iwatch
di Marta Zura-Puntaroni

 

Il vetro del suo orologio era anche uno schermo. Quando attivava la modalità online, le altre funzioni si interrompevano. Gli ci volle un momento per decifrare una serie di firme criptate. Un tempo era così che violava i sistemi aziendali, testandone la sicurezza a pagamento. Questa volta lo fece per esaminare i conti bancari, i rendiconti delle società di brokeraggio e i depositi all’estero di Elise Shifrin e poi per impersonarla algoritmicamente e trasferire il denaro di quei conti alla Packer Capital, dove le aprì un nuovo conto, più o meno all’istante, digitando alcuni numeri sulla minuscola tastiera che circondava la lunetta dell’orologio.

Don DeLillo, Cosmopolis, 2003

Le strategie di marketing della Apple e di Steve Jobs si sono sempre basate su due meccanismi, opposti solo in apparenza: l’eccesso e la privazione. Funzioni a prima vista inutili o superflue sono incluse già nel primo lancio di un prodotto, mentre funzioni date per scontate tanto dagli utenti quanto dagli altri produttori vengono completamente ignorate, o inserite soltanto dopo diverse generazioni di sviluppo.

Un esempio classico di eccesso e privazione è l’iPod: lettore portatile mp3 lanciato nell’ottobre 2001, diventa un oggetto di massa con la serie nano del 2005. Un mondo di walkman e CD viene rivoluzionato con violenza da un singolo prodotto di una singola azienda: in breve tutti i concorrenti iniziano a immettere sul mercato lettori mp3 di vario tipo e di varie fasce di prezzo. Il prodotto più fisicamente simile all’iPod – o volendo applicare la tetrade di McLuhan[1], l’elemento del passato che viene recuperato nella manifestazione del nuovo artefatto – sono le radio portatili: la scelta di John Ive nel design dell’oggetto, infatti, è citazionista delle radio portatili disegnate da Dieter Rams per la Braun negli anni ’60. La scelta naturale e logica – quella seguita

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da tutti i concorrenti produttori di lettori mp3 – sarebbe stata introdurre anche la funzione radio FM. Apple invece aspetterà otto anni, sino al settembre 2009. Solo con la quinta generazione dell’iPod nano, quando ormai il prodotto era dotato di fotocamera 30 fps, microfono, speaker esterno e giroscopio (caratteristica di cui nessuno aveva mai sentito il bisogno), venne infatti introdotta la funzione radio.

Ma questo è soltanto parte dell’argomento: il successo della Apple si basa su un numero molto alto di variabili, buona parte delle quali sono già state analizzate da esperti di marketing e comunicazione. Il punto su cui ora vorrei soffermarmi è il timing, meccanismo collegato a quelli di eccesso e privazione.

Nel momento della sua riammissione come CEO ad interim della Apple nel 1997, Steve Jobs si trovò di fronte a un’azienda in tremenda perdita, con troppe sezioni diverse impegnate nella produzione di troppi prodotti diversi. L’unica maniera per far ripartire l’Apple era eliminarne molti e concentrarsi su pochi oggetti capaci di conquistare il mercato e l’immaginario. La linea di produzione fu divisa in quattro: due prodotti portatili e due prodotti desktop, di cui due pensati per una fascia d’utenti professionale e gli altri due per utenti dilettanti. Da questa seconda linea di prodotti, primo frutto della coppia Ive-Jobs, nascono l’iBook e l’iMac, lanciato nell’agosto 1998.

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Tra i prodotti eliminati c’era uno dei progetti più innovativi e amati dai dipendenti: l’Apple Newton. L’Apple Newton era un palmare: possiamo facilmente definirlo un antenato dell’iPad o dell’iPhone. La scelta di cancellare un prodotto d’avanguardia e sul quale l’azienda aveva investito molto a livello di ricerca non era motivata soltanto da motivi economici e pratici – il Newton non vendeva un granché e il suo software di riconoscimento della scrittura, caratteristica molto pubblicizzata, era tutt’altro che perfetto – ma ancora di più dalla consapevolezza che il mercato non fosse pronto per quel tipo di oggetto.

Questa capacità di cogliere lo spirito del tempo è declinata anche come tempismo, capacità di far filtrare al momento giusto su un nuovo prodotto in uscita, ed è parte del successo della strategia di marketing della Apple. L’Apple Watch arriva così nel momento esatto in cui non è più pensabile fare a meno degli smartphone: a otto anni dalla messa sul mercato dell’iPhone (fine giugno 2007) la nostra percezione si è assestata intorno a questo oggetto e idea, accettandone la potenzialità e riuscendo a limitare le paure irrazionali che solitamente accompagnano ogni nuova scoperta tecnologica. I nostri genitori si sono comprati a loro volta un iPhone o, ancora meglio, il nostro vecchio iPhone è passato in mano loro: pochi angoli del mondo occidentale ne sono rimasti privi. Si è però anche capaci di vedere e ironizzare sulle mutazioni antropologiche negative portate dagli smartphone: il web pullula di video più o meno satirici su persone distratte che provocano incidenti perché chini sul loro telefonino, o coppie e gruppi d’amici incapaci di godersi il tempo assieme perché disturbati e ossessionati dalle notifiche dei social media.

Nel 2007 l’Apple – è innegabile che questa rivoluzione sia stata avviata dall’azienda di Cupertino – ha messo uno strumento tra noi e gli altri, nel 2015 sta cercando di farlo scomparire, vuole limare il più possibile la sua presenza, in modo che la rete di connessioni e messaggi riempia la distanza tra noi e gli altri senza essere ingombrante, senza rappresentare un limite o un ostacolo.

Lo sviluppo naturale di questa idea è una tecnologia che si vuole completamente integrata al corpo umano, con il device ridotto a poche propaggini di hardware collegate agli organi di senso. Un futuro che al solo pensiero ancora inquieta, ricacciando fuori decenni di fiction, dagli spinotti nucali di Matrix fino ai “re-do” di Black Mirror.

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È nella fantascienza che ritroviamo, infatti, le ansie inconsce del nostro tempo: negli anni ’60-‘70 il terrore era di avere a che fare un’intelligenza artificiale, o meglio una singolarità artificiale capace di emotività – e non soltanto programmata in maniera di riprodurla – e quindi di provare sentimenti negativi nei confronti dell’Uomo-Creatore e di opporsi a esso. Le paure di oggi sono piuttosto collegate ai meccanismi di nuova sadica tribalità che i social network rischiano di creare, e alla paura che la tecnologia possa modificare, biologicamente ed emotivamente, la stessa essenza della nostra umanità. Questo nonostante cuori artificiali, protesi retiniche, impianti anticoncezionali e pace-maker interni siano ormai normalità.

Il modo per rendere meno intrusiva e più familiare la nuova tecnologia lo ritroviamo di nuovo nell’applicazione della tetrade di McLuhan: i tentativi che vengono fatti non vanno ancora nella naturale direzione della diretta implementazione del corpo umano ma recuperano vecchi artefatti della civiltà umana.

Il primo tentativo di un recupero in questo senso è stato fatto da Google con i Google Glass, degli occhiali dotati di realtà aumentata. Purtroppo il progetto di Google, lanciato sul mercato per i soli programmatori nel 2013, non ha avuto il riscontro sperato. I motivi del fallimento possono essere molti: costo eccessivo, funzionamento non impeccabile, scarsa praticità. Ma, alla fine, come portatrice di occhiali, mi sento di dire che gli occhiali restano e resteranno sempre, a livello inconscio, un oggetto fatto per limitare un handicap, non qualcosa capace di migliorare una situazione di normalità. Come tutti i produttori che già intasano il mercato di altri smartwatch – alla notizia che la parola “iWatch” fosse stata messa sotto marchio registrato in alcuni stati, tutte le aziende si sono sbizzarrite nel tentativo di anticipare la Apple nella creazione di un device da polso innovativo – Google non ha avuto una grande attenzione per il design. Questa mancanza poteva essere accettata quando l’hardware era confinato tra le pareti degli uffici, ma con i Google Glass è più difficile: non sono qualcosa che qualcuno indosserebbe a prescindere dall’utilità. Inoltre non fanno altro che ristabilire un ostacolo tra il principale organo di senso umani: gli occhi. Insomma ripropongono quella barriera che si sta cercando in tutti i modi di eliminare per rendere l’esperienza web il più fluida e il meno straniante possibile. Al contrario il design dell’Apple Watch è attentamente ragionato: Jonathan Ive non ha fatto nulla per renderlo più aggressivo o moderno di quello che dovrebbe essere, anzi ha voluto renderlo il più tradizionale possibile[2].


Questo per diversi motivi. In primo luogo l’Apple Watch vuole andare a insidiare l’unico valore ancora riconosciuto dell’orologio meccanico: il prestigio. La serie Watch Edition ha caratteristiche simili in tutto a per tutto a orologi di fascia alta – compreso il prezzo che in Italia varia dai 400 euro per la versione Sport fino ai 18000 euro per quella Edition. A differenza degli altri device Apple, prodotti in poche variabili di colore o simili, per l’Apple Watch, il “device più personale”, si è scelto di dare un’ampia scelta di misura, materiali della cassa e dei cinturini, dall’acciaio all’oro rosa, dal fluoroelastomero alla pelle. L’unico precedente tentativo di coniugare lusso e tecnologia era stato fatto dalla Nokia, troppo presto e con scarsi risultati: nel 1998 viene fondata la Vertu, con l’obiettivo di creare una fascia di mercato di cellulari di lusso. L’indubbia qualità materiale dell’oggetto – struttura in ceramica e titanio, cuscinetti in rubino e circuiti in oro e palladio  – rendeva quest’oggetto più simile a un orologio Patek Philippe che a un Nokia 3310. Purtroppo la Vertu non riesce a stare dietro agli anni della continua evoluzione tecnologica degli smartphone, soprattutto a livello di sistema operativo, con il paradosso di un oggetto da ottomila euro che si affida al nazionalpopolare Android KitKat 4.4, sistema operativo mobile a licenza libera.

Il secondo motivo va sempre a ricercarsi nelle paure del mercato: creare un oggetto dal design eccessivamente moderno avrebbe tenuto lontana una buona parte degli acquirenti, quelli che vogliono essere rassicurati sulla bontà della tecnologia. Motivo per cui l’Apple Watch, sotto alcuni punti di vista, sembra avere quasi una personalità steampunk: l’orologio da polso è un oggetto d’uso comune, rassicurante, analogico per eccellenza. Creato a fine ‘800 da Patek Philippe per un pubblico femminile, trova forma definitiva anche per l’uomo con il modello Santos creato da Cartier per l’amico pilota Alberto Santos-Dumont’s, l’orologio sportivo dalla cassa metallica rettangolare, così simile all’Apple Watch, completamente coerente allo stile di 

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Ive e al suo recupero citazionista. L’orologio da polso è in tutto e per tutto un oggetto meccanico, figlio dell’analogica Belle Époque: parla al nostro inconscio retromaniaco di un’epoca, quella tra il 1890 e il 1914, in cui l’avanzamento tecnologico e il futuro erano visti con speranza e gioia.

Sono nata nel 1988: sono troppo vecchia per non ricordare com’era la vita senza web, ma contemporaneamente abbastanza giovane per avere la potenzialità all’adattamento totale alle nuove tecnologie. Dico potenzialità perché, a differenza di quello che si crede, non basta essere giovani o nativi digitali per accettare e comprendere e sfruttare questo mondo. Ho un blog e, per lavoro, pianifico e gestisco la comunicazione digitale, soprattutto dei social network, per aziende e istituzioni. Ogni giorno ricevo diverse decine di messaggi privati dai vari social network, più di 200 mail – escludendo quelle provenienti dalle newsletter – altre diverse migliaia di notifiche di menzioni, commenti e interventi pubblici ai miei account. Probabilmente è il numero massimo che una persona può sopportare. Sopra questa quantità si sceglie di silenziare una parte del flusso o, nel caso di personaggi pubblici famosi, di delegare la gestione a terzi[3].


Sin dalle prime voci su quello che inizialmente veniva chiamato iWatch ho deciso che lo avrei comprato, nonostante il rischio di ritrovarmi con un oggetto costoso e inutile, destinato a morire nel giro di pochi mesi. Ero curiosa di provare questa tecnologia indossabile, valutare le mie reazioni e le sue possibilità di successo – e, inutile dirlo, l’unica azienda capace di dare possibilità di effettivo successo commerciale a una specie di grosso Casio con lo schermo a colori da 800 euro è senza dubbio la Apple.

Ho passato l’ultima settimana con addosso l’orologio per poterne testare tutte le caratteristiche: ci sono andata a correre, ho utilizzato il suo cardiofrequenzimetro, l’ho utilizzato come telecomando per la fotocamera dell’iPhone. Ma quello che maggiormente mi interessava era la sua presenza quotidiana nella mia esistenza, e, soprattutto, le reazioni mie e degli altri. Il peso è di poco superiore a quello di un orologio da uomo – non si fa notare più del mio Maurice Lacroix o del mio Casio B640. Nel momento in cui l’ho mostrato ai miei amici tutti erano stupiti proprio per la mancanza di cose stupefacenti, insomma parevano dire: “tutto lì?”. Sì: tutto qui. Non c’è nulla di aggressivo nell’Apple Watch. Molte persone non si sono neanche accorte della sua presenza.

Quello di cui si sono accorte, piuttosto, è stata l’assenza: quella dell’iPhone. Se solitamente durante una conversazione mi è fisicamente impossibile non avere lo smartphone tra le mani, farmi distrarre dalle notifiche che arrivano continuamente, andarlo a ripescare dalla tasca o dalla borsa nel caso senta una vibrazione o il tono di una notifica, con l’Apple Watch in tasca il flusso è notevolmente ridotto. Da una parte la persona con cui sto parlando, che magari non è una tecnodipendente come me, non si sente altrettanto offesa, violata o turbata da un veloce sguardo a un orologio piuttosto che dalla presenza quasi costante di un elemento alieno come lo smartphone. Dall’altra Apple Watch sazia la mia necessità di avere controllo sulle mie notifiche, ma mi impedisce risposte che non siano immediate come un emoji o un messaggio vocale di pochi secondi. Se voglio fare qualcosa di più che visualizzare passivamente i messaggi che mi arrivano devo prendere in mano l’iPhone. Ma ormai la scarica di endorfine provocatami dalla notifica è arrivata: io sono soddisfatta, il mio interlocutore a malapena si è accorto di un gesto quasi antico come quello del ruotare il polso per controllare l’ora, e io ormai non sento più il bisogno di rispondere allo stimolo.

Curiosamente, questa è la grandezza dell’oggetto: il rendere l’impatto della tecnologia nella socialità tra umano e umano sempre minore – o sempre più invisibile: e questa è la direzione inevitabile in cui si evolverà prossimamente. Non posso sapere se le potenzialità di quest’oggetto verranno comprese o saranno utili a tutti coloro che non sono così iperconnessi – o che non sono così consapevoli della loro iperconnessione – o se resterà qualcosa di dedicato a una nicchia fino all’arrivo di una condizione che potremmo definire post-umana.

[1]  M. McLuhan, Laws of Media: The New Science, University of Toronto Press, 1988, p. 129.

[2] «That summer, Google made an eight-pound prototype of a computer worn on the face. To Ive, then unaware of Google’s plans, “the obvious and right place” for such a thing was the wrist. When he later saw Google Glass, Ive said, it was evident to him that the face “was the wrong place.” Cook [Tim Cook, CEO di Apple] said, “We always thought that glasses were not a smart move, from a point of view that people would not really want to wear them. They were intrusive, instead of pushing technology to the background, as we’ve always believed.” He went on, “We always thought it would flop, and, you know, so far it has.” He looked at the Apple Watch on his wrist. “This isn’t obnoxious. This isn’t building a barrier between you and me.”» Citato in I. Parker, The Shape of Things to Come, «The New Yorker», 23 febbraio 2015,

http://www.newyorker.com/magazine/2015/02/23/shape-things-come.

[3] “The whole phenomenon of the construction of personal identities online may seem frivolous and distracting, a sort of ‘philosophy for dummies’, unworthy of serious reflection. But in the real world, such a construction is a concrete and pressing issue to a fast-growing number of people who have lived all their adult life already immersed in Facebook, Google+, LinkedIn, Twitter, blogs, YouTube, Flickr, and so forth. To them, it seems most natural to wonder about their personal identities online, treat them as a serious work-in-progress, and to toil daily to shape and update them. It is the hyper-self-conscious generation, which facebooks, tweets, skypes, and instant-messages its subjective views and personal tastes, its private details and even intimate experiences, in a continuous flow”. L. Floridi, The Fourth Revolution: How the Infosphere is Reshaping Human Reality, Oxford University Press, 2014, p. 60.

[Immagine: AppleWatch]

6 thoughts on “Eccesso e privazione. Sociologia dell’Apple Watch

  1. D’accordo con la tesi dell’articolo, siamo sicuramente di fronte a un processo in cui “less is more”, meno fronzoli, meno invasività, meno mediazione, più naturalità e autenticità.
    Siamo ovviamente non solo in presenza di oggetti che incarnano questo vettore (e non solo oggetti: vedere ad esempio il nuovo social “autenticista” Beme lanciato due giorni fa da un startup di New York http://bits.blogs.nytimes.com/2015/07/17/the-debut-of-beme-a-social-app-that-aims-for-authenticity/) ma anche di un nuovo tipo di discorso. Una sorta di neo-umanesimo che si diffonde tra le reti peer to peer, tra la piacevole (per quanto effimera) sensazione di immediatezza e una reale egemonia post-digitale.

    Una ulteriore nota riguarda Apple. Nell’articolo viene dipinta come frutto dell’ispirazione di Steve Jobs (e delle citazioni di Ive) e invariabilmente come first mover (in particolare nel caso dell’iPod)

    La Apple produce sicuramente immaginario, lavora su segmenti premium, fidelizza e segrega (seamlessly) i suoi clienti all’interno di un recinto fluido e a tinte pastello. Tutto vero, però c’è da dire che se la Apple è l’azienda con la più alta capitalizzazione della storia, c’è anche qualcosa di molto concreto: sa fare dei prodotti eccellenti che la gente acquista.
    Nel caso dei lettori mp3 portatili, dal 1997 al 2001 vengono lanciati almeno cinque diversi lettori (https://en.wikipedia.org/wiki/Portable_media_player), ma è effettivamente solo Apple che riesce a creare il prodotto destinato a convertirci all’audio compresso. Come mai? La ghiera, come ricordava l’articolo, e il display sensibilmente più ampio di quello dei concorrenti.

  2. Da manuale. Sogno un giorno di poter leggere su una rivista cartacea un articolo del genere sull’argomento e non le solite stronzate trite e ritrite (Wired, Focus, mi leggete? Assumete questa tizia e mandate a casa i quattro deficienti che si occupano delle vostre varie rubriche hi-tech et similia)
    (Sono sicuro che qualcuno si ricorderà del giornalista di wired che aspettava l’iPhone giallo per poterlo abbinare alle scarpe da ginnastica)
    <3

  3. insomma. compulsare l’orologio durante una conversazione è un gesto “quasi antico”, sì, ma per segnalare che la sacca scrotale sta patendo uno stress eccessivo. s’è fatta una certa.
    gli occhiali: quelli da sole sono cool, non stanno lì a segnalare un handicap che risiede dietro le lenti. il problema è che google-glass non è niente cool.

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