanza, ma un risultato della postura letteraria che orienta le disposizioni dei singoli poeti a uscire dal proprio testo e al contempo non li determina, lasciando loro la libertà di non sottostare a una gerarchia comune, senza la quale essi possono sopravvivere democraticamente, ma senza diritti letterari.
La situazione della lirica è infatti tutt’al più caricaturale: non la si tollera più, perché risponde a un individualismo oggi superato, ma intanto continua ancora a formare la nostra tradizione (per fortuna), e allora il poeta si ritrova costretto a mettere in evidenza un divario artificiale tra la persistenza della lirica nei testi e la sua immagine pubblica, che non vuole essere lirica. Crea una postura scissa e una parola scissa, la quale si ripercuote inevitabilmente nelle forme di deriva, come la poesia performativa o decostruttiva, che non riescono a porsi come autonome e indipendenti dalla poesia del passato.
Sul fronte della ricerca del libro, invece, penso che Marco Bini e Massimiliano Aravecchia costituiscano una variante ancora tradizionale dell’autore che permette ancora una certa leggibilità e al contempo non nega un gesto critico. Eppure, forse Simone Cattaneo può essere stata l’ultima occasione mancata dalla poesia italiana per agganciarsi a un dettato internazionale che mi pare sempre più coraggioso e meno problematico nel suo rapporto con la tradizione.

5) Passiamo a considerare i luoghi (giornali, riviste specializzate, riviste online, siti e blog; ma anche luoghi fisici come scuole, università, biblioteche, presentazioni di libri) e i modi in cui i libri vengono discussi e commentati oggi. Tendi a pensare al campo letterario come a uno spazio fluido, in cui critica, pubblico, industria dialogano e collaborano (talvolta anche in competizione per l’egemonia) – o a separare diversi campi d’influenza e di azione? Che tipo di interazione c’è (se trovi che ci sia un’interazione)?

Il problema si ripropone da sopra, con l’aggiunta del tema dei festival letterari, difficile da trattare in breve. Abbiamo un mondo letterario, quello della stampa e dell’università, che può essere agevolmente descritto come un campo letterario statico e non conflittuale; quindi inutile. Al contrario, abbiamo una situazione di confronto soprattutto digitalizzato per il quale non disponiamo di strumenti d’analisi, anche perché il digitale stesso – foss’anche per un carattere residuale di divinatorio – è una forma esibita che nasconde il proprio fondamento: l’algoritmo di Google è una formula magica per il letterato (o per tutti). All’opposto, il campo letterario si può leggere in tanti modi, soprattutto ideologicamente (come micro-potere, ecc.), dacché non tenta di nascondersi, ma di legittimarsi sembrando naturale, mascherando al limite la sua stessa provenienza culturale borghese.
Nello spazio di dibattito in rete, riviste e blog, ma anche nei social che acquisiscono sempre più peso nel modellare il nostro rapporto al testo e al letterario, c’è davvero questa richiesta di legittimazione? Non saprei, perché il modulo del commento (il post) non possiede nessun carattere della testualità che il critico tenta di riconoscere: né la chiusura della totalità – i commenti sono potenzialmente infiniti -, né l’invariante – s’applica a tutto indistintamente. Perché allora il digitale dovrebbe cercare un rapporto paritario con le forme del discorso serio, se queste sono soltanto testuali? Mi pare siamo a un punto di svolta, ma non abbiamo ancora una forma sufficientemente frammentaria e veloce con cui recuperare la funzione del dibattito critico, perché, forse, non ce n’è più bisogno.
L’unico ibrido plausibile è allora un ibrido autoriale e critico: un giovane nascerà forse in grado di costruire testi all’apparenza letterari, ma la cui struttura profonda è molto più realistica, improntata alle leggi di una cultura digitale che egli solo è in grado di leggere, senza aver bisogno di nessun manuale, nessun libro. Indistintamente, il suo lettore sarà un’altra interfaccia umana e automatica.

6) Quali sono le personalità e i luoghi della critica che consideri più seri e affidabili?

Come dicevo, mi sembra che ovunque si registri una difficoltà di attuare un dibattito serio sulla letteratura italiana, ma per ragioni di struttura, non di rifiuto o di rivalità personali, che emergono più nelle occasioni dei festival che nei luoghi tradizionali della critica. Le forme più accreditate, come le riviste, appaiono irrimediabilmente insufficienti a tenere conto del dibattito confusionario e superficiale che si svolge attorno ad esse. Il loro potere di discrimine non è più in grado di inseguire la velocità e la frequenza frammentaria del confronto pubblico che avviene secondo trasmissioni in digitale. Giustamente, avendo le sedi istituzionali abdicato alla propria funzione culturale, il dibattito in rete fa come se nulla di tutto questo fosse mai esistito, forse perché vive ancora l’euforia della prima sbornia di giovinezza, ma magari perché le istituzioni possono essere oggi certo salvaguardia di discorso e di tradizione, ma il loro potere di accreditamento del fatto letterario registra un indice progressivo negativo.
Restano però alcune figure, o meglio alcuni che resistono. Penso che Roberto Galaverni sarà l’ultimo critico della storia del Novecento italiano. Se dov’essi stilare un profilo del critico del Novecento, data la difficoltà di sintetizzare le diverse prospettive ideologiche, mi accontenterei di dire che il migliore critico, ancor’oggi, è quello che sbaglia poco riguardo ai propri gusti. Mi sembra che Galaverni sia l’ultimo che abbia dimostrato di essere in grado di muoversi, almeno per il campo che mi e gli pertiene, la poesia, secondo questa tradizione individualistica, poco nazionale: ha tradito poco se stesso. Stesso discorso (ma credo sarà un nome che resterà) in un’ottica un poco più deformata da un bisogno di centralizzazione (di accentramento romano di riferimento) si potrebbe fare per Andrea Cortellessa.
Ovviamente già prendendo i poco più anziani e affermati si trovano ancora figure di grande spessore, ad ogni livello, dall’università, con Alberto Bertoni, forse il solo in grado di tenere ancora in piedi un poco di cerniera tra l’accademia e ciò che è invisibile ad essa – cioè gli immediati intorni -, e sul lato più giornalistico la figura pressoché isolata di Massimo Raffaeli, senza alcun ombra di dubbio l’oratore migliore e il saggista con la prosa migliore in circolazione tra i critici impegnati nella forma del saggio breve sulla stampa nazionale. I più giovani si perdono in una vena polemica che manca spesso il proprio obiettivo, almeno a considerare tra i pochi sopravvissuti all’espulsione dal campo letterario. Tra quelli precocemente allontanati dal dibattito, Mimmo Cangiano potrebbe giocare il ruolo di interprete militante dell’oggetto letterario fornendocene una lettura certo soggettiva ma almeno totalizzante, attraverso categorie più serie di quelle che si usano oggi, grazie al suo bagaglio teorico-filosofico e storico (di materialista storico) e alla sua conoscenza della letteratura italiana del Novecento.

Marco Bellardi è nato a Cuggiono nel 1985. Si è laureato in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Milano e attualmente è dottorando in Italian Studies alla University of Birmingham (UK). È redattore di La Balena Bianca.

Valentina Fulginiti è nata a Bologna nel 1983. Ha conseguito un PhD alla University of Toronto; attualmente lavora come Lecturer alla Cornell University. Si occupa di letteratura e di linguistica. Ha scritto sul blog Precariementi.

Guido Mattia Gallerani è nato a Modena nel 1984. Ha ottenuto il titolo di Dottore di Ricerca in Letterature comparate all’Università di Firenze; attualmente ha un postdoc a Parigi presso la ENS. È direttore editoriale della rivista «Atelier». Ha pubblicato un libro di poesie.

[immagine: Jeronimo Voss, Monument (gm)]

3 thoughts on “Letteratura e critica. Sei domande a scrittori e critici nati negli anni Ottanta / 3

  1. Gli scrittori che continuerò a leggere? Italiani:? La Mazzucco, Ferrante . Straniei :tanti. Poesia:M.Grazia Calandrone. Leggo e rileggo Tabucchi. Il resto è noia. Non me li ricordo più,tanto sono poco interessanti. Scusatemi, amo i romanzi, ma il romanzo non brilla nella nostra tradizione. C’è qualcosa nei racconti.
    Per adesso leggo saggi:Nancy, Derrida, La Ravasi Bellocchio,Bienveniste,rileggo Benjamin Adorno etc

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