di Piero Boitani
[Sta uscendo, per UTET, La letteratura europea, a cura di Piero Boitani e Massimo Fusillo. Pubblichiamo il saggio introduttivo di Piero Boitani. Il saggio di Massimo Fusillo e il piano dell’opera si possono leggere qui]
La prima volta che il nome di «Europa» viene menzionato con valore geografico, nell’Inno Omerico ad Apollo,[1] esso indica la Grecia centrale. Presto, esso fu esteso a tutta la Grecia ed entro il 500 a.C. all’intera massa continentale dietro di essa. Il confine orientale tra Europa e Asia veniva generalmente fissato lungo il fiume Don, ma la conoscenza del continente europeo, cioè dell’area lontana dal Mediterraneo, è assai incerta presso Omero, Erodoto e persino nell’età ellenistica. Le vie preistoriche dell’ambra, che congiungevano il Baltico e lo Jutland all’Europa meridionale, erano ormai dimenticate e la penetrazione greca a nord del Mar Nero, o l’esplorazione di Pitea a nordovest, con la circumnavigazione della Gran Bretagna, lasciavano comunque sconosciuti il Baltico, la Scandinavia e tutta la zona a nord dei Balcani. Sono invece gli eserciti romani a estendere la conoscenza del continente, a cominciare dalla Spagna durante le Guerre Puniche, e poi via via la Gallia con la conquista di Cesare, sotto Augusto i Balcani, il bacino del Danubio e la Germania sino all’Elba, l’attuale Romania (Dacia) con Traiano. I mercanti romani riscoprono l’antica via dell’ambra dal Baltico a Vienna.
L’opposizione tra Europa e Asia è certo importante nell’ideologia greca (per esempio in Diodoro Siculo[2]) e c’è persino chi, come Plinio il Vecchio, proclama l’Europa, «nutrice del popolo che ha conquistato tutte le genti», «la più bella di tutte le terre».[3] Tuttavia, non esiste nell’antichità un’identità «europea» in quanto tale, mentre domina dapprima un’identità ellenica (che si afferma contro tutto ciò che è «barbaro», ma si estende alla fascia costiera dell’Asia Minore), e poi, con essa in competizione, un’identità romana. Se si fosse domandata a un greco e a un romano del II secolo a.C. la loro identità, il primo avrebbe risposto senza ambiguità «ellenica», il secondo, altrettanto chiaramente, «romana». Lo dimostra a sufficienza il greco Polibio, ostaggio per decenni a Roma, che spiega il successo di Roma ai romani dal punto di vista del greco. Tuttavia, nel II secolo d.C. la situazione appare mutata: pur conservando identità separate, le culture delle due parti dell’impero risultano maggiormente integrate, in particolare nella metà occidentale, dove le persone colte non possono dirsi tali se non conoscono la lingua e la letteratura greche (la metà orientale rimane sempre più impermeabile alla penetrazione latina). E’ l’impero di Roma che, sovrapponendosi a tutte le entità politiche preesistenti, proietta una cultura nuova.
La formazione di quella che noi chiamiamo cultura «greco-romana» è un processo molto lento, più facilmente percepibile duemila anni dopo che non durante il suo sviluppo. Esso produce per certo, però, un canone letterario, il primo che possiamo chiamare «europeo» e che dura intatto sino almeno a tutto il IV secolo d.C.: l’epica da Omero a Virgilio, Stazio e Lucano; Esiodo e il racconto delle origini; il teatro tragico e comico dall’Atene del V secolo sino a Plauto, Terenzio e fino a Seneca; la lirica da Saffo, Alcmane e Mimnermo a Pindaro, ai poeti romani, e giù sino all’Antologia Palatina; la scienza in versi da Eraclito ed Empedocle sino a Lucrezio e poi Manilio; la storiografia, da Erodoto e Tucidide a Tacito e oltre; la filosofia, dai presocratici in poi; il romanzo, da quello ellenistico a quello tardo antico.
Quando un Romano parlava di letteratura, il suo sguardo comprendeva sia quella latina sia quella greca, e spesso diveniva, nel discorso, eminentemente «comparato», nel senso che il suo atteggiamento di fondo mirava, per chiarire le caratteristiche di un autore, di un testo, o di una tradizione, a paragonare la letteratura latina con quella greca. Tutto il Bruto di Cicerone, per esempio, è un ragionamento sull’oratoria delle due tradizioni. Il suo De finibus bonorum et malorum inizia con una complessa discussione sulla preferenza di alcuni per le lettere greche e il loro disprezzo per quelle latine. E l’orazione in difesa del poeta Archia contiene la celebre affermazione: «Se qualcuno pensa che la gloria guadagnata con versi greci sia minore di quella che viene da poesia latina, si sbaglia di grosso, perché la letteratura greca è letta quasi da ogni popolo mentre quella latina è racchiusa entro i propri piuttosto ristretti confini»[4].
La cultura alta di Roma è cosmopolita e cosciente dei propri debiti nei confronti di quella greca anche quando non mostra complessi d’inferiorità al riguardo. Nel comporre l’epistola nota come Arte poetica Orazio usa esempi greci e latini in egual misura, e per esempio riconosce ai primi l’invenzione della tragedia, ma attribuisce ai secondi il merito di aver abbandonato le orme greche e dedicato attenzione alle vicende romane mettendo in scena le «preteste» e le «togate»[5]. Quintiliano, poi, elabora un vero e proprio canone comparato greco-latino nel Libro X dell’Istituzione oratoria: su un versante, da Omero a Esiodo, Tirteo, Alceo, Pindaro, Simonide e Callimaco, dai tragici ai commediografi, dagli storici agli oratori ai filosofi; sull’altro, da Virgilio (il paragone con Omero è significativo) a Ennio, Lucrezio, Ovidio, Lucano e Valerio Flacco, da Tibullo e Properzio a Orazio, dai tragici antichi a Plauto e Terenzio, dagli storici («la storia», dice, «non potrebbe cedere davanti ai Greci») agli oratori (Cicerone viene a raffronto con Demostene), sino ai filosofi: «pochissimi» che possano essere considerati «esempi di eccellenza stilistica», ma tra i quali spiccano Cicerone e, con qualche riserva da parte di Quintiliano, Seneca[6].
Persino i Greci, notoriamente ignoranti di latino, mostrano a un certo punto una qualche propensione alla letteratura comparata. Nelle Notti attiche Aulo Gellio racconta di un suo incontro ad Anzio, nella villa di un comune amico, col filosofo Favorino di Arles, pensatore della cosiddetta Seconda Sofistica. Nel discorso che Gellio riporta Favorino paragona Pindaro e Virgilio: in sostanza, due brani, rispettivamente dalla Pitica I e dal terzo Libro dell’Eneide[7], che descrivono l’eruzione dell’Etna. Virgilio, naturalmente, sta scientemente imitando il suo precursore greco, ma si mostra, sostiene Favorino, «più stravagante e ampolloso» di Pindaro stesso. Il filosofo indica con precisione, citando i relativi versi parola per parola, quali sono, secondo lui, i difetti del latino: è meno aderente alla realtà, meno vivido, più impacciato e confuso, elaborato, talvolta inesplicabile e incomprensibile, e infine infedele all’originale, e creatore di qualcosa che è «più mostruoso di tutte le mostruosità»[8].
Favorino non ha peli sulla lingua e aderisce a un modo di far letterature comparate, peraltro in voga sino alla metà del Novecento, che mira al giudizio qualitativo, cioè a indicare, quando un brano sia geneticamente legato al suo modello, virtù e vizi, meriti e demeriti, superiorità e inferiorità, di uno scrittore rispetto all’altro. E’ molto più ecumenico, invece, l’autore del trattato sul Sublime, il quale riconosce i propri limiti di greco nel giudicare letteratura in latino, ed elabora un paragone assai più equilibrato tra Demostene e Cicerone:
Analoga mi pare, carissimo Terenziano (e lo dico per quello che a me, greco, è dato capirne), la differenza tra la grandezza di Cicerone e quella di Demostene. Questo è sublime per le sue vertiginose impennate, quello per la sua profusa eloquenza. Il nostro oratore, per quel suo bruciare e trascinare ogni cosa con una violenza repentina, impetuosa, terribile potremmo paragonarlo a un uragano o a una folgore; Cicerone invece mi sembra un vasto incendio che si sviluppa e si volge dovunque, nutrendo una fiamma tenace che si propaga sempre più intensa in ogni direzione. Ma su questo oratore voi romani potete dare un giudizio migliore del mio[9].
L’autore del Sublime si mostra subito dopo perfettamente in grado di cogliere comparativamente l’essenza dei due scrittori, raffrontando i momenti cruciali della «sublime tensione» di Demostene, che stordisce l’ascoltatore con le passioni più intense, e della «profusione» di Cicerone, che inonda l’ascoltatore di luoghi comuni, perorazioni, digressioni, narrazioni, descrizioni naturali. Egli è del resto aperto persino alle tradizioni non greco-romane, visto che in uno dei capitoli chiave del suo trattato, il IX, cita, in parallelo alla suprema capacità omerica di presentare la divinità quale essa veramente è, «un’entità pura, grande e incontaminata», la Genesi ebraica (naturalmente nella traduzione greca dei Settanta): «Allo stesso modo», scrive, «anche il legislatore dei Giudei – che non era certo uno scrittore qualunque, se ha saputo definire ed esprimere nel suo pieno valore la potenza di Dio – subito dopo avere scritto, all’inizio delle leggi, “Disse Dio”, che cosa aggiunge? “Sia la luce – e la luce fu; sia la terra – e la terra fu»[10].
Nel III sec. a.C. la Bibbia viene tradotta in greco ad Alessandria. A poco a poco la sua conoscenza si diffonde e la Scrittura ebraica penetra nella cultura greco-romana: ne è testimone l’anonimo autore del Sublime, che, come s’è appena visto, parifica nella sublimità, appunto, il «legislatore dei Giudei» a Omero per aver descritto la creazione della luce. Entro il V sec. d.C., dopo la «Vetus Latina», esiste anche una traduzione latina, e cristiana, la Vulgata, opera di san Girolamo. L’arrivo sulla scena greco-romana del Cristianesimo comincia, lentamente, a cambiare i connotati della cultura antica perché introduce in essa valori nuovi e testi fondanti diversi (per esempio, Antico e Nuovo Testamento al posto di Omero, di Esiodo e della filosofia di Platone e di Aristotele).
Quando poi iniziano le migrazioni dei popoli (come oggi sono chiamate le invasioni barbariche), prende a mutare anche l’identità europea, in un forzato melting pot che col tempo genererà un nuovo volto, quello dell’Europa medievale. Questi movimenti sono lenti, ma hanno origini molto antiche. Credo che i primi documenti si possano ritrovare in Tacito, il quale descrive costumi e cultura dei Germani, menziona Cristo, e comprende l’atteggiamento dei barbari verso Roma. Negli Annali Tacito parla brevemente dei Cristiani, la cui dottrina evidentemente considera una minaccia gravissima alla propria cultura:
Auctor nominis eius Christus Tiberio imperitante per procuratorem Pontium Pilatum supplicio adfectus erat; repressaque in praesens exitiabilis superstitio rursum erumpebat, non modo per Iudaeam, originem eius mali, sed per urbem etiam, quo cuncta undique atrocia aut pudenda confluunt celebranturque.
Il loro nome derivava da Cristo, che, sotto l’imperatore Tiberio, era stato messo a morte per ordine del procuratore Ponzio Pilato; e quella perniciosa superstizione, momentaneamente repressa, prorompeva ora di nuovo e non solo in Giudea, luogo di origine di quel male, ma anche in Roma, dove affluiscono e si diffondono tutte le atrocità e le vergogne di ogni parte del mondo.[11]
D’altra parte lo stesso Tacito si mostra capace non solo di descrivere, nella Germania, usi, costumi e cultura dei popoli barbari, ma anche di immaginare, nell’Agricola, una coscienza antiromana e anti imperialistica di quelle stesse genti. Il discorso che Calgaco rivolge ai Britanni prima della battaglia finale contro le truppe romane (30) è un esempio straordinario di questo:
nunc terminus Britainniae patet, atque omne ignotum pro magnifico est; sed nulla iam ultra gens, nihil nisi fluctus ac saxa, et infestiores Romani, quorum superbiam frustra per obsequium ac modestiam effugias. Raptores orbis, postquam cuncta vastantibus defuere terrae, mare scrutantur: si locuples hostis est, avari, si pauper, ambitiosi, quos non Oriens, non Occidens satiaverit: soli omnium opes atque inopiam pari adfectu concupiscunt. Auferre trucidare rapere faisis nominibus imperium atque ubi solitudinem faciunt pacem appellant.
Ora l’ultima parte della Britannia è scoperta e tutto ciò che non si conosce si ritiene meraviglioso. Ma più in là della nostra terra non vi sono che flutti e scogli, e, ancor più pericolosi, i Romani, contro i quali a nulla varrebbero la sottomissione e l’obbedienza. Predatori del mondo, non avendo più terre da devastare, frugano il mare: avidi, se il nemico è ricco, arroganti, se povero, né l’oriente né l’occidente potrebbe saziarli. Sono soli fra tutti a gettarsi con pari accanimento sull’opulenza e sulla povertà. Furti, assassinii, rapine con falso nome essi chiamano impero e dicono pace, dove fanno il deserto.[12]
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Dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente (che viene generalmente fissata al 476 d.C.) l’Europa risulta divisa in due parti. A oriente l’entità statale romana permane per altri mille anni (sino al 1453, anno nel quale i Turchi conquistano infine Costantinopoli) nell’impero che noi chiamiamo bizantino. Cristiano, e ricco di dottrina patristica, ma ortodosso e non cattolico, l’Impero d’Oriente non conosce la cesura quasi totale con la cultura antica che invece ha luogo in Occidente. Nel XII secolo, per esempio, il vescovo Eustazio commenta l’Iliade e l’Odissea. Costantinopoli è anzi centro propulsore di cristianità e cultura in tutto l’Est europeo. Non soltanto verso la Grecia, che per continuità linguistica costituisce un caso a sé, ma anche Non soltanto verso la Grecia, che per continuità linguistica costituisce un caso a sé, ma anche tra gli slavi, dai confini settentrionali dell’impero alle sponde dell’Adriatico centro-meridionale e al Mar Nero, e poi nelle regioni transdanubiane sino alla Russia, mentre la fascia costiera dell’alto Adriatico e tutta la zona di contatto con il mondo germanico (soprattutto la Polonia) vengono cristianizzate o direttamente da Roma o da missionari delle diocesi tedesche limitrofe, e seguono quindi un cammino diverso. E’ con accreditamento a Costantinopoli (e poi anche a Roma) che giungono in Moravia, nell’anno 863, i due missionari greci Cirillo e Metodio, portando i principali testi liturgici e paraliturgici tradotti dal greco in «slavo» (sloven’skij), a cui conferiscono dignità di lingua letteraria unitaria, ma capace fin dall’inizio di assorbire singole particolarità dialettali (dapprima bulgare, poi morave e pannoniche, successivamente ceche e infine slavo-orientali). E la conversione del principe Vladimir, che introduce il Cristianesimo nella Rus’ di Kiev nel 988, è decisamente orientata su Bisanzio. Quando la letteratura russa antica ha inizio, il legame con la Chiesa e l’Impero d’Oriente è molto stretto, e l’influenza della cultura occidentale non si farà sentire in Russia che nell’epoca immediatamente precedente a Pietro il Grande, nella seconda metà del XVII secolo. Da quel momento in poi, anzi, le letterature dell’Europa orientale sono percorse da una divisione ricorrente tra gli intellettuali che guardano all’Europa occidentale e quelli più legati alla tradizione slava. Il che non impedisce il sorgere, per esempio in Russia, di un Romanticismo di prima grandezza, e di un romanzo che tocca vertici indiscussi a livello mondiale con Tolstoj e Dostoevskij.
In Occidente, il tramonto della civiltà antica è una catastrofe che non ha né precedenti né paragoni successivi: si calcola che gli standard di vita del IV secolo d.C. non vengono eguagliati sino alla seconda metà dell’Ottocento, mentre le grandi biblioteche del mondo antico spariscono. Tuttavia, i barbari portano identità e culture nuove, mentre riducono o eliminano le preesistenti, per esempio quella celtica (che sopravvive nei ridotti gaelici d’Irlanda, Galles e Scozia). Più o meno rapidamente, e più o meno forzatamente convertiti al Cristianesimo, i Germani introducono nell’Europa occidentale i loro canti e i loro racconti: l’epica e le leggende che dominano dallo Hildebrandslied al Beowulf, e più tardi nell’Edda norrena e nel Nibelungenlied. La cultura antica non scompare del tutto, ma sopravvive per frammenti, talvolta in maniera casuale, per merito dei monaci che ricopiano i testi in tutta l’Europa occidentale, e in prima battuta in Irlanda e in Italia. Il greco viene dimenticato, e neppure Omero si salva dall’oblio. Rimangono però, per esempio, Virgilio e Ovidio. Muoiono la tragedia e la commedia, il romanzo s’inabissa. La produzione filosofica, con l’eccezione del Timeo platonico in traduzione latina, svanisce, ma resta tutto ciò che può essere allegorizzato.
E i Cristiani producono il loro proprio canone: non soltanto il Nuovo Testamento, ma le Vite dei Santi, gli scritti di teologia e filosofia dei Padri, i canti poetici di Prudenzio e Venanzio Fortunato, gli inni di Ambrogio. Ci sono insomma tre canoni intercomunicanti tra il V e l’XI secolo: uno di origine classica, in lingua latina; uno di origine cristiana, di nuovo soprattutto in latino; e uno di origine germanica, generalmente nelle lingue volgari. Gli emblemi di quest’epoca di transizione e gestazione sono Calcidio, il traduttore e commentatore pagano del Timeo platonico; Macrobio, il pagano che commenta il Sogno di Scipione ciceroniano; Dionigi (o Pseudo-Dionigi) l’Areopagita, il fondatore della mistica cristiana; e Boezio, l’autore cristiano, imbevuto di Platone e Aristotele, della Consolazione della Filosofia che sarà così importante nel Medioevo e nel Rinascimento.[13] Gli alfieri principali dell’età nuova sono dapprima Ambrogio, Agostino, Benedetto e Gregorio Magno, e poco più tardi dapprima i monaci irlandesi, e poi, in Inghilterra, Aldhelm e Beda.
E’ proprio un monaco irlandese, Colombano, a usare per la prima volta il termine «Europa» in maniera pertinente in una lettera a Papa Bonifacio IV scritta da Milano su richiesta della regina Teodolinda e del re Agilulfo I.[14] Beda è invece un caso affatto straordinario: teologo, storico grandissimo dell’Inghilterra cristiana, è anche conoscitore della poesia volgare, cioè in antico inglese, e poeta egli stesso. I suoi aneddoti mirano a legare la nascita dell’identità e della cultura inglese alla tradizione romana, cogliendo però quanto di specifico da esse proviene. «Angeli, non Angli», esclama il futuro Papa Gregorio Magno quando vede dei bellissimi schiavi inglesi in vendita nel Foro di Roma.[15] Da questa frase leggendaria prende l’avvio la missione di riconversione della Britannia abbandonata dalle legioni e occupata dagli Angli e dai Sassoni. L’Historia ecclesiastica gentis Anglorum di Beda, che idealmente comincia con questo racconto, è la più bella opera storiografica del Medioevo. Tutto, in essa, è organizzato con mano sapiente e narrato col piglio dello scrittore di razza. Ma tutto, anche, ha l’aura delle origini e il passo della meditazione sugli accadimenti: se Beda vuole ancorare a Roma l’alba delle vicende inglesi è perché quella che Gregorio, per mezzo del suo missionario Agostino, porta nel Kent è una nuova cultura.
Memorabile, a questo proposito, un altro degli aneddoti che Beda usa per illustrare gli snodi cruciali della sua Storia. Re Edwin di Northumbria deve decidere se abbracciare o no il Cristianesimo e chiede il parere dei suoi consiglieri. Uno di essi risponde con una parabola, paragonando la vita degli uomini sulla terra alla cena che il re, nel mezzo dell’inverno, mentre fuori infuria la tempesta, consuma con i suoi nobili nella sala riscaldata dal fuoco: all’improvviso, «un passero attraversa con rapido volo la sala, entrando da una porta e subito uscendo dall’altra; nell’attimo in cui rimane dentro non è colpito dalla burrasca invernale, ma trascorso quel brevissimo momento di quiete subito sfugge allo sguardo e ritorna al gelo dal quale è venuto. Così pure la vita dell’uomo è visibile, ma per un solo momento; di ciò che è prima e dopo quest’attimo nulla sappiamo. E dunque se questa nuova religione ci dà una certezza, mi sembra giusto seguirla».[16]
Romana e cristiana, l’Inghilterra di Beda, persino negli inizi della sua letteratura, come dimostra il caso di Cædmon da Beda stesso narrato. Cædmon è il primo poeta inglese. Fratello nel monastero della badessa Hild, Cædmon non sa cantare. Ma una notte gli appare in sogno una figura che gli ordina: «Cantami qualcosa». Quando Cædmon risponde che non lo sa fare, la voce replica imperiosa che deve però farlo per lei. Il poveretto domanda allora cosa debba cantare. «Principium creaturarum», si sente dire.[17] La poesia inglese inizia, appropriatamente, con il Principio: con la Creazione. La situazione è simile nel resto dell’Europa Occidentale.
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La notte di Natale dell’800, in San Pietro a Roma, risorge per mano del Papa l’impero romano, la cui corona viene posta sul capo del re dei Franchi, Carlo Magno. Carlo è il primo a tentare l’unificazione dell’Europa occidentale e continentale, regnando su Francia, parte della Germania e parte dell’Italia. L’età che da lui viene chiamata «carolingia» codifica i tratti di quella precedente e organizza la cultura in maniera decisa, soprattutto attraverso l’attività della Scuola Palatina di Aquisgrana con a capo l’inglese Alcuino (che spesso, nelle sue lettere, usa la parola «Europa») e, più tardi, l’irlandese Giovanni Scoto Eriugena. La cultura alta continua, ora, a esprimersi in latino, come dimostrano le opere dello stesso Alcuino, dell’Eriugena, di Rabano Mauro, e poi di Onorio di Autun. Ma questo è anche il momento (tra IX e XI secolo, quando il Sacro Romano Impero passa in mani tedesche) in cui cominciano ad affermarsi quelle che diventeranno le letterature nazionali: in Francia con la celebre Chanson de Roland, in Spagna col poema sul Cid, in Inghilterra col Beowulf e la poesia elegiaca, tra gli Slavi con l’annalistica (Povest’ vremennych let, e altre opere), se non con il Canto della schiera di Igor’, la cui autenticità e’ ancora oggetto di discussione. In Provenza, infine, a partire da Guglielmo IX, nasce la poesia trobadorica.
A questo punto, i caratteri salienti della letteratura medievale sono tutti presenti. La lirica dei trovatori si diffonde in tutta Europa, dalla Spagna alla Germania dei Minnesinger, e all’Italia, dove a tempo debito si trasformerà nella poesia del Dolce Stil Nuovo. L’epica del primo Medioevo si riempie di ideali cortesi e muta in romanzo, dapprima in versi (è il caso di Chrétien de Troyes, ma anche dei tre romanzi francesi per eccellenza, di Troia, di Enea e di Tebe, e di quelli tedeschi di Hartmann von Aue, Gottfried von Strassburg e Wolfram von Eschenbach), poi in prosa, con l’immenso ciclo della Vulgata Arturiana. Intanto continua poderosa anche la letteratura in latino, la lingua che unifica gli europei colti e che è la base stessa delle forme organizzative delle lettere d’Europa. Dalla poesia goliardica a Gualtiero di Chatillon, ai poemetti filosofici della Scuola di Chartres, dalla Legenda aurea di Jacopo di Varazze agli Specula di Vincenzo di Beauvais. E’ quel Medioevo latino che Ernst Robert Curtius vide alla base della letteratura europea.[18]
Alla morte di Dante, nel 1321, tutto questo è ormai un canone. Dante stesso ha in effetti organizzato il canone lirico europeo nel De vulgari eloquentia. Se si leggono anche il Convivio e la Commedia, si ha un’idea un po’ più precisa del canone che Dante aveva in mente: basta guardare ai personaggi che egli elenca in Inferno IV (Limbo, con il supplemento in Purgatorio XXII: autori classici), in Purgatorio XXIV-XXVI (i canti dei poeti volgari italiani e provenzali), e in Paradiso X-XIV (l’«Atene celeste» del Cielo del Sole, con i sapienti cristiani), e l’immagine della cultura alta di un dotto del Duecento risulta chiara se vi si aggiunge la Bibbia, della quale Dante fa continuo uso, e naturalmente tutta un’altra serie di nomi e di opere (per esempio Guido Cavalcanti e Bertran del Bornio, le «poesie d’amore e prose di romanzi», le «Arturi regis ambages pulcherrime», e via di seguito). Dante costituisce per molti versi il culmine della letteratura europea del Medioevo, e il canone che egli riceve e costruisce risulta per sempre cambiato dalla sua presenza: sesto tra cotanto senno, terzo e massimo nella «gloria de la lingua», poeta sacro primo e ultimo del Paradiso e della visione di Dio.
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Ecco, però, che a partire dalla generazione immediatamente successiva a Dante, quella cultura e quel canone cominciano a cambiare. Non che il vecchio venga cancellato d’un colpo, ma su di esso si sovrappone qualcosa di nuovo. Con Petrarca (e con Boccaccio) si cominciano a riscoprire gli antichi. Petrarca cerca, e trova, manoscritti latini perduti; Boccaccio scrive un’enciclopedia ragionata del mito classico, le Genealogie deorum gentilium. Al posto della Scolastica, Petrarca preferisce Agostino. Visita con passione la storia antica, vuole scriverne l’epos con l’Africa. E’ l’inizio dell’Umanesimo, che presto conquista Firenze e l’Italia nel Quattrocento, poi il resto d’Europa, sino alla Scandinavia e alla Polonia, con il Cinquecento. Il canone letterario, ora, si amplia enormemente, perché non solo vengono riscoperti e resuscitati gli antichi autori latini sepolti per secoli nelle biblioteche monastiche, ma ritornano il greco e gli scrittori della Grecia antica.
Sono due secoli magici nella cultura europea, quelli che vanno dal Concilio di Firenze negli anni Trenta del Quattrocento al Dialogo dei massimi sistemi di Galileo negli anni Trenta del Seicento. La riscoperta delle opere greche antiche (da Omero a Platone a Ermete Trismegisto) va di pari passo con molte altre scoperte decisive: quella del Nuovo Mondo e delle nuove rotte verso l’Asia attorno all’Africa, quella del nuovo universo da parte di Copernico, Galileo e Keplero, quella della politica effettuale di Machiavelli. Duecento anni, il Rinascimento. La filologia, la medicina. La nuova architettura, la nuova scultura, la nuova pittura, la nuova musica, il nuovo teatro, la nascita dell’opera. I nuovi miti: Faust, Don Giovanni, Don Chisciotte, Amleto. Una data: 1564. E’ l’anno in cui, a 90 anni, il 18 febbraio, muore Michelangelo. Quell’anno, tre giorni prima, il 15 febbraio, nasce Galileo; e nasce, il 26 aprile, Shakespeare. Il quale morirà il 23 aprile del 1616, lo stesso giorno in cui muore Cervantes. Un altro anno, 1533: muore l’Ariosto, nasce Montaigne. Montaigne muore nel 1592 insieme al grande esploratore Pedro Sarmiento de Gamboa. Si può fare questo gioco quasi all’infinito, menzionando anche incontri memorabili: 1580, Montaigne visita Tasso, pazzo furioso e melanconico, al Sant’Anna di Ferrara; 1638, Milton, futuro autore del Paradiso perduto, va a trovare Galileo ad Arcetri.
Due secoli di cultura europea del Rinascimento sono bastati a rifare il mondo. Il canone letterario? S’immagini di avere una stanza circondata da scaffali di libri, i maggiori capolavori della letteratura europea dall’antichità al Seicento. Una parete sarà occupata dai volumi greci e latini: sarebbero assai di più, ma poco (per capirsi, sette di oltre cento tragedie di Sofocle) è giunto sino a noi. Un’altra parete è presa dai grandi tomi del Medioevo. La terza e la quarta contengono titoli usciti tra Quattrocento e Seicento. Farne un elenco è impossibile, ma dai nomi che ho appena sfiorati ci si può fare un’idea di ciò che il Rinascimento ha portato all’identità e al canone europei. Il brivido, innanzitutto, dell’orizzonte che si spalanca: il Mundus novus di Vespucci si accosta, qui, ai passi dell’Orlando furioso nei quali Astolfo, sulla luna, vede altre città, altri laghi, altre montagne e Andronica predice l’avvento di nuovi Argonauti;[19] o a quello in cui Tasso vede Colombo come compimento dell’Ulisse dantesco;[20] oppure ai Lusiadi di Camões, che narrano il viaggio di Vasco de Gama verso l’India.[21] Poi, il discorso sull’uomo dall’interno dell’uomo, il pensiero del dubbio e dell’incertezza: i Saggi di Montaigne fanno il paio, in questo campo, con le più celebri meditazioni dei personaggi di Shakespeare, come Amleto. E’ lo spalancarsi della coscienza di sé che guarda al cosmo:
And indeed it goes so heavily with my disposition that this goodly frame, the earth, seems to me a sterile promontory; this most excellent canopy, the air—look you, this brave o’erhanging firmament, this majestical roof fretted with golden fire—why, it appears no other thing to me than a foul and pestilent congregation of vapors. What a piece of work is a man! How noble in reason, how infinite in faculty! In form and moving how express and admirable! In action how like an angel, in apprehension how like a god! The beauty of the world. The paragon of animals. And yet, to me, what is this quintessence of dust?
E invero la mia disposizione è così cupa che questa bella architettura, la terra, mi sembra uno sterile promontorio. Questo stupendo baldacchino, l’aria – guardate –, questo bel firmamento sospeso in alto, questo soffitto maestoso trapunto di fiamme d’oro – ebbene, non mi sembrano che una sporca e pestilenziale congrega di vapori. Che capolavoro è l’uomo, com’è nobile nella ragione, com’è infinito nelle sue facoltà, com’è preciso e ammirevole nella forma e nel movimento, com’è simile a un angelo nell’azione, com’è simile a un dio nell’intendimento: la bellezza del mondo, il paragone degli esseri animati. Eppure che cos’è per me questa quintessenza di polvere?[22]
C’è anche, nel Rinascimento, il desiderio e la ricerca della bellezza e dell’armonia, non solo come fatti esteriori ed estetici, ma come norme del vivere e dell’agire. Il Cortegiano di Castiglione è in realtà tutt’uno con l’architettura, la scultura, la pittura e la poesia del tempo. La perfezione formale riguarda la parola, l’apparenza, i sentimenti stessi. Accanto a essa, lo studio della realtà, nella politica come nell’anatomia, svela l’ordito di contraddizioni e malattie, prescrive azioni che tengano conto più del fine che dei mezzi per raggiungerlo. Per curare un essere umano, talvolta è necessario rompere l’armonia del suo corpo. Per conquistare e mantenere il potere, bisogna essere volpi e leoni insieme. E tuttavia, il Rinascimento è capace anche di suscitare profondi rinnovamenti etici e spirituali quali la Riforma, prima, e la Controriforma poi.
Il movimento verso gli stati nazionali, già iniziato nel tardo Medioevo, rompe l’unità politica dell’Europa occidentale che si era ristabilita in epoca carolingia. Il Sacro Romano Impero, attorno alle spoglie del quale si combatte accanitamente nel Cinquecento, comincia a divenire finzione e si riduce, comunque, alla Germania. Tuttavia, sul piano culturale, mentre le lingue nazionali si affermano con forza, un’identità europea resta centrale. Accanto al latino e al greco, l’uomo di cultura apprende adesso l’italiano, che è veicolo delle novità. Lo spostarsi dei movimenti artistici, letterari e scientifici dall’Italia verso il resto dell’Europa, e poi da un paese all’altro, è continuo, e personaggi come Poggio Bracciolini, Enea Silvio Piccolomini, Erasmo da Rotterdam, sono europei piuttosto che semplicemente italiani od olandesi. Lo stesso è vero di Lorenzo Valla, Pico della Mirandola, Marsilio Ficino, Leon Battista Alberti, Antonio de Nebrija, Juan Luis Vives, Guillaume Budé, François Rabelais, Nicola Cusano, Tommaso Moro. La scienza – Copernico, Tycho Brahe, Galileo, Keplero, più tardi Newton, si esprime in latino proprio perché questa lingua facilita la comunicazione al di sopra delle barriere nazionali. Persino la lirica è, pur nelle lingue di ciascun paese, europea: il petrarchismo domina in tutto il Continente. Il Rinascimento inaugura insomma quello che sarà per secoli, che è tuttora, il paradosso europeo (non dissimile peraltro da quello italiano): una identità culturale europea, sfaccettata ma riconoscibile come unitaria, e un Continente diviso in stati nazionali, in potenze spesso in guerra tra di loro – e in guerra per il predominio in Europa e oltremare, nei nuovi imperi coloniali.
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Questo paradosso dura nei secoli successivi, addirittura diventando più acuto. Le guerre per il predominio in Europa si fanno sempre più forti – Guerra dei Trent’Anni, Guerre di Successione Spagnola, Austriaca e Polacca, Guerre Napoleoniche, Guerra Franco-Tedesca – e sfociano in due immense Guerre Mondiali che sono state giustamente chiamate «Guerre Civili Europee». Lingue e letterature nazionali si affermano in tutto il Continente, ciascuna proclamando un’identità apparentemente esclusiva. Tuttavia, nei grandi movimenti si afferma invece un’identità molto più ampia che si può chiamare soltanto europea. Barocco, Illuminismo, Neo-Classicismo, Romanticismo, Decadentismo, Modernismo sono fenomeni culturali, letterari e di gusto propri di tutto il Continente. I libri pubblicati in un paese vengono presto letti, nell’originale o in traduzione, negli altri (Kant si nutre di empirismo inglese e di Burke; Goethe si dichiara elettrizzato alla lettura dei Promessi sposi), e talvolta è persino difficile dire in quale paese un movimento sia sorto per primo: per esempio, se il Romanticismo sia nato in Germania o in Inghilterra. Talaltra, come nel caso del Neoclassicismo, si assiste a sfasature interessanti: in Francia il gusto neoclassico si afferma già nel Seicento barocco con Racine, poi regna sovrano tra Sette e Ottocento con lo Stile Impero. In Inghilterra, l’Augustanesimo è fondamentalmente settecentesco. In Germania, Goethe diventa neoclassico dopo aver attraversato lo Sturm und Drang.
Nelle arti figurative e nella musica, dove il linguaggio non è legato alla lingua nazionale, il carattere europeo dei fenomeni è ancor più evidente. Chiese, palazzi e quadri seguono moduli stilistici del tutto simili dall’Italia alla Francia, dai paesi germanici alla Scandinavia, sino alla Russia di Pietro il Grande. Il Barocco musicale ha i suoi massimi esponenti in Bach e Haendel. Ma Bach sarebbe incomprensibile senza Vivaldi e altri compositori italiani, dei quali trascrisse numerosi brani, e Haendel ha passato quattro anni in Italia, a contatto con Corelli e Alessandro Scarlatti, e poi il resto della sua vita in Inghilterra.
Anche i miti sono internazionali: accanto a Faust, Don Giovanni e Amleto se ne affermano ora di nuovi: Robinson Crusoe, il Vecchio Marinaio, l’Olandese Volante, Frankenstein, Jeckyll e Hyde, il Capitano Nemo, Phileas Fogg. I canoni mutano da un movimento all’altro: se il Neoclassicismo ama Virgilio, il Romanticismo preferisce Shakespeare; se Petrarca viene messo a riposo, Dante si staglia supremo; e Baudelaire diventa il padre indiscusso di tutta la lirica moderna. Il romanzo borghese nasce in Inghilterra e in Francia nel Settecento, e in quelle due culture fiorisce rigoglioso per tutto il secolo successivo. Ma nell’Ottocento ecco il romanzo in Germania e in Russia, e persino in Italia. I grandi scrittori del Modernismo, con l’eccezione del parigino Proust e della londinese Virginia Woolf, provengono, poi, da luoghi per così dire periferici: Pound ed Eliot dall’America, Rilke e Kafka da Praga, Paul Valéry dal Mediterraneo e da Montpellier, Joyce da Dublino.
Nel Novecento, l’Europa si rompe due volte, volgendo la propria intelligenza contro se stessa e combattendo le proprie stesse radici con inaudita ferocia: contro il popolo ebraico, contro gli ideali cristiani e le Chiese, contro gli omosessuali e gli zingari, contro i nemici politici. Nulla sembra sopravvivere alla furia distruttiva, alla volontà di annientamento. Invece, terminata la Seconda Guerra Mondiale, una parte almeno del Continente ritrova le ragioni del viver comune. Vorrei far osservare qui un altro paradosso. Nella seconda metà del XX secolo, dopo le due guerre civili che l’hanno devastata e le hanno fatto perdere il dominio mondiale, l’Europa decide infine di divenire un’Unione: imperfetta e soggetta a crisi continue, ma con istituzioni comuni e un’identità comune. E’ la prima volta dall’epoca dell’impero carolingio, e l’unione non viene effettuata per mezzo della conquista, ma di comune accordo.
Il paradosso sta nel fatto che forse non si può più parlare di letteratura europea, l’orizzonte essendosi ormai spostato a comprendere tutto l’Occidente o addirittura l’intero pianeta. Si discute, oggi, di «world literature». Gli scrittori europei non hanno più il latino in comune, ma semmai l’inglese, come il resto del mondo. Non guardano più soltanto ai loro predecessori e compagni europei, ma anche, se non soprattutto, a quelli nord e sudamericani, arabi, indiani, cinesi, giapponesi, australiani. Aveva certo ragione Ernst Robert Curtius, il grande medievista ma anche il primo critico continentale a interpretare l’Ulisse di Joyce, quando, nel 1948, scriveva:
La letteratura europea abbraccia il medesimo periodo di tempo della cultura europea, comprende cioè circa ventisei secoli (calcolati da Omero a Goethe). Lo studioso che ne conosce direttamente solo sei o sette, e si rimette per tutti gli altri secoli ai manuali di consultazione, somiglia a quel turista che visita l’Italia solo dalle Alpi all’Arno e impara tutto il resto dal Baedeker…Solamente chi padroneggia tutte le epoche da Omero a Goethe può acquisire una visione globale della letteratura europea. Ma ciò non s’impara da alcun manuale, anche nel caso in cui ne esistesse uno simile. Può ottenere la cittadinanza dell’impero della letteratura europea solo chi abbia abitato molti anni in ciascuna delle sue province, passando più volte dall’una all’altra. Può dirsi europeo solo chi è divenuto civis Romanus.[23]
Oggi, però, la cittadinanza romana sembra allontanarsi nel passato, non è più sufficiente, e le parole di Curtius suonano strane: non abbiamo fatto in tempo a divenire cittadini romani – a far nostra la nozione di una letteratura europea – che già si è spalancato un nuovo orizzonte, infinitamente più vasto. Ben sessant’anni fa, nel 1952, Erich Auerbach pubblicava un saggio intitolato Philologie der Weltliteratur.[24] In un volume recente dedicato ai fondamenti critici della letteratura comparata «dall’Illuminismo europeo al presente globale», questo scritto di Auerbach fa parte, insieme alla Prefazione di Curtius alla Letteratura europea, di una sezione intitolata «Gli anni della crisi». Essa è seguita da altre due, «Gli anni della teoria» ed «Esplorazioni contemporanee», quest’ultima comprendente un saggio di Franco Moretti del 2006 intitolato Evolution, World-Systems, Weltliteratur.[25] Ancora più significativo è il fatto che uno almeno dei curatori di quel volume, David Damrosch, abbia dato vita tre anni dopo, e cioè nel 2012, a un libro che ha come prospettiva critica proprio la «world literature».[26] Se i problemi della letteratura europea difesa da Curtius erano, per così dire, una cittadinanza romana sempre più irrimediabilmente legata al passato e un’ignoranza sempre più diffusa delle lingue nazionali, i problemi maggiori della «world literature» sono che non esiste ancora nessuna identità di riferimento – nessuna cittadinanza «del mondo» – e che la conoscenza delle lingue (e delle letterature) è, su un orizzonte globale, ancora più limitata, talché si corre il rischio di esercitare la critica della «world literature» o su episodi geograficamente e culturalmente minimi oppure a partire da testi in traduzione (generalmente inglese), buttando a mare la filologia. Duemila anni fa, Greci e Romani cittadini dell’Impero di Roma avevano bisogno delle due loro lingue e della Biblioteca di Alessandria. Noi, terrestri «lost in translation», abitiamo ciascuno un piccolo angolo del pianeta: e la nostra Biblioteca rischia di essere quella di Borges.
Note
[1] Inni omerici, III, 250-51 e 290-91 (l’Europa equivale al Peloponneso).
[2] Diodoro Siculo, Bibliotheca historica, 11, 62.
[3] Plinio, Naturalis Historia, III, 1, 5.
[4] Pro Archia X 23
[5] Arte poetica (Ep. II, 3) 275-88.
[6] Istituzione oratoria X, 1. Deve essere questa la fonte del Petrarca nella lettera a Seneca (Familiares XXIV, 3), nella quale, rimandando a un brano di Plutarco del quale non si ha notizia, il poeta elabora un simile canone doppio, «comparato», delle due tradizioni: Omero e Virgilio, Platone e Aristotele vs. Varrone, Cicerone e Demostene, Seneca unico nel suo genere «morale». Plutarco, inventore della «biografia (e della storia) comparata» con le sue Vite parallele, rifiuta di esaminare comparativamente l’oratoria di Demostene e di Cicerone: Dem. III, 847.
[7] Pitica I, 21 ss; Eneide III 570 ss.
[8] Aulo Gellio, Notti attiche, XVII, x.
[9] Il Sublime, XII 4-5, a cura di G. Lombardo, Aesthetica, Palermo, 1987, pp. 41-42.
[10] Il Sublime, IX, 8-9
[11] Tacito, Annali, XV, 44, a cura di L. Pighetti, Milano, Mondadori, 2007.
[12] Tacito, Agricola, 30, trad. A.R. Barrile, Bologna, Zanichelli, 1964, integrata.
[13] Cfr. C.S. Lewis, L’immagine scartata. Il modello della cultura medievale, trad. it., Genova, Marietti, 1990.
[14] Ep. V, 1, ed. G.S.M. Walker, Sancti Columbani Opera, Dublin, School of Celtic Studies, Dublin Institute for Advanced Studies, 1957, p. 36.
[15] Beda, Storia degli Inglesi, II, i, 11, a cura di M. Lapidge, trad. P. Chiesa, Milano, Fondazione Valla-Mondadori, 2008, vol. I, pp. 178-79: «Talis … mihi videtur … uita hominum praesens in terris, ad comparationem eius quod nobis incertum est temporis, quale cum te residente ad caenam cum ducibus ac ministris tuis tempore brumali, accenso quidem foco in medio et calido effecto cenaculo, furentibus autem foris per omnia turbinibus hiemalium pluuiarum uel niuium, adueniens unus passerum domum citissime perualauerit; qui cum per unum ostium ingrediens mox per aliud exierit, ipso quidem tempore quo intus est hiemis tempestate non tangitur, sed tamen paruissimo spatio serenitatis ad momentum excurso, mox de hieme in hiemem regrediens tuis oculis elabitur. Ita haec uita hominum ad modicum apparet; quid autem sequatur, quidue praecesserit, prorsus ignoramus. Vnde, si haec noua doctrina certius aliquid adtulit, merito esse sequenda uidetur».
[16] Beda, Storia degli Inglesi, II, xiii, 3.
[17] Beda, Storia degli Inglesi, III, xxii, 2.
[18] E.R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, trad. it. a cura di R. Antonelli, Firenze, La Nuova Italia, 1992.
[19] Il Mondo Nuovo di Amerigo Vespucci, a cura di M. Pozzi, Edizioni dell’Orso, Alessandria 1993, pp. 60-61; Ludovico Ariosto, Orlando furioso, XXXIV, 70-92, e XV, 21-22
[20] Torquato Tasso, Gerusalemme liberata, XV 29-32.
[21] Luís de Camões, Os Lusíadas, V, 86-89.
[22] William Shakespeare, Hamlet, II ii 297-309: trad. it. A. Lombardo, Milano, Feltrinelli, 1995, p. 103.
[23] E.R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, pp. 20-21.
[24] In Weltliteratur: Festgabe für Fritz Strich zum 70. Geburtstag, hg. W. Muschg u. E. Staiger, Bern, Francke, 1952. Strich era stato l’autore di Goethe und die Weltliteratur (Francke, 1946), scritto, come il Mimesis di Auerbach, durante la guerra.
[25] D. Damrosch, N. Melas, M. Buthelezi, eds., The Princeton Sourcebook in Comparative Literature. From the European Enlightenment to the Global Present, Princeton and Oxford, Princeton University Press, 2009.
[26] T. D’haen, D. Damrosch, D. Kadir, eds., The Routledge Companion to World Literature, Abingdon-New York, Routledge, 2012.
[immagine: Vincenzo Maria Coronelli, Carta d’Europa (gm).]
interessante
Un’opera sulla letteratura europea scritta per la maggior parte da italiani? :\
Leggo sul primo numero dell’Unità ripescata -2015 – la pagina “Radar” (sensibilità alla cultura) .
L’utopia di riscrivere i classici.
Potremmo essere anche disattenti, cavalcare “ossuti ronzini”