[Alcune settimane fa Giacomo Raccis e Paolo Di Paolo hanno pubblicato un sondaggio intitolato I vecchi e i giovani, uscito sul numero 7 della rivista «Orlando esplorazioni». Su LPLC sono stati pubblicati i risultati e una introduzione; nello spazio dei commenti si è creata una discussione sul senso e sul metodo dell’iniziativa. Da qui è venuta l’idea del questionario che pubblichiamo oggi.
Il sondaggio di «Orlando» si riferiva a un segmento temporale preciso (i nati fra il 1945 e il 1965). Ragionare su una ottica generazionale e su autori viventi, ma già affermati, ha senz’altro alcuni vantaggi. Ciononostante, si possono fare due riflessioni. La prima è che così si escludono automaticamente autori non più viventi, ma che sentiamo ancora come contemporanei, nonché scrittori e poeti dall’esordio tardivo. La seconda è che questo criterio induce a fare una previsione sulla lunga durata, ma non a prendere la parola su autori la cui formazione è più vicina a quella degli intervistati. Nella storia della letteratura la cronologia è importante, ma lo è anche la sincronia delle opere. Da queste due considerazioni sono derivate alcune delle domande che seguono.
Altre parti del questionario rappresentano un tentativo di approfondire o di precisare aspetti metodologici del sondaggio di partenza: cosa si intende con successo, in riferimento a un libro? Quanto contano l’alto numero di vendite o il consenso critico, perché un’opera sopravviva nel tempo? Quali sono i luoghi che ne veicolano la diffusione, quali le forze del campo letterario che appaiono più rilevanti a chi ne fa parte? Gli interventi che proponiamo non pretendono di rispondere a queste domande; ma potranno essere utili per una ricognizione futura. E, ci auguriamo, per innescare un dibattito.
Le prime risposte al questionario si possono leggere qui, qui e qui].
Alessandro Giammei
1) Partiamo dalla domanda del sondaggio di «Orlando»: «Chi tra gli scrittori che oggi hanno tra i quarantanove e i sessantanove anni continueremo a leggere in futuro?». Tu come risponderesti, e per quali motivi? Ti chiederei anche di spiegare cosa, secondo te, inciderà di più per il loro successo.
Giuro che questa risposta la faccio lunga ma le altre brevi.
Ci tengo a dire che intendevo includere anche autori scomparsi nella mia risposta a «Orlando», e che i curatori lo hanno escluso per regola. In particolare credo che sia un peccato tenere fuori i nomi di Dario Villa e Patrizia Vicinelli, senza contare il caso eclatante di Tondelli (Bellezza sarebbe comunque, pur di pochissimo, anagraficamente fuori concorso). Tra quelle degli scrittori che avrebbero oggi tra i quarantanove e i sessantanove anni ci sono parabole straordinarie che stanno emergendo negli studi e nella mitologia del cult proprio ora. Anche per il modo in cui sono state, in tutti i sensi, interrotte — e in specie per il male molto connotante che ha portato via i loro testimoni, ridefinendone inevitabilmente l’identità — penso che quelle esperienze marginali siano destinate a una rivalutazione sia accademica che più generalmente culturale, e che in futuro troveremo (per dire) brani da Non sempre ricordano o da Lapsus in fabula nei Tumblr dei liceali più sofisticati, i quali poi magari si laureeranno in letteratura sulla poesia degli anni Ottanta. D’altronde Vicinelli sta diventando un maestro in ombra per autrici oggi giovani, l’ultimo anniversario di Villa celebrato alla Shake di Milano è finito sul “Corriere” e Tondelli è già una leggenda da tempo.
L’altra regola dei curatori del sondaggio chiedeva di evitare i nomi di autori a cui si è legati da amicizia, studi accademici e auto-genealogie di ogni tipo. Ho scelto quindi, fuori dalle mie frequentazioni personali, tre scrittori su cui non ho praticamente mai lavorato (come si dice) ‘scientificamente’: Sandra Petrignani, Tommaso Ottonieri e Valerio Magrelli.
Sull’ultimo mi permetto di dire poco: in molti lo hanno scelto ed è forse ovvio perché. Magrelli è già un classico, nel senso che le opere che ha già scritto sono già importanti in tutti i sensi: reperibili, studiate, antologizzate anche a scuola, inquadrate in una storia della poesia moderna che spesso vede in lui l’esito dei filoni novecenteschi in questo momento considerati vincenti. Credo che nel suo caso il successo futuro sarà determinato dal forte investimento sul suo nome che si sta stanziando in questo decennio: l’unico autore altrettanto autorevole e al contempo mainstream (per quanto posa esserlo un poeta) oggi è, credo, Milo De Angelis, ma mi pare che gran parte dell’interesse meno cólto nei confronti di quest’ultimo sia frutto di un travisamento. Magrelli somiglia molto, in fondo, a quello che si scrive di lui, e ha dalla sua l’accessibilità di eccellenti e fortunate prove in prosa.
Sandra Petrignani è una prosatrice di estremo interesse capace di coniugare (oggi!) finezza e popolarità senza diventare né pop né niche (si pensi allo strano successo di Addio a Roma, felicemente sposato nel marketing librario all’exploit internazionale di La grande bellezza). Alcune sue opere cronologicamente piuttosto alte, anche tra quelle ormai introvabili, sono eccezionalmente attuali e destinate, con un po’ di fortuna, a trovare quartiere nei dibattiti futuri: Vecchi per esempio, del 1994, sembra scritto domani; Ultima India è stato giustamente ristampato meno di dieci anni fa dopo dieci anni di irreperibilità; Navigazioni di Circe è al contempo leggibilissimo e spendibile in molti trend dell’odierno discorso sulla cultura e sulla letteratura (dal gender alla sopravvivenza del mito, dal ritorno/rifiuto dell’epica all’autocoscienza della scrittura dopo e fuori dal postmodernismo ma non dalla postmodernità). Il catalogo dei giocattoli poi mi sembra ormai pacificamente considerabile un classico recente, uno dei quei libri che si possono leggere serenamente in vacanza ma che si dimostrano proficui come oggetti di studio e di didattica sia in prospettiva storica (cosa succede alle cose, ai corpi e ai desideri nell’Italia del boom e subito dopo?) sia nell’ottica più internazionale e teorica dell’object-oriented ontology, dell’eredità degli studi di Francesco Orlando o del dibattito sugli esiti dello sperimentalismo nella narrativa post-avanguardistica. C’è poi un fatto: Petrignani è anche titolare di una storia e di uno stile di grande fascino. La sua vicenda nell’editoria, il suo trovarsi tra due generazioni contesa tra nostalgia e familiarità col nuovo, il suo collocarsi quasi sempre nell’ambito delle ‘altre scritture’, la sua precoce coscienza e appropriazione delle genealogie femminili italiane fanno di lei sia un case study sia un personaggio appassionante: penso ad esempio che nei prossimi anni, se potrò continuare a insegnare all’estero come sto per cominciare a fare, ricorrerò molto al suo lavoro per inquadrare un’Italia letteraria e più generalmente sentimentale che ancora non è cristallizzata nell’immaginario.
Quella su Tommaso Ottonieri è la scommessa più ardita, perché Ottonieri è un autore che appare assai difficile nella sua offensiva e mai immediata facilità. È chiaro che tra quindici anni in Feltrinelli la pila di baricchi e mazzantine non sarà sostituita da riedizioni di Crema acida, ma ho l’impressione che le quotazioni di Ottonieri siano destinate a salire. In fondo la sua è l’esperienza più canonica dell’anticanone ultimo, la più raffinata forse nel contesto mai ben chiarito del Gruppo 93. Mi dispiace un po’ metterla in termini tanto volgari, ma se Morgan e J-Ax sono diventati idoli televisivi positivi nell’ultimo decennio, perché non dovrebbe succedere qualcosa di simile (con le dovute scale mediatiche e di spessore) a Ottonieri? Ottonieri, in un certo senso, è come la PFM o come Lucio Fulci: faceva, in Italia, delle cose che in Italia non c’erano, e le faceva prima di tutti, anche prima di alcuni scrittori internazionali a cui oggi ci si rivolge come modelli. Non che io sia un tifoso del postmodernismo militante, ma credo che verrà presto il momento in cui ci si accorgerà che gli epigoni spicci e giapponesoidi/tarantinofagi del postremo sperimentalismo italiano (i quali avevano molto successo anche commerciale quando ero al liceo, ma già sono scomparsi o hanno virato goffamente verso indigeribili lialate da premiostrega) non ci incantano più perché copie della copia. Allora, immagino, si avrà la curiosità di cercare il bandolo, e si troveranno cose come Dalle memorie di un piccolo ipertrofico. L’incipit di quel libretto leggendario è già oggetto di auto-cover e omaggi (per gente tipo SparaJuri e per il giro di “Attimpuri” in generale, il Rimbaud/Lautréamont di plastica è un feto-papà), e la sua posizione liminare nella cronologia — insieme al battesimo di Sanguineti e Pagliarani — ne fa comunque una pietra miliare con cui fare i conti. L’unico freno dell’autore di Le strade che portano al Fùcino è nella sua stessa natura di sconfitto in partenza, di ancestrale Peter Pan nato già saputo e annoiato da tutto (ma altrettanto, di tutto, appassionato): una natura che sfugge la fortuna e che pare voler essere lasciata in pace nella vecchia rutilante sala giochi. D’altronde il potenziale pop di un simile profilo (che in fondo, nella musica o nel cinema indipendente, sarebbe quello della star trasversale che sbanca su netflix ma anche all’essai, che finisce a sanremo ma anche al premiotenco) è tanto alto quanto lo è l’intertestualità di Ottonieri, che sposa con criterio il Duecento siculo-toscano alla prima ondata dell’hip-hop, la Scapigliatura ai monster-movies degli anni Ottanta, gli incantevoli supermercati di provincia a una passione politica ambigua e paradossalmente radicale.
2) Dove hai sentito parlare per la prima volta di questi autori, e da chi?
La prima volta che ho partecipato a un poetry slam (a Bologna nel 2008) sul banchetto dei libri c’era una riedizione dell’Ipertrofico di Ottonieri con la fascetta che diceva qualcosa del tipo “L’ultimo classico dell’avanguardia”. Sandra Petrignani invece me l’ha consigliata Biancamaria Frabotta all’università, quando ero già alla magistrale, ma ne avevo letto sull’antologia di Ferroni. Magrelli l’ho cominciato a leggere alla fine del liceo, quando ho preso improvvisamente a comprare veri e propri libri di poesie (di cui quasi mai conoscevo gli autori) trovando praticamente solo — com’è ovvio — libri Einaudi e Garzanti, gli unici che restavano nelle librerie non specializzate anche molto tempo dopo l’uscita.
3) Secondo te quale genere letterario è destinato ad avere fortuna nei prossimi anni? Poesia, romanzo, scritture ibride?
Penso che nei prossimi anni la situazione dei macro-generi (sia nelle vendite che nel prestigio percepito) rimarrà invariata. L’unica cosa che mi sembra acquisire progressivamente più spazio in tutti gli ambiti è la graphic-novel. Mi pare che il racconto breve potrebbe avere una grande fortuna, specie se adattato a forme serializzate e in formati alternativi rispetto alla raccolta e al libro in generale, ma tutte le persone che lavorano nell’editoria con cui parlo mi dicono immancabilmente che si tratta di un genere sfortunatissimo e invendibile — quindi probabilmente sbaglio.
4) Nell’arco di un decennio possono essere pubblicati libri che entrano a far parte di uno stesso dibattito critico, e che però sono stati scritti da persone nate in momenti molto diversi.
Quali autori consideri significativi – rilevanti dal punto di vista delle categorie critiche con le quali interpreti la letteratura – fra quelli che hanno pubblicato libri fra il 1990 e il 2015?
Escludo dal novero quelli che sarebbero potuti entrare nel terzetto della prima domanda, e quindi non discuto di autori che trovo molto significativi come Cristina Alziati, Antonella Anedda, Fabio Pusterla, Marcello Fois, Elena Ferrante, Walter Siti, Alberto Masala. Per quanto riguarda gli under-49 punto sulla poesia di Gian Maria Annovi, autore che mi sembra raccogliere diverse eredità del Modernismo e al contempo scrivere senza imitare nessuno. Oltre a lavorare su temi di autentico, stringente interesse (e ad esercitare, nei testi più autoscopici, un decoroso controllo sul pedale lirico), Annovi fa dei veri libri e delle vere sillogi: delle opere, che accumula con una lentezza e una cura molto opportune secondo me. Altrettanto in bilico tra gestione dell’io e fine rilancio delle opzioni (specialmente linguistiche) garantite dal Novecento è Sara Ventroni, che ha scritto praticamente un solo libro ma facendone un libro importante. Un narratore che stimo molto è Vincenzo Latronico, ma conoscendolo personalmente temo di dover accantonare anche lui. Lo stesso vale per Michela Murgia, che ha firmato quello che mi sembra il più bel romanzo postcoloniale scritto nella nostra lingua avendo la coscienza (come Atzeni prima di lei) di una subalternità finalmente pronta a dire sé stessa. Tra gli over, al netto degli scomparsi e di quelli che hanno un ruolo nella mia genealogia personale (come Frabotta, di cui trovo particolarmente significativi proprio i libri usciti nel terzo millennio), mi ostino a trovare importante Valentino Zeichen: Casa di rieducazione si apre con uno splendido racconto in versi e continua poi a testimoniare di una declinante ma incantevole esistenza poetica anomala, intelligentissima e orgogliosamente fuori tempo massimo. Ci sono poi Alberto Arbasino, forse il più importante autore italiano vivente; Giulia Niccolai, che fortunatamente sta vivendo una riscoperta critica ed editoriale negli ultimi anni; e Franco Loi, che con un’antica discrezione continua a scrivere libri all’altezza della sua storia.
5) Passiamo a considerare i luoghi (giornali, riviste specializzate, riviste online, siti e blog; ma anche luoghi fisici come scuole, università, biblioteche, presentazioni di libri) e i modi in cui i libri vengono discussi e commentati oggi. Tendi a pensare al campo letterario come a uno spazio fluido, in cui critica, pubblico, industria dialogano e collaborano (talvolta anche in competizione per l’egemonia) – o a separare diversi campi d’influenza e di azione? Che tipo di interazione c’è (se trovi che ci sia un’interazione)?
Un’interazione tra i vari attori c’è, ed è proprio all’intersezione tra ambienti di studio, di produzione e di promozione che sono personalmente interessato. È chiaro che in passato ci sono stati equilibri diversi tra giornali e librerie, riviste e università, editori e critici, ma sebbene mi piacerebbe vivere e lavorare negli anni Settanta (per dire), non credo che abbia senso cercare di replicare le dinamiche di un tempo oggi, o mordersi il pugno perché le cose che allora funzionavano ora non funzionano più. D’altronde non tutte le iniziative trasversali sono felici: alcune interazioni (come molte di quelle recenti pensate per aumentare il numero di lettori) sono deleterie, perché partono dal presupposto che sia utile portare la letteratura alle persone — specialmente “ai giovani” — e non il contrario.
6) Quali sono le personalità e i luoghi della critica che consideri più seri e affidabili?
La parodia nata ieri della rivista specializzata, del piccolo editore che si crede di qualità, del critico militante o del professore oracolare mi annoiano moltissimo, sebbene segua con interesse le riviste, gli editori, i critici e i professori che sono sopravvissuti ai recenti scarti di paradigma e siano ancora disponibili. Tendo a fidarmi (forse dovrei vergognarmene) delle collane che hanno avuto un prestigio, delle genealogie accademiche, delle redazioni di cui conosco i nomi per averne letto e apprezzato libri e articoli. Non per questo mi sento un nostalgico. Non leggo praticamente mai le recensioni, ma spesso scopro di libri che poi compro leggendone online estratti o introduzioni postati in siti curati da redazioni vere, di gente che tendenzialmente ha dedicato la propria vita alla cultura.
Lorenzo Mecozzi
1) Partiamo dalla domanda del sondaggio di «Orlando»: «Chi tra gli scrittori che oggi hanno tra i quarantanove e i sessantanove anni continueremo a leggere in futuro?». Tu come risponderesti, e per quali motivi? Ti chiederei anche di spiegare cosa, secondo te, inciderà di più per il loro successo.
Come era emerso già subito dopo la pubblicazione della classifica di «Orlando», per rispondere alla domanda è necessario comprendere bene cosa vogliamo sapere: cosa intendiamo quando ci domandiamo quali saranno gli autori che “continueremo a leggere in futuro”. Se, come mi sembra di aver capito, la questione è quella della canonizzazione, risponderei senza molti indugi De Angelis, Siti e Moresco. I motivi sono molteplici, e tra loro disomogenei, ma d’altronde la canonizzazione è di per sé il risultato di una somma vettoriale di forze tra loro non omogenee. Innanzitutto, a livello personale, quando ho iniziato a leggere questi autori ho subito avuto l’impressione di avere davanti a me autori già canonizzati, e soprattutto autori che avevano già fatto scuola, nomi che erano metonimici di una certa idea di letteratura: da una parte tutti e tre questi scrittori mi venivano presentati come tali da chi me ne parlava, dall’altra, le loro opere mi sembravano, mentre le leggevo, all’altezza della patente che altri avevano loro assegnato (almeno per quanto riguarda Siti e De Angelis, su Moresco mi riservo ancora il beneficio del dubbio). Di conseguenza dico questi tre nomi sia per ragioni di sociologia della letteratura (la posizione che questi autori hanno all’interno di quel campo di forze che è il campo letterario), sia per ragioni estetiche (il valore delle loro opere, l’ambizione e la capacità di raccontare il presente in cui questi autori si trovavano a scrivere universalizzandolo e rendendolo contemporaneo anche ai non contemporanei – ancora una volta, rimandando a settembre Moresco, o almeno il mio giudizio su di lui).
Inoltre, ognuno a suo modo, questi autori hanno saputo sviluppare la propria idea di letteratura lungo il confine tra innovazione e rispetto della grande tradizione del Novecento, e questo mi sembra un aspetto fondamentale affinché un autore venga canonizzato. De Angelis, inserendosi nel solco della lirica moderna italiana per rinnovarla, così come Siti ha fatto con il romanzo, dando vita ad un’opera modernista in abiti postmodernisti, parafrasando quanto è stato scritto da un critico americano per Rumore bianco di Don DeLillo. Per quanto riguarda Moresco, invece, è la sua ambizione monumentale che credo gioverà alla sua canonizzazione, e la sua volontà di fare dell’oggetto libro qualcosa di simile a ciò che nel sistema delle arti chiameremmo performance; tutta la sua opera, inoltre, sembra l’opera di autore già postumo: è come se già lo stessimo leggendo dal futuro.
Infine, credo che valga la pena nominare altri due autori che probabilmente entreranno nel canone da outsiders, da autori di ‘periferia’: Valerio Magrelli e Michele Mari.
Ovviamente, però, questo non significherà che i cinque autori che ho nominato saranno letti da un grande numero di lettori, o almeno questo non avverrà automaticamente per via della loro canonizzazione. Probabilmente insieme a loro saranno letti molti altri presenti nella classifica: direi all’incirca almeno tutti quelli presenti nelle prime dieci/quindici posizioni. Chi resterà, fra quelli esclusi dall’ufficialità del canone, dovrà ringraziare chi oggi compra e legge i loro libri. Avranno un ruolo fondamentale i bibliotecari di oggi, gli insegnanti delle scuole superiori (sono ancora loro a far scoprire il contemporaneo ai ragazzi), gli addetti ai lavori (di giornali e blog culturali), molto meno probabilmente le scelte interne al mondo accademico. Questi fattori non saranno per forza determinanti: le biblioteche dei vecchi iscritti al PCI sono piene di Cassola e di Pratolini, e fortunamente quelle dei loro figli si stanno riempiendo di altro. Eppure avranno il loro peso. Ben Lerner nel suo ultimo romanzo cita un episodio del film Ritorno al futuro, quando il protagonista si vede scomparire dalla foto di famiglia che conserva nel portafogli per via delle azioni che sta commettendo nel passato dei suoi genitori. Per la letteratura di domani sarà lo stesso: saranno le scelte e le decisioni di oggi a determinare chi sarà o meno presente nella foto di famiglia di domani.
2) Dove hai sentito parlare per la prima volta di questi autori, e da chi?
Di Siti e di De Angelis (così come di Magrelli) ho sentito parlare all’Università di Siena, durante corsi di letteratura contemporanea e di teoria della letteratura. Antonio Moresco l’ho conosciuto più clandestinamente, attraverso articoli e recensioni lette prevalentemente online. Solo successivamente ho scoperto l’interesse accademico intorno ai suoi romanzi. Michele Mari, invece, è entrato nella mia vita una sera di molti anni fa, durante una cena alla mensa Bandini di Siena.
3) Secondo te quale genere letterario è destinato ad avere fortuna nei prossimi anni? Poesia, romanzo, scritture ibride?
Cito ancora Ben Lerner e l’epigrafe del suo ultimo romanzo: “Fra gli chassidim si racconta una storia sul mondo a venire, che dice: là tutto sarà proprio come è qui. Come ora è la nostra stanza, così sarà nel mondo a venire; dove ora dorme il nostro bambino, là dormirà anche nell’altro mondo. E quello che indossiamo in questo mondo, lo porteremo addosso anche là. Tutto sarà com’è ora, solo un po’ diverso”. Credo che i rapporti tra i generi resteranno immutati. La poesia continuerà ad essere un genere residuale: si continueranno a scrivere ottime poesie, come ora, come sempre, ma come accade già oggi chi si occupa di letteratura contemporanea (anche per lavoro) continuerà a sentirsi giustificato a non conoscere la poesia contemporanea con la precisione e la competenza con cui conosce il romanzo. Quest’ultimo, a sua volta, mi sembra in ottima salute sia per quanto riguarda i risultati estetici, sia per quanto riguarda la sua legittimità storica. Non mi piace parlare di ciò che non conosco bene, quindi non parlerò diffusamente delle scritture ibride. Eppure mi sembra di poter dire che rappresentino poco più che un accidente nella plurisecolare storia del romanzo: un accidente importante, perché servirà a reindirizzare la traiettoria del genere, ma nulla più. Ovviamente potrei sbagliarmi, come tutti.
4) Nell’arco di un decennio possono essere pubblicati libri che entrano a far parte di uno stesso dibattito critico, e che però sono stati scritti da persone nate in momenti molto diversi.
Quali autori consideri significativi – rilevanti dal punto di vista delle categorie critiche con le quali interpreti la letteratura – fra quelli che hanno pubblicato libri fra il 1990 e il 2015?
Questa è una domanda che pone una questione molto importante, ma forse è anche l’unica del questionario un po’ autocontraddittoria, perché parte dai libri per arrivare agli autori. Nei venticinque anni considerati hanno pubblicato libri importanti autori che significativi lo sarebbero stati comunque (penso a Fortini), ed hanno continuato a pubblicare libri probabilmente meno significativi autori che avevano ottenuto il bollino di qualità prima del 1990 (come Eco, o Busi). È interessante però notare che due degli autori che credo siano destinati a restare abbiano esordito dopo il 1990, anagraficamente tardi, ma senza che questo li rendesse meno contemporanei di autori anche molto più giovani di loro. E questo è anche il caso di Francesco Pecoraro (sebbene con qualche distinguo da fare), mentre negli ultimi anni hanno pubblicato libri molto interessanti autori come Lagioia, Vasta, Covacich, Ferrante, Mari, Magrelli, Wu Ming, Anedda, Benedetti, Falco. Ognuno di questi autori, ovviamente, è interessante a suo modo, perché porta avanti una particolare idea di letteratura che intercetta determinate questioni fondamentali per la comprensione del presente. Il fatto che oggi non ci sia più spazio per un’estetica normativa che imponga (o tenti di imporre) una precisa idea di letteratura sulle altre (come invece avveniva ancora solo cinquant’anni fa), fa sì che tutti questi autori possano essere letti e apprezzati anche da lettori molto diversi fra loro.
5) Passiamo a considerare i luoghi (giornali, riviste specializzate, riviste online, siti e blog; ma anche luoghi fisici come scuole, università, biblioteche, presentazioni di libri) e i modi in cui i libri vengono discussi e commentati oggi. Tendi a pensare al campo letterario come a uno spazio fluido, in cui critica, pubblico, industria dialogano e collaborano (talvolta anche in competizione per l’egemonia) – o a separare diversi campi d’influenza e di azione? Che tipo di interazione c’è (se trovi che ci sia un’interazione)?
In parte la fluidità è nelle cose: è evidente. Internet ha permesso un reale e sensibile allargamento delle possibilità di partecipare al dibattito critico intorno alla letteratura degli ultimi anni. Il risultato è che oggi non ci si può più stupire di leggere su blog contributi all’altezza di articoli pubblicati su riviste accademiche di prima fascia – e non mi riferisco soltanto a quei blog in cui effettivamente pubblicano studiosi abituati alla peer review. Ovviamente luoghi e istituzioni diverse hanno e continueranno ad avere scopi e obiettivi diversi, eppure è sempre più necessario cercare di individuare quei soggetti che, all’interno delle proprie aree di competenza, sono in grado di svolgere il proprio lavoro. Soprattutto oggi, con la professionalizzazione e la parcellizzazione del lavoro universitario che tende a disinnescare il potenziale politico della ricerca accademica (tanti, troppi colleghi tendono ad anestetizzare il contemporaneo nella corsa alle pubblicazioni), guardarsi intorno ed iniziare a discutere con chi si sporca le mani con il presente non può che essere giudicato positivamente.
6) Quali sono le personalità e i luoghi della critica che consideri più seri e affidabili?
Rispondendo a questa domanda ognuno di noi riconosce “i suoi”, e in questo modo descrive se stesso e si mette a nudo forse molto di più che nelle risposte alle altre domande. Non vorrei eludere la questione per pudore: non cercherò di nascondermi, ma mi limiterò a parlare dei luoghi più che delle persone. Seguo quasi con la stessa attenzione riviste e personalità molto diverse tra loro, e questo credo che sia il segno più inconfondibile di una certa aderenza (problematica, si intende) al tempo in cui vivo. Leggo sempre con molto interesse riviste accademiche come Between e Allegoria, delle quali apprezzo la progettualità culturale, ma non riuscirei a pensarmi se non come lettore di riviste e blog culturali come Le parole e Le Cose, Doppiozero, Minima&Moralia, Carmilla, Giap, Lavoro Culturale – non nominerò 404: file not found soltanto perché ne sono redattore. Questo significa che sono stati importanti per la mia formazione culturale, e quindi politica, orientamenti anche in netto contrasto tra loro, ma credo che questa schizofrenia sia consustanziale al tempo in cui troviamo.
Giusi Montali
1) Partiamo dalla domanda del sondaggio di «Orlando»: «Chi tra gli scrittori che oggi hanno tra i quarantanove e i sessantanove anni continueremo a leggere in futuro?». Tu come risponderesti, e per quali motivi? Ti chiederei anche di spiegare cosa, secondo te, inciderà di più per il loro successo.
Valerio Magrelli farà parte della nostra tradizione letteraria sia per essere riuscito a concentrare in una scrittura elegante e nitida riflessioni filosofiche e una certa sofferta liricità, che per l’ironia con la quale rappresenta il quotidiano. Leggerezza che lascia trapelare il disagio dell’esistenza, evitando però ogni commiserazione. Una poesia che non cede né all’intellettualismo, né alla corporalità, pur rappresentandole entrambe.
2) Dove hai sentito parlare per la prima volta di questi autori, e da chi?
L’incontro è stato fortuito: curiosando nella libreria di mia sorella, maggiore di me di una decina di anni, trovai il volume Einaudi che raccoglie le poesie di Magrelli dal 1980 al 1992. Incuriosita dal testo in copertina, incominciai a leggere la raccolta senza sapere nulla dell’autore. In seguito, ne ho sentito parlare all’università, più che altro veniva nominato all’interno di discorsi generali. In un caso, durante un corso di metrica, comparve tra i materiali di lavoro anche un testo di Magrelli.
3) Secondo te quale genere letterario è destinato ad avere fortuna nei prossimi anni? Poesia, romanzo, scritture ibride?
Le scritture ibride. Per dirla con Giuliani: «La prosa ha ormai cessato di godere del presunto favore della discorsività, mentre la poesia ha acuito la sua capacità di contatto, un tempo limitata dai pregiudizi del ritmo, della rima, del lessico, e via dicendo». Non dico che non sarà più possibile distinguere tra poesia e romanzo perché a separarle saranno ancora la destinazione, l’uso, il tipo di pubblico che vi si approccia e la diversa attitudine con la quale si legge una poesia rispetto a un romanzo. Solo che le forme non saranno più così distinte. E questo è un bene: molta poesia si deve ancora liberare dal linguaggio settario e ridicolo che è il poetese. Ma con ciò non legittimo la sciatteria di certa poesia contemporanea convinta che la liberazione dalla metrica tradizionale implichi l’assenza di riflessione sulla struttura versale.
4) Nell’arco di un decennio possono essere pubblicati libri che entrano a far parte di uno stesso dibattito critico, e che però sono stati scritti da persone nate in momenti molto diversi.
Quali autori consideri significativi – rilevanti dal punto di vista delle categorie critiche con le quali interpreti la letteratura – fra quelli che hanno pubblicato libri fra il 1990 e il 2015?
Gabriele Frasca e il già citato Magrelli. Significativa è anche la generazione dei poeti degli anni ’80 e del principio degli anni ’90. Credo che si percepisca un forte stacco rispetto agli autori degli anni ’70 che mi appaiano, ed è ovviamente una generalizzazione, attardati, incapaci di riflettere adeguatamente la contemporaneità. Mi sentirei di citare due giovani autori che, credo, ritroveremo nei prossimi anni: Daniele Bellomi e Manuel Micaletto.
5) Passiamo a considerare i luoghi (giornali, riviste specializzate, riviste online, siti e blog; ma anche luoghi fisici come scuole, università, biblioteche, presentazioni di libri) e i modi in cui i libri vengono discussi e commentati oggi. Tendi a pensare al campo letterario come a uno spazio fluido, in cui critica, pubblico, industria dialogano e collaborano (talvolta anche in competizione per l’egemonia) – o a separare diversi campi d’influenza e di azione? Che tipo di interazione c’è (se trovi che ci sia un’interazione)?
Lo spazio letterario è fluido e gli irrigidimenti, qualora presenti, portano a fiacchezza critica e cecità mentale. Parlando di letteratura contemporanea, si deve cercare di avere una visione d’insieme sia dei contesti accademici (studi critici e riviste specializzate), che di quelli d’informazione culturale (siti, blog e riviste online), spesso molto attenti alle novità, alle ultime uscite e desiderosi di dare una mappatura, per quanto tendenziosa o parziale, della realtà letteraria. Poi, i dibattiti sugli autori condotti all’interno di luoghi di aggregazione sia canonicamente letterari (università, scuole e biblioteche), sia più informali (librerie, presentazioni, salotti, ritrovi presso locali) permettono di incontrare direttamente l’autore e di discutere di letteratura in maniera diretta e attiva.
6) Quali sono le personalità e i luoghi della critica che consideri più seri e affidabili?
Interessandomi prevalentemente di poesia contemporanea, noto che i canali della critica più canonici o blasonati sono piuttosto in affanno rispetto agli autori che scrivono oggi. Se si guarda ai critici di professione, si deve ricordare che sono per lo più inseriti nell’ambiente accademico: lavorano in università, fanno ricerca, lezione, esami e sono travolti dalla burocrazia. Essendo umani, devono restringere il campo e occuparsi solo di alcuni autori. Accade così che intorno a certi critici gravitano solo certe scritture e gruppi di autori, e non altri. Ne consegue che il critico si disinteressa di un autore valido semplicemente perché non appartiene al suo “giro”. In più, la ricerca letteraria in Italia raramente si occupa di autori e fatti letterari che abbiano meno di mezzo secolo.
Per la poesia contemporanea, mancando la giusta distanza temporale, ritengo che sia più opportuno leggere i testi degli autori e farsi una propria opinione. Occorre una buona dose di istinto e di acuità critica, ma, in questi casi, la lettura non finalizzata è più proficua rispetto a una intesa a inserire un autore in una presunta corrente o movimento, oppure di un’analisi che, più che una recensione, sembra un panegirico.
Alessandro Giammei è nato a Roma nel 1988. Si è laureato a Roma, ha conseguito il perfezionamento alla Scuola Normale Superiore di Pisa e sarà Cotsen postdoctoral fellow a Princeton. Ha lavorato come lettore e consulente editoriale per un’agenzia letteraria.
Lorenzo Mecozzi è nato a Fermo nel 1989. Laureato in Lettere Moderne all’Università di Siena, sta per iniziare un PhD alla Columbia University. È redattore di 404: file not found.
Giusi Montali è nata a Carpi nel 1986. È dottoranda di ricerca in Filologia Moderna presso l’Università di Pavia. Scrive sui blog letterari Poetarumsilva e Poesia 2.0. Ha pubblicato una raccolta di poesie.
[Immagine: Dilek Öztürk, Lodz, Poland (gm)].
Risposte interessanti, anche se forse un po’ conformiste.
Alessandro Giammei, davvero lei tende a fidarsi delle genealogie accademiche? Non è un po’ deterministico?
@ Giusi Montali: a proposito della poesia, lei sostiene che la critica ormai sia solo accademica, dunque travolta dalla burocrazia e non in grado di leggere tutto. I critici ormai leggono solo gli autori che già conoscono o che appartengono a un certo giro, lei dice. E quindi “mancando la giusta distanza temporale, ritengo che sia più opportuno leggere i testi degli autori e farsi una propria opinione”. Lei ha tempo di leggere tutto, quindi? Quali sono le categorie critiche alle quali si affida? Cosa rende interessante un libro di poesia oggi?
A. F., sì, tendo, anche se mi rendo conto del rischio e dell’opportuna antipatia del termine ‘genealogia’. Il fatto è che credo che ci sia un’effettiva trasmissione tra maestri e allievi (eventualmente conflittuale) e, sentendomi io stesso l’esito di una serie di genealogie, mi interessa seguire il dipanarsi di certe idee attraverso le eredità. Poi certo, maestri eccezionali hanno prodotto mediocri allievi e gente bravissima viene fuori da scuole apparentemente aride (come in collane illustrissime escono immondizie, i serial killer nascono anche in famiglie dabbene, etc.), ma proprio per questo tendo a fidarmi piuttosto che fidarmi tout court.
Leggo questo scambio di commenti solo ora.
Ecco, a me la parola genealogia non sta antipatica. Per contro, sono sempre più stufa di incontrare persone che, provenendo da uno stesso ambiente, la pensano tutte allo stesso modo. Non ce l’ho con te, Alessandro, né d’altronde con qualcuno in particolare.
La mia è una riflessione più generale. Se c’è una cosa che mi ha stupito di tutte le risposte che ho letto, è la sopravvivenza di una geografia critica molto più netta di quanto pensassi. I miei coetanei che hanno studiato a Milano hanno interessi letterari diversi da quelli dei bolognesi, i quali d’altronde sono molto coesi per orizzonte critico, ecc. Riconosco tracce dell’antologia di Afribo nei giudizi padovani. Mario Benedetti è comparso in queste risposte solo quando a prendere la parola è stata una persona laureata a Siena. In parte tutto questo è normale, in parte lo trovo deludente e noioso.
Inoltre io diffido sempre delle filiazioni accademiche. Mi piacerebbe più movimento, in questo senso, anche a costo di avere coordinate più complesse.
Ringrazio comunque chi ha risposto fin qui.
@ Claudia Crocco: quello che dici è molto vero (e, anche per me, molto triste). Secondo me ulteriore prova di una sempre maggiore chiusura e tenedenza al provincialismo della cultura critica e accademica in Italia. Poche persone (sempre meno) che tendono a conoscersi tutte, parlarsi addosso, darsi grosse pacche sulle spalle per sconfiggere l’ansia di non contare più nulla, a stringersi a coorte e leggere le stesse cose allo stesso modo. E intanto il fossato con “il mondo fuori” si allarga…
Claudia, un’obiezione: nel dare il mio giudizio, ho tenuto in poco conto quelli di Afribo, che non parla di Frasca col mio stesso entusiasmo nemmeno nella sua famosa antologia, e che di Pusterla menziona altri tratti. Se ho voluto non fare il nome di Benedetti, che conosco, ciò è avvenuto a ragion veduta. Io credo che l’antologia di Afribo abbia troppi meriti come porta d’ingresso alla poesia contemporanea per fare finta che non esista, ma credo anche che questo non valga solo per i padovani. Tutto ciò premesso, a me pare che dal sondaggio le origini geografiche effettivamente traspaiano, ma a margine di quello che si delinea come un nucleo solido (Siti Moresco Mari, De Angelis, e simili): dunque forse il problema, se c’è un problema, è a monte, ha a che fare con l’uniformità dei giudizi dell’accademia italiana nel suo complesso, non solo tra maestro e allievo.
Scusa, Marco, ma come fai a sapere come si studia la poesia altrove? T’assicuro che io l’ho imparata in modo diverso, ad esempio.
Comunque, non ho detto che l’antologia di Afribo sia pessima, e in realtà neanche cattiva; ma secondo me ha alcuni difetti, che emergono soprattutto nei profili di Anedda e di Benedetti (ad esempio, Benedetti sembra un crepuscolare. Non lo è). Inoltre «Io credo che l’antologia di Afribo abbia troppi meriti come porta d’ingresso alla poesia contemporanea per fare finta che non esista»: ecco, questa frase è già sbagliata in partenza. Quante altre antologie hai letto e conosci? E poi chi vuole far finta che non esista? È un’antologia bella ed importante, ma il tipo di approccio al testo poetico contemporaneo è discutibile. Attenzione, non ho detto che sia sbagliato: dal mio punto di vista, è discutibile. Almeno questo possiamo concederlo?
Io non vedo molta omogeneità nei giudizi dell’accademia; anzi, direi che le differenze emergono in modo eclatante proprio per quanto riguarda la poesia (in quanto genere più debole, meno centrale nel mercato letterario, facilmente idiosincratico). Il canone padovano NON è quello di Roma, né quello di Siena, né quello di Bologna, né quello di Milano. A loro volta questi centri differiscono fra loro in modo significativo, per l’immagine del campo poetico che restituiscono. Io non avrei dato le tue risposte; ma non avrei dato neanche quelle di Alessandro Giammei, per dire, né quelle di Lorenzo Marchese o di Giacomo Raccis. Poi pazienza, non mi pare una tragedia.
Anzi.
Per De Angelis sarebbe da fare un discorso diverso. Anche chi non lo ama, ormai, ne riconosce l’importanza.
Mi sono spiegato male. Non dico che i giudizi che dà Afribo non siano talvolta discutibili, e, come scrivevo, io non condivido quello di Frasca, per esempio. In realtà io non volevo difendere come assoluto l’approccio critico di Afribo, che è effettivamente una docg padovana, ma intendevo dire che i nomi che seleziona hanno larga condivisione. Ho avuto l’impressione infatti, in questi anni, confrontandomi con persone che hanno studiato altrove, che i nomi che Afribo segnala siano quelli che in un modo o nell’altro ricorrono anche per persone con una formazione geograficamente diversa. D’altra parte davo un giudizio dal basso, un’impressione, senza la pretesa di essere esaustivo. Tu poi hai senz’altro ragione a rilevare che le differenze locali si sentono molto di più sulla poesia che sulla prosa, e questo a pensarci bene è un dato su cui riflettere, quando sarà il momento di fare un bilancio delle risposte.
Scusa, forse sono stata troppo aggressiva. È che il determinismo in queste cose mi innervosisce sempre: non il tuo, dico in generale; mi crea rabbia anche notarlo in me stessa. Credo comunque che sia meglio rendersene conto.
Ma magari sono io che ci faccio caso più del normale.
Comunque, nel merito: i nomi proposti hanno larga condivisione. Questo è vero. È anche vero che sono solo otto , quindi sarebbe stato grave il contrario, e che ce ne sarebbero altri (più o meno) condivisibili. Ma questo non è un problema, è normale. Tuttavia quello non è l’unico panorama possibile, ecco (ma io in gran parte lo condivido). Penso sia meglio non considerarla una registrazione oggettiva (un’antologia non lo è mai), quanto piuttosto un’operazione che esprime anche un punto di vista sulla poesia di quegli anni.
Io devo ammettere di non condividere la rabbia di Claudia. Mi pare anzi che la persistenza di una geografia culturale/accademica non sia un dato negativo. Faccio una semplificazione caricaturale: sarebbe fantastico se uno a diciannove anni in Italia potesse pensare «Ehi, mi sento materialista, vado a studiare a Siena» e poi a ventidue «Toh, invece preferisco un approccio post-freudiano, vado a Pisa». Non che ogni ateneo/rivista/blog/centroculturale debba essere ridotto a un orientamento netto e unico — né che uno debba conformarsi agli orientamenti, spesso la reazione ad essi è il motore delle svolte no? Ovviamente c’è una fluidità in queste cose. Ma un comparatista (per dire) quando sceglie l’università in cui specializzarsi in America sa che a Berkeley va in una direzione, a Princeton in un’altra, a Columbia in un’altra ancora e via così. È un male? Il male secondo me sta proprio nello sbiadirsi delle identità dei centri in cui ci si forma (con annessi seminari, riviste, rassegne, collettivi, etc.), nella pretesa che tutto sia liquido e interconnesso, la quale pretesa si traduce invece in una specie di orizzontalità veterostatalista stupidina — un po’ di tutto da tutte le parti, e guai a dire che sei allievo di qualcuno ché mica ti sistema poi. Io personalmente rivendico l’orientamento romano che ho ricevuto da gente come Frabotta e Ferroni, la scelta di avvicinarmi al gruppo milanese del verri (che passa credo per un’influenza di Cortellessa), la svolta americana che ho avuto paradossalmente in normale a Pisa, le cose senesi che ho orecchiato in questi pizzi. Se mi fossi laureato a Foggia, avessi cercato di pubblicare su Soglie, mi fossi addottorato a Cassino e online leggessi prevalentemente puntocritico sarei culturalmente diverso. L’unico peccato è che il mio profilo, come quello della maggior parte dei miei coetanei qui, sia stato determinato soprattutto dal mio luogo di nascita più che da un progetto iniziale. (@Claudia) se intendi questo — cioè non siamo poi così padroni di muoverci nella geografia culturale italiana e quindi rischiamo di stazionare per caso in un luogo (Pavia, Bologna, Napoli) e di credere che tutto l’orizzonte delle verità sia raggiungibile da quel luogo — siamo d’accordo, altrimenti no.
@Alessandro
«Se mi fossi laureato a Foggia, avessi cercato di pubblicare su Soglie, mi fossi addottorato a Cassino e online leggessi prevalentemente puntocritico sarei culturalmente diverso».
Questa tua frase un po’ mi fa sorridere (per puntocritico), un po’ mi turba. Velocemente (nel senso che io sono di fretta, purtroppo), individuo soprattutto tre punti che non mi tornano.
1. Dunque chi si laurea a Foggia cosa deve sperare o rivendicare (sembri implicare un punto in più per chi ha il tuo percorso)? Il modello americano non è un po’ troppo classista per fare da punto di riferimento?
2. A diciott’anni, quando sono andata a Siena, un approccio stilistico o post-freudiano alla letteratura erano idee fumose; sapevo solo di voler andare via di casa e di volere scappare dalla regione in cui ero nata. Non avrei potuto scegliere in modo consapevole, e immagino che sia stato così anche per altri.
Anni dopo, anche la città in cui ho vinto una borsa di dottorato (Trento) è stata un caso. Non dico che la progettualità sia poco importante e che ovunque bisognerebbe studiare le stesse cose, per carità.
3. Oppure tu avrai ragione, ma io non riesco a esserne contenta. Odio il determinismo. Vorrei sviluppare idee sulla letteratura che non siano solo una coda a quelle di altri, e scrivere cose non ancora scritte. Non mi interessa prolungare una scuola o roba del genere. Lo trovo riduttivo. Da qui la rabbia, penso.
@Claudia
1. No, non implico un punto in più per chi ha il mio percorso, anche perché il mio percorso ce l’ho solo io. Foggia era per usare un esempio equidistante da tutti quelli che hanno partecipato a questo dibattito. Il modello americano è relativamente classista (dico relativamente perché mi devi presentare un figlio di madre single impiegata che in Italia può accedere alle risorse di Harvard a diciannove anni con una borsa di studio riservata al suo censo, per dire) ma in questo discorso lo prendo come esempio specifico di una realtà accademica in cui la competizione geografica tra diversi indirizzi e diverse specialità funziona in modo secondo me virtuoso.
2. Lo so che non avresti potuto, è questo il mio punto. Mi piacerebbe se si potesse.
3. Io pure vorrei sviluppare idee originali e scrivere cose non scritte, ma questo non significa che avrei voluto formarmi in un ambiente neutro, privo di una specificità con cui confrontarmi. Mi fido solo delle cose connotate, perché puoi aderire o dissentire e in ognuno dei due casi (e dello spettro che ci sta in mezzo) interagisci con una scuola / con un partito / con una testata / etc. Gli studi professionalizzanti possono essere più o meno uguali ovunque, quelli che non ti abilitano a niente ma ti qualificano no. Prolungare una scuola nel senso di rifare una cosa già fatta credo non interessi a nessuno, non è un modo sano di interagire con una realtà culturale.
Solo per rettificare che il diciannovenne in questione – salvo casi più unici che rari – accede alle risorse di Harvard (o altra big university che sia) sotto necessità di lavorare svariate ore a settimana in disparate mansioni: fra cui, ad esempio, andare bravino a recuperare i libri dal sotterraneo della biblioteca per portarli al banco ai suoi stessi compagni di corso nati in famiglie più ricche. Farlo arrivare bello incazzato al mondo del lavoro è del resto un ottimo sistema per evitare combutte fra poveri. Si può discutere sull’efficacia del sistema ma il classismo mi pare fuori discussione.