cropped-IMG_1697-650x276.jpgdi Andrea Cortellessa

E così, alla fine, l’ha avuta vinta la scienza. Ma Luca Rastello, che invece tanto amava la fantascienza, ha tenuto duro così a lungo che avevamo finito per abituarci al miracolo: noi, che ai miracoli siamo stati educati a non crederci. Senz’altro era più laica di me l’amica comune che ci aveva presentati, Lidia De Federicis, che negli ultimi tempi mi telefonava essenzialmente per parlarmi di due suoi amici (che ora, come lei, non ci sono più) i quali, per motivi diversi, la riempivano di stupore: uno era Nico Orengo e l’altro era appunto Luca Rastello. Ogni volta Lidia mi ripeteva che non si poteva attribuire ad altro che a un miracolo, appunto, la sua sopravvivenza: tale da lasciare stupefatti i medici che l’avevano in cura. Quando il cancro l’aveva aggredito, quei medici gli avevano dato al massimo sei mesi di vita; da allora, erano passati sei anni. E altri quattro ne sono passati, se è per questo, da quando Lidia ci ha lasciati. In questi dieci anni in proroga – vissuti bruciando al doppio della luce, come il replicante in quel film che, scommetto, gli piaceva – il giornalista Rastello aveva fatto in tempo a fare una “muta” che tanti, troppi suoi colleghi hanno tentato e continuano a tentare invano: ed era divenuto lo scrittore Rastello. Il giornalista era un eccellente giornalista (e quello, fino alla fine, era tornato a essere; lavorava nella redazione torinese della «Repubblica», e negli ultimi anni ha pubblicato reportages importanti, anche in volume: sulla famigerata linea Torino-Lione, sulle narcomafie, sulla lobby dei diritti umani…) ma lo scrittore, col suo primo libro di narrativa, aveva messo d’accordo un po’ tutti: chi aveva scritto Piove all’insù, per quanto lo si possa dire di un nostro contemporaneo, era un grande scrittore.

Che fosse un tipo fuori del comune lo aveva già mostrato, in effetti, col suo primo libro: un reportage dai Balcani doloroso e tagliente, che non faceva sconti a nessuno e che era uscito proprio alla vigilia di quel 1999 in cui la sinistra italiana di governo, violando l’articolo 11 della Costituzione, con me, per quel che valeva, aveva chiuso. Lo incontrai proprio in quelle settimane furibonde, mentre piovevano bombe su Belgrado, nella redazione dell’«Indice» di cui per breve tempo fece il direttore e al quale all’epoca, grazie all’affetto di Lidia, collaboravo intensamente. Aveva insistito lei, ovvio, perché ci conoscessimo di persona, e ricordo benissimo quel nostro primo incontro. Cominciò come uno scontro, finì con un abbraccio. Avevo letto La guerra in casa, naturalmente, e lo avevo trovato tanto importante quanto ambivalente. Con l’arroganza dei miei trent’anni partii lancia in resta; lo sfidai su tutto, inossidabile di ragioni che lui con lucida pazienza, incuriosito e forse un po’ divertito dalla mia esagitazione, smontava una dopo l’altra. Poche volte ho avuto modo di assistere tanto plasticamente alla demolizione di un’ideologia sulla base dell’esperienza diretta; e purtroppo, nella circostanza, il demolito ero io.

Malgrado allora Rastello mi avesse tanto impressionato, quando nel 2006 apparve da Bollati Boringhieri Piove all’insù, fu una sorpresa anche per me. Perché la scommessa di quel libro (come scrissi nella recensione che pubblicò «Tuttolibri», e che riporto qui sotto) era, per uno scrittore italiano della sua generazione (Rastello era nato nel ’61), non una scommessa bensì la scommessa. E la cosa da fantascienza è che quella scommessa impossibile Rastello, against all odds, l’aveva vinta. Andai a trovarlo nella sua casa di Torino, insieme a un altrettanto ammirato Daniele Giglioli. Volevamo fargli un’intervista, non ricordo più per quale sconsiderato progetto editoriale, poi naturalmente naufragato. E gli rubammo un intero pomeriggio, di quel suo prezioso tempo in proroga. Ma Rastello, anzi Luca, sembrava contento. Contento di spiegare come era nato quel libro, da dove veniva, cosa voleva essere.

Quel nostro secondo incontro mi impressionò come e più del primo. Eppure non ci siamo più visti. Nel suo ultimo anno Luca ha scritto un altro libro che veniva a sua volta da lontano, e al quale con tutta evidenza annetteva grande importanza, I Buoni. Non mi convinse. Forse gli aveva dato persino troppa importanza; il fatto – cui, accettato il miracolo, ormai non pensavo più – è che quel libro, con ogni probabilità, lui sapeva sarebbe stato l’ultimo. I registri del reportage e del romanzo, che nei due libri precedenti avevano raggiunto – ciascuno per suo conto – l’eccellenza, mi pareva non fossero riusciti a mescolarsi del tutto; e spesso faceva capolino un’intenzione polemica “a chiave” che chi conosceva le persone, e le situazioni, ci mise pochissimo a denunciare (non senza, magari, qualche strumentalità). Le polemiche furono violente, e Luca ci rimase male; in minima parte, temo, anche per la mia freddezza. Così io resto qui, ora, coi suoi libri, e con la faccia rossa. Non solo per quella mattina all’«Indice».

Quella di produrre ‘il’ romanzo degli anni Settanta è la grande, inespressa ambizione degli scrittori italiani. E si capisce. A ‘produrre’ i capolavori sono i traumi storici, le guerre: grandi e piccole, ‘oggettive’ o interiori. Gli anni di ‘pace’ seguiti a quest’ultimo conflitto, mai dichiarato e proprio per questo mai davvero terminato – gli Ottanta dell’Apparenza, i Novanta della Falsificazione, persino gli Zero della Confusione – hanno già avuto i loro narratori. Ma la ferita più recente e condivisa resta, inelaborata, in attesa del suo interprete.

Di Luca Rastello avevo letto nel ’98 La guerra in casa: reportage chiaroscurato e insieme secco, doloroso, su una guerra non ‘nostra’ ma che, in quei mesi che avrebbero portato il governo D’Alema a unire i nostri Tornado ai bombardamenti sulla Serbia, sempre più lo stava diventando. Proprio allora l’avevo incontrato, alla redazione dell’Indice: e m’era apparso uomo, per fortuna, privo di certezze. Di certo non pacificato dall’aver scritto un libro così palesemente necessario. Quella tensione oggi si scioglie in un altro libro: quello che più s’avvicina a realizzare la grande ambizione di cui sopra e davvero, insomma, «uno dei migliori e più onesti tentativi di fare i conti con la guerra civile strisciante che si è combattuta in Italia dal ’68 alla fine del decennio successivo».

Così ha scritto Matteo Di Gesù su Giudizio universale; ed è interessante il paragone, del giovane critico siciliano, di Piove all’insù con un capolavoro che è stato fra i più importanti per tanto Novecento che conta: le Confessioni d’un italiano di Ippolito Nievo. Anche qui, in effetti, le vicende storiche (còlte in un paesaggio visceralmente vissuto: una Torino plumbea, stillante di ànditi tortuosi e nascondigli segreti) sono seguite senza rispetto per cronologia o verosimiglianza (i sei episodi ostentano sovrapposizioni, sincronie, ritorni all’indietro); e la storia è fortemente soggettivizzata da un io narrante trasparente doppio dell’autore, che certo si nutre delle sue esperienze ‘reali’ ma, al tempo stesso, ‘non’ è lui. Al modello nieviano se ne affianca però uno più diretto ed esplicito: quello di Fenoglio. È evocato stilisticamente il narratore ‘sporco’ della Malora (nella lingua tutta umori e sbalzi espressivi specie del primo episodio) ma da un punto di vista strutturale e pulsionale c’è Una questione privata alle spalle di Rastello, che alla storia dà carne e sangue proprio perché riserva storie ulteriori, appunto ‘private’, «sul retro del foglio su cui è scritta questa storia».

Grazie a questo diaframma tra l’‘io’ e il suo tempo (costituito anche dallo straniante palinsesto dei ‘lisergici’ Urania divorati in quegli anni) si mantiene una visione ‘di parte’, tutt’altro che irenica o conciliatoria, e al contempo si riesce ad abbracciare un futuro che sarà tutto un’ironica, amara sconfessione: «abbiamo sognato una guerra in cui non moriva nessuno […] Sedurremo, trasgrediremo, desidereremo a vita, bambini dal corpo d’adulto, grottesco». Ai generosi ideali della politica seguono l’eroina e la P38, alla dura solidarietà di Mirafiori il tempo polverizzato del lavoro ‘flessibile’, all’Uomo Nuovo che dismette ogni appartenenza sentimentale e identificazione sessuale il ritorno coatto all’identità e alla famiglia.

Ed è su questo versante che il libro trova le sue pagine più belle. Tutta la narrazione sovrimprime alla guerriglia ‘esterna’ dei gruppi extraparlamentari (con l’inquietante apparizione delle BR, le quali con brutalità rendono evidente che «non è il tempo dei Gap»: non è più il tempo, cioè, dell’«ettorica» epopea dei partigiani di Fenoglio nelle Langhe) quella ‘privata’ fra l’adolescente estremista e il padre colonnello, tutto rigore sabaudo. Ma quell’ordine cela una doppia fedeltà: allo Stato e ai Servizi ‘deviati’ di Stay Behind. E tuttavia, arrivati al dunque, il colonnello sceglie la legalità. Suo figlio ci racconta questo conflitto interiore insieme a un’altra, irriducibile ‘questione privata’: il cancro che lentamente divora il corpo di suo padre. Quest’ulteriore guerra ‘intestina’ non c’è modo di vincerla: ma la si affronta a testa alta. Proprio il modo in cui il padre affronta il più insidioso dei nemici fa riconciliare, stavolta sì, con la sua memoria. Perché «morendo sconfisse la morte». Così sorprendentemente inverando quel «punto in cui il nostro stesso corpo indica altro»: che «nella stagione delle progressive meraviglie», col sogno dell’Uomo Nuovo, s’era rivelato, invece, mistificatoria «parodia». Il finale non conclude. Così che quella storia, restando aperta, ci si mostra per quello che è: la nostra storia.

[immagine: Luca Rastello]

1 thought on “Un coraggio da fantascienza. Ricordo di Luca Rastello

  1. Caro Andrea Cortellessa, io non conoscevo Luca Rastello, e, per dirla tutta, continuo a non conoscerlo – non sono neanche sicuro che, a breve termine, lo conoscerò, nel senso che leggerò qualcuno dei suoi libri etc. Però conosco quello che, come credo di avere capito che anche lei pensa, era il suo problema. Il problema di scrivere un romanzo, anzi, « il » romanzo. Degli anni Settanta? Per Rastello, e per molti altri, sì. Per me, che sono “ generazionalmente “ diverso, ma che anch’io mi pongo lo stesso problema da molto tempo, direi dall’inizio degli anni Settanta, direi piuttosto “ degli anni Sessanta “. Io, per farla breve, non ci sono riuscito, né, per dirla tutta, credo che ci riuscirò mai. Anche perché, da parecchio tempo, mi sono convinto che il “ romanzo “ degli anni Sessanta – oppure Settanta, oppure Ottanta, oppure Novanta – l’ha scritto qualcun altro. Ma non era un romanzo, era un film. È un film. E, giuro, non è assolutamente la stessa cosa. Ora che ci penso, qualcuno che ha scritto un romanzo degli anni Sessanta c’è stato, ma era una “ storia “, anzi, per l’esattezza, una “ histoire “. E comunque è abbondantemente morto anche lui. Io, per non morire, per tirare a campare, per sopravvivere, per ottenere una “ proroga “, in questi quarant’anni, non-scrivendo un romanzo, ho scritto un diario. Che come “ non-scrivere “ non mi sembra poco. Anzi è assolutamente, fantascientificamente, troppo. Cordiali, sinceri saluti.

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