di Raffaele Donnarumma
Secondo volume di una trilogia, Abbacinante, aperta da L’ala sinistra (1996; Voland 2003) e conclusa nel 2007 con L’ala destra (che sarà disponibile da noi nel 2016), Il corpo (Voland 2015) è uscito in romeno nel 2002: già tradotto in altre lingue europee, arriva adesso in Italia grazie a Bruno Mazzoni, che ha diffuso nel nostro paese le prose e i versi di Cărtărescu in versioni esatte ed efficaci. Cuore del libro è la vasta seconda parte, in cui si ripercorre l’infanzia di Mircea, controfigura e omonimo del romanziere che nella prima parte parla in prima persona, mentre qui e nell’ultima è oggetto del discorso in terza persona. Il dispositivo dominante è lo straniamento: la scoperta del mondo, nella Bucarest a cavallo fra anni ’50 e ’60 dominata dal Partito, dalla Securitate e dal presidente Georghiu-Dej, è compiuta con gli occhi del bambino, che ne intuisce ora le meraviglie, ora l’involontaria comicità, ora lo spavento. È una tradizione ben diffusa nel Novecento, dal Tamburo di latta a Vedi alla voce: amore; ma qui lo straniamento è spinto sino all’onirismo: penso a episodi memorabili come quello della ragazza-farfalla; ai tappeti prodigiosi intessuti da Maria, la madre di Mircea, pieni di figure e di storie; al volo del protagonista in un secchio, lungo il palazzo che abita; o alla visione mistico-psichedelica scatenata in lui, al circo, da un ipnotizzatore venuto dall’India.
Un odore, insomma, di realismo magico sudamericano, se non fosse che qui fa sentire la sua voce non la grande storia, ma la cronaca, con la violenza umiliata del suo squallore. Anziché sostituire la realtà, il racconto la mette in questione, la sfida, la interpella costantemente come l’istanza che non può cancellare e con la quale deve sempre fare i conti; ed è rivelatore che mentre manipola vistosamente i materiali della propria autobiografia, in una specie di autofiction oltranzista, Cărtărescu rispetta però i dati della storia pubblica. Più ancora che la realtà, del resto, al narratore fa problema l’alterità, o perché si rifugia in rapporti simbiotici (anzitutto, quello con la madre), o perché cerca relazioni proiettive (Hermann, il guardiano notturno reietto di fronte al quale chiarisce la propria vocazione di scrittore), o perché la demonizza nella veste di antagonisti minacciosi (il bullo del quartiere, a tratti il padre). All’apice di questo rapporto turbato con l’alterità sta Victor, il gemello uguale e opposto scomparso a un anno, e che riconquista la scena nella parte finale del libro: in lui identità e differenza finiscono per coincidere, mettendo fuori gioco la logica diurna, e mostrando che l’altro può essere pensato solo come maschera dello stesso.
Se la seconda parte, nonostante gli squarci fantastici e una certa fluidità temporale, ripercorre la vicenda ordinaria di un’infanzia, con le sue tappe e le sue figure obbligate (i genitori, la scuola, gli amici, le prime esperienze fuori casa), la prima e la terza si muovono con libertà fra tempi e storie diverse: quella di Mircea giovane, impegnato nella stesura del suo manoscritto enorme e illeggibile, e quella di Vasile, capitano dei pompieri di fine Ottocento; poi quella appunto di Victor e dei bizzarri personaggi che lo circondano, in un’Amsterdam popolata da uomini-statua, prostitute e travestiti. Soprattutto negli estremi, simili ad ali di quelle farfalle che sono spesso evocate nel testo, il discorso procede per associazioni imprevedibili, stipato di immagini, con l’andamento spiazzante di un disegno di Escher o di un quadro di Monsù Desiderio, pittore una cui veduta miracolosa è custodita nel sordido appartamento bucarestino di Hermann. Così disposto, Il corpo sottopone a tensione le strutture romanzesche; e per quanto ampia e tollerante sia quella tradizione, di fatto essa va piuttosto stretta a Cărtărescu, che, al pari di altri scrittori di oggi (Volodine in Francia, ma soprattutto Moresco da noi), ci impone di ripensare la nostra stessa idea di narrativa. Le descrizioni dilagano, componendo avventure mentali irriducibili alla progressione rassicurante di un plot: se si vuole parlare, per un libro come questo, di trama, occorre farlo pensando a un’intersezione di linee orizzontali e verticali, o meglio ancora a quel prodigioso tappeto cubico di Maria, in cui la piattezza è abbandonata per suggerire un mondo multidimensionale, saturato di vicende che rampollano l’una dall’altra come fossero frattali, trasformato davvero (e il gioco di parole non spiacerebbe all’autore) in ‘volume’. Il mito che Cărtărescu segue è quello del libro come entità vivente, la cui logica è insieme la simmetria e il concrescere mutevole. Se infatti lo schema triadico è così evidente e insistito da apparire, alla fine, formalistico e misterioso (scandisce sia l’intera trilogia, sia questo singolo volume), la legge che costruisce il succedersi delle pagine è ancora più oscura. Un sistema di riprese tematiche e simboliche percorre infatti l’intero volume e si espande anche oltre i confini della trilogia, recuperando materia di altri romanzi, come Travesti (1994); eppure, intuire le tracce di un disegno non significa affatto comprenderne l’ordine. Con premeditazione, la scrittura resiste a una piena intellegibilità.
Anche in traduzione, Cărtărescu appare un prosatore straordinario: la sua duttilità sintattica e la sua ricchezza lessicale si prestano tanto al virtuosismo nomenclatorio, quanto al salto immaginifico, e sperimentano una varietà di toni che però esclude, per partito preso, il grado zero della trasparenza o della medietà. La sua scrittura, che è insieme immaginazione intraducibile in immagini concrete e senso fisico della percezione (il titolo Il corpo dichiara anche questo), indaga accanitamente il visibile, ma non crede che la realtà sia quella che si vede (e proprio per questo, per tornare al titolo, è abbacinante). Questo senso dell’unità fra pensiero e biologia, che sembra fare del libro un banchetto approntato apposta per gli adepti nelle neuroscienze, è il centro della sua ideazione: materiale e immateriale, cronachistico e visionario, esperienza delle cose viste e capacità del linguaggio di dire l’inesistente si intrecciano di continuo. È una sorta di mistica materialista che forza le tre dimensioni per aprirsi alla quarta, il tempo, che vede il mondo come metamorfosi perenne, e che cerca i segni delle possibilità irrealizzate in ciò che si è compiuto diventando atto.
Postmoderno, allora? Cărtărescu ha mostrato interesse per questa categoria, cui ha dedicato la tesi di dottorato pubblicata nel 1999; eppure, Abbacinante non si lascia piegare ad essa. Per quanto coltivi l’ironia o il grottesco, gli sono estranei la riscrittura parodica, il rifacimento-sfacimento dei generi o la vertigine dell’autoreferenzialità (basti vedere come l’Aleph di Borges ispira l’invenzione del tappeto cubico di Maria, senza però nessuna intenzione di citazionismo metaletterario; o come i ricordi dei libri profetici della Bibbia, della Commedia o della scena finale del Faust nutrano la visione oltremondana di Mircea). Nato nel 1956, Cărtărescu appartiene a quella generazione di autori che, al pari di Bolaño o Foster Wallace, attraversano il postmoderno per emancirparsene e uscirne. Cărtărescu è infatti uno scrittore estremamente colto, ma per l’uso intensivo cui sottopone le risorse della lingua, dello stile e dell’immaginazione più che per l’attitudine a saccheggiare il già detto; e il risultato è che, anziché mirare a una scrittura di secondo grado, tende al reincantamento, convinto che, nell’impossibilità di dare verginità alla parola e al racconto, non si debba però affatto rinunciare a farli suonare nuovi, persino inauditi. Il suo scopo non è vanificare il senso, ma riappropriarsene. Il libro che leggiamo «non dice nulla, non vuole nulla e non significa nulla» (p. 565); ma è anche un Libro religioso, indistinguibile dalla vita immaginativa di Mircea e in attesa del suo lettore, che scopra in esso la propria salvezza e la verità – qualcuno, insomma, che creda nelle ambizioni della Recherche o del Livre mallarmeano. Reagendo a tante diagnosi sulla fine della letteratura, Cărtărescu proclama la sua fede in essa: monumento non all’angustia del sé, ma alle potenzialità di una vita singola, dentro la quale pullulano e riecheggiano le esistenze di altri se stessi e dei molti, se non di tutti; accesso ai mondi che si intuiscono nel mondo, alle storie che la storia conosce solo in minima parte, alle vite che la vita attende di dischiudere, e che la scrittura sa far parlare.
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