Kamp degli Hotel Modern al Festival di Spoleto
di Maria Anna Mariani
Un plastico del lager, fitto di minuscole marionette azionate dai tre membri della compagnia olandese Hotel Modern. Questo è Kamp, lo spettacolo che per i tre giorni conclusivi del Festival dei Due Mondi ricopre il pavimento tramutato in palcoscenico dell’ex chiesa di San Simone a Spoleto.
È lo spazio teatrale più disagevole di tutta Spoleto, San Simone. Qualcuno tra il pubblico ironizza che ci vorrebbe un busto ortopedico, magari di gesso, per restare seduti a lungo senza slogarsi le vertebre sulle gradinate che si arrampicano di fronte al palco, e che lo sovrastano come l’altura da cui si occhieggia un precipizio. Eppure questo disagio posturale a cui gli spettatori sono costretti sembra perfettamente adeguato a Kamp. Si potrebbe quasi suggerirlo come soluzione scenica da esigere per gli allestimenti futuri dello spettacolo, che ha debuttato a Rotterdam dieci anni fa e che da allora non ha smesso di inquietare i teatri del mondo.
Un lager in miniatura, dunque, abitato da deportati-marionette con le divise a strisce, incollate a brandelli sui piccolissimi corpi. Marionette fatte di plastilina, che coi loro volti declinano l’urlo di Munch in 3500 variazioni di quell’angoscia capace di disossare i lineamenti. Incarnato dalle marionette, quel quadro che stilizza il dolore in modo talmente vivido da essere stato predato dall’immaginario popolare, che lo ha reso addirittura emoticon – punteggiatura affettiva di uso quotidiano – torna così a esprimere la sofferenza di una smorfia che rimpiazza l’espressione umana. Le marionette dei deportati sono state preparate con cura minuziosa dai membri della compagnia Hotel Modern e dai loro collaboratori, artisti che allestendo Kamp si trovano ogni volta a rappresentare l’eredità di un trauma familiare: il nonno di Pauline Kalker, co-fondatrice della compagnia insieme a Arlène Hoornweg, morì a Auschwitz. È un trauma che in qualche modo ci riguarda tutti però, e di questo trauma lo spettacolo offre alla nostra memoria postuma una possibile, provvisoria e controversa elaborazione.
Il plastico di Kamp mostra una giornata nel lager, dall’alba alla notte, condensata in un’ora. Le marionette-deportati e quelle SS – i cui ghigni di plastilina sono altrettanto stravolti, anche se non sono modellati sulle pennellate dell’Urlo, ma su autentiche foto recuperate dagli archivi nazisti – si muovono grazie all’azione dei tre membri di Hotel Modern. Uno di loro, Herman Helle, filma le figurine in movimento e le proietta ingigantite sulla parete che sovrasta il piccolo lager. Il pubblico si trova così di fronte a un particolare espanso prelevato dal teatro di marionette che viene macchinato in contemporanea sotto i suoi occhi. La proiezione genera l’illusione di un documentario iperrealistico: lo schermo non mostra le mani dei teatranti e le marionette si affermano nella loro autonomia, perdendo l’essenza di pupazzetti soffici, carini e rassicuranti. Se all’inizio dello spettacolo l’uso della marionetta può sconcertare, perché sembra addomesticare l’evento e addirittura trivializzarlo nel kitsch, col passare dei minuti la forza dell’illusione si impone in modo talmente energico che lo spettatore comincia a credere alla realtà della marionetta, alla realtà dei corpi di plastilina e a quelli di colla liquefatta – il materiale nel quale sono modellati i minuscoli deportati gassati. Anche l’interno della camera a gas è infatti mostrato, quello spazio che è stato forse varcato soltanto da un’altra immaginazione, quella romanzesca di Vasilij Grossman in Vita e destino.
Immaginazione sì: è questo che ci vuole. Parlando di Kamp, tutti i recensori hanno subito convocato l’estetica dell’inimmaginabile, quell’estetica negativa che però, ricorda Giorgio Agamben, non fa altro che conferire all’evento il prestigio della mistica. E invece Kamp ha l’ardire di immaginare, proprio tutto immagina, e così facendo costringe a confrontarci con la materialità dell’evento. Lo fa addomesticando il reale? Certo che lo addomestica; ma non potrebbe fare altrimenti. Perché è soltanto schermando il reale e mimandone le sembianze in modo inadeguato che si può fronteggiarlo senza restarne paralizzati. L’inadeguatezza è necessaria. Anche perché paralizzati, poi, lo si resta comunque. Per qualcuno la crudeltà inflitta dallo spettacolo delle marionette straziate è già eccessiva: molti del pubblico abbandonano lo spettacolo ben prima della fine e fuggono giù per le scale di ferro. I loro corpi sono sotto la pressione di un verdetto – questo è intollerabile – che li affretta e li fa rumorosi, improvvisamente dimentichi delle convenzioni. Il primo a lasciare l’ex chiesa di San Simone è un ragazzo, che si alza di scatto dopo che il corpo di un piccolo deportato finisce scheggiato da un manganello, i cui colpi implacabili sono amplificati da un rumore sincronizzato con precisione stupefacente. Il rumore è realissimo, ferraglia su ossa friabili, e perfora le tempie. Tutti i suoni sono realissimi e perturbano, specie quelli del pasto dei prigionieri, con i risucchi della brodaglia deglutita, le leccate fameliche al fondo delle scodelle, i piatti addentati e grattati con gli incisivi, la furia dei rimestii nel bidone della spazzatura, a caccia di improbabili avanzi altrui. Ed è forse proprio la dimensione acustica a sfidare nel modo più audace la tolleranza dello spettatore, che per fronteggiare tutto questo ha bisogno di un grande coraggio, ma che al contempo prova un’irresistibile, ambigua fascinazione per quel che resta pur sempre uno spettacolo. Cos’è quest’attrazione che inchioda alle sedie? Può dirsi assolta dal coraggio di conoscere? Chi se ne va, è davvero da biasimare? Noi che restiamo seduti, in quale posizione ci troviamo? Ancorati ai nostri cuscini sbilenchi, siamo testimoni di atrocità che si svolgono in tempo reale sotto i nostri occhi intenti soltanto a guardare, guardare, guardare.
E i marionettisti, loro chi sono? Nella brochure che accompagna lo spettacolo vengono descritti come foto-reporter. Osservandoli, però, non si può fare a meno di pensare al loro grado di compromissione. Sono pur sempre loro che azionano le marionette, sia le vittime che i carnefici. È vero che hanno volti impassibili e che sono vestiti di grigio, assorbiti dal paesaggio di baracche, mimetizzati in mezzo alla polvere e al fil di ferro. Eppure la loro responsabilità sembra enorme. Si potrebbe pensare che siano la mano impersonale della storia, che con le sue svolte imprime un folle corso al Novecento. Oppure la mano dello storico, suo malgrado mai del tutto oggettiva, che allinea questi eventi e registrandoli ne contrasta l’oblio. Chi sono, insomma, questi marionettisti olandesi? Chi siete voi tre, che con le vostre mani generate tutto questo? Sono tentata di chiederglielo, alla fine dello spettacolo, quando al pubblico superstite è permesso addirittura di camminare in mezzo alle baracche del plastico, di sfiorare i minuscoli corpi dei deportati e di fare domande ai membri della compagnia. Mi risponde Pauline Kalker, laconicamente: manipolatori, dice. Siamo soltanto i manipolatori. Ma questa parola, di certo impiegata nel suo significato neutro, etimologico, puramente meccanicistico, risuona ormai nel linguaggio comune – in italiano come in inglese – di un significato sinistro. Il puppet master è un individuo sospetto e spregevole, che riduce l’altro a uno stato estremo di inerzia, malleabilità e debolezza. Manipolare: ci sarebbe tempo per comunicare alla compagnia le perplessità su questo termine, e per condividere altre inquietudini innescate dalla rappresentazione. Ma non lo faccio, e nessun altro lo fa. Si fatica, si fatica molto a parlare, dopo Kamp.
Prossime date italiane di Kamp:
16, 17 e 18 luglio al Torinodanza Festival.