[Le prime risposte al questionario si possono leggere qui e nei post a seguire.]
Paolo Gervasi
1. Partiamo dalla domanda del sondaggio di «Orlando»: «Chi tra gli scrittori che oggi hanno tra i quarantanove e i sessantanove anni continueremo a leggere in futuro?». Tu come risponderesti, e per quali motivi? Ti chiederei anche di spiegare cosa, secondo te, inciderà di più per il loro successo.
Si tratta di una domanda alla quale si potrebbe rispondere in modi molto diversi, a seconda del criterio di persistenza che si prende in considerazione. Esiste una frattura profonda, infatti, tra le scelte e le predilezioni del pubblico, catturate e valorizzate dal mercato; un certo canone che definirei “di attualità”, provvisorio e continuamente rimodulato, che nasce dalla contrattazione, dall’accordo, tra le scelte fatte in alcune prestigiose sedi editoriali e le indicazioni convergenti della critica e di un gruppo di lettori e lettrici qualificati; e infine le proposte sostenute da agguerrite minoranze, percepite come tendenze sperimentali, e non ancora promosse dalle forme di consenso generalizzato che permettono di superare la soglia critica dell’attenzione.
Nella prospettiva del pubblico, rafforzata dai meccanismi di ripetizione del mercato, la letteratura del futuro potrebbe essere quella di, faccio nomi del tutto tipologici, potenzialmente intercambiabili con altri, Camilleri, Baricco, o Elena Ferrante. Nella prospettiva del canone nel quale si saldano prestigio editoriale e riconoscimento critico-accademico i nomi, più individuabili ma che costituiscono comunque una sineddoche, potrebbero essere quelli di Walter Siti, Antonio Moresco, Valerio Magrelli. Se invece dovessi dire quali sono le opere che vorrei si leggessero in futuro, alle quali va il mio sostegno di lettore militante, farei i nomi di Gabriele Frasca, per il suo lavoro sul linguaggio, per la ricerca transmediale, per la costruzione di mondi nei quali specchiare il nostro mondo; Aldo Busi, forse l’ultimo scrittore in grado di stilizzare l’esperienza umana in tutte le sue articolazioni; Michele Mari, per la capacità quasi inaudita di rappresentare, lavorando spesso sugli stereotipi legati ai generi, le fome essenziali dell’emozione; Emanuele Trevi, per la raffinata riattivazione della tradizione saggistico-narrativa italiana. Per la poesia citerei almeno la potenza scandalosamente vitale dei versi di Mariangela Gualtieri. Non certo nomi sconosciuti, ma forse autori/autrici minori in senso deleuziano, la cui persistenza nell’orizzonte critico, considerati i rapporti di forza attuali, è tutt’altro che scontata. Sia chiaro: si possono individuare valori letterari su tutti e tre i livelli che ho indicato (perfino nel primo, quello orientato dal favore del pubblico e dalla cattura del mercato), e la stratificazione non è data tanto dalla qualità assoluta di autori e autrici, quanto dai campi di forza nei quali si muovono. Il fattore che segna questo momento della storia culturale è proprio la difficoltà di condividere criteri tendenzialmente stabili, e argomentabili, secondo i quali affermare in modo univoco l’esistenza del valore.
C’è un elemento di fallacia strutturale nella risposta a questa domanda, che non riguarda soltanto la difficoltà troppo umana di prevedere il futuro (cui si aggiunge la difficoltà individuale di costruirsi una mappatura esaustiva della produzione letteraria), ma appunto la necessità preliminare di ridiscutere in profondità i processi di formazione del canone, di individuazione del valore, di costituzione delle istituzioni letterarie, di amministrazione delle politiche culturali. Oltre, naturalmente, alla necessità per rispondere di pensare il destino della letteratura all’interno di un sistema comunicativo sempre più complesso, entro il quale è sempre più difficile (e sempre meno interessante e produttivo) operare dei tagli, delle partizioni che consentano di distinguere ciò che è “letteratura” da ciò che non lo è. È verosimile che quello che ci troveremo a leggere in futuro possa non essere più “letteratura”, che è una pratica sociale e storica, e in quanto tale può essere prossima all’esaurimento della sua forza conoscitiva.
Naturalmente la critica dovrà dotarsi di strumenti per continuare a scegliere anche dentro questo nuovo contesto, per continuare a indicare quali sono le produzioni dell’immaginario significative per l’esistenza umana. Ma devo confessare che non mi dispererei se all’univocità spesso repressiva e normativa del canone, fondata sull’egemonia degli ambienti critico-accademici, si sostituissero strategie mobili, parziali, provvisorie di individuazione del valore, se si potesse arrivare alla definizione di canoni plurali, in grado di includere le tante e diverse pratiche di lettura che si stanno affermando, e che stanno inevitabilmente erodendo l’egemonia delle istituzioni tradizionali.
2. Dove hai sentito parlare per la prima volta di questi autori, e da chi?
Sono entrato in contatto con quasi tutti gli scrittori e le scrittrici citati attraverso gli organi di informazione culturale, e in qualche caso attraverso le conversazioni e il passaparola gravitanti intorno ai corsi universitari. Di Gabriele Frasca avevo soltanto sentito parlare, il giorno in cui è entrato nella redazione di una casa editrice per la quale stavo facendo un tirocinio, e mi ha donato una conversazione sulla quale poi hanno edificato le letture successive. La parola di Mariangela Gualtieri, invece, non si può incontrare in nessun altro luogo che non sia l’ascolto.
3. Secondo te quale genere letterario è destinato ad avere fortuna nei prossimi anni? Poesia, romanzo, scritture ibride?
Sono convinto che il romanzo, inteso come il genere letterario consustanziale all’ascesa e al declino della borghesia occidentale, stia vivendo una sorta di esistenza postuma, assediato com’è dalla concorrenza di una narratività diffusa e pervasiva, dall’affermarsi di una potentissima “industria del racconto” in grado di dispiegare ingenti risorse creative e produttive. Non a caso il romanzo riesce a prolungare i suoi motivi di interesse, e di successo, grazie alle contaminazioni con altri generi contigui, e in particolare grazie ad alcuni camuffamenti documentaristici e cronachistici. Oppure sopravvive in alcune sue parossistiche, smisurate deformazioni, come nel caso del “romanzo massimalista” del quale ha parlato recentemente Stefano Ercolino. La poesia, al contrario, ha una sua vitalità persistente, ostinata, più immune alle increspature di superficie del sistema comunicativo, anche perché protetta da un’esistenza quasi segreta, clandestina, che la tiene al riparo dalle determinazioni più violente e invasive del mercato. Al di là delle grandi personalità, dei nomi accreditati, il movimento della poesia italiana produce risultati sorprendenti, conserva una capacità di dire, di mettere in forma, aspetti del vivente e dell’esistente che alla narrativa, nonostante la sua programmatica attenzione al presente, restano precluse.
Detto questo, sono convinto che la sopravvivenza della funzione conoscitiva della scrittura sia possibile solo nell’ibridazione: non soltanto nell’ibridazione tra i generi, ma in una forma di ibridazione profonda, concettuale, tra linguaggi e sistemi di segni, e soprattutto tra media diversi. La scrittura deve trovare il modo di stare dentro il flusso semiotico che struttura il presente, e da quel flusso tentare di estrarre ancora segmenti di senso, costellazioni di significati.
4. Nell’arco di un decennio possono essere pubblicati libri che entrano a far parte di uno stesso dibattito critico, e che però sono stati scritti da persone nate in momenti molto diversi.
Quali autori consideri significativi – rilevanti dal punto di vista delle categorie critiche con le quali interpreti la letteratura – fra quelli che hanno pubblicato libri fra il 1990 e il 2015?
Direi che autori e autrici che hanno pubblicato opere significative nel periodo indicato coincidono con quelli nominati rispondendo alla prima domanda: Siti, Moresco, Magrelli, Busi, Mari, Trevi, Gualtieri, Frasca, considerato sia per la poesia, sia per la prosa, e sia per la saggistica: sono convinto che il suo La lettera che muore (recentemente ripubblicato da Luca Sossella in versione aumentata, con titolo e sottotitolo invertiti, La letteratura nel reticolo mediale. La lettera che muore), sia tra le opere più importanti scritte in Italia per la comprensione non solo della storia letteraria occidentale, ma di quello che le parole fanno ai nostri corpi e alle nostre menti, e quindi di quello che si può ancora fare attraverso la pratica artistica (ben al di là della “letteratura”). E a questo proposito, direi che tra le opere significative pubblicate nell’arco di tempo indicato siano da includere anche quelle di saggistica e di critica. Penso ai libri di Guido Mazzoni, di Andrea Cortellessa, di Alberto Casadei, dello stesso Trevi, e a quelli di Daniele Giglioli, oppure al libro recente di un filosofo, Senza padri di Paolo Godani, che si serve in profondità delle rappresentazioni letterarie. Libri che vanno ben al di là della partizione rigidamente disciplinare della “critica letteraria”, che sono pensati come scritture, nati spesso a stretto contatto con le opere più propriamente creative, concepite negli stessi ambienti e con ambizioni e prospettive conoscitive simili. Questi lavori si incrociano ancora suggestivamente con il lavoro di maestri novecenteschi: faccio il nome di Roberto Calasso, che continua a pubblicare libri importanti, pur evocando un modo visceralmente novecentesco di fare cultura. Ma penso anche a un uomo anagraficamente novecentesco, Alberto Abruzzese, che appartiene alla generazione dei “maestri”, ma che vede il presente e pensa il futuro con una lucidità e con una radicalità rare nel panorama intellettuale italiano, applicando alle produzioni dell’immaginario una critica integrale, che non è più critica letteraria ma diventa critica della vita.
Con questo non voglio screditare il lavoro degli autori e delle autrici più giovani, che hanno tentato esperimenti ambiziosi, hanno avuto riconoscimenti importanti, e sono già pienamente istallati nel sistema culturale: penso a Giorgio Vasta, Nicola Lagioia, Giorgio Falco, e con loro a molti altri. Ma si tratta ancora di valori in via di contrattazione, di scritture delle quali è difficile, data la prossimità in cui agiscono, descrivere e vedere la fisionomia. Per quanto riguarda l’attività delle generazioni più vicine alla mia, torno a ribadire che soprattutto in poesia sono attivi autori e autrici, anche giovanissimi, che testimoniano di una grande vitalità: evito di fare elenchi di nomi soprattutto perché credo che, più delle individualità, in questo senso sia importante il movimento, la presenza di un discorso trasversale, di una dizione aggregata, di una galassia.
5. Passiamo a considerare i luoghi (giornali, riviste specializzate, riviste online, siti e blog; ma anche luoghi fisici come scuole, università, biblioteche, presentazioni di libri) e i modi in cui i libri vengono discussi e commentati oggi. Tendi a pensare al campo letterario come a uno spazio fluido, in cui critica, pubblico, industria dialogano e collaborano (talvolta anche in competizione per l’egemonia) – o a separare diversi campi d’influenza e di azione? Che tipo di interazione c’è (se trovi che ci sia un’interazione)?
La ristrutturazione del sistema della comunicazione culturale determinata, a partire dal secondo Novecento, dalla nascita anche in Italia di una industria culturale, ha innescato una qualche permeabilità nelle pratiche e nelle funzioni, e una certa contaminazione tra i diversi circuiti di comunicazione del libro e della scrittura. L’ambiente digitale poi ha contribuito ulteriormente a riposizionare alcune funzioni, a dissolvere confini e frontiere, favorendo l’interattività tra produzione e fruizione. L’impressione tuttavia è che la fluidità del campo non abbia generato circuiti comunicativi virtuosi, anzi, sia stata piuttosto confusiva, e non il frutto di ibridazione positiva. La permeabilità ha abilitato pratiche opache, indulgenze e connivenze, più che meccanismi di collaborazione. E d’altro canto, come dicevo rispondendo alla prima domanda, nonostante la permutabilità di ruoli e funzioni esistono dinamiche che separano ancora rigidamente, e in certi casi più che in passato, la ricerca accademica, il lavoro editoriale, e la comunicazione letteraria più frequentata dal pubblico. L’accademia è spesso impermeabile ai fermenti circolanti, alla letteratura che accade, e se si occupa di produzioni contemporanee lo fa all’interno di griglie disciplinari piuttosto rigide. Sembra essersi interrotto, anche, quel meccanismo di comunicazione che ancora negli anni Ottanta permetteva alla ricerca avanzata di entrare in alcuni circuiti editoriali di alta divulgazione (si pensi alla Piccola Biblioteca Einaudi, o alla saggistica del Saggiatore, tra i molti esempi possibili). Il risultato quindi è che si creano ambienti rigidamente separati, ognuno dei quali segue le proprie linee di ricerca, i proprio metodi, e raggiunge i propri risultati. La comunicazione tra questi ambiti resta molto difficile, e anche per chi opera nel campo letterario è complicato costruire una reputazione trasversale, in cui l’autorevolezza possa passare da un dominio all’altro: chi è autorevole all’università spesso è sconosciuto al pubblico, chi anima i blog letterari è ai margini del sistema universitario, e scrivere un libro di analisi critica sperimentale, o divulgativo, può essere addirittura penalizzante nell’ambito della valutazione universitaria (vedere per credere alcuni giudizi del recente concosrso di abilitazione nazionale).
Anche in questo senso tuttavia qualcosa si sta muovendo, ci sono iniziative che puntano a unificare i circuiti, e a costruire una permeabilità virtuosa tra i vari settori della comunicazione letteraria: del resto si tratta di un processo ineludibile. I ricercatori e le ricercatrici cominciano a riflettere su come stare in rete, e l’editoria cerca di catturare e mettere a valore tanto l’autorevolezza accademica, quanto l’autorevolezza cresciuta lontano dai circuiti tradizionali.
6) Quali sono le personalità e i luoghi della critica che consideri più seri e affidabili?
Nonostante i problemi che ho descritto sopra, e a costo di espormi a una certa schizofrenia, io direi che in Italia c’è una produzione critica diffusa di ottimo livello. Le riviste specialistiche, al netto di alcune farraggini cui le costringe la burocrazia universitaria, e di alcuni cedimenti fisiologici, mantengono una funzione importante, e soprattutto, attraverso la migrazione verso il digitale, possono sperimentare spazi di libertà e forme creative di comunicazione della ricerca. Il dibattito in rete è sempre vivace e sorprendentemente partecipato: i blog come LPLC, Nazione Indiana, Alfabeta2, Carmilla, Doppiozero, sono luoghi affidabili e produttivi che ormai hanno raggiunto un’autorevolezza indiscutibile.
Per quanto riguarda le personalità, ho già fatto qualche nome rispondendo alla quarta domanda, e non ne aggiungerei altri, anche perché mi pare che uno dei movimenti in atto nel mondo della ricerca e della critica sia proprio l’esaurimento del sistema delle “grandi personalità”. Dopo gli ultimi maestri del Novecento, alcuni ancora attivi, non sembra possibile che possa emergere un’altra generazione in grado semplicemente di sostituirli, di rimpiazzare grandi individualità critiche con altre grandi individualità critiche. La mia impressione è che si vada invece verso una ricerca qualitativamente buona, ma diffusa, distribuita, e soprattutto collettiva, orientata cioè da elaborazioni di gruppo, da pratiche collaborative i cui risultati sono il frutto di convergenze e aggregazioni.
A causa di un processo cui contribuisce sostanzialmente il precariato strutturale del mondo universitario, e dell’industria culturale, nessuno, a prescindere dalla preparazione, che spesso è mediamente alta, è più nelle condizioni di accumulare il capitale culturale, per dirla con Bourdieu, che consente di conquistare spazi di egemonia, di acquisire autorevolezza, e di accreditarsi come “maestro”. C’è invece la possibilità di costruire pratiche di indagine e di ricerca diffuse, distribuite, orizzontali, che possono perfino emanciparsi da alcuni vizi di forma del sistema verticale fondato sull’autorità dei maestri, consegnandosi a un liberatorio anonimato. Certo, questo sistema non manca di favorire particolarismi, prossimità ambigue, solidarietà ambientali, frammentazioni, contrapposizioni su base geografica (cosa che del resto è sempre accaduta nella società letteraria). E non manca nemmeno di dare un’impressione depressiva di allentamento della tensione critica, di calo generale della qualità e di mancanza di autorevolezza. Ma non mi sento di invocare una restaurazione dei saldi principi di autorità. Si tratta di imparare a convivere con una mutazione del paesaggio, dove allo svettare di cime solitarie, separate spesso da desolanti pianure, si sostituisce un orizzonte morfologicamente più omogeneo, ma più dinamico, partecipato, frastagliato e mutevole.
Giacomo Giossi
1. Partiamo dalla domanda del sondaggio di «Orlando»: «Chi tra gli scrittori che oggi hanno tra i quarantanove e i sessantanove anni continueremo a leggere in futuro?». Tu come risponderesti, e per quali motivi? Ti chiederei anche di spiegare cosa, secondo te, inciderà di più per il loro successo.
Non esistono nomi da tirar fuori come conigli da un cilindro e in generale le risposte date al sondaggio sono sostanzialmente tutte condivisibili. Nominare un autore che si leggerà nel futuro significa in realtà nominarne uno che si sta leggendo ora, in questo momento. Messo alle strette direi nessuno, anzi spero nessuno di loro e non per mancanza di qualità e di proposta, più che altro per poter mantenere viva quella zona d’ignoranza che da sempre si perpetua attorno alla produzione editoriale e che permette a qualche autore e a qualche suo libro di svicolare dal dibattito stretto e strenuo per ricomparire riossigenato come per magia qualche anno dopo in una veste totalmente rinnovata, sotto una forma imprevista e chiarificatrice. Non vedo conigli, ma ci spero quindi. Vedo in generale un restringimento dell’immaginario letterario, un obbligo a lavorare certosinamente attorno ad un vuoto, un buco ostile dentro cui concentrare ogni spazio e possibilità sperando che da qualche parte prima o poi che tutto sbuchi. Non sono affatto convinto che Michele Mari, Walter Siti e Antonio Moresco saranno letti ancora in futuro perché già oggi non lo sono, non sono voci a cui viene data rilevanza (purtroppo), così come la fragilità di autori come Erri De Luca, Elena Ferrante o Alessandro Baricco non sembra garantire loro una vera resistenza al tempo. È un discorso piatto perché il futuro lo si può immaginare solo come un orizzonte e non come una sfera, tanto più in un periodo in cui la centralità della letteratura è ai minimi termini. Non resta che farsi sorprendere.
2) Dove hai sentito parlare per la prima volta di questi autori, e da chi?
Leggendoli o leggendone su riviste e giornali e successivamente sul web. Di certo non c’è molto di confortante se penso che tutto il ciclo che mi portava alla conoscenza di un autore dalla libreria alla rivista all’università è oggi ridotto in fin di vita. Nonostante l’uso spesso arcaico che si fa del web a proposito di letteratura non abbiamo altro da fare che attraversare questa landa selvaggia (anche se a tratti pare più desolata che altro) e lasciandosi contaminare senza paura che l’orrore ci assalga.
3) Secondo te quale genere letterario è destinato ad avere fortuna nei prossimi anni? Poesia, romanzo, scritture ibride?
Cosa possa essere intesa per fortuna è molto difficile dirlo. Il dibattito è generalmente concentrato sui romanzi e dai romanzi si cercano risposte sufficientemente organiche e organizzate. Tuttavia è probabilmente la poesia a ogni suo livello di scrittura e di lettura che domina realmente la scena, spesso in maniera totalmente dozzinale, non c’è dubbio, ma rimane come una tensione necessaria, una pulsione obbligata. Quasi una porta d’accesso per chiunque si avvicini o cerchi nella letteratura uno spazio, anche minimo. Il risultato non potrà che essere quindi più che ibrido contaminato. La letteratura è troppo piccola e le finestre ormai spalancate per non tenere conto di un mondo estraneo ma curioso che la circonda e che andrà pezzo a pezzo a contaminarla. Sperando in questo modo che adegui le sue dimensioni alla nostra futura contemporaneità.
4) Nell’arco di un decennio possono essere pubblicati libri che entrano a far parte di uno stesso dibattito critico, e che però sono stati scritti da persone nate in momenti molto diversi.
Quali autori consideri significativi – rilevanti dal punto di vista delle categorie critiche con le quali interpreti la letteratura – fra quelli che hanno pubblicato libri fra il 1990 e il 2015?
Direi dividendo proprio lo spazio in due tronconi: Gianni Celati, Francesco Biamonti, Sebastiano Vassalli, Daniele Del Giudice, Claudio Piersanti, Aldo Busi, Maurizio Salabelle, Claudio Magris Franco Cordelli e aggiungerei anche Cesare Garboli di Pianura proibita e de Il gioco segreto. Poi Antonio Moresco, Giorgio Falco, Francesco Pecoraro, Walter Siti, Boris Pahor.
5) Passiamo a considerare i luoghi (giornali, riviste specializzate, riviste online, siti e blog; ma anche luoghi fisici come scuole, università, biblioteche, presentazioni di libri) e i modi in cui i libri vengono discussi e commentati oggi. Tendi a pensare al campo letterario come a uno spazio fluido, in cui critica, pubblico, industria dialogano e collaborano (talvolta anche in competizione per l’egemonia) – o a separare diversi campi d’influenza e di azione? Che tipo di interazione c’è (se trovi che ci sia un’interazione)?
Ormai il campo è fluido, anche se permane un arroccamento (anche giustificato) di maniera, tuttavia la cosa più singolare è che la fluidità è vista come possibilità esclusiva di entrare in contatto con altri mondi per poi arroccarsi in questi e non come uno spazio veramente aperto. Lo stare obbligherebbe ad una fluidità assoluta, ma si verifica l’opposto, ossia la necessità di permanere e di definirsi oltre un tempo che è ormai perso. L’egemonia se è stata un’ambizione è oggi pura ridicolaggine, lo stadio è ridotto ad un campetto di periferia se non al cortile di casa. L’interazione, la condivisione e la capacità di diversificare la propria visione generando un poco di complessità è l’unica via possibile per tenere in vita (altro che egemonizzare) un mondo che rischia di scomparire con tutto il suo carico di ricchezza e profondità intellettuale oggi quanto mai necessaria, decisamente e urgentemente più di prima.
6) Quali sono le personalità e i luoghi della critica che consideri più seri e affidabili?
La critica prima ancora che perdere serietà e affidabilità ha perso i luoghi e questo ha in parte delegittimato il suo lavoro rendendolo o eccessivamente autoreferenziale o banalmente piatto. Perché questi luoghi siano stati persi è evidente almeno nelle responsabilità di chi lo ha permesso e di chi lo ha avallato. Di certo oggi c’è poco da contestare o da reclamare, la critica vive il proprio deserto tentando di coltivare un oasi che alle volte appare rigenerante altre volte capace di espandersi, ma spesso deprimentemente circondata da un deserto infinito che qualcuno prova ad attraversare, perdendosi. E non per questo va biasimato. Di certo tutte le personalità sono chiamate ad uno sforzo imprevisto quanto urgente. L’industria e l’indotto editoriale sta scomparendo e la lettura si sta trasformando in una sorta di utile esigenza emozionale priva di visione. La critica deve darsi un corpo più resistente e reattivo e non basta più che faccia bene il proprio mestiere, è necessario che provi ad immaginarlo.
Lara Marrama
1. Partiamo dalla domanda del sondaggio di «Orlando»: «Chi tra gli scrittori che oggi hanno tra i quarantanove e i sessantanove anni continueremo a leggere in futuro?». Tu come risponderesti, e per quali motivi? Ti chiederei anche di spiegare cosa, secondo te, inciderà di più per il loro successo.
Continueremo a leggere, o almeno mi auguro che lo faremo, l’opera di autori come Busi e Siti. I motivi che mi hanno portato a dare questa risposta sono più istintivi che ragionati: dal primo impatto con le opere ho avuto l’impressione di avere davanti qualcosa di più che un libro tra altri libri.
Busi esordisce con un romanzo che si propone già dall’incipit come classico generazionale; prosegue con opere che sempre alternano momenti in cui il lettore viene catapultato dalla pagina nel mondo, e dal mondo respinto contro la pagina, creando un senso di necessità della parola scritta che sembra slegato da ogni contingenza e proiettato verso l’assoluto dell’esistenza. Senso di smarrimento e bisogno di ritrovarsi si alternano, sorretti dalla capacità dell’autore di gestire il genere romanzo e di creare una lingua originale, stravagante, eclettica. È una lingua che non esclude nulla.
La scrittura di Siti riesce a penetrare in ogni interstizio dell’esistenza. Pur mantenendo saldi legami con un contesto storico-culturale-sociale ben definito e identificabile, permettono al lettore di portare avanti un’operazione di riconoscimento continua che va ben oltre l’identificazione dovuta alla scrittura autofinzionale. Nei libri di Siti esistenze normali non vengono banalizzate: ogni presenza umana esiste è di per sé e, non in quanto mero espediente narrativo. La lingua camaleontica diventa cifra della sua forza magnetica.
In sostanza, credo che sul loro successo futuro incideranno, nella stessa misura, la capacità di scrivere e quella di farsi leggere.
2. Dove hai sentito parlare per la prima volta di questi autori, e da chi?
Trovo necessario fare una distinzione tra il momento in cui ho iniziato a sentir parlare dei due autori e il momento in cui ho deciso di iniziare a leggere le loro opere. Se il primo può dirsi indiretto e casuale, il secondo sarà volontario e sistematico.
La prima volta che ho sentito il nome di Siti, anzi, del professor Siti, è stato nel 2011, quando ero al primo anno di lettere a L’Aquila e i miei amici ancora parlavano dei suoi corsi di letteratura italiana e scrittura creativa. Busi, invece, diventò un nome (ma anche un viso) familiare per via della sua partecipazione al reality l’Isola dei famosi, nel 2010.
L’incontro con le loro opere risale al 2013: Siti vinceva lo Strega con Resistere non serve a niente e Seminario sulla gioventù di Busi compariva nel programma d’esame del corso di letteratura italiana contemporanea.
3. Secondo te quale genere letterario è destinato ad avere fortuna nei prossimi anni? Poesia, romanzo, scritture ibride?
Difficilmente immagino un futuro in cui non sia il romanzo il genere trainante, in tutte le sue varianti, dal giallo al rosa e con un aumento di popolarità per i sottogeneri storico e fantasy.
4. Nell’arco di un decennio possono essere pubblicati libri che entrano a far parte di uno stesso dibattito critico, e che però sono stati scritti da persone nate in momenti molto diversi.
Quali autori consideri significativi – rilevanti dal punto di vista delle categorie critiche con le quali interpreti la letteratura – fra quelli che hanno pubblicato libri fra il 1990 e il 2015?
Specifico innanzitutto che non ho (ancora) una visione totale degli ultimi venticinque anni della letteratura, soprattutto del decennio 1990-2000, ma nonostante questo l’elenco di tutti quelli che in un modo o nell’altro sono stati significativi potrebbe essere drammaticamente lungo e vuoto. Mi limito quindi a pochi nomi che ho recepito come eccezione rispetto alla media.
Per la narrativa: Falco e Vasta; il primo chirurgico e fotografico, il secondo iperbolico e sensoriale.
Per la poesia: De Angelis, Dal Bianco, Benedetti, Anedda; tutti quanti estremamente caratterizzati, innovativi, peculiari, sfaccettature del poliedrico panorama poetico italiano contemporaneo.
5. Passiamo a considerare i luoghi (giornali, riviste specializzate, riviste online, siti e blog; ma anche luoghi fisici come scuole, università, biblioteche, presentazioni di libri) e i modi in cui i libri vengono discussi e commentati oggi. Tendi a pensare al campo letterario come a uno spazio fluido, in cui critica, pubblico, industria dialogano e collaborano (talvolta anche in competizione per l’egemonia) – o a separare diversi campi d’influenza e di azione? Che tipo di interazione c’è (se trovi che ci sia un’interazione)?
Sui luoghi e sui modi: la mia esperienza scolastica mi ha fatto confrontare con i libri maniera prevalentemente storiografica e manualistica; le presentazioni a cui ho assistito di solito avevano carattere più di esibizione personale che di promozione del prodotto letterario. Per me luoghi della letteratura forti oggi sono rappresentati in forma quasi esclusiva da università e alcui siti, blog, riviste online. Da questi due poli partono iniziative che cercano di approcciarsi al libro in maniera euristica: questo questionario ne è esempio e per esperienza personale nominerei anche i cicli seminariali proposti dal gruppo studentesco Ricomporre l’infranto.
Non riesco a pensare al campo letterario come a uno spazio fluido, anzi, a volte mi sembra che critica, pubblico e industria seguano tre direttrici di sviluppo totalmente indipendenti le une dalle altre: i libri di cui vengo a conoscenza grazie alla critica raramente sono disponibili in libreria; i libri che compro spesso deludono le mie aspettative. Il pubblico invece si attesta da una parte su abitudini letterarie difficili da perdere: con chi non studia letteratura (ma non esclusivamente) si parla di Alessandro Baricco, Stefano Benni, Erri De Luca, Sveva Casati Modignani, Andrea Camilleri, ma anche – ancora – della coppia intramontabile Eco-Calvino; mentre dall’altra dimostra interesse vivo e attesa della novità per i filoni fantasy e storico: faccio solo due nomi, cioè Licia Troisi e Valerio Massimo Manfredi. Perciò mi sembra che questi tre grandi contenitori invece che far parte di uno spazio comune si riducano a essere semplici compartimenti a tenuta stagna. Non escludo l’interazione a priori, però: il caso di Siti è esempio lampante che nell’intersezione tra critica (ciò che dovrei leggere), pubblico (ciò che potrebbe piacermi) e industria (ciò che mi è facile acquistare) possano dimorare nomi degli autori che continueremo a leggere in futuro.
6. Quali sono le personalità e i luoghi della critica che consideri più seri e affidabili?
Credo di aver parzialmente risposto a questa domanda parlando di luoghi, modi e fluidità. Il mio punto di riferimento fisico è senza ombra di dubbio l’Università, inizialmente quella dell’Aquila, successivamente quella di Padova. Dal fisico all’effimero, luoghi importanti della critica mi sembrano riviste come Allegoria, Nuovi Argomenti, Ulisse; tra gli innumerevoli siti e blog provo un senso di fiducia nel confronti di: Le parole e le cose, Between, Nazione indiana, Minima & Moralia, 404: file not found. Le personalità che considero serie e affidabili: Casadei e Mengaldo imprescindibili; poi Bertoni, Donnarumma, Fusillo, Mazzoni, Simonetti, Zinato.
Matilde Quarti
1. Partiamo dalla domanda del sondaggio di «Orlando»: «Chi tra gli scrittori che oggi hanno tra i quarantanove e i sessantanove anni continueremo a leggere in futuro?». Tu come risponderesti, e per quali motivi? Ti chiederei anche di spiegare cosa, secondo te, inciderà di più per il loro successo.
Sull’ultimo numero di «Orlando esplorazioni» è già comparsa una lunga lista di autori italiani che in futuro potrebbero meritare il titolo – à la Arbasino – di “venerati maestri”; a parte qualche nome su cui non mi sento di concordare, la maggior parte delle voci proposte sono già ad oggi inseguite, emulate, spesso amate. Quando mi è stato proposto di partecipare al sondaggio ho fatto due nomi: Michele Mari e Antonio Moresco. Ho voluto infatti, nella mia riflessione, concentrarmi su quei punti che mi sembra possano essere rilevanti in un’ipotetica percezione futura di un autore, non basandomi quindi sul numero di copie vendute (ma certamente non ignorandolo) e cercando di pensare a chi, fra gli autori che hanno tra i cinquanta e i settant’anni, abbia quelle peculiarità in grado di interessare la critica, gli aspiranti autori, i lettori forti e, non in ultimo, di aver senso di essere studiate in un contesto sia di scuola dell’obbligo che universitario. Insomma, ritengo che testi di autori estremamente letti, come un De Carlo, non abbiano le qualità per essere oggetto di uno studio e una critica approfondita e che altri, magari frutto di piccole rivoluzioni come quelli dei Wu Ming, si possano col tempo perdere in favore di opere più interessanti dal punto di vista linguistico e tematico.
Partiamo quindi da Michele Mari, che mi sembra – sia ben chiaro, da lettrice e non da critica, quale non sono – l’unico autore italiano a cui si possa attribuire in questo momento un lavoro di ricerca letteraria e stilistica di un certo tipo. La sua produzione è immensa e multiforme: combina una profondissima conoscenza della materia linguistica e letteraria all’inventiva e alla capacità immaginativa di un ragazzino. Rigore stilistico e libertà d’ingegno, insomma. I riferimenti letterari sottesi ai testi di Mari, poi, sono un labirinto di citazioni e richiami che accolgono e giocano con il pop degli ultimi decenni. Inoltre mi sembra che sia uno dei pochi autori che ha saputo distanziarsi in positivo dalla pesante eredità del dopoguerra italiano, senza rinnegare il passato ma attingendo a un più vasto panorama. Michele Mari non è un autore sopravvissuto all’uccisione dei padri, quanto un autore che ha saputo con dolcezza e fermezza sospingerli un po’ più in là.
Poi abbiamo Antonio Moresco, che è riuscito a delineare quello che se stessimo parlando di letteratura sudamericana definiremmo un complesso romanzo-mondo, diviso in tre diverse pubblicazioni. La sua scrittura, febbrile e a tratti cruda e morbosa, è tuttavia capace di ampi lirismi e accurate descrizioni in cui l’esteriore e l’interiore si fondono fino a una completa cancellazione dei confini che li separano. Sebbene i temi e i generi affrontati da Moresco siano diversi e abbia spaziato dal racconto breve al saggio politico, credo che in ultima sintesi sia la trilogia de L’Increato l’opera per cui mi aspetto in futuro uno studio approfondito dell’autore. Inoltre Moresco è stato tra i primi ad aver compreso e sfruttato appieno le possibilità offerte dal dibattito letterario online con risultati seri e fecondi. E poi la sua stessa figura ricorda quella di un personaggio letterario, elemento che non può non contribuire alla fascinazione che riscuote sul vasto pubblico: parliamo dell’ex militante extraparlamentare, dell’autore semi-sconosciuto che ha poi goduto di una fama quasi reverenziale, dell’inquieto girovago notturno.
2. Dove hai sentito parlare per la prima volta di questi autori, e da chi?
Moresco l’ho scoperto grazie a un festival letterario curato a Firenze da Alessandro Raveggi: Ultra. Era il 2009 e con altri ragazzi mi occupavo di Follelfo, una rivista nata tra i chiostri della Statale di Milano in cui pubblicavamo racconti brevi corredati da illustrazioni di artisti emergenti. Si trattava della nostra prima uscita ufficiale nel mondo delle riviste, è stato il primo contatto con altre realtà con cui abbiamo collaborato negli anni successivi e la prima volta in cui ho sentito parlare Moresco (in quel caso del Primo amore).
Per quanto riguarda Michele Mari, mi sono stati regalati due suoi libri, sempre nei primi anni dell’università, da amici che frequentavano la Statale e che avevano avuto modo di seguire le sue lezioni, avvicinarsi ai suoi testi e amarlo come scrittore. Essendo iscritta a Filosofia mi muovevo in un altro ambiente e ancora non lo conoscevo.
3. Secondo te quale genere letterario è destinato ad avere fortuna nei prossimi anni? Poesia, romanzo, scritture ibride?
Mi sembra una questione per certi versi evanescente. Parlo, come dicevo prima, non da critica ma da lettrice e collaboratrice editoriale, e dal mio punto di vista non trovo ci siano stati negli ultimi decenni effettivi cambi di tendenza. Certo, da qualche anno sento spesso e con stupore sostenere che la poesia sia il perfetto tramite per questa nostra epoca di comunicazione immediata e promozione editoriale su Twitter, ma mi sembra francamente una sciocchezza, trattandosi di una forma che richiama tutt’altro che immediatezza. D’altronde penso che – purtroppo – i numeri mi diano ragione e la poesia sia destinata a restare ancora a lungo un piacere per addetti ai lavori e pochi appassionati (peraltro io stessa sono colpevole di leggerne molto poca). Il romanzo è indubbiamente la forma più immediata per la maggior parte dei lettori, ma parlare di romanzo vuol dire parlare di categorie e sottogeneri, volubili come la storia e la società che li fruisce. Ho appena finito un libro straordinario: Stop-time, di Frank Conroy, si tratta a tutti gli effetti di un romanzo americano degli anni ’60, ma si tratta anche a tutti gli effetti della sofferta autobiografia dell’autore. Allora basta poco perché il romanzo scivoli nella scrittura ibrida e anche in questo ultimo caso le possibilità diventano infinite, parliamo di commistione di generi? Di commistione di stili? Di commistione di generi e di stili? Forse la cosa più urgente, in un momento di crisi e confusione del mondo del libro come quello attuale, potrebbe essere il discorso circa i modi di veicolare e tutelare una letteratura che sia di qualità nonostante i sommovimenti che investono case editrici e luoghi della critica.
4. Nell’arco di un decennio possono essere pubblicati libri che entrano a far parte di uno stesso dibattito critico, e che però sono stati scritti da persone nate in momenti molto diversi. Quali autori consideri significativi – rilevanti dal punto di vista delle categorie critiche con le quali interpreti la letteratura – fra quelli che hanno pubblicato libri fra il 1990 e il 2015?
Paradossalmente da lettrice trovo molto più complesso rispondere a questa domanda che alla prima, principalmente perché il campo si amplia andando a toccare inevitabilmente un numero davvero elevato di autori e autrici che non ho avuto modo di leggere. I nomi su cui istintivamente mi troverei a ragionare sono: Luther Blissett e Wu Ming, Aldo Nove, Giuseppe Genna, Tommaso Pincio, Walter Siti, Francesco Targhetta e Valeria Parrella (per quanto riguarda la sua produzione di racconti).
5. Passiamo a considerare i luoghi (giornali, riviste specializzate, riviste online, siti e blog; ma anche luoghi fisici come scuole, università, biblioteche, presentazioni di libri) e i modi in cui i libri vengono discussi e commentati oggi. Tendi a pensare al campo letterario come a uno spazio fluido, in cui critica, pubblico, industria dialogano e collaborano (talvolta anche in competizione per l’egemonia) – o a separare diversi campi d’influenza e di azione? Che tipo di interazione c’è (se trovi che ci sia un’interazione)?
Mi sembra che il dialogo tra le varie parti del campo letterario sia, credo inevitabilmente, molto poco fluido. Non è detto che un lettore forte conosca necessariamente le dinamiche dell’industria editoriale, anzi, ho trovato molto spesso lettori appassionati avere un’idea estremamente nebulosa di molti dei passaggi che portano alla creazione del libro come prodotto. Ma per fortuna: sinceramente non trovo che il lavoro culturale sia, da questo punto di vista, diverso da qualsiasi altro tipo di professionalità. Chiaramente tra lettori forti, industria editoriale, giornalisti e critici si creano spesso momenti di confronto e collaborazione, ma i campi d’azione restano differenti, così come i linguaggi e le categorie interpretative. A questo stesso questionario immagino che critici, editor e lettori risponderanno in modi diversi, con toni diversi e priorità diverse. Gli stessi libri di cui parleranno, d’altronde, saranno stati da loro affrontati nei momenti più disparati del percorso editoriale, e quindi letti e interpretati con differenze ora più labili ora considerevoli. Il web ha indubbiamente permesso un maggiore incontro tra le diverse parti in causa e uno scambio di idee, come quest’iniziativa a cui stiamo partecipando, può essere fruttuoso, ma come ho già detto ritengo che linguaggi, metodi di comunicazione e categorie interpretative resteranno in ogni caso distinti per ciascuna realtà.
6. Quali sono le personalità e i luoghi della critica che consideri più seri e affidabili?
La critica si sviluppa indubbiamente in ambito universitario, dove ha modo di crescere, scontrarsi e confrontarsi per cercare poi altri canali di diffusione. Per quanto mi riguarda ho avuto la fortuna di farmi le ossa nel mondo delle riviste letterarie indipendenti, un microcosmo estremamente variegato in cui si possono trovare dalle fanzine alle piccole pubblicazioni e da cui traspare quasi sempre professionalità e decisamente sempre passione per il testo scritto. Le riviste indipendenti sono un luogo privilegiato per chi si affaccia al mondo della scrittura, della critica e dell’editoria, un campo non neutro ma indubbiamente aperto e di più ampio respiro dove cominciare un lavoro di narrazione e di critica che può rafforzarsi fino ad approdare a luoghi come ad esempio Alfabeta, Nuovi Argomenti, o Granta. Alcune riviste hanno una storia ventennale, come ‘tina di Matteo B. Bianchi, altre sono attive da meno anni (per quanto riguarda riviste di narrativa mi vengono in mente inutile, Colla o Cadillac), ma continuano a sfornare, sia in campo letterario che del giornalismo culturale, voci sempre nuove. Come luoghi della critica sul web mi affido principalmente a Doppiozero, minima et moralia, Le parole e le cose, Nazione Indiana.
Se il lavoro della critica, accademica o militante, prende le mosse in ambito universitario è però grazie ai giornalisti culturali se il discorso letterario raggiunge un pubblico più vasto. Ad esempio il giornalista Andrea Cirolla ha avuto il merito di riscoprire e riproporre la poetessa Chandra Livia Candiani sulle colonne del Corriere della sera, raggiungendo persone che difficilmente si avvicinerebbero a una critica più specializzata.
Paolo Gervasi è nato a Todi nel 1984. Si è laureato e ha conseguito il perfezionamento alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove è attualmente assegnista di ricerca. Si occupa soprattutto di storia e teoria della critica, rapporti tra letteratura e scienza della mente, Digital Humanities applicate alla storia del libro e dell’editoria.
Giacomo Giossi è nato a Milano nel 1978. Collabora con riviste e blog, scrive per Blow Up, L’indice dei Libri, IL de Il Sole 24 Ore, Gli Stati Generali, È anche uno scrittore di racconti. Attualmente è caporedattore e publisher di cheFare.
Lara Marrama è nata all’Aquila nel 1991. Ha conseguito la laurea triennale in Lettere Moderne presso l’Università dell’Aquila; è attualmente studentessa di laurea magistrale all’Università di Padova. Fa parte del gruppo Ricomporre l’infranto.
Matilde Quarti è nata a Milano nel 1987. Laureata in filosofia, lavora come redattrice per la piattaforma di didattica online Oilproject. Scrive su La balena bianca e i suoi racconti sono comparsi su diverse riviste letterarie indipendenti, online e cartacee.
[Immagine: Meriç Algün Ringborg, Becoming European (gm)].
Per Giacomo Giossi, che scrive: “Non sono affatto convinto che Michele Mari, Walter Siti e Antonio Moresco saranno letti ancora in futuro perché già oggi non lo sono, non sono voci a cui viene data rilevanza (purtroppo)”. Personalmente non sarei così pessimista, mi pare che Mari e Moresco ora abbiano una — lo riconosco — ristretta ma ben affezionata cerchia di lettori ed estimatori, oltre ad essere riconosciuti in ambito universitario (qualche anno fa mi è capitato di seguire corsi di Sergio Zatti e Carla Benedetti in cui gli veniva dato ampio spazio, lo stesso vale nel caso di Siti; ho amici in altre università italiane che hanno sperimentato esperienze analoghe, per le università statunitensi invece il discorso cambia parecchio). Il problema è semmai la tendenza di una certa editoria ad appiattirsi sulla novità e a mettere sullo stesso piano libri intercambiabili e libri di valore, col risultato che molti romanzi e libri di poesia importanti apparsi negli ultimi quindici anni sono oggi introvabili in libreria…
a Voi lettori un giudizio. Grazie
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JOHN CISTERNA (alias Antonio Sagredo)
Me ne andai sbattendo i portali della 77-ma street e mi insozzai alla JG Melon o forse giù di lì era road,
street, way, path, avenue… non compresi le insegne orientali mi trovavo a chinatown o no? –
confuse o fuse dal neon elastico e l’occhio basedowico era compresso dall’emortaggia dei papaveri rossi
pioveva a scartamento dirotto come sulle rotaie un treno pulpcult e il passo non poteva essere felpato a
chiazza di leoprado…
Me ne andai sbattendo i portali della 77-ma street e mi insozzai alla JG Melon o forse giù di lì era road, street, way, path, avenue… non compresi le insegne orientali – mi trovavo a chinatown o no? – confuse o fuse dal neon elastico e l’occhio basedowico era compresso dall’emortaggia dei papaveri rossi… pioveva a scartamento dirotto come sulle rotaie un treno pulpcult e il passo non poteva essere felpato a chiazza di leoprado mentre me ne andai sbattendo i portali della 77-ma street e mi insgozzai alla JG Melon o forse giù di lì era road, street, way, path, avenue… non compresi le insegne orientali – mi trovavo a chinatown o no? – sconfuse o sfuse dal bombastic neon elastico e l’occhio basedowianico era compresso dalla raggìa dei papaveri rossi… pioveva a scartamento dirotto come sulle rotaie un treno pulpcult e il passo non poteva essere felpato a chiazza di leopardo e che per questo la sera era intrascorsa dai riflessi lucidocatramosi degli asfalti dall’umidore e dal colore giallognolo del piscio umanoostico sulla neve incalpestata che sul Ponte delle mie Legioni mentre scannavo i pietrosi angeli non sapevo ancora quali metafore di cariatidi m’offrivano catastrofi sulla neve incalpestata se l’occhio basedowianico generò lo sgiardo… lo sgiardo?
No! Era, ah, lo sguardo otrantino levantino salentino di Brunswich… accanto a quel punto del ponte che vigilava gli occhi della Marina ed è ormai la quarta sera che infilo nel cappotto un pezzo della città vltavina notturna, nebbiofangosa e fumocaliginosa, con un ponte ora in lontananza, ora d’un tratto con te, proprio davanti agli occhi vado da qualcuno offertomi per caso dalla sequela degli affari quotidiani o dalla memoria, e con la voce rotta ti consacro in quell’abisso di lirica abbagliante…
Me ne andavo squassato dai selciati e sparsi frammenti del piano sonanti il soldiesisminore…