[Le prime risposte al questionario si possono leggere qui e nei post a seguire.]
Gaia Locatelli
1. Partiamo dalla domanda del sondaggio di «Orlando»: «Chi tra gli scrittori che oggi hanno tra i quarantanove e i sessantanove anni continueremo a leggere in futuro?». Tu come risponderesti, e per quali motivi? Ti chiederei anche di spiegare cosa, secondo te, inciderà di più per il loro successo.
Leggendo i risultati del sondaggio di «Orlando», la mia prima reazione è stata di stupore: com’era possibile che quella che Giacomo Raccis chiama la «triade delle patrie lettere» coincidesse perfettamente con quella dei miei incontournables? Com’è possibile che i nomi di Mari, Siti, Moresco siano i primi a venire in mente, senza questioni e come per un riflesso condizionato, quando ci si chiede «chi continueremo a leggere in futuro»? Quest’ultima formula ambigua dovrebbe essere di per sé fonte di dubbi e incertezze, e mi insospettiva una risposta apparentemente tanto compatta, quasi l’interrogativo fosse interpretabile in modo univoco: più o meno alla stregua di «chi degli scrittori ecc. ecc. diventerà un classico?». Pur non considerando vendite e mercato come fattori decisivi (non solo non è detto che un bestseller di oggi, proprio per le caratteristiche di contingenza che lo rendono tale, venga letto anche domani, ma le vendite di oggi non dicono nulla nemmeno sulle letture di oggi, se è vero che la maggioranza dei libri venduti in Italia rimangono mai aperti sugli scaffali delle librerie), è innegabile che ci sia una differenza sostanziale tra la risposta che darebbe un lettore forte e quella di un lettore che, per professione studio passione o abitudine, esercita una qualche forma di critica letteraria. Quest’ultimo legge (o dovrebbe leggere) in profondità e in modo mirato, lentamente, seleziona all’origine (il che significa: esclude a priori il libro che invece il lettore forte si prende comunque la briga di aprire e valutare volta per volta), sa già grazie al suo fiuto a dire il vero non sempre infallibile dove andare a cercare: e quindi, pur avendo strumenti interpretativi più raffinati, lavora su un campione relativamente ristretto, di certo molto parziale. Per quanto mi riguarda, confesso di non aver letto nemmeno una pagina di alcuni degli scrittori che occupano le posizioni basse della classifica di «Orlando», mentre so per certo che si tratta di autori che occuperebbero i primi posti in un’ipotetica lista compilata, per esempio, da librai. In ogni caso chi fa esercizio critico – e vale anche per me – trova in Mari Siti Moresco gli oggetti quasi naturali del proprio discorso. Tra gli scrittori della generazione presa in considerazione, sono infatti forse quelli che possiedono in modo più evidente, ognuno alla sua maniera, quelle caratteristiche che ne fanno – e già in vita, come è stato detto – degli Autori e dei classici: il lavoro di ricerca e scavo delle forme narrative, dello stile, dei generi (eclatante quest’ultimo aspetto nell’autofiction di Siti); il rapporto complesso con la tradizione letteraria (Mari); l’uso della scrittura come potente strumento conoscitivo. In poche parole: una visione articolata e originale del mondo scritto e non scritto. È quasi certo che questi autori – insieme a poeti come Milo De Angelis – entreranno nel canone della letteratura italiana e nelle antologie del secolo futuro. Ma chi verrà effettivamente letto, e non studiato (come sembra suggerire la parola «successo» nella tua riformulazione della domanda di «Orlando»)? Chi rimarrà per il lettore medio del futuro, indipendentemente dal reale peso nei giochi della letteratura? Dal calderone degli autori dalla fortuna più o meno duratura – e più o meno meritata – si salveranno probabilmente personaggi come Baricco, il cui carisma unito a una scaltra politica culturale ed editoriale, assicurerà ristampe e lettori anche nei decenni a venire.
2. Dove hai sentito parlare per la prima volta di questi autori, e da chi?
Nel 2006 Mari teneva all’Università degli Studi di Milano un corso di letteratura italiana sugli irregolari del Cinquecento, frequentato da forse meno di quindici studenti. Era un mostro di erudizione e mi incuriosivano i suoi variegati gusti letterari (ma anche artistici e cinematografici) che erano come tenuti insieme da un’unica ossessione che agiva da legante, un vero e proprio demone che talvolta prendeva il posto del professore in cattedra. Tuttavia non era per me – studentessa allora affamata di strumenti critici e di teoria, di interpretazioni piuttosto che di fredde informazioni filologiche – un professore di riferimento e diffidavo di quel mito che in università si era creato intorno alla sua figura saturnina. In Statale c’era già uno stuolo di fedelissimi suoi lettori che parlava di Euridice aveva un cane come del grande capolavoro della letteratura contemporanea italiana, ma m’ero limitata a leggere Tutto il ferro della Torre Eiffel, attratta più che altro dall’illustrazione di Grandville in copertina e dalla trasfigurazione romanzesca di Walter Benjamin, della cui produzione narrativa mi stavo allora occupando. Ho dovuto aspettare di leggere Tu, sanguinosa infanzia per capire che si trattava effettivamente di qualcosa di unico e importante nel panorama letterario italiano.
Esattamente al contrario di Mari, Siti e Moresco sono stati inizialmente copertine di libri esposti in vetrine e coste che sbucavano da scaffali di librerie amate – o ancora meglio, edizioni. Le collane editoriali funzionano un po’ come amici che parlano entusiasticamente di un libro e dei quali si è più o meno disposti ad accettare i consigli di lettura a seconda del grado di stima che ci ispirano. E a volte si prendono anche dei granchi: è quello che a me è accaduto proprio con Moresco, che apparteneva alla chiassosa famiglia dei cartonati Mondadori e che quindi ho ammesso tra le mie possibili letture solo al momento della sua problematica legittimazione critica. Siti, pur parzialmente in salvo con Einaudi, deve aver attirato veramente la mia attenzione solo quando nel 2007 è entrato nella cinquina dei finalisti del Premio Bergamo.
Di Baricco invece ho sentito parlare la prima volta a tredici o quattordici anni da uno di quegli amici in carne e ossa di cui si ascoltano i consigli e non si dovrebbe.
3. Secondo te quale genere letterario è destinato ad avere fortuna nei prossimi anni? Poesia, romanzo, scritture ibride?
Anche in questo caso farei una distinzione. Per quanto riguarda il grande pubblico (sempre che così si possa definire in Italia, dove la lettura rimane un’attività marginale e non di massa), mi sembra che si stia imponendo nettamente un gusto per le narrazioni di ampio respiro, quindi, tipicamente, per i romanzi lunghi, meglio se in più volumi (esemplari la diffusione e il successo delle trilogie, specialmente nella narrativa per ragazzi, ma non solo). È più facile che un’opera con più di 500 pagine spaventi un addetto ai lavori, abituato a una lettura lenta e meditata, tesa in verticale e non in fuga nell’orizzontalità, piuttosto di chi nella letteratura cerca in primo luogo evasione proprio attraverso l’immersione totale in un mondo alternativo. La fruizione dilatata di un’opera narrativa che mette in scena un piccolo universo popolato di personaggi luoghi situazioni che ritornano, è d’altronde un fenomeno dilagante in altri domini più pop della fantasia: uno su tutti, quello delle serie televisive, sorelline dei romanzi a puntate d’altri tempi.
Le scritture brevi sono invece in questo senso meno tranquillizzanti e più faticose perché, concentrate, richiedono una maggiore concentrazione e uno sguardo che domini vigile dall’esterno, piuttosto che una coscienza i cui confini si fondano con quelli della narrazione fino all’oblio di se stessa. Tanto più in un paese in cui non c’è – se si esclude la stagione d’oro della novella, che però è forse una forma troppo lontana dalla sensibilità diffusa dei nostri tempi – una grande tradizione del racconto: non per lo meno paragonabile a quella della letteratura di lingua inglese.
Sul versante della letteratura alta credo invece che diventeranno sempre più importanti e interessanti i generi ibridi, in particolare quelli che mischiano la narrativa e la finzione con la saggistica, a riflettere un rapporto più inquieto e complesso, persino ambiguo, della verità con la realtà fattuale e particolare. Lo stadio di Wimbledon di Daniele Del Giudice è un esempio mirabile in questo senso.
Infine continuerà probabilmente il processo di canonizzazione letteraria che negli ultimissimi anni riguarda un’altra forma ibrida (questa volta però nel senso di mescolanza dei linguaggi coinvolti, e non dei generi), ovvero la graphic novel, come testimoniano timidamente anche le candidature di Gipi e Zerocalcare nelle ultime due edizioni del Premio Strega.
4. Nell’arco di un decennio possono essere pubblicati libri che entrano a far parte di uno stesso dibattito critico, e che però sono stati scritti da persone nate in momenti molto diversi.
Quali autori consideri significativi – rilevanti dal punto di vista delle categorie critiche con le quali interpreti la letteratura – fra quelli che hanno pubblicato libri fra il 1990 e il 2015?
A elencare gli autori per me significativi che hanno pubblicato tra il 1990 e il 2015, non si finirebbe più. Quindi, estremizzando la provocazione implicita nella tua domanda, mi limito e fare i nomi di due scrittori agli antipodi non solo per età anagrafica, ma anche per esperienza, riconoscimenti e poetica. Da una parte Gianni Celati, contemporaneo di Zanzotto ma anche dei più giovani scrittori emiliani (Nori, Cornia, Benati). Dall’altra Francesco Maino, classe 1972, il cui unico libro pubblicato (Cartongesso, Einaudi 2014) è un perfetto esempio di quel genere ibrido (romanzo, saggio, invettiva?) di cui si parlava poco fa e il cui furore linguistico e sintattico sembra collocarlo nel solco dell’eredità difficile di Gadda, ma anche di alcuni classici della letteratura europea come Céline e Bernhard.
5. Passiamo a considerare i luoghi (giornali, riviste specializzate, riviste online, siti e blog; ma anche luoghi fisici come scuole, università, biblioteche, presentazioni di libri) e i modi in cui i libri vengono discussi e commentati oggi. Tendi a pensare al campo letterario come a uno spazio fluido, in cui critica, pubblico, industria dialogano e collaborano (talvolta anche in competizione per l’egemonia) – o a separare diversi campi d’influenza e di azione? Che tipo di interazione c’è (se trovi che ci sia un’interazione)?
Si può immaginare lo spazio letterario come un campo da gioco sul quale si alternano squadre non rigidamente definite, ma date dalle combinazioni mutevoli di giocatori che si schierano e aggregano in modi sempre diversi a seconda del premio in palio e del pubblico che assiste alla partita. Ma al di là delle più o meno occasionali interazioni tra critica, centri del sapere, industria e pubblico, tendo a considerare il campo letterario uno spazio fluido anche perché i suoi attori sono per lo più figure mobili che, passando da un compartimento all’altro, possono vestire ruoli anche molto diversi. Questa fluidità, e talvolta permeabilità, che sembrerebbe a prima vista dover favorire o almeno facilitare un dialogo delle parti in gioco, non implica però un’effettiva collaborazione. Un paio d’anni fa, in un limpido articolo apparso su «Orwell» (poi su «minima&moralia»), C. Mazza Galanti rilevava molto lucidamente come la sovrapposizione e confusione dei ruoli di romanziere e critico abbia portato, nella forma peculiare in cui il fenomeno si presenta oggi, a un impoverimento delle due professioni, che si schiacciano sempre più l’una sull’altra perdendo le rispettive specificità e interrompendo un dialogo che nella storia della nostra letteratura è stato decisivo. È difficile immaginarsi oggi una figura altamente specializzata, ma capace di influenzare la produzione letteraria come ha fatto, per fare un nome, Contini con Montale e Gadda. Al contrario sono sempre più diffuse quelle ibridazioni che nei migliori dei casi si chiamano Mari o Magris, nei peggiori appunto Baricco (penso, per esempio, al suo commento a «Il Narratore» di Benjamin, la cui inadeguatezza è tanto più comica in quanto ha per oggetto proprio un classico della letteratura di secondo grado).
Dall’altra parte c’è una sorta di auto-esilio dell’università, rinchiusa in un tecnicismo spesso meccanico e sterile, sempre difensivo perché incapace di confrontarsi con la vitalità delle opere. La critica letteraria vive così un due drammi opposti: quella militante pecca di troppa fluidità, confondendo non solo soggetto e oggetto del discorso, ma anche i modi stessi dell’enunciazione; la critica accademica invece soffre di rigidità e della separazione tragica dall’oggetto del proprio amore.
Ma all’interno del campo letterario ci sono naturalmente anche fenomeni di marginalizzazione involontaria, tra i quali mi sembra particolarmente catastrofica l’esclusione delle librerie dalle zone d’influenza del dibattito letterario. La crisi delle librerie indipendenti (non certo di quelle di catena, dove regna di nuovo una fluidità “cattiva” che confonde librerie distributori editori) non è soltanto economica, ma anche culturale. E specialmente se si parla di letteratura contemporanea, perché nessuno più del libraio possiede una visione panoramica delle nuove uscite e ha la facoltà di orientare per primo lo sguardo nel marasma delle pubblicazioni che si succedono a un ritmo insostenibile anche per il lettore più attrezzato.
6) Quali sono le personalità e i luoghi della critica che consideri più seri e affidabili?
Oltre a essere un po’ allergica a conferenze e convegni, considero la critica un vero e proprio genere letterario e fatico a pensarla indipendentemente dall’esercizio di una scrittura, quindi i suoi luoghi sono per me un po’ gli stessi di quelli della letteratura in senso stretto: libri e riviste più o meno specializzate, dalle classiche in carta stampata a quelle online (negli ultimi anni, vivendo all’estero ed essendo uscita dal circuito accademico, molto più quest’ultime).
Nonostante non ami particolarmente alcune delle sue firme, apprezzo molto il taglio e la cura con cui è confezionata «Riga», contenitore di materiali importanti di natura eterogenea. «Minima&moralia», rivista-satellite di Minimum Fax, è un caso virtuoso della collaborazione tra editoria e critica nata dalla fluidità di cui si parlava prima ed è diventata in poco più di 5 anni uno dei più importanti riferimenti culturali con contributi non troppo specialistici ma nemmeno di pura divulgazione. Alcune riviste online, che pure sono nell’insieme molto ben fatte, risentono forse di una politica redazionale selvaggia che consiste nel dare spazio a più articoli possibili, sfruttando la posizione di giovani studiosi disposti a rinunciare a una retribuzione per il loro lavoro pur di aggiungere un tassello alla collezione di pubblicazioni e referenze (mi sembra sia in parte il caso di un progetto dalla credibilità ormai consolidata come «Doppiozero»). Quella che dovrebbe essere un’apertura alle nuove voci della critica rischia così di trasformarsi in un grave abbassamento della sua qualità.
Per quanto riguarda invece le personalità, escludendo il caso mastodontico di Cortellessa (sul quale mantengo una posizione lacerata), ho l’impressione che la figura del critico, allontanandosi dai luoghi della produzione letteraria e assorbito in quelli della trasmissione del sapere (in primo luogo le università), si sia indebolita, tanto per forza interpretativa quanto per originalità di scrittura, e che manchino quindi grandi voci di riferimento. Tra i giovani trovo però molto affidabile e onesto il lavoro del già citato C. M. Galanti, che tra i molti pregi ha quello d’essere riuscito a sottrarsi all’appiattimento della critica su uno stile stantio e omologato, fatto di tic linguistici tanto inutili quanto insopportabili.
In generale mi sembra la critica letteraria risenta di un vuoto di teoria. Oggi si legge forse più letteratura secondaria e ci si fa forza con corposi riferimenti bibliografici, ma si lavora molto peggio sui testi. Se si pensa ai grandi critici letterari del ‘900, non si può fare a meno di constatare che si trattava in primo luogo di teorici della letteratura, di linguisti, di filosofi: intellettuali che si fabbricavano gli strumenti con i quali avrebbero potuto ingaggiare una lotta acerrima ma appassionata col testo. Senza queste armi, il critico corre in continuazione il rischio di trasformarsi in opinionista: e come tale, viene presto dimenticato.
Lorenzo Mari
1. Partiamo dalla domanda del sondaggio di «Orlando»: «Chi tra gli scrittori che oggi hanno tra i quarantanove e i sessantanove anni continueremo a leggere in futuro?». Tu come risponderesti, e per quali motivi? Ti chiederei anche di spiegare cosa, secondo te, inciderà di più per il loro successo.
Come si è già letto in molte risposte, che mi troverò a ripetere, la domanda tocca un nervo scoperto della critica letteraria: escludendo ciò che si scrive sui quotidiani e, più in generale, la critica impressionista, o panlettaria, quasi sempre ci si occupa di ciò che per motivi disparati si è continuato a leggere, mentre è più raro che ci si interroghi su cosa si leggerà in futuro. Ciò accade tanto per l’ampiezza sfuggevole della domanda sul futuro, quanto per una ragione interna all’esercizio della critica. Quest’ultima è acuita dal momento di crisi forse irrimediabile della critica militante, che è stretta fra la spinta dei circuiti amicali e quella di un politichese che, mescolandosi ad alcune gergalità accademiche, non è più un linguaggio propriamente analitico (assomigliando così a una ‘cultura politica’ che, oggi, ha precisi connotati egemonici).
Cerco di spiegarmi meglio. Il ‘successo’ di cui si parla, ad esempio, può essere inteso in vari modi: cosa si troverà in libreria, cosa in biblioteca, cosa sarà studiato a scuola e all’università, o ancora cosa entrerà nel canone – presupponendo che quest’ultimo possa resistere ancora all’urto del tempo e, soprattutto, delle circostanze materiali. Anche il ‘futuro’ è un termine di confronto molto generale, mentre più specifica, ad esempio, è l’annotazione “tra i quarantanove e i sessantanove anni”, pur essendo, a sua volta, una coordinata che non rappresenta, di per sé, un dato storico o sociologico.
Penso, ad esempio, al venir meno dell’idea di “generazione” nella storia della poesia italiana, seguita da un suo recente recupero, spesso reattivo. Ne ha parlato recentemente Guido Mattia Gallerani, già ospitato in questo dibattito, all’interno di un convegno parigino dedicato alla generazione dei poeti italiani nati negli anni Ottanta: ricorrendo ai principi classici enunciati da Mannheim alla fine degli anni Venti, il legame di generazione (il fatto di nascere, crescere e operare nello stesso periodo in un determinato contesto) deve potersi associare all’unità generazionale (caratteri sociali e culturali comuni, analoghi a quelli mostrati, secondo da Mannheim, da una ‘situazione di classe’). Per quanto si tratti di concetti sui quali la sociologia successiva è tornata ad elaborare in modo consistente, essi possono servire a spiegare come gli autori nati in Italia negli anni Ottanta siano uniti da un legame di generazione che non si traduce, per il momento, in una qualsiasi unità generazionale e di classe, pur avendone una chiara possibilità. Per contro, tale possibilità è stata sfruttata a fondo dagli autori che hanno oggi tra i 49 e i 69 anni, ma gli stessi eventi ai quali si riferisce la loro unità generazionale – il Sessantotto e il Settantasette, su tutti – subiscono oggi un processo di disgregazione ideologico e materiale (cui chi scrive non aderisce, ma cerca di testimoniare) che è tanto e tale da mettere in seria discussione, salvo in alcuni casi idiosincratici (Gallerani ricorda ad esempio il complesso rapporto del poeta Gianni D’Elia con il Settantasette), l’idea di generazione anche per quel nucleo di autori.
Per dare comunque una prima risposta generale, ricorro all’idea di consenso utilizzata, in questa serie di interventi, da Mimmo Cangiano. Mi sembra una categoria oggi più che mai estensiva, perché estremamente funzionale alle dinamiche della crisi socio-economica che stiamo attraversando. Si tratta, dunque, di un termine sufficientemente trasversale ai ‘territori’ menzionati (case editrici, librerie, biblioteche, università, etc.) per costituire un parametro elastico, benché non esaustivo. Traggono certamente forza dal consenso l’opera di Siti – ancorata in un retroterra pasoliniano e proiettata in una zona del consenso politico che è stata bene illustrata dalle posizioni divergenti di Andrea Cortellessa e Gianluigi Simonetti a proposito di Resistere non serve a niente – e quella di Moresco. Il dato che le accomuna – oltre a posizioni politiche che, nel caso di Siti, si incuneano direttamente nella costruzione del consenso più generale, mentre per Moresco restano più ‘aperte’ – è la tensione verso l’opera, non solo nella monumentalità di Moresco, ma, soprattutto, ammiccando o chiamando a complicità la critica e i salotti intellettuali.
Intendiamoci, complicità e ammiccamenti – la ragione interna cui alludevo più sopra – non sono deprecabili in quanto tali: alla luce di qualche ricerca nell’ambito della letteratura di migrazione italiana e nelle letterature postcoloniali, mi rendo conto che molte altre scritture vivono costantemente questo tipo di rapporto con altri settori del ‘terziario culturale’ (chiamarla industria, in senso francofortese, mi sembra oggi eccessivo), talvolta soffrendolo, talvolta beneficiandone, ma non hanno quasi mai una base di consenso simile a quella che riscontro in Siti e Moresco, i quali mantengono, allo stesso tempo, un riscontro di mercato non elevato, ma ancora nitido.
Considero un po’ meno elevate le quotazioni di Andrea Camilleri, e, un po’ staccati, Michele Mari e Aldo Busi, perché il loro lavoro si concentra, in modalità diverse, sulla dinamicità proteiforme della lingua, a sfavore della costruzione di consenso. Dico questo a malincuore, perché punterei personalmente (ma non siamo io, né il mio desiderio a poter decidere, per fortuna!) su molte delle opere di un autore che invece è passato un po’ in sordina in questa serie di questionari come lo stesso Busi.
Il consenso, come dicevo, non basta: per meglio dire, attiva esso stesso, per negazione, opzioni di ‘dissenso’, soprattutto a livello della critica saggistica o accademica, permettendo la conservazione di opere giudicate più per la consistenza del textus che per la loro capacità di sopravvivenza. In questo campo le opzioni sono troppo aperte per dare una previsione fondata, ma mi sembra opportuno puntualizzare che la ‘frattura’ di cui parla Paolo Gervasi potrebbe essere benissimo una complementarietà, a causa di quella che continuo a considerare una causa importante, come le altre, come la crisi, o la povertà, della critica militante.
In poesia, mancando una costruzione del consenso così ampia da toccare anche case editrici, librerie e biblioteche, la questione si fa ‘endogena’ – come si può vedere dai frequenti irrigidimenti sul concetto di ‘tradizione’ o di ‘avanguardia’ poetica, alla faccia del superamento, sempre sbandierato, tra ‘lirici’ e ‘sperimentali’ – al punto che, accanto ai già ampiamente citati Milo de Angelis e Valerio Magrelli, aggiungerei Giuliano Mesa. Con un azzardo, sempre basato su alcune pratiche endogene, ma sforando anche di qualche anno, credo che ci apprestiamo a una riconsiderazione, nel prossimo futuro, di Patrizia Vicinelli e Cristina Annino. Oltre alle caratteristiche di indubitabile forza delle loro opere, “non possiamo fermarci ad Amelia Rosselli”, o qualcosa del tipo.
2. Dove hai sentito parlare per la prima volta di questi autori, e da chi?
L’incontro è quasi sempre stato frutto della frequentazione di librerie e biblioteche, combinata, spesso, con una lettura dei cosiddetti ‘inserti culturali’ dei quotidiani, consigli vari e indicazioni di lettura arrivate durante l’università. Un discorso a parte può essere fatto per la poesia, dove è quasi impossibile non venire a contatto – sia in rete che al di fuori – con qualcuno che non sciorini nomi di altri poeti italiani (quasi mai stranieri). Singolarmente, però, buona parte del mio interesse di lettore per Mesa e Annino deriva dalle attività in Rete dello stesso poeta, anch’egli in lizza per continuare ad essere presente in futuro, Biagio Cepollaro. A parlarmi diffusamente e autenticamente – uso un aggettivo un po’ fuori corso, ma anche qui mi sento di azzardarlo – di Patrizia Vicinelli è stato Alberto Masala.
3. Secondo te quale genere letterario è destinato ad avere fortuna nei prossimi anni? Poesia, romanzo, scritture ibride?
Credo che le scritture ibride abbiano fatto, in molti casi, il loro tempo. Anzi, sulla scia di molti – includendo, a memoria, il già citato Aldo Busi – credo che l’autofiction non abbia uno statuto realmente distintivo e che quindi non abbia mai offerto scarti netti rispetto ad altri generi. Roberto Saviano non può replicare Gomorra, per ragioni che mi sembrano talmente evidenti da ometterne una discussione. Anche il New Italian Epic è diventato via via meno produttivo, e questo, paradossalmente, dopo la sua formalizzazione in qualche modo già ‘canonizzante’ nell’omonimo saggio di Wu Ming. D’altra parte, raccolgo in modo parassitario l’intuizione di Alessandro Giammei, e scommetto anch’io sul futuro della graphic novel, purché sia dato spazio critico ad autori che, insieme a Gipi e Zerocalcare, possano consolidare il genere.
Intanto, si è già tornati al ‘grande romanzo’ o ad altre costruzioni finzionali dove comunque la narrazione prevale sull’ibridazione. Penso, ad esempio, ai due romanzi di Davide Orecchio, in questo caso: del primo avevo già notato, a suo tempo, un’affinità con la poesia che gli esperimenti a cavallo della non-fiction non hanno mai rivendicato.
In tutti questi ambiti, potrebbero trovare uno spazio ‘anomalo’ la cosiddetta ‘letteratura migrante’ e la ‘letteratura postcoloniale italiana’, ormai attesa a un varco che non è tanto “la nascita di un Rushdie italiano”, ma una lotta agguerrita contro le proprie stesse etichette, ghettizzanti e auto-ghettizzanti.
La poesia, invece, continuerà a lungo nel suo ruolo residuale – difeso, comunque, con le unghie e i denti, nonché con una certa consapevolezza riguardo al sistema letterario nel suo insieme che prosatori e ‘ibridi’ spesso non vogliono, o non hanno necessità, di curare.
4. Nell’arco di un decennio possono essere pubblicati libri che entrano a far parte di uno stesso dibattito critico, e che però sono stati scritti da persone nate in momenti molto diversi.
Quali autori consideri significativi – rilevanti dal punto di vista delle categorie critiche con le quali interpreti la letteratura – fra quelli che hanno pubblicato libri fra il 1990 e il 2015?
…ma Fortini vale o non vale? Composita Solvantur, in poesia, e Attraverso Pasolini, nel saggio, segnano ancora dei punti altissimi, all’inizio degli anni Novanta, nella sua produzione. Il secondo, soprattutto, presenta ancora le categorie di quel dibattito tra intellettuali – sebbene in absentia, per una delle due parti in causa – che poi è evaporato, insieme alla precarizzazione stessa della figura dell’intellettuale. Lo ritengo ancora un contraltare molto utile, rispetto alla frammentazione e riduzione ai minimi termini , che spesso è anche auto-riduzione,del “dibattito intellettuale” cui spesso si assiste (a partire dal web, ma anche in altri ambiti).
Per il resto, mi limito a fare qualche esempio. Tra i romanzi e le scritture ibride, Q di Luther Blissett sta acquisendo uno statuto diverso rispetto alle seguenti scritture collettive e allo stesso New Italian Epic. Lo necessitano anche altre opere del collettivo Wu Ming oppure Sappiano le mie parole di sangue di Babsi Jones. O ancora, Cristi polverizzati di Luigi di Ruscio, Il tempo materiale di Giorgio Vasta, Cartongesso di Francesco Maino…
In poesia, Andrea Raos, Andrea Inglese, Marco Giovenale, Biagio Cepollaro e Nadia Agustoni hanno già consolidato, credo in modo definitivo, la loro opera nel corso degli anni indicati.
Penso che in futuro ritroveremo anche Cristina Alziati, Fabio Franzin, Italo Testa, Franca Mancinelli, Renata Morresi, Giovanna Frene… Di molti altri ancora, che non cito per questioni di spazio, ho cercato e cerco di parlare in sede di recensione o di piccolo intervento critico sul web vanno a costituire un panorama ricco e per nulla desolante, in fatto di qualità.
5. Passiamo a considerare i luoghi (giornali, riviste specializzate, riviste online, siti e blog; ma anche luoghi fisici come scuole, università, biblioteche, presentazioni di libri) e i modi in cui i libri vengono discussi e commentati oggi. Tendi a pensare al campo letterario come a uno spazio fluido, in cui critica, pubblico, industria dialogano e collaborano (talvolta anche in competizione per l’egemonia) – o a separare diversi campi d’influenza e di azione? Che tipo di interazione c’è (se trovi che ci sia un’interazione)?
Si tratta di uno scenario molto fluido, ma non per questo intrinsecamente incline al dialogo o alla collaborazione – basti pensare alle derive che prendono alcune discussioni nel web. Esistono ancora dei confini, talvolta tecnici o materiali (la critica online è spesso impressionista anche per limiti di spazio e di tempo-lettura), talvolta ideologici. Questo non esclude che l’interazione possa essere anche positiva e feconda. D’altra parte, anche un certo ritorno alla separazione dei campi di influenza e di azione potrebbe avere risvolti positivi: nonostante la presenza di alcune lodevoli eccezioni, la rivista letteraria cartacea è oggi un’impresa dichiaratamente fallimentare, a livello economico, e così ha perso il suo spazio di autonomia sia come proposta editoriale di transizione verso le case editrici (nella poesia e nelle forme brevi della prosa avrebbe molta utilità, invece) sia come spazio del dibattito approfondito e circostanziato, che possa scremare quello che sul web, all’interno di siti che sono spesso moltitudinari, non si screma affatto.
6. Quali sono le personalità e i luoghi della critica che consideri più seri e affidabili?
Tendo a soffermarmi sulla qualità dei singoli testi o di alcune produzioni critiche complessiva, senza schierarmi con le singole personalità o con i singoli luoghi della critica. Ritengo di doverlo fare da una prospettiva che nasce da una tradizione militante, ma che è posta costantemente di fronte alla crisi della militanza di cui già ho detto, introducendo una scelta di campo che si basa sul textus (anche critico) e non su un rapporto di fiducia, che spesso diventa amicale o di mutuo soccorso, o peggio. Nomino soltanto i luoghi della rete che hanno dato vita a redazioni plurali e che leggo con frequenza, trovando spunti molto diversi tra loro e non collegabili, così, a una singola entità: Doppiozero, Le Parole e Le Cose, 404 File Not Found, Carmilla e Nazione Indiana. Ma, oltre a quelli cui partecipo, ce ne sono molti altri.
Dario Postiglione
1. Partiamo dalla domanda del sondaggio di «Orlando»: «Chi tra gli scrittori che oggi hanno tra i quarantanove e i sessantanove anni continueremo a leggere in futuro?». Tu come risponderesti, e per quali motivi? Ti chiederei anche di spiegare cosa, secondo te, inciderà di più per il loro successo.
Nessuno di noi – o quasi – crede agli oroscopi e alle divinazioni, ma alzi la mano chi non ha subìto o addirittura tentato una lettura dei tarocchi, almeno una volta: come ogni gioco serio, necessita di una sospensione dell’incredulità, sebbene sappiamo da subito che al massimo ci restituirà un’immagine di ciò che già siamo o vorremmo essere, piuttosto che un referto credibile del nostro futuro (“È poco / e forse è tutto”). A una domanda simile mi viene da rispondere con lo stesso scetticismo e la stessa credulità; posto che una lettura efficace delle carte richiede una discreta conoscenza degli Arcani e un certo azzardo interpretativo per non risultare una noia.
Giro le prime due carte: il Bagatto, il Diavolo. Il nome ovvio è Walter Siti: la sua opera vanta una rara coerenza interna, variazioni su temi essenziali di volta in volta ricalibrati e analizzati chirurgicamente. Anche le cose meno riuscite o stilisticamente gettate a terra (Resistere, Il Contagio) sono tappe importanti di una ricerca unitaria e pervicace: ossessione erotica, paradossi della finzione, desiderio mimetico, senescenza dell’occidente sono le costanti di una residua metafisica del tardo capitalismo, che Siti intende accerchiare da ogni lato confidando in una faglia che lo conduca al “cuore del teorema”. Abilissimo ventriloquo, stilista nutrito del semenzaio poetico novecentesco, marxista reazionario intimamente infatuato dei miti che vorrebbe distruggere, il rischio di Siti è che a forza di trucchi, maschere, astuzie, rimanga vittima della sua intelligenza – continuando ad accerchiare piuttosto che condurre il temuto attacco frontale; oppure l’opposto: che con un gesto di stanchezza, si disfi di tutte le sue mediazioni per acquietarsi in una facile evidenza aforistica. Verrà comunque letto e studiato: preciso più di un documento storico, memorabile in molte sue pagine.
Giro altre due carte, l’Eremita e il Papa. Antonio Moresco forse verrà letto un po’ come si legge oggi D’Arrigo; fatto sta che la sua trilogia, comunque la si valuti (mi manca Gli increati e non ho un giudizio compiuto), godrà di un qualche seguito. Anche ignorando l’immagine che si propone di lui – un santo o un megalomane – non si può negare il tentativo ambiziosissimo (perso in partenza?) di superare con violenza le meccaniche e le aporie della modernità; un oltranzismo raro nella nostra recente storia letteraria. Forse la sua lotta è condotta con armi improprie, una lingua che riesce a rompere in visione solo a furia di accumulazioni ascendenti, un rapporto idiosincratico e autoreferenziale con la tradizione, vizi che comprendono al contempo cecità e ipermetropia. Anche se dovesse scontrarsi contro un muro insormontabile ed essere risospinto nel seno di quella modernità che vorrebbe assolutamente oltrepassare, rimarrebbe il sintomo di un fallimento titanico; un posto assicurato nella futura disputa sul canone.
Termino il gioco con altre due carte prevedibili: la Morte, l’Appeso. Tanta adesione su Michele Mari mi ha sorpreso. Poi ho pensato: ovvio, col suo citazionismo erudito, l’attraversamento nostalgico di generi popolari, la patente di iperletterarietà eccetera, è un autore trasversale tra i cosiddetti “lettori forti”. Innegabile che scriva bene e che abbia un’immaginazione fervidissima. Forse sarà letto come leggiamo oggi Landolfi – poco, da pochi appassionati. Spero che rimangano alcuni suoi racconti in cui le crepe dell’armatura iperletteraria scoprono ferite mai cauterizzate: il lutto, i desideri frustrati, la fuga in un immaginario orrorifico e dunque consolatorio; universali umani che padroneggia con un senso inattuale del tragico e dell’ironia – per happy-sad few, e per lo più umanisti incontentabili.
Mi rendo conto di aver ripetuto i nomi del sondaggio originale: la lettura dei tarocchi ha il rischio di ribadire il già noto. Giro allora l’ultima carta: la Torre. Simbolo di superbia e catastrofe. Anche Baricco ha il suo posto nel futuro. È tra i più smaliziati fondatori del midcult italiano, almeno in campo letterario. Ha frequentato Flaubert, Proust, Spitzer, Benjamin, Céline, e ce li ripropone come barbari ante-litteram, con se stesso a fine coda a fomentare un’inaudita rivoluzione antropologica. Non bisogna sottovalutare Baricco, che intercetta tutto ciò che è utile a consacrarsi come fine intellettuale nei dipartimenti di letteratura stranieri, dove si formeranno i futuri critici. Mentre noi siamo qui ad almanaccare con le nostre preziose carte della tradizione viscontea, lui gioca d’azzardo e vince la sua lotta per l’egemonia. E naturalmente Baricco è una sineddoche, Baricco è legione.
2. Dove hai sentito parlare per la prima volta di questi autori, e da chi?
Ho sentito parlare di Siti per la prima volta da Francesco Orlando, a lezione: in termini lodevoli per il critico, critici per il romanziere. Ho scoperto poi che il suo primo romanzo era stato di culto tra precedenti generazioni di normalisti. Di Moresco ho sfogliato la seconda parte di Canti del caos in libreria. In Mari mi sono imbattuto studiando Manganelli per un seminario. Qualcuno aveva regalato Oceano mare di Baricco a mia sorella, lo lessi durante le scuole medie.
3. Secondo te quale genere letterario è destinato ad avere fortuna nei prossimi anni? Poesia, romanzo, scritture ibride?
Altra domanda divinatoria. Difficile rispondere senza consegnarsi alle insidie del determinismo storico, e ai suoi giochi dialettici di fine e ricominciamento. Innanzi tutto, condivido la ben nota diagnosi sulla cattiva salute della poesia contemporanea: per perdita di rappresentatività e mandato sociale, certamente, ma anche per una debolezza intrinseca al genere, che da mezzo secolo vorrebbe aver superato la postura lirica con tutti i suoi corredi retorici, riuscendo di fatto a proporre solo sostituti diafani o inconsistenti. Impersonalità, poesia oggettiva, rappresentazione del quotidiano, straniamento e montaggio sono espedienti di rinnovamento tentati fin dai primi decenni del secolo scorso, ben metabolizzati verso la metà del secolo per dare luogo a una fertile contraddizione, e riproposti oggi al pari di una rivoluzione musealizzata. Poesia epigonale costruita a tavolino da sorvegliati artigiani, spesso all’ombra dei dipartimenti universitari, per cui sono già disposti un discorso critico e una storicizzazione. La nuova poesia è vecchia e stanca nella misura in cui vorrebbe essere giovane e up-to-date, poiché patisce le tare di una comune falsa coscienza. A mio avviso la deflazione o lo smantellamento della soggettività moderna, bandiera di un credo trasversale ai poeti contemporanei, non sono mai stati compiuti – ormai sono assorbiti e disinnescati dal discorso egemone a cui volevano fare il controcanto. Fingere di guardare oltre quella faglia – ostinandosi a un genere che dentro quella faglia è allignato per almeno un secolo – porta a una serie di prodotti intercambiabili, che non hanno mordente linguistico né urgenza inventiva, e rappresentano una medesima sezione di realtà con procedimenti apparentemente innovativi ma già consolidati da tempo: una galleria di dipinti accademici per un’unica didascalia. Per una misteriosa astuzia dell’arte, da questo contesto si distaccano opere di alto tenore (De Angelis, Annino, Valduga, Anedda e qualche altro); ma se dovessi scommettere sul futuro della poesia, genere che è letto dai più solo in virtù della sua inattualità, direi che la poesia “attuale” non ha potenza spendibile. Oppure potrei sbagliarmi del tutto: dalle secche dell’ermetismo e dalla poesia neorealista, solo mezzo secolo fa, è partita una delle stagioni più fervide e intense della storia poetica italiana.
Quanto a romanzo e scritture ibride, credo che godranno di buona fortuna, specie se continueranno a rimbalzarsi vicendevolmente la palla e a esplorare le proprie contraddizioni. Sono generi che rispondono a due domande sempre più pressanti: la sete di narrazioni e l’ansia di autenticità. Prevedo che i migliori scrittori di domani dovranno giocarsi con astuzia queste carte, contendendo il pubblico al cinema e alle serie televisive, magari per condurlo in territori inattesi. Un gioco che richiede estremo azzardo ed estrema lucidità per riuscire in qualcosa di valido, una difficile concomitanza di affabulazione dal vero e cadenza d’inganno – per cui prevedo, di contorno, una trafila di risultati mediocri.
4. Nell’arco di un decennio possono essere pubblicati libri che entrano a far parte di uno stesso dibattito critico, e che però sono stati scritti da persone nate in momenti molto diversi.
Quali autori consideri significativi – rilevanti dal punto di vista delle categorie critiche con le quali interpreti la letteratura – fra quelli che hanno pubblicato libri fra il 1990 e il 2015?
Per la prosa, ai nomi già suggeriti dai tarocchi aggiungerei pochi altri. Emanuele Trevi ed Eraldo Affinati, per la coerenza di temi e riferimenti, il forte taglio saggistico. Nicola Lagioia, prosatore di grande inventiva e sottile intelligenza analitica, che pecca nella tenuta romanzesca – da lui mi aspetto, prima o poi, qualcosa di memorabile. Francesco Pecoraro, che nella Vita in tempo di pace ripropone con credibilità forme e strutture di un tardo modernismo ancora vitale (sono tentato di dire: virale). Meritano attenzione, nel complesso, le opere di Gabriele Frasca, di un’osticità programmata, parte di un progetto vasto e organico, tra i meglio equipaggiati dei nostri tempi. Infine i racconti di Antonio Pascale e Giorgio Falco, un grigio realismo (o minimalismo spurio) che offre scorci fedeli di quotidianità disforica.
Quanto alla poesia, che è il mio primo oggetto di studio: tralasciando l’ovvia rilevanza di De Angelis (a differenza di altri, non considero Tema dell’addio la sua cosa migliore), le prove più convincenti mi sembrano provenire da poetesse di indole molto diversa. Patrizia Valduga, che da Requiem in poi riesce a piegare il manierismo d’origine in una confessione spietata e sempre più disarmata della propria – e nostra – natura desiderante, sempre in lizza con la morte e la dissipazione identitaria. Cristina Annino, per essere riuscita a conseguire una memorabilità classica attraverso un’anarchia (quasi) senza riserve. Antonella Anedda, in cui la dizione classicista consente uno slancio etico ed euristico verso il mondo percepito, un effetto di straniamento che amplia ed arricchisce l’esperienza anziché denunciarne l’insufficienza. Indubbia anche l’importanza di Valerio Magrelli, che mi lascia alquanto freddo per eccesso di calcolo, ma la cui riflessione poetica – come fu un tempo per il suo Valéry – è destinata ad avere un posto nelle future storie letterarie.
5. Passiamo a considerare i luoghi (giornali, riviste specializzate, riviste online, siti e blog; ma anche luoghi fisici come scuole, università, biblioteche, presentazioni di libri) e i modi in cui i libri vengono discussi e commentati oggi. Tendi a pensare al campo letterario come a uno spazio fluido, in cui critica, pubblico, industria dialogano e collaborano (talvolta anche in competizione per l’egemonia) – o a separare diversi campi d’influenza e di azione? Che tipo di interazione c’è (se trovi che ci sia un’interazione)?
L’apparenza è quella di una fluidità che confina con l’anarchia – a cui la cosiddetta critica 2.0, il web, i blog hanno contribuito massimamente. La separazione tra una letteratura elitaria, proposta da una critica specializzata coltivata in salotti e accademie, e una letteratura popolare, basata sul consenso e le vendite, ormai non è più pertinente. Illustri studiosi di Rinascimento organizzano convegni su thriller à la Dan Brown modellati sull’Hypnerotomachia Poliphili e anonimi blogger autodidatti scrivono recensioni ferocissime dell’ultima raccolta di Magrelli. In teoria, tutto collima con tutto, influisce su tutto; in pratica, quest’anarchia di superficie – libertà, volendo essere ottimisti – nasconde i veri rapporti di forza che presiedono al mondo culturale. L’egemonia è chiaramente in mano a poche case editrici, a operatori-manager che rispondono unicamente a leggi di mercato, creano casi editoriali dal nulla, selezionano e promuovono prodotti con collocazione sicura, e che nei casi migliori scommettono, di tanto in tanto, su un autore o un’opera commercialmente rischiosi – per aver salva l’anima. I critici parlano soprattutto ai critici, o corteggiano l’editoria con atteggiamenti schizoidi – tra il machiavellismo e lo snobismo esibito. La separazione è netta tra chi detiene i mezzi di produzione della cultura e chi elabora il discorso critico sulla cultura. Ambiti con scarso richiamo di pubblico, come la poesia, cercano di resistere chiudendosi in piccole corporazioni in cui tutti conoscono e commentano tutti; opere peregrine o di difficile fruizione raggiungono pubblicazione e visibilità in virtù di rapporti personali. Sembra un quadro nerissimo, ma è necessario in primo luogo un esercizio di lucidità e disinganno, se ci si vuole arrischiare a formulare giudizi e narrazioni sul nostro presente letterario. Il primo passo verso l’autodeterminazione intellettuale è lo sguardo impietoso sul proprio stato di ceto privilegiato subalterno – sempre meno privilegiato e sempre più subalterno – e dunque prendere la misura della propria impotenza, studiare strategicamente le possibilità di una futura potenza. Io non credo di averne ancora gli strumenti, le mie sono notazioni impressionistiche o basate su poche cose note. Intanto, come ci suggerisce l’insidiosa dialettica di cui sopra, è possibile che qualcosa di insolito, di significativo, di acuto, sfugga di tanto in tanto alle meccaniche dell’industria culturale – che riesca a cavalcarne l’onda, o a rispondere a richieste che la cecità da automa di quell’industria ancora non vede. Dunque lucidità impietosa verso se stessi, ma senza indulgere al gioco dell’apocalisse. I modi di produzione correnti non sono un fatto di natura, lo stato delle cose non è dato una volta per sempre.
6) Quali sono le personalità e i luoghi della critica che consideri più seri e affidabili?
Riguardo ai luoghi: menzionerei soprattutto riviste che portano avanti un progetto culturale riconoscibile, come «Allegoria», «L’Ulisse», «Between», o la recente e ottima «Ticontre»; sono incuriosito dal fenomeno crescente dei blog letterari, di cui «Le parole e le cose» e «Doppiozero» sono tra gli esponenti più rigorosi; segnalo «404: file not found» tra le iniziative “giovani”, per passione e competenza. Quanto alle personalità, in gran parte si tratta di incontri fatti durante i miei studi. Quello con Francesco Orlando, forse il più determinante, mi ha insegnato che il rigore del pensiero e dell’interpretazione dei testi, della teoria letteraria e della storiografia sono conciliabili – per quanto non sia un fautore della teoria freudiana, credo che la sua traduzione in termini di critica tematico-formale, presa in via provvisoria e operativa, sia di rara potenza ermeneutica. Dall’altro lato, la stilistica, laddove sia confortata da elementi di contesto e da una solida prospettiva storica: e qui la lezione di Mengaldo è imprescindibile. Trovo spesso stimolanti le riflessioni di Benedetti e Luperini, per la chiarezza delle posizioni, la scelta dei temi affrontati, l’attitudine a porsi domande frontali e a rispondervi con l’integrità delle proprie conoscenze; anche quando non sono d’accordo, ne ammiro la combattività. Un modello lontano a cui mi sforzo di tendere – un modello per molti versi impietoso – sono i saggi critici di Fortini e Siti. Muovendomi di una generazione in avanti, sono convinto dell’importanza del lavoro di Mazzoni, Donnarumma, Casadei, Simonetti, Scaffai, Zinato. Ipermodernità, Teoria del romanzo, i saggi dedicati da Casadei, Simonetti, Scaffai, Zinato alla contemporaneità o modernità letteraria tentano una storicizzazione e una sintesi ad ampio raggio del presente e del nostro recente passato, sempre avvalorate dalla massima attenzione ai fenomeni particolari. Una menzione speciale a Daniele Balicco, che finora nessuno ha nominato: ho scoperto il suo lavoro da poco, ma credo che la sua proposta critica sia tra le più brillanti e innovative degli ultimi tempi.
Gaia Locatelli è nata a Bergamo nel 1982. Si è laureata in Lettere Moderne all’Università degli Studi di Milano, occupandosi in particolare di comparatistica, teoria della letteratura ed estetica. Ha scritto per «Doppiozero» e «Elephant&Castle». Attualmente vive a Berlino, dove lavora in una libreria antiquaria.
Lorenzo Mari è nato a Mantova nel 1984. Ha conseguito il dottorato in Letterature Moderne, Comparate e Postcoloniali presso l’Università di Bologna, e ora è ricercatore postdoc a Parigi. È co-fondatore della rivista online «In Realtà La Poesia» e curatore della collana «L’Altra Lingua» per le edizioni L’Arcolaio. Ha pubblicato un libro di poesie.
Dario Postiglione è nato a Napoli nel 1985. Ha studiato presso la Scuola Normale Superiore ed è dottorando all’Università di Pisa. Si occupa di letteratura italiana contemporanea e di letteratura modernista europea.
[Immagine: Karo Akpokiere, Patterns (gm)].
per il futuro vedo bene
– Antonio Moresco che anche quando imperfetto (vedi ultimo libro) ha sempre tentato di portare il romanzo più in là e superare gli empasse in cui era finito lo stesso in Italia. Gli Esordi è probabile che rimarrà, anche quando delle sue polemiche e incomprensioni invece non ci sarà traccia. Anche Canti del Caos, tolte le parti che non vanno (e sono molte) dentro ha parti che invece vanno davvero lontano. Davvero davvero lontano.
– Vanni Santoni che ha innovato in un range ampio, Personaggi Precari salta alla mente così come l’esperienza del SIC, e anche il lavoro fatto in Muro di Casse dialoga con cose importanti (vorrei scrivere un articolo che collega Muro di Casse con Qualcosa di scritto di Emanuele Trevi, libri imparentati nella forma ma anche nel contenuto), più il tentativo di fare fantasy colto, etc.
– Giorgio Vasta che pur in una produzione abbastanza limitata, con Il Tempo Materiale ha in modo deciso stabilito un ‘no’ alle leggeritudini degli eredi distorti di Calvino. È inoltre uno dei pochi prosatori di oggi che all’attività di scrittore ha affiancato una significativa attività di valorizzazione delle cose valide tramite recensioni e testi critici.
– Lo stesso Emanuele Trevi, per Qualcosa di scritto anzitutto, oltre che per Senza Verso. Il suo silenzio ora lascia presagire il lavoro su qualcosa di potenzialmente decisivo.
– Difficile non citare anche il magistero di Valerio Magrelli. Poetico, ma ora anche di prose di peso notevole.
infine, forse, e lo dico nonostante l’ampio livello di midcult, è possibile che il lavoro di Elena Ferrante assuma lo status di piccolo classico semi-commerciale. Certo è che fuori dall’Italia lo è già.
Walter Siti? Ma per favore! “Resistere”? E’ deprimente e ridicolo, pallosissimo. 13 euro buttati, l’ho gettato nel cassonetto ma lo spazzino è venuto a riportarmelo, non lo volevano neanche loro…. Quante chiacchiere snobistiche e inutili, quanta nebbia intellettualoide! Luperini è stimolante? Grazie, lo sapevamo da un bel pezzo! E comunque non dimentichiamo i nomi di battesimo, non siamo sotto la naja…
@Spadanuda Vittorio
In effetti con quel cognome la naja non dev’essere stata proprio uno spasso.
Per parlare d’altro, si parla del nome, che è radicato nella nostra storia. Ma poi, senti chi parla, Kagakatzis, al secolo?…. ! Ah ah!