cropped-rtx1iufo.jpgdi Mauro Piras

Non vorrei essere nei panni di un elettore greco, oggi. Come si può decidere una cosa così difficile in queste condizioni? Come fa un cittadino a orientarsi in una situazione talmente contraddittoria, a scegliere la cosa giusta? Il voto del referendum greco sul memorandum dei “creditori” sembra un rompicapo. Se voto sì, si starà chiedendo uno dei tanti indecisi, dobbiamo mandare giù la pillola, e bisognerà vedere se non ci fanno pagare questa alzata di capo. Se voto no, chissà che cosa succede: usciamo dall’euro? facciamo bancarotta? quali sono le conseguenze precise? Come faccio a capirlo, io, che non sono un economista, né un uomo di governo, ma un impiegato, un operaio, un commerciante, un insegnante? Perché non sono stati capaci di decidere questi qui? si starà chiedendo sempre il cittadino greco. Li abbiamo votati apposta, è il loro lavoro, non il nostro. E poi, così, dall’oggi al domani, nel giro di una settimana dobbiamo decidere noi.

Tsipras dice che si farà un accordo comunque, già lunedì, con qualsiasi esito. Se vince il sì, si firma il memorandum. Bel risultato. Se vince il no, si tratta. Per cosa? Per il taglio del debito? Ma il referendum non chiede effettivamente che si riduca il debito greco. Varoufakis dice che bisogna fare questo. Ma il referendum non lo chiede. Chiede solo di votare sì o no al memorandum dei “creditori”. Che cosa questo significhi, chi lo può dire adesso?

Non vorrei essere in questa testa, dilaniata da incertezze gravissime scaricate su di essa da una classe politica irresponsabile. Come siamo finiti in questo tunnel?
Possiamo vedere la cosa da due punti di vista, la democrazia e la politica economica.

Sul lato della democrazia, il deficit, notoriamente, è in primo luogo delle istituzioni europee. L’Eurogruppo, il consiglio dei ministri delle finanze dei paesi dell’euro, sta diventando sempre più potente, sempre più decisivo nell’imporre politiche di “austerità”, ma la sua legittimità democratica in questo senso è dubbia. Certo, i ministri sono espressione di governi eletti democraticamente nei loro rispettivi paesi. Ma questo organo è, nella struttura dell’UE, solo informale. Inoltre, e soprattutto, questa legittimazione democratica vale pienamente solo nei confronti dei loro cittadini. La contraddizione tra questa legittimazione e i vincoli che il consiglio impone a tutti i cittadini europei sta diventando sempre più stridente: le politiche di pareggio di bilancio, tagli alla spesa ecc. servono a far rispettare vincoli finanziari necessari a sostenere la moneta unica, e questi vincoli si impongono necessariamente al di fuori dei confini nazionali. Allo stesso tempo, l’organo che prende queste decisioni non è il Parlamento europeo, né la Commissione, che, per quanto debolmente, esprimono una cittadinanza europea, bensì una riunione di ministri che esprimono interessi nazionali contrastanti. La verità è quindi che i rapporti di forza tra i paesi europei, strettamente intesi come nazioni, e non come membri solidali dell’Unione, decidono il tenore delle misure prese. E il richiamo alla legittimazione democratica di questi ministri accentua questi particolarismi contrapposti. Cambia poco che nel caso della trattativa sulla Grecia anche la Commissione europea sia, formalmente, della partita, perché il suo potere è ancora troppo limitato dall’Eurogruppo e dal Consiglio europeo.

La presenza nella trattativa, inoltre, di organismi finanziari, cioè il Fondo monetario internazionale e la Banca centrale europea, aggrava come è ovvio questa crisi di rappresentanza democratica. Tanto più che il primo, come è stato osservato più volte negli ultimi tempi, ha un punto di vista esterno all’Unione Europea, e quindi non ne fa necessariamente gli interessi. Ma la loro presenza è grave soprattutto perché tutto il problema, fin dall’inizio, è stato impostato come un confronto tra la Grecia e i suoi creditori. Quello che era fin dall’inizio un nodo di politica economica europea (come evitare che una crisi del debito pubblico blocchi l’economia di una delle aree più ricche del mondo?) è stato trasformato, in un certo senso, in una questione di diritto privato, cioè in un confronto tra la Grecia e i suoi creditori: il prevalere delle istituzioni finanziarie ha portato a reprimere un dibattito politico pubblico sulle scelte fondamentali, cioè sulla alternativa tra la solidarietà europea e il rigore finanziario, mascherando però dietro questa “privatizzazione” il prevalere degli interessi nazionali su quelli dell’Unione.

E questo fino all’ultimo momento, cioè fino al momento in cui Tsipras ha all’improvviso rovesciato il tavolo e annunciato il referendum. Qui, però, le cose sono cambiate. Molti hanno salutato la mossa di Tsipras come un ritorno alla democrazia, in tutta questa storia, come una imposizione della prospettiva politica su quella strettamente economica: l’appello al voto porterebbe alla luce il conflitto insanabile tra democrazia e capitalismo globale, e ridando direttamente la parola agli elettori cercherebbe di affermare le ragioni della prima contro il secondo. Aprirebbe il varco verso una limitazione democratica dei meccanismi economici, che in effetti le democrazie avanzate subiscono sempre più passivamente. Questa lettura, come già detto, è parziale, perché dietro il capitalismo globale ci sono anche i piccoli e miopi nazionalismi europei, incapaci di capire qual è la posta del conflitto economico nel mondo, oggi. Tuttavia, il problema non è solo questo. Anche con questa riserva, il ragionamento potrebbe essere giusto: la democrazia riprende la parola. Invece no. Quello che ha fatto Tsipras ha ben poco di democratico. Il deficit di legittimazione si è spostato all’improvviso sulle sue spalle. E parlo della legittimazione democratica interna, quella a cui si richiamano tutti gli oppositori, di destra e di sinistra, alla “tecnocrazia” dell’Unione europea.

In primo luogo, non è affatto democratico convocare un referendum in una settimana. La democrazia moderna non è solo il voto, ma la discussione e il confronto nell’opinione pubblica e tra i partiti prima del voto. In una settimana questa discussione è impossibile, è soffocata. Non si può rispondere che tutto sommato i greci stanno discutendo di queste cose da mesi, poiché c’era una trattativa in corso. Una cosa è discutere per chiarire e criticare, ma sapendo che la responsabilità ultima è del governo eletto: questa è una dinamica da democrazia rappresentativa, in cui i cittadini, tramite l’opinione pubblica cercano di criticare e orientare la deliberazione pubblica, ma non deliberano direttamente, perché la deliberazione è delegata al governo eletto. Un’altra cosa è muoversi in una prospettiva di democrazia diretta, come nel caso di un referendum; discutere cioè per mettere i cittadini in condizione di decidere direttamente: in questo caso i cittadini stessi discutono, prima, e decidono, poi. In una settimana è impossibile.

Inoltre, questa drastica limitazione dei tempi non è affatto democratica dal momento che il governo non è neutrale, ma si schiera apertamente per una opzione, lasciando poco tempo alle opposizioni per organizzarsi e promuovere l’opinione contraria. La posizione di vantaggio del governo, che in tutte le occasioni ribadisce la sua posizione per il no, configura questa situazione piuttosto come una operazione di propaganda, dal momento che dall’altra parte non si gode della stessa visibilità e centralità. Come sarebbe la divisione del voto tra le due parti se si potesse votare dopo un periodo più lungo di dibattito pubblico, e con una vera neutralità del governo? La mossa di Tsipras sembra un’abile mossa populista, non democratica: vuole un plebiscito a suo favore; oppure, se perde, vuole scaricare sui cittadini la responsabilità di dover prendere misure impopolari.

E questo è l’ultimo aspetto antidemocratico della sua scelta: è molto discutibile che decisioni complesse di questo genere possano essere prese con un referendum. La democrazia rappresentativa si giustifica in molti modi: la dimensione degli stati, la tutela dei diritti individuali, il problema della “tirannia della maggioranza” ecc. Una delle ragioni è però anche la difficoltà di lasciare direttamente alla deliberazione dei cittadini questioni tecnicamente molto complesse in società altamente differenziate. Inoltre, in Grecia si è votato da poco, Tsipras e Syriza hanno ricevuto dagli elettori un mandato, non imponente ma comunque significativo, per portare la Grecia fuori dalla crisi senza imporle ancora indigeribili cure da cavallo. Nella normale logica della democrazia rappresentativa che la Grecia dovrebbe essere questo significa che il governo deve assumersi la sua responsabilità e condurre in porto la trattativa. Se non ne è capace, non è legittimato a scaricare questa responsabilità sui cittadini stessi, che non sono titolati a condurre questa trattativa. Tsipras tradisce il mandato degli elettori e destabilizza le istituzioni, con questa mossa.

Dal lato della politica economica, la scelta di Tsipras non ne esce meglio. Certo, la politica di rigore finanziaria, perseguita ostinatamente dal 2010 a oggi, non ha prodotto nessun effetto, e probabilmente ha contribuito a rafforzare la crisi economica aggravando la contrazione della domanda interna. Molti economisti, l’amministrazione americana e lo stesso FMI lo sottolineano da tempo. Tuttavia, è riduttivo addebitare tutti i problemi della Grecia al liberismo e a queste scelte di politica economica. La Grecia prima della crisi aveva squilibri economici gravissimi, sia in termini di bilancio, che di debito pubblico, che di credito e bilancia dei pagamenti. Ha certamente bisogno di riforme interne, che non sono soltanto l’adattamento alle esigenze del turbocapitalismo, ma servono a far funzionare il sistema economico in quanto tale, senza provocare troppi squilibri che poi si scaricano inevitabilmente sui ceti più deboli. Il problema, tuttavia, adesso non è questo. In fondo, la Grecia ha già realizzato molte riforme, e le controproposte di Tsipras e Varoufakis accettano di continuare in questo percorso. Non sono i dettagli (qualche punto di Iva in più o in meno, la data della riforma delle pensioni ecc.) che hanno causato lo stallo nella trattativa. Sono due punti molto più “di cornice”. Da un lato, la richiesta da parte del governo greco di procedere a una nuova ristrutturazione del debito e a un dilazionamento dei pagamenti. Dall’altra, un problema evidente di fiducia.

Varoufakis dice chiaramente, nel suo sito internet, che al referendum bisogna votare “no” per ottenere la riduzione del debito. È una cosa piuttosto curiosa: se l’intento reale del referendum è questo, perché il quesito non è posto in questi termini? Perché il rapporto tra “no” e ristrutturazione del debito non è esplicitato nella scheda elettorale? Ma questo è un problema di democrazia, già trattato sopra. Per quel che riguarda gli equilibri economici, questa richiesta forse non è insensata. Anche in questo caso molti analisti tendono a pensare che una nuova riduzione del debito greco sarà inevitabile. Tuttavia, i “creditori” hanno sempre rifiutato di trattare su questo. Perché, come già detto, restano legati a quella prospettiva “privatista” del confronto tra creditori e debitore, che evita di affrontare il problema politico, facendo però pesare indirettamente gli interessi dei più forti. Su questo, abbiamo già detto, le responsabilità della UE sono chiare e gravi. Tuttavia, a questo problema si sovrappone quello della fiducia. La Grecia, fin dall’inizio, ha avuto l’ambizione di uscire da questa prospettiva limitata, e ha voluto porre la questione del debito; ma allora doveva muoversi con grande attenzione per costruire intorno alle proprie proposte un clima di fiducia, che le rendesse credibili. Invece, lo stile di Tsipras e di Varoufakis ha fatto di tutto per minarla, la fiducia. Gli improvvisi cambi di rotta, gli annunci di accordi già raggiunti o quasi che venivano poi smentiti da esponenti della UE, gli attacchi rivolti ai “creditori” per legittimarsi di fronte all’opinione pubblica interna, per legittimare la scarsa efficacia nella conduzione delle trattative: tutto questo ha rafforzato una diffidenza pregiudiziale da parte degli interlocutori. La mossa di interrompere bruscamente le trattative e indire il referendum ha polverizzato ogni minimo resto di fiducia, generando una aperta ostilità. E Tsipras si è reso ancora meno credibile inviando ancora una nuova proposta di accordo dopo questa rottura, e proclamando con una sicurezza del tutto ingiustificata che dopo il voto si firmerà subito un accordo, in un senso o nell’altro. È vero invece esattamente il contrario, Juncker l’ha già annunciato: dopo il voto riprenderà una difficile trattativa in salita, in un senso o nell’altro, con più ostacoli sul cammino. E certo uno di questi è rappresentato dagli attacchi di Varoufakis, che ancora alla vigilia del voto ha definito “terroristi” i creditori: il modo migliore per non uscire dalla condizione subalterna di “debitore” (inaffidabile) e non ottenere mai il riconoscimento come interlocutore politico.

[Immagine: Atene, luglio 2015].

39 thoughts on “Il referendum greco: democrazia o populismo?

  1. La Grecia si trova a partire dal 2012 in uno stato di sovranità limitato, tanto è vero che i provvedimenti del governo Tsipras relativi al proprio territorio vengono definiti nelle riunioni ue ‘azioni umanitarie unilaterali’ ossia vengono equiparate ad azioni che un governo compie nel territorio di un altro stato senza autorizzazione onu. In un contesto del genere le contestazioni alle formalità del referendum che Lei fa mi appiano fuori luogo perchè è evidente che il paese si trova in stato d’eccezione. Di più nel corso delle trattative l’atteggiamento assunto da alcuni dei protagonisti ( Dissenblojm in particolare, ma anche Schauble e Lagrade) il gioco delle parti tra le varie istituzioni della troika e la Germania si sono configurate come un vero e proprio tentativo di rovesciare il governo democraticamente eletto dai greci solo cinque mesi fa. Ancora una volta tutto ciò rimanda a una situazione eccezionale e a uno stato di necessità, pertanto affermare, come Lei fa, che la scelta di Tsipras è populista, significa implicitamente avvallare il diritto di intervento e destabilizzazione di un governo eletto da parte di istituzioni internazionali non elettive o di governi stranieri, anche se immagino che questo non fosse nelle sue intenzioni.
    cordialità
    Giorgio Mascitelli

  2. Buongiorno,
    innanzitutto, io oggi vorrei essere nei panni di un elettore greco, semplicemente perché sarei ben contento di esprimere la mia opinione su un tema così importante per il futuro del mio paese. Lei dice che un normale cittadino non può prendere una decisione così difficile. Ma io e lei siamo normali cittadini, stiamo discutendo questa questione, ognuno coi suoi punti di vista, e mi sento di dire che potremmo votare con la consapevolezza di aver fatto secondo noi la scelta giusta. Perché questo dovrebbe fare un normale cittadino: informarsi con tutti i mezzi che la modernità ci mette a disposizione per arrivare preparato e consapevole al momento di dare il proprio voto su una questione. Non ha senso criticare questa decisione usando come argomentazione quella che è la più grande pecca delle democrazie rappresentative attuali, cioè che la gente se ne fotte e non si informa di niente.

    È vero che una settimana è un tempo limitato per farsi una idea esaustiva della questione, ma la tempistica è dettata dall’urgenza del problema e dall’azzardo della manovra. Meglio guardare al contenuto della decisione rispetto alla forma: i cittadini che possono esprimersi su una questione cruciale per il loro paese. Usando un’argomentazione cara al governo italiano si può dire: “certo che avremmo potuto fare di meglio, ma nella situazione in cui siamo questo è il massimo che possiamo fare!”

    Il fatto che il governo si schieri con il no è una cosa ovvia: quella che lei chiama incapacità di condurre le trattative è data dal fatto che a causa del muro delle istituzioni europee, non sarebbe stato possibile raggiungere un accordo che non prevedesse la continuazione delle politiche di austerità. Con un accordo del genere il governo greco avrebbe tradito quello che era stato il suo programma elettorale, quindi piuttosto che farlo, ha provato la mossa del referendum, sperando con questo di avere una forza maggiore nel condurre in futuro le trattative. Il si significa la prosecuzione delle politiche di austerità, quindi il governo non può che schierarsi per il no.

    Non è riduttivo addebitare la causa della situazione attuale della Grecia al liberismo: partendo dal presupposto che in Grecia c’era un sistema burocratico insostenibile e che avevano contratto debiti a destra e a manca, cinque anni di politica liberista hanno ridotto il PIL del 25% e si son dimostrate fallimentari per la crescita: forse continuare su questa linea non è per nulla utile per la Grecia. È ovvio che Tsipras voglia attuare riforme strutturali al sistema greco, ma solo perché non sono di stampo liberista, non vuole dire che siano sbagliate. Sono solo ispirate ad un altro modello di politica economica e sociale, e perciò per la troika sono sbagliate.

    Tra i punti che hanno portato allo stallo lei cita la ristrutturazione del debito. Questa è una proposta di sicuro utile per risolvere la situazione greca, quindi non ha senso che l’eurogruppo non voglia discuterne. L’altro giorno Piketty ha dichiarato che secondo lui sarebbe uno dei provvedimenti da prendere, solo che gli economisti progressisti vanno di moda solo quando escono i loro libri o pubblicano articoli su internazionale, se si tratta di leggerli e attuare le loro proposte sembra che nessuno sia in grado.

  3. «È vero invece esattamente il contrario, Juncker l’ha già annunciato: dopo il voto riprenderà una difficile trattativa in salita, in un senso o nell’altro, con più ostacoli sul cammino. E certo uno di questi è rappresentato dagli attacchi di Varoufakis, che ancora alla vigilia del voto ha definito “terroristi” i creditori: il modo migliore per non uscire dalla condizione subalterna di “debitore” (inaffidabile) e non ottenere mai il riconoscimento come interlocutore politico». (Piras)

    Ma ha senso impartire lezioni di democrazia a Tsipras e Varoufakis in questo momento? O tentare di stabilire più o meno equamente i torti e le ragioni del governo greco e della UE?
    Qui non è in corso un confronto cavalleresco – diciamo – tra gatti e gatti o tra topi e topi su un piano di relativa parità dei contendenti, ma un conflitto *mortale* fatto anche di astuzie e di colpi bassi e * da entrambi le parti* tra un gattone ben nutrito e un topino affamato (tra l’altro lasciato solo dai suoi “simili”).
    Questo è il vero rapporto di forze in cui si sta svolgendo *il conflitto*. E del resto, senza trarne conseguenze più drastiche e meno equidistanti, lo dice lo stesso Piras:
    – «tutto il problema, fin dall’inizio, è stato impostato come un confronto tra la Grecia e i suoi creditori. Quello che era fin dall’inizio un nodo di politica economica europea (come evitare che una crisi del debito pubblico blocchi l’economia di una delle aree più ricche del mondo?) è stato trasformato, in un certo senso, in una questione di diritto privato, cioè in un confronto tra la Grecia e i suoi creditori»;
    – «La verità è quindi che i rapporti di forza tra i paesi europei, strettamente intesi come nazioni, e non come membri solidali dell’Unione, decidono il tenore delle misure prese.».

    Ma vorrei provare a allargare la discussione ad altri aspetti che Piras non tocca o “non sente” e ad introdurre altri punti di vista forse trascurati nelle discussioni su LPLC. E perciò, rimandando allo “SCRAP-BOOK DAL WEB. Grecia e dintorni (inizio luglio 2015)” (http://www.poliscritture.it/2015/07/02/scrap-book-dal-web-grecia-e-dintorni-inizio-luglio-2015/) aggiungo due miei appunti nella discussione in corso su POLISCRITTURE. Uno e sull’intervento di Bifo e uno su uno scritto di G. La Grassa (nell’ordine il primo e il secondo dello scrap-book):

    APPUNTI (1)

    Dei fiumi di parole che si stanno dicendo e scrivendo su quanto sta succedendo o succederà in Grecia (e poi da noi, e poi in Europa) questo scrap-book presenta alcune posizioni.
    Non sono verità assolute o profezie ma approssimazioni, tentativi di leggere la realtà partendo da proprie convinzioni. Ciascuno/a le accoglierà o respingerà. E dal modo in cui lo farà – argomentando o rifiutando di getto – verrà fuori un discorso che gli eventi in arrivo smentiranno o confermeranno.
    Nel frattempo io vorrei tornare sui primi due interventi (quello di Bifo e quello di La Grassa) perché mi paiono indicare i pregi e i limiti di due modi di rapportarsi alla storia della Tradizione del Novecento da cui veniamo. Sono due orientamenti di pensiero in contrasto tra loro.
    E questo contrasto, che ho già segnalato, andrebbe capito meglio.
    Bifo si riallaccia per me alla “corrente calda” (luxemburghiana, utopista, apocalittica) . La Grassa alla “corrente fredda” (leninista, realista).
    Su «Colpo di Stato in Grecia» di Franco Berardi Bifo osservo quanto segue. Non mi pare che noi (ma qual è il *noi* al quale pensiamo quando usiamo questo termine?) «facciamo finta di non sapere».
    In parte sappiamo, in parte no. E la parola ‘pogrom’ che Bifo usa aggiunge soltanto un po’ di enfasi retorica alla sua denuncia. Schiaccia si potrebbe dire l’occhiolino al “senso comune antifascista”, che è da moltissimo tempo – per me da «Verifica dei poteri» di Fortini (1965) – qualcosa di ambiguo e poco affidabile.
    Bifo poi fa scivolare il suo discorso su un piano moralistico quando parla del ritorno del nazionalismo e razzismo e fa appello – ripeto – ad un *noi* quantomeno in crisi profonda… (« Noi – la sinistra, gli intellettuali, l’università, coloro che avrebbero dovuto rendere impossibile il ritorno della peste bruna in Europa – ne siamo responsabili»)
    Oppure – altro limite – sposta il suo discorso su un piano apocalittico e deterministico («La guerra che già rumoreggia ai confini d’Europa si prepara ad esplodere in ogni sua città per il futuro prossimo»; «La più verosimile conclusione di questa storia sembra essere la guerra. E la guerra civile è ormai visibile non solo alla frontiera meridionale dove i cadaveri galleggiano sul mare, e alla frontiera orientale dove Putin annuncia lo schieramento di quaranta testate nucleari di nuova generazione, ma anche alla frontiera italo-francese, alla Stazione di Milano, e in cento città europee dove l’odio nazionalista si sta organizzando»). Non ci sto. Diffido.
    È vero invece che «nazionalismi aggressivi tendono a diventare maggioranza in Italia, Francia, Austria, per tacere d’Olanda e d’Ungheria». Non condivido il suo “allarmismo antinazista”, ma non sono però tranquillo. Sì, i neo-nazionalismi sono segni di protesta da non trascurare, sintomi della crisi dell’Unione Europea. Non vedo però come si possa puntare politicamente su di essi per una prospettiva migliore di questa in cui ci dibattiamo. Non vedo cioè come potrebbero mai evitare ( e la storia del Novecento è lì a dimostrarlo) di diventare *ipernazionalismi*, perché la carica irrazionale che essi portano con sé e sollecitano è forte e pericolosa quanto quella che vediamo nell’opera distruttiva e paralizzante delle scelte di chi ci domina.( E nominiamoli questi dominatori: Usa, UE, Russia, Cina, ecc.)
    Vorrei poi ricordare a Bifo che è da quando è nata (o è stata imposta) che l’UE non è mai esistita e che le critiche non sono mai mancate, fin da subito. Perciò non è vero che « ci abbiamo messo troppo tempo per capirlo» o siamo caduti nelle chiacchiere. Fin da subito si è detto che era un Ue dei capitalisti, della finanza e non sociale o dei popoli. Ma resta il fatto che un fronte d’opposizione a *questa* Europa non si è riusciti finora a costruirlo. Non c’è mai stata una vera *opposizione sociale* (se non minoritaria). E quella “antisistema” (Lega prima, M5S poi) è stata *finto-sociale* e ha teso ad occupare soprattutto lo spazio elettorale lasciato dalla crisi dei grandi partiti.
    Sì « l’aggressione neoliberista ha distrutto ogni dimensione cosciente della società europea».E la posizione di Bifo a me pare di disperazione. Di uno che si incolpa «di aver consegnato alla destra l’egemonia sociale che ora emerge invincibile». E che vede tornare un passato terribile:«La peste bruna è in marcia in ogni villaggio di questo continente che è unito oggi come lo fu nel 1941». Da questo fondo di disperazione non può che emergere una proposta politica del tutto campata in aria, proiettata su tempi epocali, utopistica ma fondata più sulla nostalgia della propria storia e della propria giovinezza che su movimenti concreti:« Gli spiriti semplici alla Bagnai non si rendono conto che il dramma non riguarda l’import-export, ma l’alternativa tra dittatura finanziaria globale e prospettiva di un rinascimento fondato sulla fine del Regime del Lavoro Salariato».
    Fine del Regime del Lavoro Salariato?! Oggi o nei prossimi decenni? Ma dai…
    E anche quando si richiama alla tradizione rivoluzionaria: «la domanda più difficile di tutte: come si può aggiornare l’antico invito a trasformare la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria» si sente la stanchezza del richiamo. Quella Tradizione non viene affatto *aggiornata*. Questo è un altro punto doloroso.

    APPUNTI (2)

    Se rileggete con attenzione «Elasticità americana» di Gianfranco La Grassa, noterete, come detto, che si passa dalla “corrente calda” alla “corrente fredda” del pensiero politico novecentesco.
    Il realismo politico di La Grassa minimizza o cancella quasi tutte le mozioni sentimentali presenti nel testo di Bifo. Il *noi* a cui egli si rivolge («« Noi – la sinistra, gli intellettuali, l’università, coloro che avrebbero dovuto rendere impossibile il ritorno della peste bruna in Europa – ne siamo responsabili»)scompare. Anzi viene posto direttamente sotto accusa: « La causa principale dell’italica debolezza è la presenza di una “sinistra” – alimentata dal “fu” piciismo d’origine berlingueriana, condito con la spinta sessantottarda».
    La situazione della Grecia, intesa comunemente come popolo o società con le sue differenze e i suoi conflitti interni, è presa in considerazione esclusivamente per quel che essa conta, come Paese sullo scacchiere della politica mondiale, dove si scontrano diverse e contrapposte strategie geopolitiche, sicuramente noiose da seguire, dei – usiamola questa parola – dominatori, delle potenze statuali maggiori o minori. E che sono maggiori o minori, più forti o più deboli, dominanti o sub dominanti in seguito alle vicende storiche del Novecento. (anche queste noiose da seguire…).
    Potenza tuttora dominante nell’analisi di La Grassa sono gli Usa. Che non stanno affatto – ci dice – facendo una politica “miope” ma pienamente funzionale alla conservazione del loro predominio (più militare che economico ma forte ancora sul piano culturale). E possono ancora, quasi del tutto indisturbati, agire creando *caos* dove ritengono utile crearlo: « Il paese dei Servizi in parte se ne serve per creare paura e sbandamento nelle popolazioni dei paesi dell’area soggetta alla sua influenza; in parte combatte queste “forze estreme” per dimostrare alle suddette popolazioni che senza la sua potenza (anche bellica, e degli stessi Servizi che, quando hanno sfruttato fino in fondo i vertici di tali forze, ne assassinano i componenti; mettiamo Bin Laden) non ci sarà “salvezza».
    L’ obiettivo principale degli Usa nei confronti degli “alleati” europei è per La Grassa quello di «impedire che l’Europa si apra verso est (Russia in particolare)». E «in questo frangente storico, gli strumenti principali usati per spaventare “le genti” europee e tenerle soggiogate sono due: i feroci eccidi dell’Isis e l’emigrazione “selvaggia” dall’Africa (soprattutto) verso l’Europa, che è vastamente organizzata, pagata, non poi così disordinata né mossa da autentica disperazione (una parte consistente dei migranti non è disperata, ma spinta ad andarsene e a venirsene qui)».
    Discende logicamente da tale analisi – che non vede affatto gli Usa come “l’amico americano” (gli antichi “liberatori”) né come l’alleato, sì, più forte ma in sostanza rispettoso delle autonomie degli alleati minori (i Paesi europei), bensì – come pensava e scrisse anche Fortini ai tempi della prima Guerra del Golfo di Bush – « il nemico del genere umano» – che quanti sostengono le ricette economiche, politiche e culturali degli Usa nella loro politica interna (nazionale) e nelle scelte internazionali (guerre contro la Serbia, poi in Afghanistan, Irak, e poi contro Gheddafi, ecc) sono nemici; e niente affatto capi di stato che difendono realisticamente e con qualche doveroso compromesso gli interessi della propria nazione.
    Ne discende pure, tanto per fare degli esempi, la condanna delle politiche di Berlusconi, di Monti e di Renzi. E per quel che riguarda la Grecia un giudizio scettico e negativo sulla politica di Tsipras e su come si sta muovendo anche in quest’occasione in cui lo scontro con l’UE è plateale e suscita grande attenzione.
    E ancora, che a differenza di certi osservatori politici che paiono guardare lo scontro tra la Grecia di Tsipras e l’UE come scontro tra la democrazia e la tirannide o uno scontro tra un paese colonizzato e un imperialismo tedesco (la Merkel), La Grassa sottolinea che «non c’è un imperialismo tedesco autonomo da quello Usa». E mette sotto accusa in modo durissimo quanti «si fingono critici [ma] distolgono proprio l’attenzione» dalle scelte politiche degli Usa e la indirizzano verso altri paesi (Germania). Ma sotto accusa sono pure quanti «straparlano delle massonerie finanziarie, della fine degli Stati e dell’affermarsi di un “Grande Fratello” mondiale».
    Quello che davvero conta in questa ottica tutta politica è se in qualche Paese d’Europa potranno davvero nascere spinte indipendenti dalla politica degli USA.
    A questo punto chi viene dalla tradizione di sinistra e marxista e considerasse che, sì, davvero gli Usa sono « il nemico del genere umano», che l’UE e tantomeno i governi italiani non hanno sufficiente indipendenza dagli Usa, che di fronte alla “miopia” o alla “sordità” dell’UE la stessa crisi greca potrebbe trovare una soluzione più favorevole se Tsipras avesse aperto davvero alla Russia di Putin o alla Cina, si trova di fronte ad un dilemma non da poco.
    Perché il ripensamento rigoroso che G. La Grassa ha fatto negli ultimi decenni di Marx e del marxismo l’ha portato a dichiararne l’insufficienza. Il discorso è qui troppo difficile da riassumere in breve. Ma è, ad esempio, evidente, che nel considerare le spinte indipendentiste che in Europa davvero potrebbero opporsi agli Usa, La Grassa non esita a vedere di buon occhio quelle della Le Pen in Francia o della Lega di Salvini in Italia. O, sia pur a certe condizioni, è disponibile a contrapporsi alla globalizzazione ( e, ripeto, all’uso politico che gli Usa ne stanno facendo e qui il richiamo all’Isis e alle immigrazioni torna in primo piano) attraverso un ecupero della *sovranità nazionale*.
    Siamo davvero in un contesto che rende completamente vane le analisi fondate sulla lotta di classe, sul conflitto capitale/lavoro?
    O impensabile la lotta cui accenna Marazzi nel suo articolo (Che cosa intende per «democrazia reale»? Una democrazia è reale quando si appropria delle ricchezze e le redistribuisce, garantisce un reddito di cittadinanza e aumenta i salari. Elimina le mediazioni degli investitori finanziari ed eroga direttamente risorse, servizi e infrastrutture per i cittadini europei)?
    Hic Rodhus, hic saltus?
    Sono questioni enormi e difficili da discutere. Ma invece di nascondere la testa nella sabbia liquidandole come « disquisizioni e analisi sui massimi sistemi geopolitici e la rava e fava» (la funambola) sarebbe il caso di pronunciarsi. Tanto la realtà ce le mette sotto il naso prima o poi.

  4. Sottoscrivo in pieno Mascitelli. Mi ha tolto le parole di bocca (o dalla tastiera). Aggiungo che uno degli effetti laterali della vicenda, in linea con il suo diventare tragedia reale, è che con il suo procedere si vanno ogni giorno di più chiarendo le posizioni di tanti che intellettuali, esperti, testate, blog, specialmente italiani. Ma non lo sapete vedere o non lo volete dire il gioco delle controparte del governo greco?

  5. questa analisi di mauro piras, insieme a quella di habermas su Repubblica di qualche giorno fa, mi sembrano le cose più pertinenti che, sulla crisi greca, siano finora state espresse dai media italiani. carenza di diritto pubblico (cioè di politiche istituzionali) da parte dei creditori, assenza di riforme politiche da parte dei governi di atene (incapaci di modernizzare il paese e di farlo uscire dalla corruzione), populismo alla chaves da parte degli ultimi indigeni eletti (che vorrebbero un venezuela al centro dell’europa). bel pasticcio. ma la “forza civilizzatrice del capitalismo” (marx) finirà lo stesso per vincere, calpestando migliaia di morti.

  6. @Piras continua a fare le sue osservazioni politiche renziane e volte a distruggere quel po’ di giustizia sociale e di welfare che ci resta nell’Europa dell’austerity e della predominanza dei mercati, delle banche, che vuole far pagare i debiti ai meno ricchi,oggi nemmeno sicuri di un lavoro., di un reddito che permetta di vivere. Ma lla Gracia sta difendendo la sua democrazia, la dignità dell’uomo dalla rigida dvisione in classi di reddito, in favore dei beni comuni. Tsipras non vuole fare riforma che costino solo ai pensionati e ai piccoli redditi. E’ qullo che ha chiesto a noi la troika, e Renzi l’ha fatto, e non riparte niente. Perché l’economia è globale, i paesi ricchi sono pochi, i poveri tanti. Riparliamo di liberazione dell’uomo dai bisogni. Riparliamo di equa distribuzione dei redditi. In Grecia è RESISTENZA, contro un modo di concepire l’Europa , autoritario e rigido.
    D’altra parte noi abbiamo aiutato la Germania dopo gli orrori del nazismo e della guerra,ma i tedeschi hanno la memoria corta. Anche dopo la caduta del muro. @Mascitelli. Sono d’accordo, stanno aspettando di rovesciare un governo eletto democraticamente. I soldi, quando c’era Papandreu furono prestati alle banche non ai servizi, ai beni, alle strutture che tenevano in piedi un popolo inemetgenza umanitari. Comunque vada Tsipras verrà sostituito con un governo di tecnocrati che taglieranno su tutto quello che serve a una società civile per sopravvivere tutti, speriamo anche per vivere..

  7. Be’ ma come Italia ed italiani siamo soliti rimanere nel mezzo da secoli, un colpo di qui ed uno di lì con l’occhio di riguardo sempre al potente di turno per salvare la pelle e mendicarne qualche beneficio. Credere che la convenienza tattica nel contingente ci tornerà utile strategicamente è ciò che ci rende inaffidabili a livello di politica comune e sostanzialmente non credibili come singola voce, oltre che per i rapporti di forza economici. Ma parlando terra terra, come parlano i furbi, bisognerebbe far notare a tutti questi geni della tattica due cose: uno, il giochetto della catena, che la Grecia cioè è l’anello debole corrente ma che subito dopo ci siamo noi Italia come grimaldello per far saltare l’intera costruzione comune (e che dunque salvare la Grecia serve certo a tutti ma anche e prima a noi stessi); e che la rilevanza strategica di una Grecia europea, parte della NATO, è incommensurabile di questi tempi: abbandonata a se stessa corre il rischio di diventare una polveriera al suo interno ed un cavallo di Troia all’esterno.

  8. Alexis Tsipras giudica necessaria una ristrutturazione del debito molto significativa affinché la Grecia possa rimanere nell’euro. Il premier ellenico ha proposto un taglio nominale del 30%, e un reprofiling a 20 anni delle obbligazioni che la Grecia ha nei confronti dei creditori. Il governo di Atene ha un debito pubblico di 323 miliardi di euro, controllato per il 76% dalla cosiddetta Troika. I Paesi dell’Eurogruppo, via i veicoli finanziari Greek Loan Facility (istituito nel 2010 con il primo programma di assistenza) e EFSF, hanno un credito da 195 miliardi circa. Il Fmi più di 30 miliardi, mentre la Bce ha in mano circa 17 miliardi di obbligazioni elleniche, comprate nel 2011 durante il programma Smp avviato dalla presidenza Trichet per contrastare l’allora crisi dello spread. Il resto del debito greco, poco più del 20%, è in mano ai privati. Alexis Tsipras ha chiesto ai suoi più grandi creditori, l’Europa, il Fmi e la Bce, un taglio nominale del debito del 30%. Ciò significa che la Grecia potrebbe risparmiare circa 70 miliardi di euro in pagamenti futuri se la fu Troika accogliesse questa proposta. Il premier greco ha proposto inoltre un reprofiling a 20 anni, ovvero l’allungamento delle scadenze delle cedole. Le obbligazioni, a 5, 10 e 15 anni, dovrebbero essere ripagate in un lasso temporale più lungo. Ciò significare ridurne, anche in modo significativo, il valore. L’Europa perderebbe così poco meno della metà dei circa 200 miliardi di crediti che ha verso la Grecia. Una simile riduzione del debito è stata adottata nel 2012, quando la base del secondo programma di salvataggio, scaduto il 30 giugno 2015 e non completato visto lo scontro tra Atene e Bruxelles, quando i debitori privati della Grecia hanno compartecipato al default ellenico. Le perdite subite dai creditori privati sono stati superiori al 70%, e ciò ha permesso alla Grecia di ridurre di circa 100 miliardi il valore complessivo del suo indebitamento. Il più grande default della storia non è però servito a far ripartire l’economia ellenica, e ora Alexis Tsipras chiede all’Europa un nuovo sacrificio economico, molto consistente e contraddittorio con l’intero programma di salvataggio della moneta unica. Angela Merkel ha promesso ai tedeschi che l’euro sarebbe stato salvato senza la perdita dei loro soldi; in parte già non è stato così, ma un taglio del debito di questa consistenze smentirebbe completamente la stessa premessa della gestione dell’eurocrisi. L’esito del referendum chiarirà quale sarà la forza di Alexis Tsipras nella trattativa con i creditori che sarà riavviata lunedì 6 luglio. Una simile proposta difficilmente potrebbe essere accolta da qualsiasi governo dell’unione monetaria, e sicuramente all’interno dell’Eurogruppo nessuno sarà generoso verso Tsipras e Varoufakis. La Grecia però potrà rimanere nell’euro solo con una ristrutturazione del debito, vista la palese incapacità di servirlo dimostrata in questi anni.

  9. Il referendum indetto da Tsipras, allora, è una sfida alla troika e ai mercati, che investe anche l’Italia e chiama all’apertura di un fronte internazionale per rilanciare la democrazia a livello europeo. È tempo di organizzarsi e di contrapporre alla valorizzazione capitalista, che soffoca capacità, aspettative e desideri, l’autovalorizzazione di cooperazione e creatività sociale. Le istituzioni europee devono esprimere la molteplicità della composizione sociale e delle forme della produzione, riconoscendo a livello sostanziale i diritti fondamentali e la capacità di ciascuno di dirsi e autodeterminarsi, assumendo la centralità dei beni comuni e assicurando a tutti una vita dignitosa.

    La battaglia di Tsipras, la sfida del popolo greco, è nel rifiuto di ridurre la vita ad accessorio del capitale. In un’Europa in cui tutto sembrava già scritto e incasellato in numeri e imperativi finanziari, la Grecia chiama l’Eu

  10. l’Europa ad appropriarsi dello spazio della politica, rivendicando diritti e democrazia per tutti.
    Un popolo come il nostro che non ha mai ftto una rivoluzione e creato una classe dirigente solida e preparata, impegnata in valori condivisi, non può parlare di ‘populismo’ e ‘democrazia’. Si parte dal popolo, dai bisogni e si giunge alle istituzioni democratiche. Ma non si usano queste parole a caso, per sostenere una tesi. Bisogna distinguere bene le due tendenze, che vanno unificate e stabilizzate.

  11. In tutta questa vicenda e, temo, anche nel prossimo futuro dell’Unione Europea, il nodo da sciogliere è quello della sovranità nazionale. Finora la struttura istituzionale dell’Unione rende possibile il dispiegarsi, da parte degli Stati membri, di pretese di sovranità nazionale anche quando queste vadano a cozzare con gli interessi economici e/o politici dell’Unione nel suo insieme. Anche la posizione tedesca scaturisce dalla difesa di interessi nazionali, ma la Germania vince perché la sua potenza economica è superiore a quella di tutti gli altri stati membri.
    Insomma, c’è da aver paura; perché, temo, in condizioni di crisi, la difesa degli interessi nazionali e, quindi, la pretesa di esercitare la sovranità nazionale ad ogni costo, faranno esplodere il bubbone dei nazionalismi. Dopo la sconfitta del nazismo, dopo l’unificazione della Germania e l’inclusione dei paesi dell’Est, e mi viene da dire anche dopo le guerre jugoslave, siamo punto e a capo: inneggiamo allo stato-nazione come baluardo della democrazia.

  12. Forse non sarà “la ‘forza civilizzatrice del capitalismo’ (marx)” a vincere, alla fine (Leonardo Ceppa), invece forse la forza inconsapevole delle rivolte, calpestando comunque migliaia di morti.
    Bella la ricostruzione di Piras, completa e ineccepibile, se fosse scritta tra cinque o dieci anni, con l’occhio spassionato dello storico. Oggi pare si tratti di agire e di fare la storia, con poco distacco, come fu fatta dalle insurrezioni e rivoluzioni, con tutti i torti e le ragioni in atto.
    Certo in questo modo l’UE non può continuare a guidare tre quarti di miliardo di persone, nei loro paesi tuttora con forti storiche identità.

  13. La difficoltà nell’intervenire per commentare il post di Piras, è che esso si occupa di una questione politica centrale che mostra tante sfaccettautre e che avrebbe richiesto ben altra introduzione.
    Al contrario, Piras si occupa di una questione che potremmo definire di dettaglio, il referendum che si sta tenendo oggi in grecia, e quindi un passaggio specifico che per quanto rilevante, appare in ogni caso come un modo di approcciare la questione complessiva improprio, visto che ignora il pregresso, così come la gran parte delle implicazioni ad esso conseguenti.
    Se quindi qui sono chiamato ad un giudizio sul referendum, voglio per disciplina limitarmi a parlare di questo. Nel mio blog, così come su fb, ho scritto e riscritto su queste questioni, quindi chi fosse interessato, può riferirsi a queste fonti per conoscere la mia opinione sul complesso della questione unione europea.
    Sono altresì disponibile su esplicito invito della redazione a scrivere un post per questo sito.

    Piras quindi tratta la questione del referendum, e nel suo impeto finisce col dire addirittura che (cito letteralmente):

    “Inoltre, questa drastica limitazione dei tempi non è affatto democratica dal momento che il governo non è neutrale, ma si schiera apertamente per una opzione, lasciando poco tempo alle opposizioni per organizzarsi e promuovere l’opinione contraria. La posizione di vantaggio del governo, che in tutte le occasioni ribadisce la sua posizione per il no, configura questa situazione piuttosto come una operazione di propaganda, dal momento che dall’altra parte non si gode della stessa visibilità e centralità. Come sarebbe la divisione del voto tra le due parti se si potesse votare dopo un periodo più lungo di dibattito pubblico, e con una vera neutralità del governo? La mossa di Tsipras sembra un’abile mossa populista, non democratica: vuole un plebiscito a suo favore; oppure, se perde, vuole scaricare sui cittadini la responsabilità di dover prendere misure impopolari.”

    A parte che la campagna per il sì l’ha fatta e con ben altri mezzi Draghi e la BCE limitando la liquidità a quella già concessa senza ulteriori versamenti alle banche greche, costringendo la gente a defatiganti code davanti a banche e sportelli bancomat, ed è strana questa dimenticanza, io faccio a tsipras la critica esattamente opposta, di avere concesso all’opposizione interna greca e quindi alla eurocrazia criminale un vero e proprio regalo.
    La cosa è molto semplice, secondo le regole costituzionali del suo paese, il parlamento avrebbe potuto deliberare sia il rifiuto che l’accettazione dell’accordo in piena legittimità, senza alcun obbligo di rivolgersi al popolo tramite lo strumento referendario, ed in verità non si capisce che vantaggi possa Tsipras cogliere dall'”oxi” che noi tutti ci auguriamo vinca oggi, ed in effetti in questo caso, Tsipras si troverà nuovamente un accordo probabilmente più sfavorevole alal grecia, sicuramente non più favorevole con i suoi concittadini che da martedì nel caso migliore troveranno le banche chiuse.
    Non v’è quindi con tutta evidenza nessuna logica in questa indizione, perchè l’unico effeto è quello di avere concesso agli eurocriminali una possibilità di batterlo se malauguratamente vincesse il sì.
    E’ tanta illogica questa indizione di referendum che l’unica spiegazione è che Tsipras pensasse che gli eurocrati si sarebbero così tanto impauriti dell’esito del referendum da calarsi le braghe nel corso della trattativa. In effetti, ci siamo stati vicini, Junker l’aveva già fatto, ma la Merkel che rimane un personaggio politico comunque almeno una spanna più in alto degli altri eurocriminali, ha deciso di vedere il bluff di Tsipras che a quel punto non ha avuto altra alternativa che far svolgere il referendum. Cioè, io penso che si sia trattato semplicemente di un grave errore tattico da parte del governo greco. Se poi costoro vorranno seguire una strategia che non si limiti a queste manfrine, ne saremo tutti lieti.

  14. Concordo con te Mauro! Qui non si tratta di contrapporre il povero indifeso al ricco arrogante ed egoista. Qui si tratta di mantenere in piedi la perfettibile ma comunque piu’ avanzata associazione di stati democratici del mondo. La loro economia e’ di mercato. Non si tratta ne’ di una famiglia allargata, ne’ di un falansterio e neppure di una grande comunita’ francescana. Le sue regole sono state formalmente decise e sottoscritte da tutti. Esse non prevedono che, nel caso un suo membro, per corruzione intrinseca imbrogli gli altri membri dell’associazione, lo si debba tollerare. Sarebbe un precedente che creerebbe automaticamente la morte del nobile progetto di Altiero Spinelli, realizzato da De Gasperi, Schuman e Adenauer. La fine del modello europeo di stato sociale, il migliore tra gli attuali presenti al mondo, sancito dalle Costituzioni dei principali Paesi fondatori: Francia, Germania e Italia. Il resto sono fantasie demagogiche amate a destra e a sinistra da chi, per altri fini o ingenuita’, intende la politica quale arte della parola fantasiosa. Io voglio rimanere in questa Europa che amo e non in un’altra che non esiste. Non distruggiamo quanto abbiamo faticosamente costruito, miglioriamolo ma con i piedi per terra! Il nostro modello non puo’ certo essere quello di gestione irresponsabile e levantina: e’ proprio quello basato sullo sfruttamento del potere da parte dei corrotti a svantaggio delle classi economiche piu’ disagiate!

  15. La Grecia, fin dall’inizio, ha avuto l’ambizione di uscire da questa prospettiva limitata, e ha voluto porre la questione del debito; ma allora doveva muoversi con grande attenzione per costruire intorno alle proprie proposte un clima di fiducia, che le rendesse credibili

    Frasi del genere, come il tono generale di questo articolo, non fanno altro che ribadire quello che, grande merito della battaglia greca nel resto d’Europa, negli ultimi mesi è diventato chiaro: e cioè che nello scontro in atto è stato ed è necessario prendere posizione, e che la compagine socialista europea ha fatto la propria scelta. Le vellutate parole dell’Europa liberista, usate da Piras, non bastano più a nascondere il portato di disuguaglianza e di ingiustizia economica e sociale che attraverso di esse è veicolato. Non è possibile rispondere a un articolo del genere senza arrivare alle questioni fondamentali, e cioè: la lotta e il coraggio del popolo greco (fuori di retorica: sono le loro condizioni di esistenza che vengono messe sul piatto; e al di là degli errori del governo Tsipras) covano al loro interno una possibilità alternativa, un inizio, o no? La scelta che fra poche ore tutti noi conosceremo potrà imporre una linea diversa all’Europa? Oltre alle scelte che il governo greco compirà domani, quello che stiamo vivendo è uno snodo tragico, dove sono due e solo due le scelte possibili, o è ancora una volta momento di una democrazia di facciata, destinato a lasciare immutati i rapporti di forza? Le contraddizioni della democrazia europea sono oggi giunte al pettine o no? La risposta deve essere netta.
    Attendendo l’esito nell’afa di luglio, resta solo da dire che, arrivati a questo punto, non si danno posizioni di mediazione ma schieramenti netti, e oggi – domani è già un altro discorso – non vedere le implicazioni politiche di questo voto, mantenere simili toni dubitativi, e sopratutto spostare il discorso sul piano tecnico di un presunto deficit democratico nei meccanismi del referendum (ma di cosa stiamo parlando, coi tempi della crisi greca?), è già schierarsi al fianco di chi, dal Messico all’Argentina alla Grecia, negli ultimi trent’anni ha costruito un ordine e un’ideologia fino a qui incontrastati.

  16. Caro Mascitelli,
    la tesi della sovranità limitata non mi convince: la Grecia ha ottenuto dei finanziamenti consistenti, e una riduzione del suo debito pubblico, quindi è normale che abbia dei vincoli con i suoi interlocutori. La sua sovranità è stata limitata effettivamente nel 2011, quando gli altri stati europei fecero pressioni su Papandreou per non fare il referendum sulle trattative in corso (che infatti non si fece). Ma questo non è successo ora, anche perché tanto la Bce quanto la Commissione europea hanno una guida diversa.
    In ogni caso, anche se fosse vero che lo stato greco non è libero di decidere, non riesco ancora a capire come questo possa giustificare delle forzature come quelle che ho cercato di descrivere. E’ evidente che i creditori hanno avuto anche comportamenti scorretti, e quindi la mossa di Tsipras si può giustificare strategicamente, per reagire a questi comportamenti e avere più forza. Ma non inneggiamo alla democrazia, allora.

    Caro Mattia,
    io penso che se un governo viene eletto per rappresentare i cittadini, deve farsi carico di fare delle scelte, non ritornare agli elettori quando è in difficoltà. Inoltre, difendo l’idea che decisioni di questa complessità non andrebbero lasciate ai meccanismi della democrazia diretta, perché diversamente dai casi in cui bisogna esprimersi per dei diritti (esempio: divorzio, aborto) le conseguenze del voto sono molto difficilmente prevedibili da parte degli elettori, che necessariamente non saranno informati più di tanto. La democrazia liberale si fonda anche sulla libertà di non partecipare, non va dimenticato: se ci fosse l’obbligo di partecipare e informarsi sempre, non sarebbe più liberale. Certo, se la partecipazione crolla, anche la democrazia liberale entra in crisi. Questo è un dilemma, ma non si risolve imponendo l’obbligo di partecipare. In ogni caso, anche io come cittadino informato avrei molta difficoltà a decidere su questa materia, e mi sentirei preso in giro da un governo che ho (eventualmente) eletto per decidere.
    Attenzione, se facciamo sempre prevalere il contenuto sulla forma saltano tutti i vincoli procedurali che garantiscono l’eguaglianza dei diritti politici.
    Il governo doveva dire di no autonomamente, se era convinto, e non tornare agli elettori. Il problema adesso è questo: il no sta vincendo, speriamo che si riprenda la trattativa, ma certamente sarà molto più difficile perché Tsipras ha esaurito il suo capitale di fiducia. Ha ottenuto il suo plebiscito, bene, vediamo come lo usa per ottenere un accordo migliore, ma le condizioni sono molto peggiorate, anche a causa del rischio di insolvenza dello stato greco. E se si riprende la trattativa si dovrà riconoscere una certa lungimiranza anche agli interlocutori, che potrebbero anche irrigidirsi nella contrapposizione dei nazionalismi a cui anche Tsipras non si è sottratto, invece di trattarli da “terroristi”.
    Io ho detto che le politiche di austerità hanno favorito la recessione in Grecia, quindi siamo d’accordo; volevo però dire che la Grecia deve anche affrontare i suoi problemi strutturali interni, come l’Italia.
    Sulla riduzione del debito siamo d’accordo, è proprio quello che dico. Tuttavia, per ottenere questo Tsipras avrebbe dovuto essere più affidabile.
    PS: poiché discutiamo da liberi cittadini e non siamo più nella relazione docente-discente, non esitare a darmi del tu, altrimenti per mantenere la simmetria mi trovo costretto a darti del lei :)

    Caro Ennio Abate,
    se si tratta di uno scontro mortale, allora l’unica cosa che conta è il comportamento strategico, e non è così rilevante interrogarsi sulle carenze della democrazia europea o greca, siamo d’accordo. Ma il mio intento era solo quello di mostrare che appunto il referendum greco non è “la vittoria della democrazia”. Se è solo una mossa per vincere la partita, posso non essere d’accordo sulla mossa, ma è perfettamente legittima.
    Mi scusi, non il tempo adesso di leggere i suoi appunti, lo farò appena posso.

    Caro malo,
    il gioco della controparte ho cercato di descriverla (inadeguatamente, certo). Attenzione però, che è, molto più che un problema di neoliberismo, un problema di nazionalismi chiusi e contrapposti.

    Grazie Leonardo, ma l’accostamento a Habermas mi sembra esagerato :)

    Cara Gloria Gaetano,
    io non faccio osservazioni renziane. Intanto perché non credo che Renzi abbia in mente analisi di questo tipo. E poi perché cose di questo genere io le scrivo dal novembre del 2011, quando Renzi stava ancora remando e contava ben poco nella politica italiana e europea.
    Inoltre: la retorica della resistenza contro le banche ecc. è molto bella, ma bisogna anche guardare i dettagli. Un sistema pensionistico non è sostenibile se un pensionato su quattro ha meno di 55 anni (uno su tre nella pubblica amministrazione). Aggiustare il sistema pensionistico è un problema di equità intergenerazionale, non è un dogma del neoliberismo. E ancora: in Grecia il costo della difesa è molto alto, il memorandum chiedeva di diminuirlo. E’ l’Europa delle banche?
    Se Tsipras voleva ottenere una terza riduzione del debito (non dimentichiamo che la Grecia ne ha già avute due, e che tutti i paesi europei, compresa l’Italia, l’hanno aiutata) doveva creare delle solide relazioni di fiducia con i “creditori”. Non l’ha saputo, e forse non l’ha voluto, fare. Ottenerlo adesso, anche dopo la vittoria secca dei no che si sta profilando, sarà più difficile. Continuo a non vedere il vantaggio di queste mosse.
    Per rilanciare la democrazia a livello europeo, bisogna lottare per istituzioni politiche europee più forti, non calcare la contrapposizione tra il “popolo greco” e gli altri popoli, continuando così ad alimentare i nazionalismi che bloccano l’Ue. Ci sono delle forti spinte nazionaliste, dietro la vittoria dei no.

  17. Vorrei riproporre anche su LPLC questa poesia di Francesco Di Stefano:

    LA SCERTA

    La storia de li grechi urtimamente
    m’aricorda er somaro de quer saggio
    che messo fra du sacchi de foraggio
    se ne sta bono senza magnà gnente

    aspettanno che Pasqua viè de maggio
    e de fame te crepa lentamente.
    Inzomma si la bestia è reticente,
    a sti poracci se chiede er coraggio

    de scejese la morte che je piace
    condannati da quest’Europa bella
    che se vanta de vive in santa pace

    ma invece sotto sotto se sbudella:
    si dicheno de “sì” ce sta la brace,
    si dicheno de “no” c’è la padella.

    E aggiungere, in riferimento agli ultimi due versi (si dicheno de “sì” ce sta la brace,/
    si dicheno de “no” c’è la padella.”) che saranno da non sottovalutare le critiche mosse a Tsipras (doveva lui assumersi la scelta invece di andare ad un referendum frettoloso, ecc.), ma è certo che il popolo greco (o il possibile *noi* politico che si sta affacciando in Grecia?) pare meno bue di come lo pensano alcuni e comunque non ha fatto la fine dell’asino di Buridano e ha scelto.
    Se avesse votato sì, si sarebbe detto che aveva ceduto alla paura ed era fatto dei soliti pecoroni. Il no dimostra quantomeno che la paura non l’ha fermato. E’ poco ma non è nulla. La situazione si complica ma i ricatti non hanno funzionato. Ora ci vorrebbero altri No in Italia, in Spagna…Chissà.

  18. Per mantenere il rapporto di “fiducia” Varoufakis avrebbe dovuto non tanto indossare una cravatta come si deve, quanto consentire senza discussioni alla cessione del porto del Pireo, come concordato (insieme ad altre quisquilie come la concessione ai privati delle licenze per lo sfruttamento di quattordici aeroporti in tutto il Paese e della rete di distribuzione del gas) dal precedente governo greco in cambio degli aiuti.

    Come la richiesta della troika di cedere ad una holding controllata dal governo cinese il principale porto del Mediterraneo possa essere rappresentata come “economica e non politica”, francamente mi sfugge.

  19. Trovo questo post di Piras irrispettoso verso l’intelligenza popolare greca.

  20. C’è un articolo di Cazzullo oggi, sul Corriere della Sera, che inizia dicendo che il voto di ieri è soprattutto una manifestazione di una rivolta, generalizzata, contro le élites. Che rapporto c’é con l’insofferenza, generalizzata, nei confronti dell’immigrazione? La cosa che mi ha fatto più impressione di quello che è successo ieri sono stati i sondaggi sull’opinione degli italiani. Il 75% approva il voto dei Greci di ieri. Quindi gli itallani sono solidali (se tagliamo il debito ai Greci sacrifichiamo una parte dei nostri soldi)… Ma perché se arrivano gli immigrati extracomunitari il 75% degli italiani (circa) assume un atteggiamento diametralmente opposto? Sarebbe molto interessante, statisticamente e sociologicamente, incrociare i dati: in che percentuale sono sempre gli stessi italiani, a sfogare una rabbia sorda contro qualcuno, élites di Bruxelles e profughi/poveri africani?

  21. Tra il suicidio assistito e la terra incognita i greci hanno scelto la terra incognita. Non mi pare così strano. In bocca al lupo.

  22. (Non mi dimentico che dovrei rispondere ancora ad alcune obiezioni, ma vorrei intanto aggiungere questo commento generale alla situazione dopo il voto.)

    La democrazia, si sa, si basa sull’eguaglianza. “Porterò con orgoglio il disgusto dei creditori nei miei confronti”, ha scritto Varoufakis dopo le dimissioni. Il problema è che dietro i creditori ci sono anche degli stati, dal momento che il grosso del debito pubblico greco ora è detenuto dagli stati dell’Ue. E che i cittadini di quegli stati, come quelli greci, potrebbero rivendicare come una scelta democratica, espressa dai loro governi, la difesa dei loro interessi nazionali, nello specifico la tutela degli investimenti fatti (per salvare la Grecia, al momento della ristrutturazione del debito del 2012). Se l’unica democrazia che conta è quella greca, l’eguaglianza salta. La verità è che la posizione del governo greco si iscrive perfettamente, e simmetricamente, nel gioco degli altri governi: noi difendiamo i nostri interessi nazionali, contro i vostri attacchi. Continuo quindi a pensare che il referendum non esprima una affermazione della democrazia contro il capitalismo, ma una forte affermazione nazionalistica, in opposizione ad altri nazionalismi. E infatti una percentuale così alta di “no” non si spiega solo con l’elettorato di sinistra, ma certo con una esasperazione sociale diffusa che prende anche altre vie.
    Dal punto di vista del rapporto con gli stati dell’Ue, e in particolare con la Germania, ancora non vedo in che senso il referendum è stato un vantaggio. Certo, si può dire che ora i “creditori” devono tenere conto del voto greco. Ma c’è il problema di sopra: anche il governo greco deve tenere conto dei cittadini degli altri paesi. Ecco perché la Germania e gli altri paesi della Ue sono disposti a trattare, sì, ma sono molto più diffidenti e quindi la strada è, ora, più difficile, non più facile. Lo dimostrano proprio le dimissioni di Varoufakis: se il voto del referendum avesse rafforzato il governo greco nella trattativa, allora non avrebbe dovuto cedere a questo ricatto di far dimettere il proprio ministro delle finanze. Invece ha dovuto cedere, perché la trattativa è più difficile, non più facile.
    Allora a che cosa è servito questo referendum? Solo a produrre questo senso di esaltazione, per cui i Greci e i loro sostenitori possono dire “abbiamo salvato la dignità”? Ma questo ha senso se salvare la dignità serve a qualcosa. In realtà, Tsipras aveva bisogno di questo voto per rafforzarsi all’interno, non nella trattativa. Aveva bisogno di rafforzare la sua legittimazione politica interna, perché non ha avuto la forza di dire no solo sulla base del mandato elettorale. Per fare questo, però, ha reso molto più difficile la trattativa e sta esponendo l’economia greca a rischi altissimi.
    Un’ultima cosa: continuare a dipingere la Grecia come la vittima e la Ue, i creditori ecc. come i carnefici è una distorsione politica molto grave. Su questo blog si è discusso del recente libro di Daniele Giglioli “Critica della vittima”. Il suo insegnamento andrebbe ricordato: nella logica della vittima, questa è sempre innocente di fronte al “Male”. Molta sinistra ora sta replicando questa logica: il capitalismo è il Male, la piccola Grecia è la sua vittima. Questo porta a semplificare le analisi e nascondere le responsabilità della vittima stessa, nonché a limitare le sue capacità di azione. La vittima può solo subire o ribellarsi rischiando tutto. Non può agire politicamente.

  23. Caro @ Piras, se posso, vorrei porle due domande. Vorrei chiederle perché pensa che i greci, dopo quasi cinque anni di trattative e accordi e averne sperimentato le conseguenze, siano meno consapevoli e informati di quanto non lo fossero i cittadini francesi e olandesi quando hanno rifiutato di ratificare la costituzione europea, o gli svedesi l’entrata nell’euro, oppure se lei pensa che i cittadini britannici saranno più consapevoli e informati quando si tratterà di votare l’uscita dall’Unione.

    Sono convinto che si possano dire tante cose su questa crisi, ma è di sicuro la crisi del progetto minimalista dell’Unione europea come accordo intergovernativo. Lei ha ragione a sottolineare che questo referendum è uno strappo ed è stato fatto in emergenza. Ma non pensa che sia un fallimento del governo dell’Europa (nel senso di goverance)? E non pensa che questa mancanza di governo si veda anche di fronte ad altri problemi?

  24. Cara Cristiana Fischer,
    e invece io ho scritto proprio dall’urgenza dell’oggi, non con lo sguardo distaccato dello storico. Chiunque fosse stato favorevole al sì avrebbe potuto dire che non è stato dato tempo e spazio all’opposizione per organizzarsi. E le conseguenze economiche dell’interruzione delle trattative da parte di Tsipras sono un problema urgente, ed è proprio questo che mi fa dubitare della sua scelta.

    Caro Cucinotta,
    sulla sostanza sono d’accordo con lei: la mossa di Tsipras è tattica, ma in questo senso, nei confronti dei suoi interlocutori europei, ha fallito.

    Caro Giorgio,
    grazie del tuo apprezzamento, concordo con te, anche se bisogna evitare di scavare la contrapposizione tra “modello tedesco” e “modello greco”. Ognuno deve assumersi le sue responsabilità, la Merkel ora dovrebbe avere più coraggio.

    Caro Filippo Grendene,
    il referendum greco potrà essere un nuovo inizio per l’Europa se anche i Greci riconoscono che dall’altra parte non ci sono solo i guardiani del capitalismo globale, ma anche altri popoli che hanno la stessa loro dignità, e che hanno già investito risorse ingenti proprio per salvare la Grecia. Se si riconosce cioè che bisogna evitare la contrapposizione tra i popoli, ma difendere la solidarietà europea, che è espressa anche dagli impegni che si prendono. Far saltare gli impegni in nome della rivoluzione socialista non contribuisce alla solidarietà europea. Ecco perché penso che non sia il tempo degli schieramenti netti, ma della mediazione. I grandi scontri finiscono sempre male per i più deboli.
    (PS: sono abbastanza stanco di essere etichettato come “liberista” solo perché faccio dei discorsi diversi da quelli della critica antisistema; se la critica deve diventare un mettere tutti nello stesso sacco, senza vedere le differenze, allora diventa inutile.)

    Cara Michela,
    non c’era niente di tutto questo nella proposta di accordo di cui si discuteva alla fine di giugno.

    Caro Baldini,
    i problemi che ho sollevato sono due: da un lato, i tempi stretti che hanno impedito di organizzare una opposizione al no e possono avere contratto i tempi della discussione, perché discutere per decidere non è lo stesso che discutere per giudicare un governo che deve decidere; dall’altro, il dubbio che temi di questo genere possano essere oggetto di referendum. Riguardo al primo problema, i referendum francese, olandese, svedese e inglese non sono dei controesempi, perché sono stati annunciati con largo anticipo; aggiungo inoltre che i cinque anni precedenti (o cinque mesi se ci riferisce all’ultima trattativa) non sono così determinanti, perché la domanda era molto specifica, chiedeva di votare su un memorandum che è stato reso pubblico solo a fine giugno. Sul secondo aspetto la mia posizione è più difficile da difendere, lo ammetto. Però anche in questo caso i referendum citati non sono pertinenti, perché non erano su materie fiscali e finanziarie, ma costituzionali, o di adesione a un trattato internazionale. Io dubito invece che le materie fiscali e finanziarie possano essere oggetto di referendum, in linea con quanto prevede la nostra Costituzione, che esclude questo tipo di referendum. Una prima ragione visibile è ovvia: se chiedi ai cittadini “volete pagare più o meno tasse?”, la risposta è prevedibile (e questa è la ragione che sta dietro la scelta dei nostri costituenti). Inoltre, io penso che materie come queste abbiano conseguenze molto difficili da prevedere, e questo rende la decisione secca (tipica del referendum) molto difficile. Io ho letto con attenzione il memorandum, e lo trovo molto difficile.
    Sulla sua seconda osservazione sono del tutto d’accordo, è quello che ho cercato di dire parlando del deficit di legittimazione delle istituzioni europee. Il problema è che la via d’uscita è una forte cessione di sovranità da parte degli stati sovrani. Siamo sicuri che è quello che accetterebbero i sostenitori del no?

  25. Gentile Piras, è vero, lei ha scritto per l’oggi, tanto è vero che ha preso parte. Ma è l'”irrazionale” che non ha calcolato: la sua analisi esauriente e logica, come deve essere una ricostruzione storica, a conveniente distanza e con sguardo panoramico, non ha visto le ragioni passionali del no.
    Anche il sospetto che Junker sia un beone e che le banche del Lussemburgo siano state impegnate in elusioni fiscali, anche la vista di fame e malattie nei propri vicini e le dichiarazioni sprezzanti di personaggi lustri e grassi come quelli di Grosz, anche l’esasperazione e l’intollerabilità contano, e muovono i corporei piedi di quelli che vanno a votare.
    Solo moti e rivolte? Sì, certo, i soggetti storici sono parecchi.

  26. Gentile Piras, non per amore del battibecco ma solo perché il problema del reperimento e dell’attendibilità delle informazioni non mi pare secondario in tutta questa vicenda, preciso che la ripresa del programma di privatizzazione delle infrastrutture compare al punto 10 del documento diffuso da Mario Draghi il 26 giugno.

  27. Caro Mauro,
    sono d’accordo che è estremamente riduttivo definire le tue posizioni come “liberiste”: se prendo come sistema di riferimento le mie (ad esempio), la differenza maggiore probabilmente sta nella valutazione complessiva del ruolo che il mercato deve avere nel processo democratico – ma soprattutto sulla governamentalità, per usare un temine (foucaultiano) un po’ più generale e comprensivo delle semplici “governance” o “governabilità”: ridotto al minimo e posto sotto tutela secondo me, sostenuto e accompagnato secondo te, ma sicuramente (almeno un minimo) controllato: per questo non puoi essere un liberista. Se ho capito bene. Per te il mercato, nella sua estrinsecazione nel modo di produzione capitalista, fa parte della soluzione del problema, secondo me è il problema. Da questo ne discende inevitabilmente una valutazione diversa – e anche un’enfasi diversa nel porre in primo piano certi aspetti a discapito di altri – su tutta questa vicenda.
    Vediamo.
    Parlare della dignità degli altri europei (o della equivalenza di tutte le democrazie coma fa Juncker) mi pare un argomento non molto pertinente: primo perché non penso che Tsipras li voglia mettere in dubbio, secondo perché ho l’impressione che il ricorso a tali argomenti da parte dei “creditori” sia alquanto demagogico: qui ci sono in ballo prima di tutto gli interessi di banche e delle varie oligarchie finanziare (eh sì, io credo che cose del genere esistano per davvero) e solo secondariamente e di sponda quelli dei cittadini europei. Senza contare che proprio quei soggetti, così pronti a farsi scudo di principi così importanti come eguaglianza e democrazia, hanno ampiamente dimostrato – attraverso i loro giornali, i vari think tank e scritti pubblicati – come in realtà li considerino poco più che un ostacolo nel perseguimento dei loro interessi, e non da oggi.
    Tutti ormai criticano apertamente la burocratizzazione eccessiva dell’Unione Europea, la poca flessibilità nel prendere decisioni, l’impossibilità dei venire a capo dei reciproci veti che i vari paesi esprimono al fine di garantire i loro interessi – e quindi non si capisce perché i greci dovrebbero essere stigmatizzati perché perseguono i propri – ma il problema sta proprio in questa visione mercantilista che sottende ad ogni azione politica che si vorrebbe comune: lo si legge a proposito di quasi ogni questione di politica internazionale, vedi per esempio l’Ucraina e le sanzioni alla Russia. Fossimo una vera unione, magari esisterebbero dei meccanismi di compensazione per venire incontro a quelle comunità economiche più danneggiate da tali politiche, che per inciso io trovo molto discutibili. I nazionalismi nascono anche da questo senso di inappartenenza, dal sospetto che il vicino ti voglia fregare, ti voglia portare via le terre migliori: un portato storico con cui, lo si voglia o no, bisogna fare i conti. Come detto tutti sono d’accordo su questo, ma se poi si articola meglio l’analisi, quanti sono disposti ad ammettere che questa distanza tra istituzioni europee e cittadini, questa farraginosità, è dovuta soprattutto al fatto che in tutti questi anni vi è stata una sostanziale occupazione delle medesime istituzioni da parte dei delegati (diciamo così) di quelle stesse oligarchie di cui sopra? E allora che ascolto si darà effettivamente ai cittadini?
    Sui modi e sul significato del referendum. Io non ci trovo niente di scandaloso rispetto a quello che si è detto: tempi troppo brevi, quesito nebuloso (questo è successo, mi pare, anche da noi), questioni sullo sfondo abbastanza complesse da poter essere pienamente comprese. Dirò di più: penso siano discussioni secondarie. Syriza ha cercato di rilegittimarsi invece che chiedere un semplice parere, invece che procedere secondo il mandato ricevuto: bene, io dico. Considerata la posta in gioco per un intero paese, gli enormi rischi, anche solo il fatto di contarsi è importante. Tanto, al di là della pantomima a cui assistiamo, le posizioni sono chiare: o accettare il diktat di Bruxelles/Berlino con qualche piccolo ritocco secondo il mantra ossessivamente e stolidamente ripetuto – privatizzare, privatizzare, privatizzare, tagliare, tagliare, tagliare – o fallire. Tsipras ha semplicemente chiesto al suo popolo se fosse disposto a seguirlo lungo un percorso che potrebbe diventare anche molto doloroso. Demagogia? Populismo? Nazionalismo? Forse. Ma proviamo a fare un “gedankenexperiment”: come si sarebbero comportati i tedeschi, i francesi o gli spagnoli in queste circostanze? (Per la verità l’esperimento è stato fatto davvero, e 60 milioni di morti sono stati il risultato.)
    Tsipras NON ha creato il problema del debito, lo ha ereditato da governi sommamente irresponsabili e che adesso gli altri europei vedrebbero volentieri al suo posto (tanto per dire di che razza di personaggi stiamo parlando, sepolcri imbiancati, direbbe l’evangelista).
    Tsipras adesso tenta di venirne a capo come può, senza distruggere definitivamente un intero paese ed è abbastanza disgustoso veder addebitate a lui e al suo partito tutte le colpe della situazione in cui si trovano.
    Cercare il pelo nell’uovo in questo contesto, avendo a che fare con una controparte il cui minimo che si possa dire è che è maldestra (come sta cercando di far capire persino il presidente Obama), mi pare altrettanto fuori luogo. E forse disquisire dottamente di procedure democratiche, quando potresti non trovare più da mangiare, diventa anche un po’ risibile.
    E’ populismo allora? Destra e sinistra perdono il loro significato, annacquati in un confuso nazionalismo? Lo si può pensare, ma è ingenuo dire che ne si è stupiti.
    E’ un gioco a somma zero, prima e soprattutto per i tedeschi e per la loro corte di paese virtuosi. Non alieno probabilmente da un oscuro rigurgito anticomunista, un riflesso pavloviano che ha sempre ossessionato le élite europee. E certe socialdemocrazie.

  28. Cara Michela,
    ha ragione a correggermi, ho sbagliato: chiedo scusa per la risposta affrettata e imprecisa.

    Caro Alberto,
    il debito greco ammonta a 323 miliardi di euro. Di questi, 194,7 miliardi (oltre il 60%) sono controllati dai paesi Ue, tramite l’EFSF, creato apposta per sostenere i debiti dei paesi in difficoltà, e un altro fondo di aiuto alla Grecia. Del resto, solo il 10% è controllato dal FMI, e solo il 4 da banche private greche e straniere. La Bce controlla il 6%. Quindi il grosso del debito è costituito da prestiti fatti dai paesi dell’Ue, in maniera indiretta: quei paesi hanno finanziato il Fondo di stabilità e il Greek Loan Facility, che hanno comprato il grosso del debito greco, per permettere allo stato greco di pagare meno del 2% sui suoi titoli di stato, al momento della ristrutturazione del debito (leggi “bancarotta”) del 2012, che ha portato la Grecia fuori dai mercati finanziari, dove pagherebbe probabilmente ben oltre il 10% di interessi.
    Tutta questa operazione non è stata una difesa del rapace capitalismo finanziario, ma un’operazione di solidarietà europea. Gli altri paesi hanno messo dei soldi pubblici (pagati sulle proprie tasse e sui propri debiti pubblici, quindi sempre sulle tasse, alla fine) per aiutarla. L’Ue ha posto delle condizioni. Ora, si possono discutere le condizioni, si può dire che la ricetta è sbagliata. Ma non si può cancellare il fatto che la Grecia deve rispettare gli altri paesi, che l’hanno aiutata e l’aiutano. L’Italia ha messo 38,4 miliardi, l’intero bilancio dell’istruzione pubblica, per capirci. Quindi, per quanto ci siano dietro certi poteri finanziari, il problema del rapporto tra la Grecia e le altre democrazie c’è, non è solo demagogia. Gli attacchi violenti di Tsipras e Varoufakis contro i “creditori”, che l’opinione pubblica identifica con le banche ecc., mentre sono prevalentemente gli altri stati, sono serviti solo a scavare un fossato e a provocare le reazioni violente dei nazionalismi tedesco, polacco, ceco ecc.
    Se fossimo una vera unione, dici, esisterebbero dei meccanismi di compensazione, perché ci sarebbe una solidarietà. Ma per essere una vera unione politica bisogna che ogni stato ceda buona parte della propria sovranità, e per fare questo bisogna unificare i sistemi fiscali e finanziari, in modo da rendere possibile un debito pubblico europeo. Unificare i sistemi fiscali significa assoggettarsi a vincoli comuni. Questo però varrebbe anche per la Grecia e l’Italia. Non è un percorso facile, dal momento che proprio questi processi di unificazione fiscale sono violentemente contestati.
    La distanza tra le istituzioni europee e i cittadini è profonda e grave, sono del tutto d’accordo. Per superarla, ci vuole una visione politica superiore, che la Merkel e Hollande non hanno. Ci vuole il coraggio di rischiare. Ma non ce l’ha neanche Tsipras, che ha perso un’occasione, perché invece di spingere in quella direzione ha preferito premere il pedale del nazionalismo: il popolo greco contro il popolo tedesco, in modo perfettamente simmetrico a quello che succede in Germania.
    Tsipras e Syriza hanno cercato di rilegittimarsi all’interno, certo. Ma per fare questo hanno rotto brutalmente le trattative, distruggendo la già poca fiducia esistente. In questo modo hanno davvero messo in pericolo il paese. In, più quello che succede in questi giorni mostra che, per il momento, non ha ottenuto più forza nel negoziato: ha dovuto assumere toni molto più concilianti, come mostra il discorso di oggi al Parlamento europeo. Se alla fine propone un piano che sostanzialmente soddisfa le richieste più importanti viene il dubbio che il referendum sia stato fatto per far mandare giù la pillola al popolo greco. Comunque vedremo.
    La questione delle procedure però non è secondaria. Se si inneggia alla democrazia, bisogna tenerne conto, altrimenti chiunque si comporti così sarà legittimato a farlo. Se un’operazione del genere l’avesse fatta un leader di destra nazionalista, le sinistre europee avrebbero gridato allo scandalo. Io non grido allo scandalo, faccio solo notare che la sua è un’abile mossa politica, di cui dobbiamo ancora vedere i risultati, ma non è una vittoria della democrazia sul capitalismo. Questa mossa, però, ha portato la Grecia sull’orlo del collasso economico. E se questo non è ancora avvenuto, è merito della Bce, che più di tutti si sta impegnando per non fare uscire la Grecia dall’Europa. Quindi per favore smettiamola con la retorica delle banche che strangolano i popoli.
    I partiti europei eredi della socialdemocrazia non sanno dove sbattere la testa, è vero. Però la risposta ai problemi di questo capitalismo non è quella di Syriza, Podemos ecc. Non è la negazione dei vincoli interni che permette di superarli. Si tratta di riconoscerli e di pensare uno stato sociale che sappia controllarli. E di spostare la sovranità al di sopra dello stato, per fare questo. La risposta di queste forze, invece, è il sogno di restaurare il dominio dei singoli stati sull’economia. Per questo alimentano contemporaneamente sentimenti nazionalisti e finiscono per trovarsi alleati, volenti o nolenti, con forze anche di destra.

  29. L’EFSF (European Financial Stability Facility) fu creato nel giugno del 2010 dagli stati dell’area dell’euro come meccanismo finanziario per cercare di risolvere una crisi che si giudicava passeggera (per quanto già presente da circa due anni) e ha cessato di erogare prestiti nell’ottobre del 2012, sostituita dallo ESM (European Stability Mechanism), il cosiddetto fondo salva-stati, un organismo il cui status giuridico e le cui prerogative in materia di indirizzo delle politiche economiche sono a dir poco inquietanti: basta leggere la relativa voce si wikipedia per rendersene conto. L’EFSF è rimasto in piedi ormai solo per riscuotere le rate dei debiti dei paesi che hanno ricevuto prestiti (sostanzialmente la Grecia). Sul loro sito (http://www.efsf.europa.eu) ci sono tutte le cifre. Se poi si legge il documento delle FAQ (un pdf scaricabile) ci sono alcune spiegazioni (succinte, ma sufficientemente chiare) sui meccanismi di funzionamento. Ne presento alcune pertinenti alla nostra discussione.
    Domanda: What is the EFSF’s scope of activity?
    Una delle risposte dice: issue bonds or other debt instruments on the market to raise the funds needed to provide loans to countries in financial difficulties.
    Domanda: How are EFSF issues backed?
    Risposta: EFSF issues are backed by guarantees given by the euro area Member States for €724.47 billion in accordance with their share in the paid-up capital of the European Central Bank (segue tabella da cui salta fuori che l’Italia contribuisce con 19,2233%, dopo Germania e Francia, e che Grecia, Irlanda, Portogallo e Cipro sono state estromesse per statuto (stepping out, dice il testo), avendo ricevuto dei prestiti).
    Domanda: Who are the main investors in EFSF bonds?
    Risposta: Investors in EFSF bonds are predominantly institutional investors such as banks, pension funds, central banks, sovereign wealth funds, asset managers, insurance companies and private banks. The investor base is varied geographically with interest from around the world.
    Se uno vuole può poi seguire i collegamenti a documenti più dettagliati.
    Mi sembra dunque di capire che la “solidarietà europea”, in questo caso, sia limitata a fornire una garanzia, nei confronti dei creditori, nel caso di insolvibilità assoluta: dalle tasche dei cittadini non pare sia uscito proprio niente e dire che “tutta questa operazione non è stata una difesa del rapace capitalismo finanziario” e forse un po’ impreciso. Si è comunque deciso di procedere secondo le linee dell’ortodossia economica dominante, creando sostanzialmente un fondo di investimento ultraprotetto, su cui gli investitori potessero in ogni caso guadagnare, con il risultato politico aggiunto di serrare i ranghi e punire i riottosi (come è sempre più chiaro nel caso greco).
    Un’ultima citazione, giusto per illustrare quanto appena scritto:
    Domanda: Is the EFSF’s support linked to conditions?
    Risposta: Yes, financial assistance provided to beneficiary countries is linked to strict policy conditions which are set out in a Memorandum of Understanding (MoU) between the country in need and the European Commission. For example, conditions for the Irish programme include strengthening and overhaul of the banking sector, fiscal adjustment including correction of excessive deficit by 2015 and growth enhancing reforms, in particular of the labour market.

  30. Caro Piras, credo che ti sei sbagliato di grosso. Intanto la contrapposizione fra populismo e democrazia è sbagliata, poiché la democrazia, garantendo il diritto di voto a tutti, è intrinsecamente populista. Secondo, tutte le obiezioni che poni non rivelano mosse non democratiche, al massimo discutibili. I tempi sono stati stretti, ma non impossibili. La neutralità del governo non c’entra nulla, quando si vota c’è sempre un governo in carica, quindi cosa cambia? Ma più di tutto è il dubbio che su questi temi il referendum sia opportuno. Si può discuterne, ma di certo è impossibile dire che non è democratico. Qui non parliamo di un referendum sui diritti civili, tipo quello in Irlanda, quello sì discutibile, poiché non è la maggioranza delle persone che può decidere sulla vita delle persone. Parliamo di un referendum su scelte economiche. Ora, se è lecito votare per scegliere un governo che farà certe scelte economiche per tutti, è di conseguenza lecito un referendum che chiede ai cittadini di votare una di queste scelte. Dire che siccome c’è una delega proprio per questo, e con questo mettere in dubbio la legittimità del referendum non ha senso. Quello che tu intendi come normale, è invece qualcosa di stupido, poiché significa attenersi a un’arbitraria logica democratica, la delega, come un feticcio.

    Ciò che è successo è molto chiaro. Tsipras ha semplicemente chiesto conferma di un mandato. Con le normali elezioni avviene ogni 4-5 anni, e nessuno ha nulla da obiettare. In questo caso è avvenuto dopo pochi mesi, e però ci sono obiezioni.

  31. Caro Piras,
    per “spostare la sovranità al di sopra dello stato” ci vuole uno Stato più grande, federale o confederale che sia. Lo Stato Europeo non nascerà mai dalla UE, perchè:

    1) non c’è un federatore che abbia la volontà e i mezzi per fare quanto è necessario per arrivarci: la Germania, che comunque non è uno Stato pienamente sovrano (manca della indipendenza militare e politica), ha chiarito millanta volte che non, ripeto *non* vuole accollarsi onori e oneri imperiali, anche perchè tra onori ed oneri ci sono a) uno scontro politico di prima grandezza con gli USA, vulgo porre fine alla NATO b) la riconversione di 180° della propria politica economica (non è mai esistito nè può esistere un centro imperiale mercantilista: il centro imperiale – Roma, Madrid, Londra, Washington – esporta capitali, e importa merci dalla periferia) c) trasferimenti ingenti verso le periferie più povere. d) Costruire uno Stato europeo significa, che lo si voglia o no, iscriversi al campionato in cui si gioca per l’egemonia mondiale. La storia non depone a favore delle capacità tedesche di pensare l’egemonia, nè continentale nè mondiale. Disse il cancelliere Bethmann-Holweg, *prima* di entrare nella IGM, che la Germania era *culturalmente* impreparata al dominio del mondo: e non parlava di risultati scientifici o artistici. Secondo me aveva ragione.

    2) Non c’è un popolo europeo. C’è, o forse c’era una *civiltà* europea, che a parere di Renan (da me condiviso) si basava su impero romano, pensiero ellenico, cristianesimo. Io non li vedo in primo piano, i suddetti, nella costruzione UE.

    3) Una creazione “dal basso”, ad esempio l’indizione di una Assemblea Costituente europea, che sarebbe l’unico modo per legittimare sul serio uno Stato europeo, non soltanto non la propone nessuno, ma se per miracolo la si indicesse, molto probabilmente si arenerebbe come una riunione di condominio senza amministratore, perchè dove non sono riusciti Carlo V, Napoleone e Hitler dubito riuscirebbe un parlamentino.

    E allora di cosa parliamo? Per forza che c’è una reazione nazionalista. Ogni Stato realmente esistente persegue il suo interesse, e non si vede perchè dovrebbe rinunciarvi a favore di uno Stato europeo che non esiste e mai esisterà: la rinuncia all’interesse nazionale in favore di un’utopia farlocca si traduce, nella realtà effettuale, in un regalo all’interesse nazionale altrui.
    Ci sono poi anche gli Stati che perseguono gli interessi di altri come l’Italia (dove le ricordo che il PD governa proprio grazie al “deficit democratico” UE, visto che da Monti in poi, qui non si tengono elezioni politiche), ma questo è un altro capitolo della storia.

  32. Gentile Roberto Buffagni, condivido il suo sintetico quadro, complimenti.

  33. Dalla conclusione del summit UE-Grecia, due fatti positivi.

    Uno: è finito il “sogno europeo”. D’ora in poi, chi vuole la UE la vuole così com’è, chi non la vuole così com’è non vuole la UE.

    Due: d’ora in poi, i dirigenti di uno Stato che si trovi in conflitto con la UE sono tenuti a sapere che mettono in gioco la dignità del loro popolo e della loro nazione.

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