a cura di Piero Sorrentino
[Queste due interviste sono la trascrizione – leggermente riveduta – di due conversazioni radiofoniche avute con Chiara Guidi, cofondatrice della Societas Raffaello Sanzio, andate in onda su Radio3 nel programma Zazà. La prima, del gennaio 2011, è sullo spettacolo Flatlandia, tratto dal testo omonimo di Edwin Abbott; la seconda, del marzo 2015, su Tifone di Joseph Conrad].
Su Flatlandia
Chiara Guidi sta portando in scena uno spettacolo tratto dalla “favola matematica” di Abbott, Flatlandia, che porta avanti il lavoro sul suono e sulla parola che è una delle cifre del lavoro della Socìetas Raffaello Sanzio. Quali sono le sfide che un testo come Flatlandia lancia non tanto al lettore quanto a un esecutore che lo porta in scena?
Affidare un testo come Flatlandia alla voce, rinunciando a ogni apparato scenografico, significa sostituire le corde del teatro con le corde vocali. Flatlandia doveva quindi essere anzitutto un oggetto – il libro – visto con gli occhi della voce, una voce che doveva portare con sé una idea di drammaturgia molto forte. Io ho iniziato a leggere questo testo (che a tratti è abbastanza noioso) andando avanti per diverse giornate nella speranza che il testo si fratturasse alla voce. Più che delle parole che pronunciavo, restavo in ascolto della mia voce. E a un certo punto la mia voce si è come sdoppiata, e ho creduto di poter assumere sui timbri e sui toni i piani e le prospettive della geometria, e lì è scattata l’idea di drammaturgia di questo testo: portare la voce su un palcoscenico, che doveva diventare la geometria dei piani di Flatlandia. Quindi gli avvicinamenti, gli allontanamenti, gli abbassamenti: e, soprattutto, questa geometria che può associarsi a tratti a una idea di visione artistica, perché la quarta dimensione è qualcosa di immaginabile oggi ma, a quei tempi, non concepibile.
C’è anche un aspetto della voce che si trasforma in eco. L’elemento tecnico dello spettacolo è senz’altro rilevante, ma svolge una funzione di servizio rispetto ai virtuosismi creati in scena senza il sostegno di distorsori o apparati elettronici.
Sì, la cosa interessante è poter restituire alla recitazione, nella nostra epoca, tutto quello che effettivamente un attore porta sulla scena: perché porta un corpo, ma non solo quello. Vedi, mentre io parlo con te – e guardo il microfono, la bottiglia, le persone che sono attorno, e qundi ho diversi pianti e fonti di percezione. Ho una tridimensionalità che, in questa epoca, viene restituita con le tecniche del cinema. E come può la voce stare al passo con la abilità tecnica del cinema, della musica? Lo sforzo di queste corde vocali è di creare una “illimitata tridimensionalità”, come scrive Abbott nel testo.
In un saggio raccolto ne La letteratura come menzogna, Manganelli – scrivendo di Flatlandia – dice: “La lettura di Flatlandia offre un intricato piacere, una felicità perplessa in cui riconosco tracce di delirio carrolliano, un insieme di candore e di ferocia, una gelida grazia astratta e, qualità più inquietante, un ininterrotto fluire di brividi, di fulminei spasmi, di ammicchi che si trasformano in criptiche allusioni ad altro”. Come si rappresenta un delirio carrolliano e – per tornare alla questione di prima – come si fa a rappresentare un mondo bidimensionale in uno spazio teatrale che è tridimensionale e prospettico?
Spesso, pensando a questo testo, mi tornava alla mente proprio la caduta di Alice nel buco. Perché è una caduta lenta: la bambina riesce a fare un sacco di cose mentre cade. Però quel buco raccoglie un salto nel vuoto che è lo stesso salto nel vuoto che un artista può fare quando è consapevole del limite. Io credo di poter recitare Flatlandia in questi termini perché so che questo è il limite della mia voce. Non è un pregio, è un limite. Non posso fare più di così (e magari c’è qualcun altro che potrebbe fare di più). Una visione dell’arte come continuo superamento di un limite, ma anche di una consapevolezza di un limite, di una impossibilità a fare tutto. L’attore non può fare tutto. Deve però trovare un’idea per poter entrare con la propria voce nel testo per fabbricarne le parole. Per me la sfida è proprio questa: fabbricare le parole. Ogni parola va costruita (con dei toni, dei timbri, delle altezze, delle intensità) restando nel mondo della geometria.
Nel mondo della Socìetas Raffaello Sanzio, invece, la ricerca sul suono vi accompagna da sempre. Da qualche parte lei ha detto che non è rilevante il testo quanto la sua intensità emotiva. Che intende?
È una considerazione che nasce da una esperienza pratica, ma credo che questo capiti a ognuno di noi. Quando ascoltiamo qualcosa, quella cosa non ha in sé un discorso, non sta portando avanti un discorso. Tuttavia, quella musica, quel suono ci attrae: può essere una porta che cigola, una sedia che cade, può essere un vero e proprio brano musicale – classico, contemporaneo – Di qualsiasi cosa si tratti, c’è qualcosa che a un certo punto ci seduce. Però questo suono scompare (il suono, per sua natura, se ne va sempre), fugge dai nostri orecchi, si allontana: e per questo ci chiede di cercarlo, in una ricerca continua, costante, quotidiana, che può consentirci solo di approssimarci, senza mai vederlo. La cosa interessante è che quando ascoltiamo, riusciamo a vedere. Per Flatlandia c’era dunque la possibilità di creare un mondo dello sguardo – il teatro appunto è il luogo dello sguardo – esclusivamente per mezzo dell’udito.
E come può la musica diventare un modo di vedere lo spazio scenico? Come fa il teatro a fare i conti con un’arte che può far solo sentire?
Credo che occorra mettere a fuoco la parola organismo. Ogni spettacolo inaugura un linguaggio. Ogni linguaggio determina uno spazio d’azione. E lo spazio è la sola cosa che accomuna tutte le arti. Quando mi attrae una scultura, una pittura, un bravo cantante, un musicista, la cosa che che mi ci fa cadere dentro è lo spazio che quella cosa crea. C’è quindi, dentro quello spazio, una tale organicità che mi permette di assumere tutto il linguaggio, tutte le regole e tutta la grammatica che quello spazio determina. E credo che il teatro e il suono, da questo punto di vista, siano il primo ambito nel quale poter trovare il respiro per camminarci dentro.
Su Tifone
Come e perché ha deciso di occuparsi di Tifone di Conrad, anche alla luce del fatto che una delle direttrici del suo lavoro di ricerca consiste non tanto nell’avere un testo, ma una voce che accompagna l’ascoltatore lungo una specie di linea emotiva (dunque il testo come pretesto), e però contemporaneamente con una ricerca attenta del valore letterario dei testi (sto pensando a quel lavoro strepitoso fatto su Flatlandia di Abbott)?
Il titolo Tifone è già, di per sé, un racconto. Se io metto in scena il tifone, c’è già una linea narrativa precisa e tutta condensata in questa parola. Quindi, il titolo già mi dava la possibilità di sospendere la preoccupazione di una coerenza narrativa. La storia di Tifone in realtà è molto semplice, per cui io potevo azzardare – un azzardo che solo la ricerca può conoscere, che solo l’esperienza può conoscere – di mettere al primo posto il suono della voce, con la pretesa appunto di dare al suono della voce la responsabilità di ritrovare quella trama che sospendevo, e che il titolo in qualche modo mi aiutava a rivendicare. Quindi in questa parola, Tifone (che è già una parola onomatopeica e che contiene la parola phonè, che si contrappone al logos) mi permetteva di sottolineare – e di assumere, anche – il punto di vista del capitano Mac Whirr, il quale ribadisce che “non tutto è scritto nei libri”. Questo libro che prendo in mano – Tifone, scritto da Conrad, che prima di tutto è un marinaio, per il quale l’esperienza del mare non è qualcosa di oggettivo, staccato da sé, ma è dentro di sé – contiene una necessità del mare: a che serve dare troppe spiegazioni sul mare? È una parola che rimanda all’oralità. Per questo io cerco una voce che rimandi al suono e alla musica: perché ascoltando un suono io posso comunque vedere, posso comunque comprendere una trama, e Conrad, avendo fatto un’esperienza diretta del mare, con la parola “mare” è come se quel mare lo portasse dentro. In fondo, se noi chiediamo a una persona dotata di sola cultura orale di dirci che cos’è un albero, quella persona ci fissa e dice “Ma come? Che cos’è un albero? Tu vallo a toccare, vallo a vedere”. E questo toccare e vedere non sono altro che il toccare e il vedere della voce, perché la voce è il respiro di un corpo che esce da questa bocca aperta; e questa bocca aperta, la sua azione, nell’antichità era indicata con la parola Khàskō, cioè Caos. Questo è molto affascinante, il fatto cioè che il racconto in fondo è un caos che ci aspetta, che ci attende: attende per poter sentire, dentro questo caos, un ordine che nasce dalla propria sensibilità dell’ascolto e dalla propria singolarità di poter dire che cosa sento di im-potenza che contiene questo racconto, e che il racconto non è tutto scritto: attende chi legge.
Il caos della voce, il caos del tifone e la responsabilità della voce: corde vocali che si mettono nude in scena, che non hanno altro che sé stesse. Vorrei restare ancora su questo punto. Per uscire, la voce ha bisogno di parole – certo, possiamo produrrre anche solo una lallazione di suoni inarticolati, ma la parola resta comunque uno scalino, un gradino. Qual è il punto di equilibrio tra la manifestazione della voce e il significato della parola? Come lo cerca? Come lo trova?
Quello che dici è vero. In realtà la voce non fa altro che salvare la parola. La salva. La parola va salvata nel racconto. Questa parola va ritrovata in tutta la sua potenza del possibile, della possibilità di dire, perché è possibile anche non dire, e in questa forza che si trova tra il fare e il non fare, il dire e il non dire, sta tutto il desiderio e l’attesa del desiderare. E quindi questa parola che la voce semplicemente veicola è in una indissolubile unione con il suono, e questo suono ha la forza di passare attraverso la carne di un corpo, che vede la testa e che scende nel cuore. Ed è questo cuore e questa testa, unite insieme.
Questo lavoro su Tifone viene da un progetto che si chiama Mantica – Esercizi di voce umana, un festival ideato in una prospettiva non solo banalmente festivaliera ma strutturato per mezzo di un programma che ha come fuoco la voce intesa come potere espressivo. Ci racconta qualcosa di Mantica (che riecheggia già nel nome il mantice, dunque qualcosa che soffia, che emette) e che ha questa idea della voce non come elemento tecnico o virtuoso dell’attore ma come aspetto che serve a creare uno spazio scenico all’interno del quale collocarsi?
Mantica in effetti rimanda al verbo spingere, soffiare, e questa parola evidenzia ciò che a sua volta sottende al respiro: e il respiro non lo si vede se non lo si drammatizza. Proprio come il tifone, che è la drammatizzazione di un vento, perché diversamente il vento non ha voce se non diventa forte e non inizia sbattere la nave, a levare le onde, mugghiare gli alberi…e quindi questo respiro che ancora prima della voce è anche il respiro che unisce le arti e unisce la voce delle arti. Perché Mantica in realtà si avvicina molto alla ricerca che conduco, che è quella di entrare in contatto (e in conflitto, direi) con la musica: adottare la musica come paradigma per vedere il teatro, benché consapevole di non essere una musicista, e che il mio problema è una visione di composizione dell’opera, una composizione che deve rimanere aperta e deve continuare a porre domande. Per questo Mantica si rivolge alle persone chiedendo loro di entrare dentro e il più vicino possibile a contatto con l’artista (ed ecco il perché dei laboratori aperti al pubblico).
Durante una edizione di Mantica è avvenuto questo mio incontro con il pianista Fabrizio Ottaviucci col quale ho scritto poi, lavorando in modo separato Tifone, adottando insomma come metodo di lavoro esattamente quello che accade nel tifone: il tifone allontana le persone tra loro. Ci coglie impreparati proprio perché ci separa. Non è possibile, nel tifone, stare vicini. E quindi abbiamo pensato di registrare dei brani – tratti con la mia voce dal testo – che passavo a lui, e da questo testo (ascoltato dunque in seconda battuta) Fabrizio componeva, lavorando quindi separati. Un’altra cosa molto interessante di Tifone, della sua logica (e in questo senso può avvicinarsi anche a Mantica) è che questa drammatizzazione del vento ti porta ad aggrapparti a delle cose che restano solitamente invisibili. Ad esempio, per salvarsi i marinai di Conrad hanno bisogno di aggrapparsi a un palo o a un ferro: oggetti molto anonimi, così vicini da non poter neppure essere mai visti o raccontati. Una filosofia dell’ “immediatamente vicino” che mi affascina molto. È la chiave del racconto e della filosofia intesa come esercizio di vita: un oggetto che vedi perché ti è vicino, e attende da te solo la liberazione di una voce. Quell’oggetto, quel palo, ti salva dal non cadere in mare, ma quell’oggetto ha una consistenza fisica che va analizzata e che osservata da vicino. Ecco, su questo io sento in questa fase del mio lavoro una grandissima attenzione, una aderenza a una materia visiva che mi permette di condizionare anche ritmicamente e musicalmente la voce, e di trovare timbri e toni sempre più articolati, sempre più molecolari: per poter avvicinare la voce al respiro della vita.
La musica, dunque, quasi come una lente attraverso la quale guardare l’azione teatrale. Mi interesserebbe sapere qualcosa anche sulla questione dell’acustica dei luoghi all’interno dei quali si rappresentano lavori di questo tipo.
La relazione infatti non è solo col pianista, ma anche con il fonico, che deve sapere esattamente gli hertz dei bassi che cerco. È comunque molto interessante quello che chiedi. La voce vive in uno spazio. Il teatro vive in uno spazio. Noi non mettiamo la scenografia dentro un cubo (cioè il teatro). Noi dobbiamo andare a incontrare i fantasmi che abitano un teatro che accoglie il tuo lavoro, e su questo incontro dobbiamo entrare in dialogo, perché non esisterebbe musica, o suono, se non si sapesse ascoltare. È necessario saper ascoltare per poter suonare. Credo che prima di tutto vada ascoltato il luogo che ti riceve. E se il luogo è difficile da domare, questo ti rimanda immediatamente al teatro: che è una bestia difficilissima da domare.
[Immagine: Societas Raffaello Sanzio, Tifone]