cropped-00011.jpgdi Guido Mattia Gallerani

[Guido Mattia Gallerani ha una borsa di post-dottorato al CNRS e all’ENS di Parigi. Ha pubblicato Roland Barthes e la tentazione del romanzo (Morellini, 2013). Questo suo articolo costituisce un ampliamento di quello apparso sull’«Indice dei libri del mese» nel numero di luglio-agosto 2015]

Se incalzati dall’appuntamento che il genere “centenario dello scrittore” esercita puntuale su critici e ammiratori, anche i più timidi possono infine uscire allo scoperto. Perfino uno studioso al centro del dibattito internazionale, e lontano quanto mai possibile da Roland Barthes (dalla schiera degli ammiratori di Barthes), come Jean-Marie Schaeffer pubblicherà a settembre una sorta di lettera postuma a lui (Thierry Marchaisse). Nel frattempo, altri intimi stanno aggiungendo ricordi ad altri ricordi, come nel caso delle recenti memorie di Chantal Thomas (Pour Roland Barthes, Seuil), che ha seguito un genere già consolidato, quello del monumento al maestro.
Queste ricorrenze di calendario diventano un modo pratico per verificare la notorietà di uno scrittore, soprattutto tra gli addetti ai lavori. Ma nel caso di Barthes, il centenario risulta particolarmente interessante per l’idea (vaga meno di un’interpretazione) che lo vuole essere più scrittore, da autore di un’opera all’origine non narrativa né poetica, che pensatore o intellettuale. Non è una visione di Barthes nata quest’anno, ma è un’idea che col centenario si sta istituzionalmente accreditando presso una più larga comunità internazionale.
Giunti alla metà delle celebrazioni del centenario, possiamo infatti tentare un resoconto dettagliato delle uscite e degli appuntamenti già trascorsi, come di quelli ancora in programma, al fine di verificare lo stato delle interpretazioni e delle letture di Barthes nel mondo (per motivi di spazio, mi limiterò solo a quanto uscito quest’anno, senza però rinunciare a richiamare precedenti studi fondativi o a suggerire sviluppi bibliografici ancora in esplorazione).

La premessa d’obbligo per capire il dibattito intorno a Roland Barthes è porre come discrimine la data della pubblicazione nel 1995, ma soprattutto nel 2002 con le correzioni e gli aggiornamenti, delle sue opere complete per Seuil, a cura di Éric Marty. Da allora è diventato più agevole per i lettori percorrere l’ampia produzione di Barthes in modo libero e trasversale, senza utilizzare le raccolte e le ristampe precedenti; le connessioni interne tra le varie parti dell’opera apparivano più visibili e scorrevoli rispetto le divisioni dei testi per schemi e metodologie; i costrutti retorici regolari e le metafore più care risaltavano tra le pagine consacrate a diversi oggetti, e dentro i cinque volumi la totalità di una scrittura era piegata di fini di una ricerca personale grazie agli indici e a una chiara disposizione storico-biografica basata su un ordine cronologico scrupoloso, come quello della data di pubblicazione dei testi e dei libri da parte di Barthes.

A fronte della consacrazione ad autore di una “opera completa”, Barthes ha cominciato a godere della fama di scrittore attraverso al proliferazione di forme biografiche romanzate sulla sua vita; ma mai sistematiche biografie della sua vita, condotte cioè secondo le regole di una vera ricerca storica. Tale assenza ha permesso la nascita di un Barthes personalità “misteriosa” dopo la morte, proprio a partire da quegli aspetti che in vita erano considerati una semplice riservatezza; un autore fascinoso, allora, ma solo perché non esplorato dal punto di vista più biografico e, al di là di casi di studio limitati, dal punto di vista genetico della creazione dei suoi testi.

Fino a poco tempo fa, infatti, l’unica biografia disponibile della vita di Barthes era quella di Jean-Louis Calvet pubblicata a un decennio dalla morte (Roland Barthes : 1915-1980, Flammarion, 1990): operazione che aveva dovuto accontentarsi di un discorso di superficie, senza penetrare nel fondo degli archivi dello scrittore.

Intanto, Philippe Roger aveva già fornito, a qualche anno dalla scomparsa, il suo ormai classico Roland Barthes, roman (Grasset, 1986), percepito oggi così lontano da non venir più citato nel dibattito. Anche se la scrittura di Roger, imitativa di quella del suo autore, non sembra che prolungare il discorso stesso dell’ultimo Barthes, essa ha nondimeno fornito alcune suggestioni, come quella tutta metaforica della spirale per descrivere il percorso cronologico del pensiero di Barthes attorno a pochi nuclei fondanti, che hanno trovato un’eco ben udibile negli anni a venire.

Quello stesso anno, il 1986, usciva un libro che ha avuto il merito di fornire una prima lettura d’insieme delle qualità di saggista di Barthes: Barthes à l’essai di Reda Bensmaïa (Narr). Nel 1991 era la volta di Bernard Comment, che con il suo Roland Barthes, vers le neutre (Christian Bourgois) apriva a propria volta quella strada, veramente intrapresa solo dopo la recente pubblicazione dei seminari al Collège de France (1977-80), che vede in Barthes il pensatore di un concetto inafferrabile, tra componenti gender, mistica e post-strutturalista, espresso dalla sostantivazione del Neutro.

In sintesi, assieme a queste prime monografie, la produzione critica sull’opera di Barthes si fa imponente già durante gli anni Ottanta. Nel 1996, Philippe Gilles registrava nella sua bibliografia ragionata (Memini) 1136 lemmi tra articoli, libri e tesi su Barthes.

Negli ultimi vent’anni la riflessione generale e le interpretazioni dettagliate della sua opera hanno certamente contribuito a raddoppiare quella cifra, creando così una delle maggiori bibliografie secondarie oggi a disposizione agli studiosi per uno scrittore francese del Novecento.

Eppure, nonostante l’evidenza materiale della carta, lo scrittore Barthes restava ancora uno scrittore a metà: interpretata l’opera, il monumento all’uomo dimorava ancora senza una vera e propria, e davvero completa, biografia. Negli ultimi quattro anni, a preparazione dell’appuntamento del centenario, nonché sfruttando tale lacuna “biografica”, due monografie del genere vengono comandate da parte di due importanti editori francesi.

Con Roland Barthes : au lieu de la vie (Flammarion, 2012), Marie Gil ha elaborato una preliminare definizione di testo tale da inglobare la vita stessa di Barthes e poterla raccontare come una costruzione esistenziale fondatrice della sua stessa produzione scritta.

Uscita a gennaio, la biografia di Tiphaine Samoyault (Roland Barthes, Seuil) viene a fornirci un nuovo panorama della vita di Barthes grazie alla presentazione di materiale per lo più inedito e di accesso riservato, quale lo schedario privato e le agende personali su cui l’autore annotava, almeno per tutti gli anni Settanta, ogni singolo evento della propria giornata, per quanto apparentemente insignificante.

Uno speciale rapporto tra scrittura e vita si profila allora più stretto di quanto anche i più ottimisti (o pessimisti) avrebbero potuto immaginare. Gli studi su Barthes si potranno forse un giorno giovare appieno di queste risorse, al fine d’indagare più da vicino il suo metodo di lavoro: quel principio combinatorio di costruzione dei testi tramite schede continuamente ri-classificabili che l’autore praticava e che potrebbe infine spiegare la genesi stessa del suo stile breve e frammentario, assertivo ancor prima che argomentativo.

La biografia di Samoyault, di quasi settecento pagine, è innanzitutto una biografia per intime fasi di pensiero, che svela il percorso cronologico di una vita nei suoi punti ancora oscuri, nei suoi gusti privati e nelle sue esplorazioni intellettuali, tenendo al contempo conto del contesto culturale in cui la figura di Barthes nasce, cresce e s’impone: quello del pensiero francese dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, vale a dire all’apice dell’influenza e della notorietà dei suoi protagonisti. Ad esempio, dopo essere partita da una sorta d’identificazione ideale di Barthes con André Gide, Samoyault si dilunga sul confronto problematico con la figura imperante di Jean-Paul Sartre e sulle amicizie risolutive degli ultimi anni, come quelle con Philippe Sollers e Michel Foucault.

Col centenario, insomma, l’apparato preposto a definire accademicamente uno scrittore sembra essere ben presente. Eppure, il centenario dovrebbe anche essere un’occasione per imprimere all’ordine dei testi una nuova spinta verso una completezza almeno auspicabile, soprattutto considerando lo stato degli archivi di Barthes.

L’Album : Inédits, correspondances et varia (Seuil, 2015), sempre a cura di Éric Marty, è uscito il maggio scorso. Gran parte del copioso volume (382 pagine + tavole a colori) si concentra sulla corrispondenza intrattenuta da Barthes con personalità spesso significative della cultura francese. Sono lettere che testimoniano una volta di più dell’energia e dell’euforia culturale espresse nella Parigi del secondo Novecento.

Il campionario epistolare è significativo ed esteso, se si considera che la prima lettera risale all’agosto del 1932 e l’ultima al febbraio del 1980, cioè a un mese prima della morte di Barthes. Troviamo per esempio ben delineata l’amicizia con il futuro ambasciatore Philippe Rebeyrol, che si rivelò fondamentale per l’aiuto materiale portato a Barthes nel momento del suo reinserimento lavorativo all’uscita dal sanatorio, dove l’autore fu costretto a sostare a causa della tubercolosi proprio negli anni cruciali per la formazione agli studi. Troviamo ancora le amicizie intellettuali, i rapporti di stima, ad esempio con Alain Robbe-Grillet (si veda anche il recente Barthes et Robbe-Grillet : Un dialogue critique di Fanny Lorent, pubblicato da Les impressions nouvelles). Troviamo gli squilibri e le divergenze con il gruppo strutturalista, ad esempio nelle lettere indirizzategli da Claude Lèvi-Strauss. Troviamo anche tragitti interrotti, come quello con Georges Perec. Assistiamo alla nascita di relazioni pressoché orizzontali di Barthes con i propri allievi, come con Antoine Compagnon.

La parte finale del volume era però quella più attesa, poiché riservata al progetto di romanzo di Barthes, Vita Nova, concepito nel 1979, vale a dire un anno prima della morte. L’obiettivo segreto di Barthes sembrerebbe essere stato quello di dotare di unità sistemica tutta una serie di scritture del passato, permettendo che trasmigrassero in una nuova forma inedita dalla loro precedente impronta intimistica, quale quella del diario redatto alla morte della madre e tradotto in Italia con il titolo Dove lei non è da Valerio Magrelli (Einaudi, 2012). Agli otto piani di lavoro già pubblicati nelle opere complete si aggiungono soltanto venti schede estratte dall’archivio e scelte sulla base del loro legame con gli ipotetici capitoli del romanzo. La curiosità lascia spazio alla delusione, come necessario complemento di un interesse che deve restare vivo riguardo la fantomatica suggestione di un Barthes “romanziere”.

L’Album continua anche il percorso di edizione già iniziato e condotto sui seminari e sui corsi di Barthes, prima all’École pratique des Hautes Études e poi al Collège de France (Seuil). C’è un estratto, incentrato su Paul Valéry, dal corso sulla retorica (1964-66) e un intervento pronunciato nel 1975 sul problema della frase in Gustave Flaubert.

Si è dunque persa almeno un’occasione a portata di mano: quella di poter giustificare davvero grazie a una descrizione di tutto l’archivio le scelte compiute in merito alle lettere e alle schede pubblicate, che appaiono per lo più come inediti estratti dal loro contesto d’origine, senza che il lettore possa individuarne almeno il contorno. Ci si sarebbe attesi, infatti, una descrizione anche sommaria dell’archivio di Barthes, conservato alla BnF di Parigi dal 2010, il cui catalogo non è ancora stato aggiornato a seguito del suo trasferimento dal centro normanno IMEC, dov’era stato depositato nel 1996.

Soprattutto dopo il trasferimento degli archivi a Parigi lo studio su Barthes ha assunto proporzioni oltremodo notevoli. Il sito <www.roland-barthes.org>, ideato da Mathieu Messager, ha permesso una nuova messa in rete degli studiosi interessati, fornendo a tutta la comunità internazionale un continuo aggiornamento in merito agli incontri in programma per il centenario. Il sito permette anche l’utilizzo di un nuovo, inedito strumento offerto gratuitamente ai naviganti: quello dell’indicizzazione, condotta tramite un motore di ricerca, di qualsiasi parola dentro tutta l’opera di Barthes (le edizioni Seuil hanno concesso di segnalare uno stralcio del passo estratto e il numero di pagina).

I principali appuntamenti del centenario non si svolgono solo a Parigi, con i convegni tematici sulla musica e sul cinema (in attesa del grande convegno a novembre al Collège de France), o in Francia, come a Bayonne, città di provenienza della famiglia dell’autore e a cui Barthes è sempre rimasto legato. L’accresciuta fama all’estero ha già prodotto nel marzo scorso due importanti convegni nel Regno Unito (Roland Barthes and Poetry e Roland Barthes at 100), in attesa di un prossimo grande evento a Londra in autunno. Molti appuntamenti hanno avuto luogo in giro per il mondo, e altri sono previsti: in America Latina (Brasile, Bolivia, Argentina), in Portogallo, in Croazia, in Romania a Bucarest (dove Barthes insegnò agli inizi della sua carriera come bibliotecario e lettore di lingua francese) e in Russia.

Una nuova speranza per gli studi barthesiani viene dalla nascita di due riviste specialmente dedicate: una in francese, ospitata sul sito citato, dal titolo Roland Barthes review, che sta preparando proprio un numero sulla ricezione di Barthes nel mondo, e un’altra riservata ad articoli in inglese, Barthes Studies, diretta da Neil Badmington, ormai prossima al lancio del primo numero.

Particolarmente utile risulta un’aggiornata bibliografia degli ultimi studi su Barthes che si può leggere gratuitamente sul sito della rivista French Studies; è stata redatta da Claude Coste, uno dei due direttori, assieme al già citato Éric Marty, dell’équipe Barthes, che dal 2010 ha sede presso il centro di critica genetica ITEM negli stabilimenti dell’ENS e del CNRS con il compito di valorizzare gli archivi dello scrittore; da qualche anno, organizza anche un seminario internazionale dedicato a Barthes, attualmente diretto da Marie Gil.

Anche in Italia, in cui Barthes ha ripetutamente sostato e con il quale gli scambi sono sempre stati frequenti e continuativi (da Fortini e Vittorini a Eco e Fabbri, a Calvino), le occasioni per un ricordo non sono mancate. Una giornata è stata organizzata a Urbino il marzo scorso dal principale studioso di Barthes in Italia, Gianfranco Marrone; a pochi giorni di distanza, si è svolta a Roma una tavola rotonda alla presenza della stessa Samoyault.

Oltre al sito Doppiozero che ripubblica testi di Barthes in uno spazio riservato al centenario, si segnala la curiosa iniziativa del Bar Barthes di Marco Mondino: percorso per immagini, anche delle edizioni originali dell’opera di Barthes, visibile sul sito <www.federiconovaro.eu>.

Mentre Isabella Pezzini ha dato alle stampe la più aggiornata monografia Introduzione a Roland Barthes (Laterza, 2014), l’editore Mimesis continua il lavoro di traduzione dei seminari pubblicati in francese: dopo il corso La preparazione del romanzo a cura di Emilia Galiani e Julia Ponzio del 2010, esce la traduzione del decano degli studi barthesiani in Italia, Augusto Ponzio, al seminario sul Discorso amoroso, origine, tra l’altro, del libro in mostra in questi giorni alla Biblioteca nazionale di Francia.

Non solo gli specialisti, infatti, sono coinvolti in questo centenario. In particolare due iniziative sono aperte a tutti. Fino al 26 luglio, i visitatori del sito François-Mitterrand della BnF potranno accedere gratuitamente alla mostra Le scritture di Roland Barthes: panorama, dove vedranno da vicino un esempio concreto del metodo di lavoro di cui parlavamo, nelle schede e nei manoscritti dei Frammenti di un discorso amoroso.

Inoltre, grazie a un progetto coordinato dall’Istituto francese, il pubblico di tutto il mondo è stato invitato a partecipare attivamente al progetto Barthes Vision, che consiste nell’associare fotografie e immagini scelte dallo spettatore a quindici citazioni di Barthes.

A Bordeaux ha luogo invece un’altra esposizione, curata da Magalie Nachtergael, cui si deve anche un originale percorso dentro l’arte contemporanea, interpretata attraverso la lente di Barthes e del suo interesse verso la pittura, nel volume dal titolo Barthes contemporain (Max Milo, 2015).

Cosa si può desumere, in definitiva, riguardo il Barthes che ci viene restituito da questo centenario ricco di avvenimenti e di apparizioni editoriali? Il centenario di Barthes si sta confermando all’altezza delle attese, mantenendo viva un’interpretazione molteplice della figura e dell’opera dello scrittore, ma l’immagine che ne esce, se ne consolida il fascino e il successo soprattutto internazionale, lo limita almeno in un punto ai fini della memoria culturale.

Barthes appare sempre più un pensatore cupolativo, in cui l’aggiunta di un “e qualcosa” al suo nome (Barthes e la musica, Barthes e il cinema o, potremmo attenderci, Barthes e la letteratura!) sembra essere necessario per conferirgli quella collocazione dentro il campo intellettuale del suo tempo che, a rigore, egli, in quanto intellettuale, potrebbe occupare in virtù della sola mole di idee proposte e sviluppate col suo lavoro.

Per ridurre Barthes soltanto a uno scrittore, si è spesso intrapresa la strategia usata in Italia da Alfonso Berardinelli che, in uno dei pezzi usciti per il centenario (sul Sole24Ore del 1 febbraio) e in concomitanza a una delle ripubblicazioni costanti da parte di Repubblica del ricordo di Alberto Arbasino, limita il discorso di Barthes a una scrittura che cerca come effetto di stile una micro-teoria ad ogni frase. Quell’intellettuale pienamente novecentesco che è Barthes diventa così uno non-specialista di discipline diverse, usate come forme intercambiabili e sottomesse a un desiderio di scrittura che, per mantenersi accesso e vivo, non può uscire dal proprio fondamento originario, impigliato in una sorta d’impasse semiologica svuotata di pensiero e riempita di retorica.

Ciò che manca all’interpretazione di oggi è allora proprio un Barthes teorico, dotato di un’autonomia di pensiero: un pensiero forse adombrato o eccessivamente controbilanciato dallo statuto di scrittore di cui egli gode negli ultimi anni. L’unico tentativo di leggere Barthes come intellettuale e teorico nella continuità della storia del suo pensiero, in un modo che potesse andar oltre le sue differenti fasi ma riuscisse anche a contenerle tutte, mi sembra potersi individuare ancora nel Sistema di Barthes di Gianfranco Marrone (Bompiani) del lontano 1994, cui s’aggiunge il merito di aver tentato questa strada prima della pubblicazione delle opere complete per Seuil.

Oltre il campo di studi su Barthes come pensatore del neutro (a cui lo stesso Éric Marty sta volgendo la sua attenzione), mi preme segnalare un’altra possibilità, forse non ancora adeguatamente esplorata, per ritrovare in Barthes l’intellettuale compiuto che è stato.

L’ostacolo principale viene da quella fase del suo lavoro che è stata interpretata come la forma di un ripiegamento dalle forme dell’impegno a quelle dell’espressione dell’individuo. In realtà, solo dopo aver sperimentato alcune soluzioni di teoria collettiva che già prevedevano una via d’uscita per l’individuo, soprattutto nel caso del marxismo esistenziale di Sartre e di una semiologia particolarmente ideologizzata contro una civiltà borghese di massa, Barthes sperimenta questa sorta di ripiegamento, che coinciderebbe, a detta degli studiosi, con l’abbandono della teoria strutturalista e l’inizio di una ricerca personale e tutta autobiografica attorno ai problemi di enunciazione del soggetto, in particolare durante gli anni Settanta (i Fragments d’un discours amoureux, del 1977, costituirebbero l’apice del processo).

Credo invece che si possa studiare Barthes, nella sua totalità, come la forma di un pensiero gregario al discorso intellettuale del secondo Novecento, soprattutto rispetto le sue forme più “collettive”, certo criticate, riprese e modulate dallo stesso Barthes, ma mai ignorate o disprezzate.

Innanzitutto, bisogna sottolineare che la forma saggistica non è soltanto il contenitore della scrittura di Barthes, ma ne è una modalità di pensiero. Nel genere del saggio, Barthes trova quella forma idonea a manifestare alcuni problemi dell’intellettuale in un momento storico di ridefinizione del rapporto tra l’individuo stesso e la sua storia culturale, soprattutto dopo gli eventi del Sessantotto, cui Barthes resta estraneo anche per ragioni di salute, e che coincidono con un altro periodo di allontanamento dalla Francia per insegnare in Marocco.

A partire dalla lunga formazione condotta sull’opera di Michelet, che potrebbe essere additata come l’unica costante metodologica di tutto il discorso barthesiano, Barthes diventa sensibile alla necessità di un discorso storico per poter riconoscere il problema fondante del suo rapporto con il presente: questo rapporto è particolare in Barthes, perché parte da un suo ritardo personale nei confronti del discorso intellettuale del suo tempo, al punto che, per recuperare quella concordanza perduta col suo presente, lo costringe a creare un discorso infine più utopico e ipotetico che quello storico aderente ai fatti e agli eventi più attuali che l’autore insegue. D’altronde, Barthes ironizzerà spesso sul suo fatto di essere un soggetto anachronique (Plaisir du texte) o di essere, paradossalmente, alla retroguardia dell’avanguardia (1971).

Esiste insomma in Barthes una sorta di anacronismo tra teoria e storia. Estromesso dal tempo reale della Storia, bloccato in sanatorio nel momento fondante per la sua generazione –  la Resistenza, la Liberazione –, Barthes cerca attraverso un discorso intellettuale personale di sintonizzarsi con quel presente che ha mancato, tentando di recuperare innanzitutto un legame di tipo intellettuale con il discorso collettivo che di quel momento storico generazionale e identitario perpetua il gesto e la memoria; lo fa cominciando con l’unico strumento a sua disposizione all’epoca: il saggio sartriano, o se si vuole un saggio più impegnato e militante rispetto le sue forme di scrittura posteriori.

Soltanto che, a differenza di Sartre, questa forma di discorso presente ed engagé è utilizzata come una forma già storicizzata, non ancora come una forma personale di saggio: attraverso una lettura degli scrittori più attuali, come Albert Camus e la compagine del Nouveau Roman, Barthes storicizza gli esiti letterari di una crisi della borghesia europea già abbondantemente compiuta. Allo stesso tempo, quando il discorso di Barthes non vuole essere solo storicizzante, ma di teorizzazione di questo presente, tende a farsi utopico, cioè a sostituire alla descrizione militante del presente letterario una via di fuga verso l’utopia del futuro, ad esempio intravedendo all’orizzonte la nascita di una “scrittura bianca”, che altro non sarebbe che la premessa per un realismo di struttura e che avrebbe dovuto poi permettere di superare le barriere linguistiche di un realismo “di superficie” e borghese. Anche in S/Z (1971) l’obiettivo sarà meno l’analisi strutturale di un racconto che la creazione di una figura futura e utopica di lettore, un soggetto che ha molte attinenze con quella del moderno consumatore, se lo colleghiamo anche alla figura che emerge dal Plaisir du texte (1973).

Ad ogni modo, dopo questo saggio dal passato che è il Degré zéro de l’écriture (1953), Barthes arriva finalmente a un discorso simultaneo ai temi e agli oggetti culturali, simbolici, industriali, del suo presente (una volta reinserito a pieno titolo nella vita parigina) e che spazia dalle Mythologies al teatro popolare da Brecht. Eppure, anche in questo caso, il suo rapporto con il discorso intellettuale più aggiornato, quello della linguistica e dalla semiologia, non è un rapporto di attualità: non è il tentativo di un fondatore e sistematizzatore di una disciplina che vuole definire i confini dei propri concetti e stabilire precisi criteri di applicazione, come fosse una scienza. Basta vedere il nucleo tutto umanista di Critique et vérité (1966). Quei saggi più impegnati sono davvero i saggi più personali per Barthes perché saggi del suo presente: a differenza del Degré zéro de l’écriture, rappresentano la sua variante applicata del saggio militante o engagé sartriano. Ogni tentativo di teorizzazione, come il saggio metodologico che chiude le Mythologies, giunge ad essi posteriore.

Pertanto, Barthes non è un teorico perché ha dato un contributo fondante in tutte o in una di queste metodologie (neo-marxismo, strutturalismo, semiologia). Dovremmo considerare piuttosto quanto potenziale teorico è contenuto nel suo pensiero una volta che abbiamo raccolto tutte le idee avanzate da Barthes e le abbiamo sottoposte a valutazione rispetto alla loro aderenza e applicabilità al presente storico dato.

Se guardiamo alle nozioni più teoriche proposte da Barthes, anche quelle legate all’evoluzione strutturalista e non solo al “piacere del testo”, tali “la morte dell’autore”, “l’interferenza dei codici”, “l’effetto di reale”, ci ritroviamo con concetti che possiamo descrivere come tanti appuntamenti o momenti mancati della storia del discorso occidentale, letterario e intellettuale. Quello di Barthes è un discorso ancora teorico sul sistema della letteratura fondante l’immaginario occidentale, un discorso che s’intreccia alle forme cangianti dell’individualismo borghese o alla destrutturazione dell’interpretazione del reale fornita fino ad allora, ma è un discorso che devia verso forme frammentarie e “di risonanza” di una teoria che sta scomparendo, e che nondimeno vive ancora dentro il linguaggio. Per descrivere questa fase di decadimento della teoria occidentale, Barthes predispone un bagaglio teorico opportunamente riformulato e ragionato, che tiene conto tanto della palese crisi delle forme ideologiche collettive quanto dello statuto in fieri di un nuovo individualismo che si affaccia sulla scena.

Oltre che a Barthes pensatore del neutro, penso che un altro essenziale punto d’accesso per accedere a questo bagaglio teorico sia un altro dei suoi ultimi corsi al Collège de France, il corso Comment vivre ensemble, poiché i corsi al Collège, a partire dalla sua Leçon inaugurale (1977), sono anche un momento in cui Barthes tenta di fare il punto con le forme del suo pensiero passato e attuale, per cercare di salvaguardarne una forma di insegnamento anche posteriore. In Come vivere assieme, Barthes studia il modo con cui gli individui si accordano tra loro lungo la variabile del tempo: in ultima analisi, la comunicazione sociale e la letteratura possono essere studiate come forme particolari di una medesima problematica, quella del vivere in comune, verso cui il discorso intellettuale moderno tenta di teorizzare, via l’anti-teoria di Barthes e l’unico genere per essa possibile, il saggio, la propria incapacità di azione. In tal senso, Barthes non è uno scrittore (né un romanziere), poiché ciò implicherebbe per la sua scrittura un genere letterario che lo condurrebbe altrove rispetto la sua figura di intellettuale: chi la crisi del rapporto tra individuo e collettivo non si accontenta di esprimerla, ma vuole pensarla.

In conclusione, la figura del “Barthes semiologo”, quella che ne ha insomma decretato la fortuna internazionale soprattutto in Italia, sembra ormai ridursi, sotto il peso dell’espansione centenaria, a rappresentare solo una fase intermedia del suo lavoro: certo centrale, ma non univoca, e alquanto limitante per riunire i vari Barthes in uno solo.

[Immagine: Roland Barthes (gm)].

3 thoughts on “Il centenario di Roland Barthes, ovvero della vita dello scrittore dopo la morte dell’intellettuale

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