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[La prima parte del questionario su letteratura e critica termina oggi. A settembre pubblicheremo un intervento conclusivo, nel quale si cercherà di fare un bilancio sulla base delle interviste raccolte. Le prime risposte al questionario si possono leggere qui e nei post a seguire.]

Lorenzo Alunni

1. Partiamo dalla domanda del sondaggio di «Orlando»: «Chi tra gli scrittori che oggi hanno tra i quarantanove e i sessantanove anni continueremo a leggere in futuro?». Tu come risponderesti, e per quali motivi? Ti chiederei anche di spiegare cosa, secondo te, inciderà di più per il loro successo.

Spero di sbagliarmi, perché vorrebbe dire che le mutazioni delle categorie critiche sapranno ancora sorprenderci – o ancora deluderci – e cambiare imprevedibilmente, ma i tre nomi che indicherei sono Antonio Moresco, Michele Mari e Filippo Tuena. Credo che leggeremo Moresco perché confido sul fatto che prima o poi qualcuno o qualcosa ci farà prendere sul serio la sua opera – mi riferisco alla trilogia degli Increati (Gli esordi, Canti del caos e Gli increati), cioè il Moresco “maggiore”, per così dire – e scoprirne il potenziale euristico e la forza esploratrice. Inoltre, indico Moresco perché la polarizzazione che scatena sempre a ogni sua uscita – chi lo deride con odioso sarcasmo e chi lo santifica con acritico trasporto – è, credo, segno che le sue opere e la sua presenza nel dibattito letterario tocchino dei nervi scoperti, cosa preziosa.
Credo poi che leggeremo Filippo Tuena perché mi sembra che il suo Ultimo parallelo è un libro che, sotto più punti di vista, non ha ancora finito di mostrarci la sua importanza (compreso agli editori stranieri).
Infine, credo che leggeremo Michele Mari perché il suo ritorno a certe forme e scelte stilistiche del passato va ben al di là di passatismo, letterarietà fine a se stessa o tantomeno post-modernismo. Mi pare piuttosto qualcosa che si avvicina a un’idea di rovina del passato, con tutta l’aura e il fascino denso che questa esercita (Caspar Friedrich e Walter Benjamin ce l’hanno insegnato bene, no?).  Lo leggo e penso che quell’ultimo soldato giapponese rimasto a difendere l’isolotto in cui l’esercito l’aveva lasciato – non sapeva che la guerra era finita e ha continuato a difenderlo per anni e anni – in realtà del mondo ne sapeva più di noi.

2. Dove hai sentito parlare per la prima volta di questi autori, e da chi?

A questi tre autori sono legato per un imprinting che, in effetti, non è mai venuto dalla critica letteraria né da lavori fatti per l’università o altro. Ci sono arrivato attraverso circostanze biografiche, quasi intime, che non mi sembra il caso di occultare neanche in un ragionamento che si vorrebbe critico. Sono episodi a loro modo banali e trascurabili, ma non per me.
Di Antonio Moresco ho sentito parlare della prima volta da un amico che, in realtà, voleva parlarmi di Scurati e che però si è confuso (moro, scuro…). Ecco. Poi comprai Lettere a nessuno perché, aggirandomi in libreria, la mia attenzione fu attratta da quella copertina (mi riferisco all’edizione di Einaudi Stile Libero) perché molto – troppo, mi parve – simile a quelle classiche della narrativa Gallimard. Ecco tutto.
Per Michele Mari invece, se dovessi dire da chi ho sentito parlarne la prima volta, dovrei mettermi a raccontare una lontana e troppo lunga storia di coincidenze, corrispondenze e sentimenti, e non è proprio il caso (prego). Non credo di essere l’unico, visto il ruolo di complicità che Cento poesie d’amore a Ladyhawke ha avuto per molti. Ma rivendico l’esclusiva. Come tutti.
Filippo Tuena invece lo conosco per un ricordo d’infanzia. Mio padre teneva la sua biblioteca nella mia camera d’infanzia e adolescenza. Non ricorda perché lo aveva comprato, aveva in casa questo il primo romanzo di Filippo Tuena, Lo sguardo della paura (Leonardo). Il mio letto era posizionato di fronte alla libreria, e così sono cresciuto assorbendo per inerzia i titoli e i nomi degli autori di quei libri, che per lo più non avevo neanche mai sfilato dallo scaffale. Così, quando nel 2007 vidi per caso sul tavolo delle novità della libreria italiana di Parigi Tour de Babel la copertina di Ultimo parallelo, appena uscito per Rizzoli, il nome Filippo Tuena mi fece suonare un campanello in testa. Ma non riuscivo a ricordare dove avessi già sentito quel nome. Alla fine, pensa e ripensa, mi si ripresentò davanti agli occhi l’immagine della libreria della mia camera d’infanzia. Comprai subito il libro, che, al di là degli effetti madeleine, mi lasciò di stucco. Cercai tutto quello che Tuena aveva scritto, tranne Lo sguardo della paura: quello lo avevo già.

3. Secondo te quale genere letterario è destinato ad avere fortuna nei prossimi anni? Poesia, romanzo, scritture ibride?

Punto tutto sulla specificità e l’unicità dell’esperienza di fruizione che può offrire ogni forma artistica, e per questo tendo a pensare che ad avere lunga vita sarà una forma di romanzo più “tradizionale”, anche se diffido di ogni discorso in cui appaia la parola “tradizionale” (sarà una deformazione professionale da antropologo).  Ci rivolgiamo a forme d’arte perché siamo attratti dal tipo di esperienza e di conoscenza che quella forma d’arte ci può offrire, ed è per questo che tendo a non credere troppo nella retorica dell’ibridazione. O meglio: credo certamente nelle influenze, nei nuovi punti di contatto e così via, ma credo si tratti di unioni ben digerite solo quando gli ingredienti non siano quasi più riconoscibili né separabili (come a dire: va bene l’ibridazione, ma solo se le forme s’inghiottono a vicenda). Ma so bene che molte delle mie recenti passioni letterarie contraddicono in pieno quanto ho appena scritto. Confido nella fertilità dei paradossi.

4. Nell’arco di un decennio possono essere pubblicati libri che entrano a far parte di uno stesso dibattito critico, e che però sono stati scritti da persone nate in momenti molto diversi. Quali autori consideri significativi – rilevanti dal punto di vista delle categorie critiche con le quali interpreti la letteratura – fra quelli che hanno pubblicato libri fra il 1990 e il 2015?

Approfittando della scusa della mancanza di veri e propri studi letterari alle spalle (faccio parte della parrocchia dell’antropologia), mi limito a nominare alcuni dei libri che quelle categorie per me hanno contribuito a formarle a posteriori, piuttosto che predefinirle e poi riempirle. Non è un metodo affidabile, lo so, e non sono di quelli che rivendicano con orgoglio l’essere autodidatti. Mi limito a una breve lista. Oltre ai libri e agli autori citati nella prima risposta, ho motivo di sperare che questi  libri, come si dice (malino), rimangano, ognuno per le sue ragioni: Perciò veniamo bene nelle fotografie di Francesco Targhetta, La gemella H di Giorgio Falco, Cartongesso di Francesco Maino o Stati di grazia di Davide Orecchio. Ma sto facendo un’ingiustizia a troppe altre opere. E anche alla domanda, temo.

5. Passiamo a considerare i luoghi (giornali, riviste specializzate, riviste online, siti e blog; ma anche luoghi fisici come scuole, università, biblioteche, presentazioni di libri) e i modi in cui i libri vengono discussi e commentati oggi. Tendi a pensare al campo letterario come a uno spazio fluido, in cui critica, pubblico, industria dialogano e collaborano (talvolta anche in competizione per l’egemonia) – o a separare diversi campi d’influenza e di azione? Che tipo di interazione c’è (se trovi che ci sia un’interazione)?

Si tratta di una serie d’interrogativi con i quali personalmente mi trovo di fronte sia per l’organizzazione di CaLibro – Festival di letture a Città di Castello che per il focus letterario di Lavoro culturale, Milleuna, che coordino insieme a Maria Teresa Grillo, Giulia Romanin Jacur e Cecilia Cruccolini. Mantenere un equilibrio fra le dinamiche del mercato editoriale e, chiamiamola così, una linea politica che ci si dà è la cosa più complicata: ma questo è il punto, questa è la dimensione di militanza politico-culturale, per dirla in maniera leggermente troppo accorata. Tendo – e con me le altre coordinatrici del focus Milleuna di Lavoro culturale – a pensare certe scelte in termini di spazio protetto per livelli qualitativi e critici che, mi dico, se pure corrispondono poco al gusto generale del mercato, è importante che esistano, e che ci sia sempre la possibilità d’imbattervisi o di trovarli, se li si cerca. Non è questione di elitarismo: al contrario. E non è neanche questione di mettersi dalla parte del giusto, del virtuoso: pensare uno spazio critico come uno spazio di verità, piuttosto che uno spazio dove si negoziano regimi di verità, sarebbe paradossale. Messa così, potrebbe sembrare una posizione in qualche modo passiva, inerziale. Non lo è. L’inerzia porterebbe verso ben altri lidi.

6. Quali sono le personalità e i luoghi della critica che consideri più seri e affidabili?

Spesso lo faccio senza neanche rendermi conto ma, per cercare di capire di cosa si tratta un certo libro o per valutare il tipo di ricezione critica che lo riguarda, ricorro sempre a una specie di sistema di controlli incrociati. È perché capita troppo spesso di leggere una recensione positiva o negativa, crederle, e poi però capire che ci sono dietro dinamiche di amicizia, di scuderia, di do ut des. È per certi versi un atteggiamento da parte mia un po’ “complottista”, semplicistico e fortunatamente spesso non rispondente alla realtà, ma diciamo che mi è capitato di rimanerci scottato, da lettore e acquirente. Inoltre, tendo a diffidare di quei siti che, per darsi un’aria dinamica e per avvicinare nuovi lettori attraverso soluzioni “pop” (sia a livello contenutistico che linguistico), finiscono per rimanere troppo in superficie.
Ci sono ovviamente dei porti sicuri. Oltre a critici quali Daniele Giglioli, sono sempre contento di affidarmi a testate quali «404: File not found» o «Le parole e le cose», forse anche perché so che molti delle persone che vi stanno dietro sono prese in complicati percorsi accademici come me, seppur in ambiti diversi. È come se sentissi che, visti i soprusi di baroni e scuderie accademiche spesso subiti da chi si trova in quella situazione, posso confidare in una preparazione e un’onestà intellettuale di reazione. Solidarietà di classe? No, non credo, si tratta di competenze e disgusto per malcostumi che ci hanno portato a dove siamo.

Maria Borio

Quando ho letto per la prima volta l’inchiesta a cura di Paolo Di Paolo e di Giacomo Raccis uscita su «Orlando» e, poco tempo dopo, il questionario a cura di Claudia Crocco proposto su Le parole e le cose, sono rimasta colpita da due elementi. Il primo, che probabilmente è il più cruciale, riguarda il discorso sulle generazioni. Il secondo riguarda le possibilità di interazione e di influenza che possono esserci tra la sfera mediatica di diffusione culturale (giornali, riviste, siti, blog, presentazioni di libri…) e la sfera didattico-istituzionale (scuole, università,…).

L’aspetto generazionale rappresenta il punto più delicato. L’inchiesta di «Orlando» chiama in causa giovani critici, la cui età è compresa tra i 20 e i 39 anni, “sfidandoli” a esprimere un parere e una previsione in merito al successo letterario futuro di autori la cui età è compresa tra i 50 e i 70 anni; il questionario su «Le parole e le cose», parimenti, è rivolto a critici nati negli anni Ottanta e sembra voler affinare i paradigmi dell’inchiesta di «Orlando» dando risalto alla prospettiva generazionale lanciata dall’inchiesta. La prima domanda che credo sia giusto porsi è la seguente: perché nel 2015 diversi critici trentenni si interrogano sul successo letterario della generazione dei loro padri? È possibile rintracciare, nella storia della letteratura e della ricezione della letteratura, inchieste simili? Non sono ancora riuscita a fare un’indagine… Tuttavia, non credo sia un caso che l’inchiesta di «Orlando» venga proposta, in Italia, proprio in questo particolare momento storico. Mi soffermo sul paragrafo conclusivo del saggio di Giacomo Raccis che accompagna l’inchiesta e che riporto di seguito: «Una famiglia problematica e moderna – e moderna perché problematica –, quella dei cinquanta-sessantenni, non c’è che dire, destinata però a crescere dei figli che, salvo rari casi di dialogo diretto (peraltro viziato da un’ammirazione spesso incondizionata ed epigonale), finiranno per cercare altrove i propri interlocutori, interrompendo quel dialogo generazionale che fonda qualsiasi tradizione letteraria.». Queste affermazioni, indubbiamente forti, aprono un terreno di riflessione estremamente stimolante. Benché i limiti generazionali (20-30 e 50-70) siano barriere che possono suonare rigide, e sia giusto allargare la prospettiva critica come fa il questionario di Claudia Crocco a opere pubblicate in una fascia temporale che va dal 1990 al 2015 (che segna, tra l’altro, anche il periodo di formazione dei critici trentenni chiamati in causa), occorre prestare particolare attenzione allo stimolo lanciato dall’inchiesta di «Orlando» e al suo valore sociologico.

La risposta di un trentenne di oggi alla domanda «quali autori che hanno tra i 50 e i 70 anni saranno ancora letti in futuro?» documenta un rapporto molto preciso, che può andare ben oltre le dinamiche del puro giudizio di valore. Integrando questa domanda con quella che propone un ampliamento alle opere pubblicate tra il 1990 e il 2015, potrei anche rispondere, per entrambe le prospettive, riportando la stessa rosa di autori e potrei individuare simili criteri di giudizio e di interpretazione, ma cambierebbe la forza dell’angolazione di partenza. Personalmente, credo che autori come Milo De Angelis, Valerio Magrelli, Antonella Anedda, Mario Benedetti, Antonio Moresco, Walter Siti, Michele Mari… siano centrali nella letteratura italiana di oggi e che continueranno ad avere influenza. La mia posizione è simile, in fondo, a quella della maggior parte degli altri intervistati e mi pare di aver capito che ci accomunano anche le “strategie di individuazione e di ricezione” che vanno prese in esame tutte nelle loro interazioni reciproche: la qualità tecnica dell’opera, l’influenza del mercato editoriale, la capacità dell’autore di costruirsi come figura riconoscibile ma mai perfettamente imitabile e dunque indiscutibile nel suo modello, il ruolo che possono avere – nella ricezione – la scuola, l’università, i giornali, il web (ho conosciuto quasi tutti questi autori, per la prima volta, negli anni universitari). Ho riflettuto, però, anche su un’altra questione: tutti noi intervistati proveniamo da un retroterra di formazione umanistica mediamente alta, molti di noi hanno il dottorato di ricerca e, comunque, non solo scriviamo, leggiamo, ma studiamo ‘scientificamente’ la letteratura. La nostra è una posizione da ‘specialisti’. Allora, è giusto anche chiedersi se questi ‘specialisti’ (perdonatemi se uso questa terminologia un po’ anni Settanta…) che il nostro paese ha formato e che rappresentano una forza per l’assetto culturale futuro, potranno davvero continuare materialmente a contribuire allo sviluppo e alla diffusione della cultura: con l’insegnamento, con la ricerca, con l’attività editoriale, giornalistica…

C’è tutto un ‘mondo’ di diffusione e di riflessione sulla letteratura che affianca quello creativo e che fa parte della politica culturale di un paese. Ben oltre la cerchia degli ‘specialisti’ intervistati, un problema davvero importante penso riguardi l’effettiva condizione di questo ‘mondo’ in Italia. È attraverso il complesso di questo ‘mondo’ che avviene la mediazione culturale e critica su larga scala, che le opere possono costruire un immaginario, possono ‘funzionare’ e restare. L’inchiesta e il questionario non nascono nell’ansa di questa situazione? Lo scarto generazionale – la frattura, a leggere «Orlando» –  non nasce da qui? E nascono sulla scia di una diffusione e di una richiesta culturale che dalla fine degli anni Sessanta ad oggi si è allargata senza precedenti rispetto al passato, portando con sé fenomeni come la fioritura dell’industria culturale che indiscutibilmente sta attraversando una crisi profonda e una trasformazione destabilizzante.

Credo che ciò che definiamo campo letterario sia comunque una situazione fluida. La letteratura in futuro sarà osservata di frequente per campi letterari nei quali i generi e le strutture, a cui il Novecento ci ha abituati, tendono ad assumere funzioni spesso polivalenti. In questa prospettiva, però, credo sia importante aver ben presenti la matrice lirica e la matrice narrativa della letteratura come ‘gesti’ letterari universali, che precedono e che vanno oltre i generi secondo la tassonomia: in un assetto di campo, il genere come tassonomia retorica novecentesca sembra sempre più debole. Penso, ad esempio, che la poesia lirica sia andata incontro a una rifunzionalizzazione dagli anni Novanta ad oggi, ma ciò non ha compromesso il ‘gesto poetico’ o il genere ‘poesia’ in quanto tale… Sicuramente la sfera mediatica di diffusione culturale e la sfera didattico-istituzionale sono parti decisive di un campo letterario. Un trentenne avverte oggi in modo particolare la necessità di una interazione più ravvicinata tra questi due campi e credo che i campi letterari di domani saranno anche il risultato di relazioni più strette tra i due ambiti. Se ciò non avverrà ci potrebbe essere il rischio che uno dei due ambiti – verosimilmente quello didattico-istituzionale – resti congelato e fuori dall’“attualità”, oppure che quello mediatico rischi di proliferare incontrollatamente alla mercé di un aggressivo e spudorato opinionismo da blog. Uno dei compiti della critica dovrebbe essere quello di dare gli strumenti formativi per districarsi nel panorama delle informazioni che la sfera mediatica propone.

Ad ogni modo, in relazione all’inchiesta e al questionario, e ai problemi generazionali che si sollevano, un serio lavoro sulla letteratura oggi, rispetto ai decenni precedenti, è un forte atto di coraggio. L’inchiesta e il questionario fanno appello anche a una onestà intellettuale dei padri con i padri, dei figli con i figli, e tra la generazione dei padri e quella dei figli? Forse non lo stiamo dando per scontato. E forse è essenziale per non disperdere i nostri atti di coraggio. Che non vada sottovalutato.      

Eloisa Morra

1. Partiamo dalla domanda del sondaggio di «Orlando»: «Chi tra gli scrittori che oggi hanno tra i quarantanove e i sessantanove anni continueremo a leggere in futuro?». Tu come risponderesti, e per quali motivi? Ti chiederei anche di spiegare cosa, secondo te, inciderà di più per il loro successo.

Mi ritrovo in linea con quanto pronosticato da buona parte dei miei colleghi: credo anch’io che Michele Mari e Walter Siti siano tra i migliori autori italiani contemporanei e di certo li leggeremo in futuro. Mari colpisce per la sua capacità di instaurare un dialogo appassionato— quasi una tenzone — con una molteplicità di riferimenti letterari e visivi, che, lungi dall’essere museificati, vengono rivitalizzati, e fungono spesso da filtro per dare voce alle più autentiche urgenze e ossessioni dell’autore. Nonostante ultimamente si sia tentato (a mio parere sbagliando) di etichettarlo come un semplice epigono di Manganelli, credo sia innegabile che qualsiasi cosa scriva Mari vi imprime la sua personale cifra stilistica: possiede insomma un modo suo e solo suo di restituire modi e stilemi della Tradizione. Nel suo successo a mio parere conterà la capacità di stendere la sua “pasta sfoglia verbale” in uno stampo che mai trascura l’attenzione alla tenuta della trama (penso al poco letto e citato La stiva e l’abisso, forse il romanzo più riuscito di Mari). In Siti invece ammiro la capacità di costruire romanzi-saggi che ci immergono coraggiosamente in un iper-reale che sa dirci molto di più di tanti romanzi-pamphlet oggi di moda che, pur infarciti di presunta “attualità”, alla lettura risultano molto poveri e poco efficaci. In Siti ammiro molto anche la duttilità dell’intelligenza saggistica: Il realismo è l’impossibile credo sia uno dei tentativi più riusciti di cogliere una nozione tanto più citata quanto più imprendibile. Credo che per il successo di entrambi inciderà il saper unire all’intelligenza analitica una pura passione per il racconto, per lo scavo nelle proprie singolari miserie e ossessioni. C’è da dire che l’editoria (a mio parere una chiave di volta per consolidare la fortuna d’un autore) non ha concesso loro lo spazio che meriterebbero; i libri di Siti hanno avuto maggior diffusione solo dopo la vittoria allo Strega, mentre molti romanzi di Mari sono fuori catalogo.

2. Dove hai sentito parlare per la prima volta di questi autori, e da chi?

Di Mari ho sentito parlare a un corso di Sergio Zatti sul ricordo d’infanzia che ho seguito all’Università di Pisa e da lì ho iniziato ad appassionarmi. I libri di Siti invece li ho conosciuti perché durante i primi anni di Università ne ho sentito parlare da amici e colleghi. In generale direi che tanto gli incontri universitari quanto il collaborare a riviste sono stati molto importanti per la mia formazione sul contemporaneo.

3. Secondo te quale genere letterario è destinato ad avere fortuna nei prossimi anni? Poesia, romanzo, scritture ibride?

Sono d’accordo con quanto scriveva Berardinelli nella nota polemica che apre Non incoraggiate il romanzo, visto come “genere più editoriale e merceologico che letterario”. Oggi siamo sommersi da libri che sembrano  — e penso purtroppo anche a collane editoriali che una volta erano prestigiose e garantivano letture di qualità —  fatti con lo stampino, spesso confezionati e ritagliati dagli editor per far leva sulla moda editoriale del momento. Vista la mia passione per le scritture ibride mi piacerebbe pensare che le cose cambieranno, ma purtroppo credo che nei prossimi anni la forma “romanzo” (mi servo delle virgolette perché a parte i già citati Mari e Siti — e poche altre eccezioni, tra cui Aldo Busi ed altri autori più giovani che cito nella domanda successiva— sembra che oggi ci sia scarsa consapevolezza della tradizione del genere) manterrà la sua fortuna editoriale.

4. Nell’arco di un decennio possono essere pubblicati libri che entrano a far parte di uno stesso dibattito critico, e che però sono stati scritti da persone nate in momenti molto diversi. Quali autori consideri significativi – rilevanti dal punto di vista delle categorie critiche con le quali interpreti la letteratura – fra quelli che hanno pubblicato libri fra il 1990 e il 2015?

Ho apprezzato soprattuto alcune raccolte poetiche (Residenze invernali; Notti di pace occidentale) e gli scritti a metà tra prosa e saggistica d’arte (La vita dei dettagli) di Antonella Anedda. Tra le voci poetiche più giovani apprezzo molto Paolo Maccari, Matteo Marchesini e Mariagiorgia Ulbar. Per quanto riguarda la narrativa, oltre ai romanzi di Alessandra Sarchi mi ha colpito il lavoro di Paolo Zanotti, che purtroppo se ne è andato troppo presto; di suo avevo letto alcuni racconti, oltre ad ammirare la scrittura allo stesso tempo limpida e visionaria di Bambini Bonsai.

5. Passiamo a considerare i luoghi (giornali, riviste specializzate, riviste online, siti e blog; ma anche luoghi fisici come scuole, università, biblioteche, presentazioni di libri) e i modi in cui i libri vengono discussi e commentati oggi. Tendi a pensare al campo letterario come a uno spazio fluido, in cui critica, pubblico, industria dialogano e collaborano (talvolta anche in competizione per l’egemonia) – o a separare diversi campi d’influenza e di azione? Che tipo di interazione c’è (se trovi che ci sia un’interazione)?

In generale, mi piacerebbe che ci fosse una maggiore collaborazione tra critica accademica ed editoria (e in alcuni casi c’è: penso soprattutto a figure di editori-filologi come Paola Italia, Giorgio Pinotti e altri). Mi rendo però conto che le esigenze dell’editoria sono molto diverse, e spesso è difficile pubblicare e far circolare il lavoro di scrittori di valore, per quanto riconosciuti dalla critica: e non mi sto riferendo solo ai contemporanei, ma anche a molti libri notevoli stampati anche pochi decenni fa eppure oggi introvabili in libreria.

6. Quali sono le personalità e i luoghi della critica che consideri più seri e affidabili?

Per quanto riguarda le riviste seguo da vicino «L’Indice dei Libri del mese» e «alfabeta due»; tra gli inserti dei quotidiani apprezzo soprattutto il Domenicale del «Sole 24 ore», spesso ricco di inediti e anticipazioni varie, insieme ad «Alias» e al «Foglio». Tra i blog, invece, credo che «Doppiozero» e «Le Parole e Le Cose» offrano solitamente dei pezzi di notevole qualità. Sono molte le personalità critiche che seguo da vicino e ritengo affidabili, pur nella diversità di approcci e stili: limito il mio elenco ad Alfano, Berardinelli, Bertini, Cortellessa, Giglioli, Manica, Marchesini, Mazzoni, Mengaldo, Nigro, Pedullà, Scarpa, Zinato e Zublena, ma ne dimentico certamente altri. Mi interessano poi molto le personalità che, specializzate in altre discipline, posseggono un infallibile fiuto letterario: su tutti Carlo Ginzburg, con cui ho avuto la fortuna di seguire diversi corsi a Pisa.

Lorenzo Alunni è nato a Città di Castello nel 1983. Ha studiato antropologia a Perugia e a Parigi; ha lavorato come ricercatore post-dottorale a Parigi, a Princeton e a Ginevra. Fa parte della redazione di «Lavoro culturale» e del gruppo organizzativo di CaLibro – Festival di letture a Città di Castello.

Maria Borio è nata a Perugia nel 1985. Ha appena terminato un dottorato in letteratura italiana all’Università per Stranieri di Siena, nel corso del quale si è occupata soprattutto di poesia contemporanea. Collabora con varie riviste, ed è fra le curatrici della sezione poesia di «Nuovi Argomenti». Ha pubblicato una raccolta di poesie.

Eloisa Morra è nata a Civitavecchia nel 1988. Ha studiato alla Scuola Normale Superiore di Pisa ed è attualmente dottoranda alla Harvard University. Si è occupata di Rinascimento e di letteratura del Novecento. Collabora con «L’indice dei libri del mese» e «Doppiozero».

[Immagine: Karo Akpokiere, Patterns (gm)].

1 thought on “Letteratura e critica. Sei domande a scrittori e critici nati negli anni Ottanta / 9

  1. non so, c’è qualcosa che non mi convince in queste interviste, come un senso di prevedibilità…

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