di Ugo Fracassa
abbiamo bisogno di libri che agiscono su di noi come una disgrazia che ci fa molto male […] un libro deve essere l’ascia per il mare ghiacciato dentro di noi
Franz Kafka, Lettera a Oskar Pollak (1904)
Un’analisi tematica centrata sulla rappresentazione del cecchino che indaghi la recente fortuna narrativa, anche italiana, di questa figura militare, tra romanzo, narrazione documentaria, autofiction e cinema può apparire parziale e restrittiva. Tuttavia quella parzialità può rinviare per cerchi concentrici a questioni via via più vaste – la rappresentazione letteraria della guerra (e delle “nuove guerre”) – fino a toccarne di universali – il realismo in letteratura e non solo, la rappresentazione artistica del male, la risposta emotiva ed il coinvolgimento etico del fruitore del testo artistico (lettore, spettatore).
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Kolima, arruolato nell’esercito russo come “sabotatore” per combattere in Cecenia, già protagonista del romanzo d’esordio di Nicolai Lilin quando era ancora un ragazzo alle prese con una dura “educazione siberiana”, conosce i trucchi del mestiere (delle armi) per tradizione familiare, o meglio patrilineare, prima ancora che per averli appresi sul campo di addestramento militare:
Prima di sparare con il fucile di precisione mi coprivo l’occhio sinistro con un cartoncino che portavo sempre con me, infilato nella piega del cappello. Era un vecchio trucco che mi aveva insegnato mio nonno Nikolaj: quando sparava copriva sempre l’occhio sinistro con un cartoncino; era più semplice concentrarsi sul bersaglio senza sforzarsi di tenere chiusa la palpebra, e oltretutto non danneggiava la vista, perché invece tenere a lungo un occhio chiuso e l’altro aperto sbilanciava gli occhi. (Lilin 2010: 132)
L’autore, la cui omonimia col protagonista è allusa nel diminutivo Kolima,[1] dà prova nel romanzo del 2010 di conoscere i trucchi del mestiere (del racconto) adottando per l’intero arco narrativo della trilogia il punto di vista e la prospettiva, anche ideologica, del proprio “eroe”. Ciò che negli studi narratologici viene designato come “focalizzazione interna fissa”, infatti, corrisponde ad una “restrizione del campo”[2] visivo, duro tirocinio cui il lettore di Caduta libera è sottoposto per l’intera durata della vicenda, a costo di sbilanciare la sua percezione dei fatti. Nel corto circuito editoriale responsabile del caso Lilin, il cerchio si chiude in copertina del volume Einaudi del 2010 dove, nel tiratore che occhieggia dietro il mirino del fucile e ci punta, è facile riconoscere la faccia mediaticamente esposta dello scrittore italofono venuto dalla Transdniestria (al secolo Nicolaj Veržbickij). Se così è, il lettore viene spesso invitato, in queste pagine, a chiudere un occhio insieme a Kolima, fino a ridurre il proprio punto di vista al limite di una, non ancora attestata, “focalizzazione monoculare” (secondo una fortunata ipotesi paraetimologica, cecchino è colui che simula la cecità di un occhio per mirare)[3].
Non si tratta, apparentemente, di condividere una prospettiva ideologica, dal momento che il protagonista, reduce non incensurato dall’educazione siberiana impartitagli nel primo capitolo della trilogia, verrà arruolato contro la sua volontà. Il nazionalismo russo che ha prodotto la seconda campagna cecena, cui Kolima prende parte, risulterebbe estraneo ad un personaggio fortemente legato ad origini siberiane preventivamente mitizzate:
Una mattina di primavera mi sono svegliato e sono uscito di casa, ho aperto la cassetta della posta e ho trovato un bigliettino di carta bianca con una riga rossa che lo attraversava da un angolo all’altro. Lì c’era scritto che l’ufficio militare della Federazione Russa mi chiedeva di presentarmi per accertamenti, munito di documenti personali. Aggiungevano che era la terza e ultima volta che mi mandavano quell’invito, e che se non mi fossi presentato entro tre giorni mi aspettava una condanna penale per, letteralmente, “rifiuto di pagare il debito con la Patria sotto forma di servizio militare” (Lilin 2010: 10)
Questo l’esito del colloquio tra Kolima, infine presentatosi in caserma, e “una giovane donna, vestita con l’uniforme militare”: “Senti- sono sbottato – non me ne frega niente della vostra legge. Se devo andare in galera ci vado, ma non prenderò mai in mano le armi del tuo cazzo di governo…” (Lilin 2010: 12)
In ogni caso, l’esperienza bellica che seguirà l’antefatto si svolge per il protagonista in un indistinto, per certi versi ipnotico per altri allucinatorio, habitat prepolitico. Nella guerra di Kolima è innanzitutto impossibile qualsiasi proiezione storicizzante nel passato o progettuale nel futuro; è quanto risulta da uno dei numerosi paragrafi di riflessione, giudiziosamente intercalati al racconto d’azione per ricondurre a motivazione logico-razionale una condotta spesso abnorme e, talvolta, deplorarla all’insegna di uno scarsamente persuasivo senno di poi:
Chi attraversa una guerra – combattendo o scappando, comunque in entrambi i casi cercando di sopravvivere – non possiede più niente di personale, nemmeno la propria storia. Nessuno di noi pensava al passato o al futuro, tutti quanti eravamo nell’oggi, immersi i un lungo e unico giorno. (Lilin 2010: 142 -143)
Secondo la teoria storiografica di François Hartog, il regime di storicità “presentista” [4], nel quale l’attualità ipertrofica dell’avvenimento rende minaccioso il futuro e impraticabile il passato, sancirebbe la scissione tra campo d’esperienza e orizzonte d’attesa. In tali condizioni diventa impossibile esperire e perfino immaginare una temporalità altra, ovvero qualsiasi forma di resistenza al regime temporale vigente. Effettivamente in Caduta libera la catena di trasmissione tra l’azione del cecchino e le ragioni geopolitiche del suo agire eterodiretto è integralmente disinnescata dall’utilizzo narrativo della prima persona, dalla scelta omodiegetica del narratore, dal monopolio del suo punto di vista inchiodato all’hic et nunc del teatro di guerra.
L’indottrinamento cui pure Kolima è sottoposto dal tenente Nosov, comandante spietato ma che si rivelerà incline ad assumere l’imago paterna proiettata dai sottoposti, se spazza via senza remore la retorica governativa (“Il nostro capitano era sicuro che la guerra in Cecenia non fosse nient’altro che una buffonata che la Russia aveva organizzato tutta da sola, sfruttando le sue conoscenze nel mondo arabo e addirittura pagando i mercenari per combattere contro di noi” [Lilin 2010: 54]) cementa però il reparto dei sabotatori grazie ad una vischiosa miscela di onore militare e sentimenti camerateschi. Questo il sermone impartito dall’ufficiale un attimo dopo aver scuoiato vivo un nemico:
Ricordate che essere cattivi non vuol dire tagliare il naso o le orecchie ai morti, per poi farsene delle collane o un portachiavi… Non dovete violentare le donne, o picchiare i bambini. Provate a guardare dritto negli occhi il vostro nemico quando è ancora vivo e respira, può bastare questo… E se vi avanzano le palle per fare qualcosa in più, beh, fatelo pure… (Lilin 2010: 44)
Sulla questione degli stupri sistematici (e, più in generale, della violenza indiscriminata sui civili) nel drammatico contesto delle “nuove guerre”, dovrò tornare più avanti ma, intanto, conviene soffermarsi su quel sentimento di “fratellanza ostile” che giustifica le azioni più efferate del cecchino e della sua squadriglia (non escluse le violenze su donne, minori, civili). Ben presto, ancora in fase di addestramento, Kolima sperimenterà in prima persona effetti e ragioni di quel familismo militare incoraggiato dagli ufficiali istruttori: “Fra di noi il nonnismo non esisteva: eravamo come fratelli, perché ognuno sapeva che nei momenti difficili è sempre meglio avere vicino un fratello che un nemico” (Lilin 2010: 47). In un simile contesto, il capitano Nosov “era come un fratello più grande” (Lilin 2010: 48) e, d’altra parte, nel peculiare sistema di parentela militare non è sempre l’età a decidere le gerarchie, come dimostra il caso del tenente di un’altra compagnia che “Era giovane, poteva avere al massimo venticinque anni ma […] i fanti lo ascoltavano e gli obbedivano come a un padre” (Lilin 2010: 94) Intanto, proprio a proposito di questa particolare fratellanza sarà il caso di procedere ad un primo rimando intertestuale.
Charles Henderson, veterano del corpo dei marines, in attività per 23 anni, dal Vietnam alla guerra del Golfo, pubblica nel 1986 Marine Sniper, la biografia del sergente armiere Carlos Hathcock, divenuto “leggenda delle truppe speciali” (così il sottotitolo italiano) per le straordinarie performance di cecchino in Vietnam (il libro è stato tradotto in Italia nel 2007 come Tiratore scelto). Si tratta di una biografia romanzata ovvero di una narrazione documentaria, fondata su carte d’archivio, testimonianze personali e corredata da una sezione fotografica:
Questo libro si basa sui ricordi personali dei partecipanti e sugli archivi dell’Historical Center del Corpo dei marines di Washington […] In alcuni passi mi sono concesso la libertà di inventare i dialoghi degli avversari nordvietnamiti e Vietcong di Hathcock. Sono gli unici elementi che non possono essere pienamente giustificati da un attento esame delle fonti. (Henderson 2007: 13)
Insomma, Henderson si presenta come narratore embedded e non nasconde l’orizzonte patriottico-propagandistico della vicenda. Inoltre, poiché “il ruolo del cecchino continua ad essere sentito come estraneo alle regole di guerra” (Collins 2014: 429), l’eroicizzazione della figura dello sniper necessitava, ancora a metà degli anni ottanta, di autorevoli legittimazioni[5]. A tale scopo, Henderson affida l’Introduzione del volume al maggiore in congedo E.J. Land che, fuori dai denti, rileva:
Il Corpo ufficiali non solo ha mostrato di non capire quale supporto e quali tecniche d’impiego erano necessari a un riuscito spiegamento di quel sistema d’arma che chiamiamo cecchino, ma, a causa di stomaci deboli, ha sempre cercato di diffondere la menzogna secondo la quale l’impiego di tiratori di precisione è sbagliato dal punto di vista morale e non è degno di avere un suo ruolo nelle forze armate degli Stati Uniti. (Henderson 2007: 6)
Ebbene, pur in un contesto di conclamata appartenenza, ben lungi cioè dalle controverse premesse ideologiche del sabotatore Kolima in Caduta libera, l’operato dello sniper dipende in prima istanza del vincolo di “fratellanza” tra i soldati delle truppe speciali. Il racconto si apre sull’uccisione di un bambino in procinto di consegnare armi ai vietcong:
Quel ragazzo non era solo un altro dei tanti vietnamiti che si spostavano con la bicicletta; era un “mulo” che riforniva i Vietcong, portando armi e munizioni a una pattuglia nemica. Al calar della notte, i fucili che quel dodicenne malnutrito si sforzava di trasportare sarebbero stati puntati contro i fratelli marines di Hathcock.[6] Hathcock non avrebbe voluto uccidere uomini e tanto meno fanciulli. Ma sapeva che quello non era un ragazzo qualunque. In guerra i bambini crescono rapidamente. E i marines muoiono sul colpo per le pallottole sparate da dodicenni esattamente come per quelle sparate da uomini. (Henderson 2007: 16)
Un identico battesimo del fuoco – l’uccisione di un ragazzino iracheno che trasporta una granata – attende Chris Kyle al suo arrivo a Falluja, nei primi minuti di American Sniper diClint Eastwood. Nella versione cinematografica di American Sniper: The Autobiography of the Most Lethal Sniper in U.S. Military History, del resto, sarà possibile ravvisare quasi un catalogo ragionato di alcuni motivi ricorrenti nella narrazione letteraria del cecchino. Primo fra tutti quello della “fratellanza”, che anzi precipita in catacresi nel film del 2014. Se, infatti, il protagonista affronterà lo scontro finale per vendicare un commilitone:
Pare che tu sia il cecchino piu’ letale della storia militare americana. / Ah, davvero? / Cosi’ ho sentito. / I cattivi sono a Sadr City. / Non vorrai tornare? / Si’ che ci torniamo. Li dobbiamo beccare. / No, veramente. Non dovete farlo. / Si’ che dobbiamo. Sei mio fratello…[7] e la pagheranno per quello che ti hanno fatto. / Ricevuto, Leggenda.[8]
fin da subito e fuor di metafora, nel breve flashback sull’infanzia, lo sniper texano esercita il proprio istinto di protezione direttamente sul fratello minore, destinato anch’egli a partecipare alla guerra in Iraq con esito però tutt’altro che eroico.
La personale visione della campagna militare si caratterizza in Kolima (e conseguentemente in Lilin, per quanti prestano fede all’avvertenza sulla quale si apre il libro del 2010)[9], che la assume in quanto condivisa tra le forze armate russe, per un’idea confusiva del nemico, immancabilmente definito “arabo” in barba alle appartenenze etniche: “venivano chiamati arabi tutti quanti i nemici: che fossero ceceni, musulmani, afghani, talebani, terroristi o combattenti di qualunque fede politica” (Lilin 2010: 38) Ancora una volta è possibile qui rimandare alla più popolare cinematografia concernente la guerra in Vietnam prima ancora che all’ampia letteratura, di cui il Tiratore scelto di Henderson costituisce un capitolo centrale, a dimostrazione del fatto che le storie di cecchini, e più in generale le narrazioni di guerra, costituiscono un genere iperdeterminato, a dispetto della varietà dei teatri di guerra e della costante ambizione di veridicità, su base biografica o autobiografica, delle stesse. Il cinema statunitense ci ha per esempio insegnato che il nome collettivo del nemico dei marines impegnati sul campo in Vietnam era Charlie.
Charlie è per l’appunto, anche la donna vietcong chiamata Apache che Carlos Hathcock “neutralizzerà” e alla quale Henderson dedica intitola un capitolo della sua biografia:
Era una donna attraente di circa trent’anni, alta solo un metro e sessanta. I capelli neri e lucenti erano raccolti in una crocchia sulla nuca. Il naso era piccolo e appuntito e aveva grandi occhi marrone chiaro: un accenno a una possibile discendenza francese (Henderson 2007: 104)
Oltre ad essere un nemico, Apache è la spietata torturatrice che sevizia i prigionieri americani a Quota 55. Il trattamento riservato alla sua figura, il peso narrativo del personaggio in Marine sniper, meritano qualche attenzione in quanto pongono con chiarezza la questione del femminile nelle narratives del cecchino, tra Vietnam e Cecenia. I modi della rappresentazione del personaggio, pur sommari in Henderson, lasciano filtrare qualche brivido di attrazione – repulsione, a partire da quell’ “attraente” concesso alla vietcong, per continuare con l’ipotesi di meticciato ventilata nel riferimento ad una fisionomia “francese” dell’aguzzina. Coerentemente, allora, il suo fatale avvistamento si colora di voyeurismo: “È una donna! Sta togliendosi i calzoni.” “Sta pisciando, Carlos.” “È lei? È Apache?” “È lei” (Henderson 2007: 142). Quando, infine, la pallottola esplosa da Hathcock la raggiunge spezzandole “la clavicola e la spina dorsale […] mandando sangue e cartilagini sulle felci verdi che crescevano sui bordi del sentiero” (Henderson 2007: 143), nell’esultanza lo sniper non manca di apostrofare la vittima con un insulto a sfondo sessuale: “Già, ce l’abbiamo fatta. Abbiamo ammazzato quella lurida puttana. Ora non torturerà più nessuno”. (Henderson 2007: 143) Una tortura, in particolare, generosamente descritta in una delle pagine più cruente della biografia, aveva colpito il sergente armiere e con lui, il lettore: l’evirazione ai danni di un marine, episodio che conclude in crescendo l’ottavo capitolo. Ciò che qui si suggerisce è pertanto la natura proiettiva di quella violenza sessuale che pare sostituire, per inversione, lo stupro ai danni delle donne locali, inammissibile tra le truppe statunitensi, sebbene certamente praticata, ed irrappresentabile per lo scrittore embedded.
Che la presenza femminile nella memorialistica di guerra sia strutturalmente minoritaria è dato difficilmente controvertibile ed ha assunto perciò, nelle narrazioni letterarie di argomento bellico, una funzione generica. Ciò che colpisce è piuttosto la misoginia implicita e perfino esibita in alcune di queste narrazioni, segnatamente nel romanzo di Nicolai Lilin. “Se vuoi salvarti, amico, devi fare quello che ha fatto il nostro capitano” […] “Basta sposare la guerra, volerle bene, e lei ti amerà per sempre…” (Lilin 2010: 91): sul conto del comandante Nosov si favoleggia di un’unica relazione (nonostante tutti gli ufficiali affermassero che riscuoteva un grande successo tra le donne perché aveva un grosso calibro”[Lilin 2010: 49]), quella con un’infermiera militare, innamoratasi del granitico soldato al punto di reagire al suo abbandono col suicidio. L’universo maschile dell’esercito russo e la fratellanza conclamata tra le fila dei sabotatori ammettono per i personaggi femminili rare, brevi e controverse apparizioni. Eccone una rapida rassegna: la prima in ordine di apparizione è la citata “giovane donna, vestita con l’uniforme militare”(Lilin 2010: 10), prima responsabile dell’arruolamento di Kolima, che denuncia la propria vacuità a causa di una lettura fatta sottobanco:
ho visto che sulle ginocchia, sotto il tavolo, la donna teneva una rivista aperta. C’era un articolo sulle star musicali russe, con la foto di un cantante che aveva in testa una corona decorata con piume di pavone, Mi sono sentito ancora più triste. (Lilin 2010: 10)
Non va meglio alle ultime comparse femminili in ordine di apparizione, incontrate su un autobus dal reduce tornato alla vita civile e già nostalgico della guerra, il cui caos gli “sembrava più ordinario e comprensibile della cosiddetta moralità della società pacifica” (Lilin 2010: 318)
Anche i discorsi sull’autobus mi facevano paura: la sera prima, in un reality, una di quelle troie che si divertono a stare chiuse in una casa insieme a degli altri idioti si era tirata giù le mutande in diretta, mostrando a tutto il Paese le sue vergogne. Alcune giovani sedute accanto a me discutevano su quanto fosse depilata o meno quella tipa in televisione… (Lilin 2010: 320)
C’è poi la donna del cecchino mercenario al soldo dei ceceni, che paga la propria spudoratezza e sfacciataggine da “pornostar”, letteralmente, perdendo la faccia:
Ho calcolato la distanza, era vicinissimo. Stavo quasi per sparargli, quando mi sono accorto che stava parlando con qualcuno. Allora ho aspettato un momento, e nel mirino è apparsa una ragazza giovane, con dei lunghi capelli biondi nascosti sotto un cappellino militare. Sembrava una di quelle pornostar americane che si fanno fotografare mezze nude abbracciate a delle armi. Mi era venuto uno schifo totale a vedere due giovani che venivano qua per soldi ad ammazzare i nostri ragazzi. Ho aspettato che fossero più vicini. Lei gli ha detto qualcosa sorridendo, lui si è alzato un attimo e le ha accarezzato il viso prima di baciarla. Qui ho fatto il primo sparo.[…] La ragazza è rimasta per un momento ferma, poi con stupidità ha cercato di chiudere la finestra, ma io avevo già la sua faccia dentro il mirino. È stato un attimo, lungo appena mezzo respiro, e ho colpito anche lei.[…] il cappellino militare era volato via , la testa sembrava gonfia, enorme, ma metà del viso non c’era più. (Lilin 2010: 134)
Non per questo si salvano le mogli dei generali per le quali si ipotizza che un elicoterro in missione segreta trasporti “un carico di cazzi di gomma” (ben altro, come avremo modo di vedere, il valore attribuito, particolarmente in contesto bellico, alla presenza femminile in Sniper di Pavel Hak). Insomma, al di là delle giudiziose ma non particolarmente convincenti riflessioni a proposito dell’orrore della guerra, che pure l’autore propone con cadenza regolare, spira nel mondo esclusivamente maschile del secondo capitolo della trilogia siberiana un’aura vagamente arcadica, tale che il mondo in guerra risulta infine, forse proprio perché “ginecoesente”, paradossalmente il migliore dei mondi possibili.
Un ultimo episodio legato all’uccisione di una donna “vestita da militare,[10] con lo stemma di un gruppo di fondamentalisti islamici cucito sulla manica” (Lilin 2010: 255), illustra in modo trasparente una procedura costantemente reiterata da Lilin – ma lo stesso espediente era stato utilizzato da Henderson e lo sarà da Eastwood – allo scopo di sollevare il protagonista e i suoi commilitoni da qualsiasi responsabilità morale per ciò che si apprestano a commettere, in questo caso lo spietato omicidio della giovane. Solo dopo aver messo in luce, cioè, gli elementi di una indegnità morale attribuibili al nemico, le scene di violenza, contro Charlie come contro gli “arabi”, possono essere rappresentate fin nei dettagli più macabri e morbosi, senza pericolo di suscitare riprovazione da parte di un lettore ormai persuaso di trovarsi, con il suo eroe, dalla parte giusta del conflitto. Nel caso della fondamentalista islamica si adducono le siringhe ammucchiate in un angolo, “usate, macchiate di marrone, probabilmente eroina”(Lilin 2010: 254), come pure il “pezzo di hashish bello grasso” (Lilin 2010: 254) lasciato accanto al sacchetto di tabacco. L’anestetico emotivo fornito a buon mercato da simili stratagemmi narrativi dovrebbe garantire al lettore, non senza qualche sottinteso (incestuoso, in questo caso), la licenza voyeuristica di poter godere dello sbudellamento della tossicomane musulmana senza dover rendere conto alla propria coscienza:
Il sergente degli esploratori ha afferrato per il collo la donna con una delle sue mani enormi, e l’ha tenuta ferma. Lei tentava di graffiargli la faccia, scalciava, ma lui sorrideva, come se quella fosse sua figlia e stessero giocando insieme sul divano di casa. Senza movimenti bruschi le ha infilato il coltello nel petto, all’altezza del seno sinistro. La lama è entrata senza difficoltà, e lui ha continuato a spingerla dentro pian piano. Sembrava si stesse gustando ogni momento […] Il sergente l’ha sollevata e l’ha messa seduta. Sembrava una bambola rotta […] “Così da brava… Vedi che è stato tutto veloce, senza sofferenze” (Lilin 2010: 256-257)
Non diversamente in Tiratore scelto l’uccisione di un francese collaborazionista comporta, particolarmente in ragione dell’origine occidentale della vittima, un’ingente dose di lenitivo etico, somministrata questa volta sotto forma di sospetta pedofilia: si tratta di “un francese sulla cinquantina con una leggera calvizie, ma con capelli lunghi” (Henderson 2007: 159), “un interrogatore per Charlie. Uno dei migliori professionisti del ramo. Penso che si diverta anche. Sa, sesso sadomaso, gli piacciono i bambini”. (Henderson 2007: 161) Tocca, insomma, al lettore il compito di chiudere un occhio, stavolta in senso metaforico, sulle responsabilità morali, sui crimini e le atrocità perpetrati in guerra dai “nostri”. La medesima tecnica viene riproposta sul grande schermo da Eastwood, sia quando indugia su un guerrigliero irakeno, soprannominato il Macellaio, le cui sevizie a colpi di trapano su giovani vittime sono immancabilmente propedeutiche ad azioni esemplari dei marines, sia quando inserisce in una scena d’azione in interni una furtiva carrellata sui macabri trofei delle decapitazioni, allineati su una mensola. Ciò assicura l’immunità emotiva ad un pubblico in procinto di delibare le letali ritorsioni dell’american sniper ormai al sicuro da qualsiasi inibizione pacifista o non violenta.
La principale garanzia di non compromissione per il protagonista e per i suoi alleati lettori, tuttavia, sta a monte di ogni dispositivo retorico e consiste nello statuto subumano attribuito al nemico a partire da premesse che legano, nel racconto, l’abilità del tiratore a trascorsi sportivi e/o venatori.[11] In un breve dialogo tra Hathcock e il suo socio[12] durante un appostamento in Vietnam, nel primo capitolo del libro dal titolo inequivocabile: “Tiro al bersaglio a Duc Pho”, il cecchino torna con la mente al suo passato sportivo
“Le gare indoor dovrebbero essere in pieno svolgimento in questo periodo”, disse Burke. “Quando è stata la prima volta che hai sparato in una gara indoor, sergente?” – “Quand’ero nelle Hawaii. Vinsi il titolo individuale. Fu lì che conobbi il capitano Land” (Henderson 2007: 64)
Anche in American Sniper, il flashback che ci informa dell’apprendistato, venatorio stavolta, del giovanissimo Chris Kyle, inquadrato mentre abbatte il suo primo cervo sotto gli occhi severi ma compiaciuti del padre, interviene immediatamente dopo il breve prologo irakeno. Il romanzo di Lilin, ancora una volta, ripropone diligentemente anche questo motivo (se qualche trasgressione è possibile segnalare in Caduta libera, non riguarda certamente le regole del genere adottato).
“Ehi, fratello, sai come sparano in Siberia? Colpiscono un scoiattolo nell’occhio da una distanza di trecento metri!” […] Mi è capitato spesso di incontrare cecchini ucraini, lituani ed estoni, tiratori molto abili che provenivano dalla scena sportiva dell’ex Unione Sovietica; sparavano con precisione, ma a molti mancavano le basi della tecnica militare. La mia educazione da cacciatore nei boschi della Siberia, ricevuta quand’ero un ragazzino da nonno Nikolaj, ora mi tornava estremamente utile. (Lilin 2010: 93)
A questo punto l’assimilazione del bersaglio/preda alla vittima umana del cecchino si limita ad esplicitare un sillogismo già apertamente dispiegato per l’intelligenza del lettore. Così, per esempio, in Marine sniper:
Il primo colpo fece fare una capriola al militare di testa. Hathcock ricordò quando in Arkansas sparava ai conigli che correvano nei campi e sembrava che rotolassero come tanti palloni quando i suoi proiettili calibro 22 a punta cava li colpivano. Questa volta era un adolescente che giaceva disteso a terra scalciando e strillando mentre moriva colpito da una pallottola che lo aveva preso in piena pancia sbudellandolo. (Henderson 2007: 85-86)
La logica asimmetrica che costituisce la relazione tra il cecchino e la sua vittima risulta esemplare della sproporzione che ha caratterizzato molti conflitti recenti su vasta scala. Secondo la teoria microsociologica di Randall Collins, che tende a ribaltare quella seicentesca espressa da Hobbes nel Leviatano (homo homini lupus), l’uomo ha sviluppato durante il processo evoluzionistico la propensione a evitare lo scontro fisico. Nei casi in cui si arrivi comunque allo scontro, questo risulta spesso inefficace a causa della “barrier of confrontational tension and fear”. Collins elenca cinque tecniche di aggiramento della barriera emotiva, la prima delle quali consiste proprio nel dispiegamento di una sproporzione o asimmetria (“attacking the weak”, la formula utilizzata dal sociologo). È però la quinta in elenco, ovvero “concentrarsi sulla tecnica di attacco e dimenticare l’umanità della vittima” (Collins 2014: 432), a riguardare direttamente la figura del cecchino. Sebbene attraverso il mirino sia possibile talvolta scorgere gli occhi e lo sguardo della vittima, infatti, il mirino neutralizza la psicologia interazionale dello scontro, fondata sulla reciprocità:
sparare attraverso un mirino fa emergere, come se si trattasse di un esperimento controllato, i dettagli interazionali che normalmente rendono il confronto difficile. La sincronizzazione interazionale non deriva semplicemente dallo scorgere gli occhi dell’altro, ma centrale è che ci sia un mutuo riconoscimento mentre gli sguardi di entrambi s’incrociano (Collins 2014: 433)
Qualsiasi tipo di tensione tende a perdere consistenza tra i dettagli tecnici che il cecchino deve considerare poiché “anziché focalizzarsi sul nemico come essere umano o come avversario, il cecchino si concentra sulla propria mira” (Collins 2014: 434). Ecco allora che l’efficacia dei cecchini tende, storicamente prima ancora che letterariamente, ad essere eroicizzata in base alle statistiche delle loro prestazioni, ciò che Collins dimostra allegando un nutrito elenco di record ascrivibili ai “più letali” cecchini della storia: dal numero di vittime (500) alla distanza dell’obiettivo (1.500 metri). Topico perciò il motivo del cecchino-contro-cecchino[13] in quanto “confronto tra élite” (Collins 2014: 429), non a caso presente sia in Henderson e Eastwood che in Lilin – il già citato episodio della donna del mercenario (“Kolima, spegnimi ‘sto cazzo di cecchino. Subito!” […] “Con il cannocchiale ho iniziato a ispezionare la parte più alta delle due case: quasi subito […] ho trovato il mio cecchino […] Ho calcolato la distanza, era vicinissimo” [Lilin 2010: 132 – 133]). In particolare i due autori statunitensi fanno della riproposizione del topos l’occasione per una variazione magistrale. Nel libro ambientato in Vietnam lo sniper nemico è centrato in modo rocambolesco un istante prima che apra il fuoco:
“Nessuno ci crederà a meno che non lo veda. Ma guardalo! Gli hai infilato la pallottola dritto nel cannocchiale! […]” “Doveva aver puntato il suo fucile dritto su di me, altrimenti la mia pallottola non avrebbe potuto passargli nel cannocchiale e centrarlo nell’occhio in questo modo” (Henderson 2007: 215)
Ma è in American sniper che la sfida tra cecchini assume centralità narrativa, ed è per il tiro record col quale Kyle uccide Mustafà, il temibile sniper nemico, che Eastwood spende il più vistoso effetto speciale,[14] in un film che peraltro non indulge alla spettacolarizzazione, mostrandoci al rallentatore la pallottola nella lunga gittata che ricongiunge mortalmente cecchino a cecchino. Per l’occhio dello spettatore attento, tra l’altro, Eastwood aveva inserito, a margine di un precedente piano sequenza, la foto che immortalava Mustafà sul podio di una premiazione olimpica (è facile immaginare per quale specialità). Non resta che notare come, anche in questo caso, il cecchino nemico non possa vantare – stavolta in quanto siriano – il crisma di un’appartenenza nazionale che legittimerebbe, a quanto pare, almeno dal punto di vista ideologico, l’operato del marine.
Ormai moralmente al sicuro, grazie all’applicazione dei numerosi protocolli anestetici volti a garantire il dispiegamento del “fuoco amico” al netto di qualsiasi dilemma morale, il narratore può abbandonarsi infine alla resa estetica della violenza e, in particolare, all’estetizzazione della morte (del nemico)[15]. Davanti al cadavere di un “arabo” morto in piedi (“non ne voleva sapere di cadere giù, nonostante gli avessi scaricato addosso un caricatore intero continuava a stare in piedi” [Lilin 2010: 197]) Kolima si lascia andare ad uno dei frequenti passaggi riflessivi:
Vedere le persone morire quando non se l’aspettano, ucciderle mentre sono immerse nella totale tranquillità, è un privilegio riservato ai soli cecchini […] ho imparato a eseguire il mio compito con pazienza , a osservare le scene di morte con molta calma, a guardarle come si guarda un quadro [16] (Lilin 2010: 199)
Tra tutte emblematica ed istruttiva è la descrizione della vittima la cui faccia devastata assume una foggia “floreale”. Di fronte a simili immagini lo sguardo dello scrittore raggiunge un acme di morbosità che può ricordare alcune pagine di Malaparte (la cui fortuna recente è già stata notata, in ambito di autofiction, per esempio a proposito dello stile di Roberto Saviano)[17], autore celebre per la miscela di attendibilità e reinvenzione letteraria di certi reportage di guerra:
Alla fine una pallottola gli ha sfondato il mento e una parte della mandibola: la testa con un movimento violento e veloce si è girata di lato, ed è rimasta immobile in una posizione surreale. Le ossa della faccia spaccate e i denti frantumati, il sangue che spruzzava ancora dalle vene aperte e dalla lingua sradicata, tutti quei dettagli rendevano la ferita simile a una specie di fiore[18] (Lilin 2010: 308)
L’ennesima immagine ricorrente nelle storie di cecchini è quella delle “danza macabra” cui le vittime si abbandonano nel momento in cui vengono raggiunte dal colpo, per la gioia dello sniper che si gode quest’ultimo spettacolo a distanza di sicurezza, attraverso il cannocchiale del suo fucile di precisione.
Il corpo improvvisamente privo di vita si levò in aria, scalciando violentemente e infilandosi tra le canne da zucchero […] Molti dei suoi spari alla testa erano finiti in quello stesso modo, con danze scomposte del morente, ma questa era stata particolarmente raccapricciante. (Henderson 2007: 155) / Dopo che le avevo colpite le persone continuavano a correre per qualche metro e poi cadevano giù all’improvviso, come raggiunte da un colpo di vento molto forte (Lilin 2010: 70)
L’immagine, che tornerà anche nel racconto di Pavel Hak, richiama nella memoria visiva, innanzitutto del lettore, ma in secondo luogo dello scrittore che non possa vantare né voglia millantare esperienze dirette della guerra, il prototipo fotografico costituito dalla celebre foto Il miliziano colpito a morte (1936) scattata da Robert Capa durante la guerra civile in Spagna.[19] Esiste del resto una relazione certificabile tra la storia della fotografia e quella militare del cecchino. Se il conflitto spagnolo (1936-39) coincide con l’introduzione delle macchine fotografiche piccole e in miniatura (35 mm) già con la guerra anglo-boera (1899 1902) – comparsa delle macchine fotografiche portatili a lastra asciutta, o pellicola in rullo, a otturatori dalla velocità istantanea – e ancor prima con quella di Crimea (1853-1856)[20] – procedimento a lastra umida – l’evoluzione della tecnologia in campo fotografico scorreva parallela a quella delle armi di precisione: proprio intorno al 1850 tutte le maggiori potenze militari dotarono i propri eserciti di fucili a canna rigata che permettevano una precisione di tiro dieci volte superiore rispetto alle armi a canna liscia.
La seconda guerra cecena (26 agosto 1999 – 16 aprile 2009), esibita come sfondo reale e riconoscibile nel romanzo di Nicolai Lilin, viene annoverata dagli studiosi di storia militare tra le cosiddette “nuove guerre”. Rispetto ai conflitti moderni o clausewitziani ,[21] le “nuove guerre” uniscono al numero mediamente inferiore delle perdite complessive, il brusco decremento delle vittime militari rispetto ai caduti che si contano tra i civili. In tali conflitti allo spostamento coatto di popolazioni meglio noto come “pulizia etnica” corrispondono spesso rimpatri forzati o colonizzazioni, come ad esempio quella dei russi in Cecenia. Mary Kaldor considera tecniche militari tipiche del nuovo modello bellico, tra l’altro, la tendenza a colpire i civili, l’uso di atrocità, lo stupro. La tradizionale distinzione tra guerre di aggressione o di repressione, civili o internazionali, in uso nel paradigma clausewitziano, non consente di comprendere la realtà geopolitica attuale, come dimostra la stessa Kaldor adducendo l’esempio della guerra in Bosnia:
nel momento in cui tendiamo a cadere entro uno schema di distinzioni derivante dall’era clausewitziana, possiamo di volta in volta ritenere valida sia l’una che l’altra delle definizioni proposte. Coloro i quali erano favorevoli all’intervento esterno in Bosnia sottolineeranno come si fosse di fronte a uno stato riconosciuto dalla comunità internazionale e a una guerra d’aggressione compiuta dai serbo-bosniaci; chi era contrario all’intervento insisterà generalmente sul fatto che si fosse invece di fronte a una guerra civile. (Kaldor 2001: 49-49)
Quanto di un simile cambio di paradigma traspare dalle pagine di Caduta libera? L’afflato epico che governa una scansione narrativa che procede attraverso la sistole-diastole di scontri cruenti e momentanee tregue non si fa carico di rappresentare ciò che resta fuori dall’inquadratura standard del war film. Una breve panoramica sulla popolazione cecena inizia con una constatazione dal tono oggettivo: “Da quando era cominciata la prima campagna cecena i civili non avevano più visto un solo giorno di pace” (Lilin 2010: 93) per terminare con un’immagine non meno distaccata: “C’era tanta gente in lacrime, isterica, disperata”. (Lilin 2010: 94) E se a queste parole segue il macabro quadretto della giovane madre impazzita dal dolore che reca tra le braccia il corpicino del figlio orrendamente devastato, qualche pagina più avanti una digressione sugli effetti delle mine antiuomo (altra fattispecie considerata da Kaldor costitutiva della tecnica militare delle nuove guerre) si chiude su questa disarmante degnità: “Talvolta però morivano molti civili, tra i quali disgraziatamente c’erano dei bambini”. (Lilin 2010: 114) Un simile punto di vista, incline a considerare accidentali le perdite tra la popolazione, pare ancora viziato dal filtro di spesse lenti clausewitziane.
Allo scopo di preparare la transizione verso l’analisi di Sniper di Pavel Hak è utile affrontare più direttamente la questione dello statuto letterario della narrazione di Lilin. Per un romanzo come Caduta libera che si presenta al pubblico come “un racconto costruito con particolari veri, un riflesso storto della realtà vissuta” (Lilin 2010: 3) e che si concede l’unica licenza di variare e confondere nomi luoghi e tempi – come fa chi, tenendosi al vero, intenda però preservare il diritto di riservatezza delle persone coinvolte nella vicenda – la partita decisiva si gioca nella dialettica tra “effetto di realtà” e “dispositivi di veridizione”. Il riferimento a L’éffet de réel (1968) di Roland Barthes e al Michel Foucault de L’ordre du discours (1971) consente infatti di verificare la consistenza romanzesca ed eventualmente realistica della narrazione ma, allo stesso tempo, di mettere in conto la potente pressione che il “sistema di esclusione”, fondato sull’opposizione tra vero e falso, non cessa di operare proprio in campo letterario: “penso al modo in cui la letteratura occidentale ha dovuto da secoli cercar sostegno sul naturale, sul verosimile, sulla sincerità, persino sulla scienza, in breve sul discorso vero”. (Foucault 2004: 16). L’aberrante effetto di quella pressione produce nel romanzo di Lilin un fenomeno sorprendente: chi volesse tentarne un’analisi minuta alla ricerca di ciò che Barthes chiamava la “notation insignifiante” – quel dettaglio cioè che, privo di qualsiasi funzionalità narrativa sta lì ad evocare l’esistenza, fuori dal testo, di qualcosa che chiamiamo realtà[22] – si ritroverebbe a mani vuote. Il fatto è che, una volta iscritti dentro un progetto editoriale volto a propagandare l’attendibilità del racconto sulla base dell’ “io c’ero”, i pur numerosissimi dettagli concreti – il libro ne offre in abbondanza, tra i tintinnii dei gancetti metallici del Kalašnikov, fischi prodotti da polmoni perforati da lame da combattimento, scintillii notturni di sigarette al posto di blocco ecc. – acquisiscono immediatamente la funzione di conferma della veridicità del narrato. Per proporre un solo esempio (il citato scintillio), un lettore poco attento rischierebbe di scambiare il dettaglio seguente (segnalato dal mio corsivo) per l’agognata notation insiginifiante: “A dieci metri da noi erano sedute due persone: uno fumava una sigaretta, coprendola con la mano a coppa, e chiacchierava con l’altro […]” (Lilin 2010: 192). Senonché, più di cento pagine prima il lettore diligente avrebbe potuto apprendere dall’autore-sabotatore che quel particolare modo di fumare può rivelarsi un salvavita:
Non si vedeva nessuna luce al posto di blocco […] mi sono accorto che eravamo arrivati solo perché nel buio ho visto tre soldati che mettendo le mani a coppa cercavano di coprire la brace delle loro sigarette. Era vietato fiumare nei posti di blocco, soprattutto di notte: il rischio di essere avvistati anche a distanza era altissimo (Lilin 2010: 39)
E poco male se questa perla di saggezza militare è quasi uno stereotipo quando si parla di cecchini, al punto da aver assunto valore proverbiale ed essere stata inserita, alla voce “Credenze”, nella scheda dedicata da Wikipedia al Tiratore scelto:
La diffusa credenza che accendere tre sigarette di seguito porti sfortuna è nata nella Prima guerra mondiale; si dava infatti ad un eventuale cecchino il tempo di accorgersi della presenza del nemico (prima sigaretta), aggiustare la mira (seconda sigaretta) e sparare (terza sigaretta).
Paradossalmente, allora, quel che manca di prodursi in un romanzo pur ispirato alla veridicità delle vicende narrate è proprio l’“illusione referenziale” di cui parlava Barthes come costitutiva del regime realistico in letteratura. Ciò che si sovrappone come una patina traslucida all’orizzonte referenziale dell’extratesto è piuttosto uno sfondo di realitysmo,[23] che è poi l’unico territorio che l’autore sente di poter condividere con un lettore ignaro di guerre, cui dà del tu in questa similitudine chiarificatrice : “Abbiamo raggiunto la grotta, mi sono seduto e ho ripreso fiato. Nella mia testa tutto era fermo al momento in cui c’era stata quella maledetta raffica, come quando blocchi un film schiacciando il tasto pausa del telecomando”[24]. (Lilin 2010: 234)
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In Sniper di Pavel Hak l’ambientazione della vicenda bellica risulta meno riconoscibile. Sebbene la competenza massmediatica del lettore non tardi a ricollegare certi paesaggi devastati, certi villaggi stremati da lungo assedio, l’orrore delle fosse comuni ad un repertorio visivo che rimanda a cronache televisive di conflitti latamente balcanici (la Bosnia?) o caucasici (la Cecenia, di nuovo?), la volontà di collocare con esattezza il teatro di guerra nello scacchiere geopolitico contemporaneo è destinata a rimanere frustrata. L’autore, nativo di Tabor (1962) in Boemia, espatriato a metà degli anni ottanta dalla Repubblica Socialista Cecoslovacca e stabilitosi in Francia nel 1986 dopo aver ottenuto, in Italia, lo statuto di rifugiato politico, aveva fatto esperienza del lavoro di fabbrica ancora adolescente prima di venire espulso, per motivi politici, dall’Università di Praga, dove aveva preso a frequentare corsi di giornalismo. A Parigi si è mantenuto agli studi di filosofia accettando incarichi di guardiano notturno, compatibili con la pratica della scrittura. Terminati gli studi nel ’91, ha pubblicato in francese, dieci anni dopo, il primo romanzo (Safari). Quando, nel 2002, dà alle stampe Sniper, tempestivamente salutato da Philippe Sollers come “Un des livres les plus réussis de la rentrée”[25], lo scrittore può vantare perciò una biografia che reca i segni delle drammatiche vicende che hanno segnato la disgregazione del blocco sovietico nell’Europa dell’Est, senza per questo aver sperimentato personalmente il trauma di quei conflitti armati che costituiscono la costante della propria narrativa. In Sniper, del resto, l’attendibilità storica del narrato è deliberatamente negata, ciò che non ha impedito la formulazione di ipotesi suggestive da parte di lettori (“lei è stato cecchino?”) desiderosi di stipulare un contratto di veridizione che rendesse ammissibile lo scandalo di una rappresentazione condotta oltre i limiti dell’osceno.
Il comandante passa sorridendo davanti agli ufficiali paralizzati. “Sbarre, coltelli, impalamenti, mazze da baseball, scariche elettriche, celle frigorifere, tutto servirà alla nostra azione” […] Gli ufficiali (come un solo uomo) si sbottonano la patta e prendono in mano la verga dura. (Hak 2014: 13)
È tale l’oltranza nella descrizione dell’orrore da lasciar supporre l’effetto di schermo protettivo di una competenza linguistica di recente acquisizione, come se fosse possibile dire in una lingua d’adozione ciò che altrimenti la madrelingua si rifiuterebbe di proferire. A una simile supposizione è mosso innanzitutto colui che abbia fatto l’esperienza di avvicinare i libri di Hak dapprima in lingua originale e solo dopo, in traduzione, nella propria (esperienza del resto obbligata per chi in Italia avesse desiderato leggere Sniper, pubblicato in inglese già nel 2005, senza dover aspettare dodici anni)[26] ed abbia avuto perciò la netta sensazione di non riuscire ad avanzare tra pagine che gli erano già parse estreme, si, ma dopotutto sostenibili:
Le prisonnier s’obstine à garder le silence. D’un geste nerveux, le commandant égorge la femme. « Parle ! » Alors que le sang jailli des artères éclabousse le visage du prisonnier, la lame de la baïonnette ouvre le corps du cou jusqu’au pubis. « Tu refuses toujours de parler ? » Les officiers projettent le prisonnier vers la femme, plient sa tête au-dessus du ventre déchiré, lui ouvrent la bouche : le sexe du commandant crache une bordée de sperme. « Avale ! » hurlent les officiers. Puis, après que le prisonnier a englouti, ils plongent sa tête dans le ventre. « Ne le noyez pas » grommelle le commandant. Une barre de fer chauffée à blanc s’enfonce dans le rectum du prisonnier. (Hak 2002: 62) / Il prigioniero resta muto. Con un gesto nervoso il comandante sgozza la donna. “Parla!” Mentre il sangue schizzato dalle arterie imbratta il viso del prigioniero, la lama della baionetta apre il corpo dal collo fino al pube. “Rifiuti ancora di parlare? Gli ufficiali proiettano il prigioniero sulla donna, gli piegano la testa sopra il ventre squartato, gli aprono la bocca: il sesso del comandante sputa una bordata di sperma. “Inghiotti!” urlano gli ufficiali. Dopo che il prigioniero ha inghiottito, gli ficcano la testa nel ventre. “Non lo annegate” bofonchia il comandante. Una sbarra di ferro incandescente viene ficcata nel retto del prigioniero.[27] (Hak 2014: 61-62)
In Sniper il cecchino, protagonista di una sola delle quattro trame che si intrecciano nel racconto ma, allo stesso tempo, unico personaggio autorizzato all’uso della prima persona, si identifica tout court con il motore politico-ideologico del conflitto rappresentato. Infatti, anche se afferma di obbedire ad ordini superiori come terminale di una catena di comando articolata e remota, il dovere che si appresta a compiere con zelo disumano e cieca determinazione pare derivare in linea diretta dalla pulsione di morte e dipende, infine, dalla mera fornitura di munizioni: “Carico il fucile. Cosa? Mi restano solo due pallottole? […] Che negligenza! Che mancanza di responsabilità! L’esercito non ha diritto di non rispettare il termine di consegna” (Hak 2014: 91). Quale che sia l’identità nazionale delle forze in campo, ciò che conta è la meccanica del potere che viene declinata in termini rigorosamente foucaultiani: “Si può premere il grilletto quanto si vuole, la sola realtà sono i rapporti di forza”[28]. (Hak 2014: 55)
Accanto alla storia del cecchino altre trame si avvicendano – quella di un gruppo di fuggiaschi guidati da una madre resa muta e audace dal dolore, dell’uomo che torna a seppellire i suoi cari gettati in fosse comuni, del Quartier generale dove hanno luogo le torture ai danni di donne che sapranno infine liberarsi e vendicare l’oltraggio – secondo la tecnica della focalizzazione multipla che moltiplica lo sguardo e sottrae il lettore al totalitarismo di un punto di vista tanto più stringente in quanto eventualmente legittimato dalla sostanza (auto)biografica della narrazione.
Hak assume su di sé la responsabilità dell’invenzione letteraria e affida al lettore l’onere dell’interpretazione. Interpretazione, immaginazione e intuizione sono precisamente le facoltà che Cerwyn Moore, studioso di scienze politiche e attento lettore di Sniper, auspica di integrare nell’ambito degli studi di International Relations (IR,) in vista di una loro evoluzione verso la dimensione del Global politics all’indomani del cosiddetto aesthetic turn.
Sniper therefore uses the imaginative backdrop of an unnamed war to create space for the reader to “join in”, to imagine which conflict is being represented, and to overwrite this with their own reflections in an age saturated by imagery. The aim is to draw on the creativity of literature to keep questions open, to seek engagement without offering a conclusion, precisely because aesthetic enquiry is about discovering anew, rather than finding or establishing a finite and acceptable scientific truth. The open-ended nature of the dialogue proposed in Sniper is also designed to evoke emotional and ethical responses, plugging into intuitive beliefs about contemporary global politics, readily excluded by the focus on states.[29] (Moore 2010: 329)
Alle prese con le questioni morali che il testo solleva e con le proprie scelte di posizionamento etico, politico ed emotivo, il lettore di Sniper deve affrontare innanzitutto il nodo della spettacolarizzazione della violenza. Di fronte agli eccessi criminali, esibiti come in certe pellicole nazi-pulp degli anni Settanta, siamo incoraggiati ad indulgere nel voyeurismo. L’ammiccamento a certo immaginario splatter da b-movie o da video gioco, depositato nel repertorio visivo del lettore contemporaneo avvezzo alle decapitazioni in streaming, contribuisce a rendere fruibile, come oggetto di consumo e forma di intrattenimento culturale, la violenza rappresentata. La scena però non è passibile di redenzione estetica (il nazi-pulp non è cinema d’autore) né di giustificazione morale (a morire tra atroci sofferenze sono qui soprattutto i civili, le donne, gli innocenti coi quali spontaneamente solidarizziamo). E le vittime, alla bisogna, si rivelano non meno spietate e crudeli dei carnefici. Il lettore, insomma non può sottrarsi al piacere perverso del particolare raccapricciante proprio perché ne sperimenta tutta la gratuità e in breve si ritrova negli scomodi panni di un boia non garantito dalla presunta esecrabilità del nemico[30].
Come detto, la complessità del racconto di Hak inizia con il lavoro che il lettore deve compiere per localizzare correttamente il conflitto, ciò che, tra l’altro, permette a ciascuno di selezionare l’ambientazione in base alle proprie conoscenze, storia personale, appartenenza etnica o politica:
For Western readers the story intuitively evokes references to the unchecked atrocities in Bosnia, and perhaps Kosovo. However, for other readers the references may elicit a consideration of the post-Communist conflicts in Georgia or Chechnya. Still further, other readers may read into the scenario aspects of war in parts of Africa or Central Asia […] Sniper therefore uses the imaginative backdrop of an unnamed war to create space for the reader to “join in”, to imagine which conflict is being represented, and to overwrite this with their own reflections in an age saturated by imagery. (Moore 2010: 328-329)
All’indeterminatezza geografica e, come vedremo, cronologica, corrisponde però la perfetta aderenza delle tecniche militari descritte con quelle utilizzate, su scala globale, nelle cosiddette “nuove guerre”. All’esaustivo catalogo compilato da Mary Kaldor – “spostamenti di popolazioni […], gli stupri sistematici, la presa di ostaggi, l’affamare volutamente le città con assedi, la distruzione di monumenti storici […]” (Kaldor 2001: 45) – corrispondono puntualmente in Sniper scene esemplificative, come la seguente riferita all’ultima fattispecie: “pezzi di cemento schizzavano via dai basamenti delle statue prese d’assalto, i monumenti tremavano nella città sommersa di rivoltosi, il marmo cedeva alla rabbia dei martelli”. (Hak 2014: 43)
Per dire la verità, il primo sforzo di localizzazione riguarda proprio il personaggio del cecchino, che intuitivamente situiamo in una posizione eminente, all’interno di qualche edificio devastato nella no man’s land che sorveglia (“Ho tutto sott’occhio. Città assediata. Macerie. Cielo. Paesaggio” [Hak 2014: 16]) ma che inopinatamente ritroviamo, nel tredicesimo paragrafo, appostato rasoterra: “Chi può avvistarmi, qui, nel mio nascondiglio, all’entrata fortificata di una galleria sotterranea?” (Hak 2014: 41) Il disorientamento che il lettore sperimenta per questo particolare privo di giustificazione narrativa è solo il preavviso dell’esperienza straniante che il prosieguo della lettura gli riserva a livello di coerenza temporale del racconto e del suo stesso statuto letterario (racconto di guerra, distopia, conte philosophique?). In realtà fin da subito si percepisce che il conflitto, interpretabile a tutta prima come locale, come parziale rispetto ad una geografia che comprenda anche nazioni non belligeranti, non lascia spazio a zone franche o pacificate. Si tratta di un universo bellico totalizzante, che tende ad esaurire il mondo immaginato nel romanzo, sia sul piano spaziale che temporale – “Il mio indice scrive l’ultimo atto della storia dell’umanità” (Hak 2014: 55) – azzerandolo in una dimensione di presente ultimativo. Del resto, anche da questo punto di vista, pur nella sua esasperata finzionalità, Sniper risulta caratterizzato da un alto tasso di consapevolezza in ambito di questioni strategiche se è vero che oggi, quando non risolta istantaneamente, la guerra “tende subito a diventare totale, sia perché totalizzanti sono i processi economici e tecnologici di cui si nutre, sia perché è parte di una competizione globale”. (Zoja 2011: 379)
Come diventerà evidente a partire da Warax – penultimo romanzo pubblicato (nel 2009, non ancora tradotto in Italia) e prova più convincente fin qui dello scrittore francese, proprio in virtù della radicalizzazione di certe premesse ideologiche ma anche tecniche e poetiche già riscontrabili in Sniper – l’orizzonte apparentemente storico o altrimenti fantascientifico della narrativa di Hak, si rivela invece distopico, rimanda cioè a quella che in area francese e francofona è definita fiction d’aniticipation politique.[31] In ogni caso, già nel tredicesimo paragrafo del libro del 2002 alcune incongruenze o anacronismi, rispetto al panorama tutto novecentesco della devastazione bellica, mettevano sull’avviso (“l’occhio stupido di un drone” [Hak 2014: 41]). La vera e propria agnizione però si produce nel ventunesimo, quando nel suo flusso di coscienza il cecchino allude al ripopolamento della città (della regione? del pianeta?) da parte di cyborg colonizzatori.
Al giorno d’oggi, il problema (malgrado le apparenze) è reperire i vivi . E chiuder loro la bocca […] Perché nella folla robotizzata si dissimulano ancora degli uomini vivi, indistinguibili dagli uomini disincarnati. Come identificare, nell’era delle manipolazioni genetiche, chi, nella folla anonima degli esseri normalizzati, è ancora un vivo autentico? (Hak 2014: 66)
Certo, se interpretassimo i pensieri dello sniper come delirio o almeno indugiassimo nell’esitazione tra una spiegazione razionale dei fatti ed un’altra distopica o fantascientifica, la scappatoia del fantastico risolverebbe molte delle citate incongruenze, ma questa resta, tra le possibili chiavi di lettura, la meno convincente in un’opera esposta a ben altri e più profondi dubbi.
Lo Stato che il cecchino si pregia di servire e non manca di nominare con l’iniziale maiuscola, insidiato da un Impero altrettanto maiuscolo, per esempio, indurrebbe ad adottare una prospettiva tradizionalmente nazionalista, tipica di quelle controversie che hanno costituito in epoca moderna la “continuazione della politica con altri mezzi”[32]. Senonché la maiuscola sembra indicare piuttosto uno “stato di fatto”, uno status quo indefettibile che ci si impegna a mantenere inalterato in quello che Hartog chiama regime di storicità “presentista”. Lo scopo della guerra scatenata in Sniper perciò non consisterebbe nell’ampliare confini o annettere territori, bensì nel bloccare il corso del tempo, escludere qualsiasi prospettiva di resistenza o cambiamento sopprimendo il passato e lavorando a storicizzare il presente “in tempo reale”:
Le présent, au moment même où il se fait, désire se regarder comme déjà historique, comme déjà passé. Il se retourne en quelque sorte sur lui-même pour anticiper le regard qu ‘on portera sur lui, quand il sera complètement passé, comme s’ il voulait « prévoir » Je passé, se faire passé avant même d’être encore pleinement advenu comme présent. (Hartog 2003 : 127)
In altre parole, Sniper risulta più affine al conte philosophique – che storicamente, nella sua tradizione francese settecentesca a partire da Sade, non ha disdegnato provocazioni ed eccessi nella rappresentazione letteraria – che al reportage di guerra.
Il disorientamento cresce quando si tratta di individuare la fisionomia del nemico che lo Stato si troverebbe a dover fronteggiare e che si rivela un’entità dal carattere almeno bino:
Gli uni si rimettono a Dio e agli aerei per annientare il nostro regime, gli altri guerreggiano e sgozzano in nome di una Terra santa […] Per gli uni la vacca sacra sono le credenze; per gli altri, è il diritto di intervenire dove le esazioni frenano il consolidamento del loro impero […] Santo Petrolio, Santo Bizness, Santo Capitale. Si infiammano, vociferano, tirano i filo della storia, e a me (vecchio, laico, ateo lucido) tocca sgobbare. (Lilin 2014: 54)
Niente è come sembra, il cecchino si dichiara ora vecchio (quanto un uomo o secondo una misura che travalica l’umano?) e al soldo verosimilmente di una terza e formidabile potenza, a meno che non svolga le proprie “igieniche” mansioni equanimemente per entrambe.
Quanto detto però riguarda, a rigore, soltanto la vicenda ed il mondo dello sniper; nelle altre tre trame che compongono il libro il contesto storico è normalizzato e presenta tratti schiettamente novecenteschi. Tra i personaggi non si aggirano cyborg e la violenza è inflitta e subita attraverso la più tradizionale meccanica del corpo a corpo, della tortura, dello stupro. I morti vengono dissotterrati ed estratti, dal suolo ghiacciato che li imprigiona, a colpi di ascia. È forse lecito, allora, escludere la simultaneità tra gli episodi, le trame e le vicende? Lo sarebbe se nel quarto paragrafo il “messaggero” e il cecchino non comparissero insieme: “il messaggero calcola rapidamente la traiettoria della pallottola, alza gli occhi verso le cime della montagna, cerca il nascondiglio dell’omicida […] il solo luogo possibile è l’ingresso fortificato di una galleria sotterranea”.(Hak 2014: 16) Infine, nel ventinovesimo e ultimo paragrafo il tiratore inquadra nel mirino l’uomo venuto a seppellire i cadaveri: “Un carretto? Spinto da un matto? L’uomo che ha attraversato la montagna per tornare con un mucchio di cadaveri può essere solo un demente. Un uomo anormale e pericoloso. Ho ucciso il messaggero. Ucciderò questo squilibrato”. (Hak 2014: 89)
Sotto finale, perciò, il cecchino incontra finalmente il suo vero oppositore, il becchino, colui che ostinatamente lavora a portare alla luce i morti, a mantenere la memoria e con essa il giacimento di passato, unica risorsa capace di sostenere un progetto di futuro. L’uomo è in procinto di riabbracciare sua moglie e, con lei, il figlio che porta in grembo, ma la donna conosce la minaccia senza volto del cecchino e gli si fa incontro per trattenerlo. In quella lo sniper, ormai a corto di munizioni, si trova nella necessità di spegnere le tre vite che minacciano il suo disegno di “soluzione finale” con due soli proiettili:
Prendo la mira. Dove bisogna colpirla? Se le brucio la testa, il marmocchio potrebbe sopravvivere. Devo colpirla in pancia. Bene al centro del grembo (dove il pargolo già si muove). Un po’ di pazienza. Tra qualche secondo si slancerà verso il suo caro sposo. Che le falcerò davanti agli occhi (prima che lo abbracci). Ma stiamo calmi. è lei la mia vera preda. La donna incinta. L’emblema della vita. (Hak 2014: 90)
Ma su questo dilemma il racconto si interrompe, non so se nei modi della reticenza o per un finale aperto. In ogni caso per il lettore di Sniper l’interruzione coincide con il lieto fine poiché gli consente di uscire dal tunnel degli orrori, indenne anche se non più in pace con se stesso.
*
La letteratura di guerra, nelle forme documentarie o romanzate, autobiografiche o del reportage, sulla pagina o sullo schermo, resta un genere destinato a “cercare sostegno sul naturale, sul verosimile, sulla sincerità, […] in breve sul discorso vero”. (Foucault 2004: 16) Marine Sniper, Caduta libera e American Sniper ne danno una testimonianza tanto più convincente quanto più prossimi appaiono i modi e i temi delle tre narrazioni. Neanche Eastwood rinuncia, nei titoli di coda, a sovrapporre immagini di repertorio – i funerali di stato di Chris Kyle – alla ricostruzione cinematografica appena conclusa. Pavel Hak sceglie di seguire un sentiero meno battuto, persegue il realismo fino ad esiti aberranti, che rendono necessario il ricorso al prefisso iper-, ma rinuncia alla garanzia offerta dalla realtà documentaria, storica o autobiografica. La sua fede nella realtà si manifesta nella capacità che la letteratura ha di individuarla e di designarla iuxta propria principia. In questo senso alcune dichiarazioni del cecchino possono essere lette come veri e propri manifesti della poetica d’autore, estranea a qualsivoglia tentazione di realitysmo: “Malgrado l’inflazione di simulacri di ogni genere, c’è un solo mondo: quello che facciamo venir fuori prendendo bene la mira” (Hak 2014: 17). Del resto, avere tutto sott’occhio, come accade allo sniper che lo riferisce in apertura del quinto paragrafo, non è privilegio che spetta al narratore?
Nessun privilegio invece per il cecchino, che il lettore affezionato al genere ha presto imparato ad imitare, chiudendo un occhio sulle sue vittime, sulle sue responsabilità e sulla catena di comando cui ricondurre le ragioni politiche del suo operato. Il tiratore senza nome e senza volto in azione in queste pagine è un esempio palmare ed iperbolico della paranoia intesa come “follia che fa la storia”[33] .“Ogni soldato deve essere trasformato in un fanatico la cui priorità è dare la morte (…) rendendo paranoico ogni militare, l’investimento bellico rende di più” (Zoja 2011: 379): le parole di Luigi Zoja, analista junghiano, potrebbero essere stampate in quarta di copertina di un libro il cui incipit suona: “Il mio dovere è uccidere. Colpire mortalmente (in una frazione di secondo) ciò che è condannato a morte. Da chi? Perché? La guerra non ammette domande” (Hak 2014: 5) e, più avanti, prosegue: “Del resto, chi vorrebbe uccidere i potenti? Siamo realisti! Se uccido i potenti, chi mi fornirà le munizioni? Chi mi pagherà? Mi consegnerà nuove armi?” (Hak 2014: 29) Lo sniper di Hak è tutt’uno con l’arma che imbraccia, anzi egli è sineddoche, parte per il tutto, il suo profilo risulta indistinguibile da quello del fucile. Se in Henderson, Lilin, Eastwood e nei molti epigoni cantori del cecchino, la vittima – preda o bersaglio – è relegata a uno statuto subumano, ferino o di cosa, qui è il protagonista a perdere i crismi dell’umanità per assumere tratti dis-umani, robotici. Nella wasteland che costituisce l’universo poetico di Hak, sono le tecnologie biopolitiche, l’ingegneria genetica tra tutte, a decidere di un dopostoria che affonda radici nei primordi dell’industria delle armi: ogni colpo sparato a distanza annichilisce lo spazio tra carnefice e vittima e compie la sintesi fulminea di un’epoca, ormai conclusa, in cui l’elemento umano era misura dell’agire; il cecchino in quanto uomo-arma attraversa e supera quella fase storica per proiettarsi nell’inderogabile presente dei millenni a seguire, nel post-umano .
Note
[1] Kolima è anche il titolo del progetto che Nicolai Lilin ha dedicato all’arte del tatuaggio siberiano: http://www.kolima.it/nicolai-lilin/
[2] Per Gerard Genette, che assumeva la nozione dagli studi Georges Blin su Stendhal, la focalizzazione è innanzitutto una “restrizione di campo”.
[3] Più probabilmente il termine cecchino, utilizzato in origine per indicare i tiratori dell’esercito austro-ungarico, deriverebbe dal nomignolo dell’imperatore Francesco Giuseppe I d’Asburgo, detto Cecco Beppe.
[4] Il “presentismo” rappresenta il regime di storicità contemporaneo che, facendo seguito a quello moderno, genera ciò che gli necessita del passato e dell’avvenire al solo scopo di valorizzare l’immediato ed imporsi come unico orizzonte possibile (cfr. Hartog 2003).
[5] Si noti nella traduzione del titolo l’opzione eufemistica di “tiratore scelto” in luogo di “cecchino”.
[6] Mio il corsivo.
[7] Mio il corsivo.
[8] La sceneggiatura completa del film in italiano è disponibile all’indirizzo: http://pl.aliensubs.com/kino/American+Sniper/Wloski-podtytul-os3o4r4
[9] “Questo libro è un racconto costruito con particolari veri, un riflesso storto della realtà vissuta”. (Lilin 2010: 3)
[10] Si noti nel ricorrere della circonlocuzione “donna vestita da militare” l’implicita polemica contro l’arruolamento femminile.
[11] La migliore sintesi delle due opzioni è nella citazione di Hemingway posta da Henderson in esergo: “Non c’è niente come la caccia all’uomo. Chi ha cacciato a lungo uomini armati e ne ha goduto, da quel momento non si curerà di nient’altro”. Il celebre passo sembra tornare, parafrasato, in Caduta libera dove si dice del “vero piacere che solo la caccia agli esseri umani riesce a dare”. (Lilin 2010: 198)
[12] Questa la definizione a piè della prima pagina del libro di Henderson “È l’altra metà della squadra e cerca i bersagli con l’aiuto di un cannocchiale a rilevamento telemetrico o di potenti binocoli”. (Henderson 2007: 15)
[13] “il modo più efficace per combattere dei cecchini è utilizzarne di propri. Nei fronti di guerra statici […] si presentano spesso episodi di cecchino-contro-cecchino […] lo scontro cecchino-contro-cecchino è un confronto tra élite” (Collins 2013: 429)
[14] Molto presente, invece , l’immaginario cinematografico, tra western e film di guerra, nella prosa di Lilin; si veda ad esempio la sequenza in cui, tra esplosioni di automezzi e corse disperate sotto il fuoco nemico si segnala la chiusa: “Il nostro capitano come al solito ha chiesto: “Tutti interi? nessuno bucato?” (Lilin 2010: 99); oppure l’altra nella quale Kolima, improvvisato chirurgo, estrae a mani nude con l’unico ausilio di una pinza e senza anestesia la pallottola conficcata nella gamba del commilitone; o infine quella, al limite del comico involontario, dove il capitano Nosov, dato per spacciato, “risorge” da morte apparente non appena incassato il dividendo emotivo del lutto presso il lettore.
[15] In questo senso sono da sottoscrivere le parole di Fabio Mauri, citate da Arturo Mazzarella in apertura del recente saggio Il male necessario. Etica ed estetica sulla scena contemporanea (2014) edito da Bollati Boringhieri: “L’estetica, si sa, è il campo e il compimento di ogni ingiustizia”. È lo stesso Mazzarella poi a notare come, in anni recenti, “la riflessione sul male ha perso le sue radicate connotazioni etiche […] per acquistare viceversa, uno spessore estetico” (Mazzarella 2014 : 90-91)
[16] Corsivo mio.
[17]Cfr. Daniele Giglioli, Senza trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio, Macerata, Quodlibet, 2011, p. 61.
[18] Corsivo mio.
[19] Anche intorno all’attendibilità di questa celebre foto, del resto, si è acceso il dibattito (cfr. Whelan 1985: 95-97)
[20] La guerra di Crimea fu testimone di una nuova modalità di fare la guerra basata sullo scambio di colpi tra soldati dotati di fucili precisi a distanze fino a poco tempo prima concepibili solo per l’artiglieria. Nelle file britanniche gli uomini iniziarono ad agire come i moderni tiratori scelti. In trincea si iniziò ad assistere all’azione combinata di due uomini nel tiro di precisione, il tiratore steso a terra con il dito sul grilletto, pronto a sparare, e il compagno accanto a lui che puntava il telescopio (cfr. Pegler 2012).
[21] Carl von Clausewitz, generale, scrittore e teorico militare prussiano, è noto per essere l’autore del trattato Della guerra (Vom Kriege) edito a Berlino tra il 1832 e il 1837.
[22] “il dettaglio concreto è costituito dalla collusione diretta di un referente e di un significante: il significato è espulso dal segno, e con esso, ovviamente, anche la possibilità di sviluppare una forma del significato”. (Barthes 1988: 158)
[23] Il termine è utilizzato da Maurizio Ferraris nel suo Manifesto del nuovo realismo ed indica un nuovo modello che si sta imponendo: “la finzione supera la realtà, e, semplicemente, la sostituisce. La mastica per renderla commestibile, la riscrive con una trama, la serializza come si fa con le fiction, la imbelletta con effetti speciali. Chiamiamo questa sindrome “realitysmo” (M. Ferraris, “Benvenuti nel realitysmo”, la Repubblica, 29 gennaio 2011).
[24] Mio il corsivo.
[25] La recensione di Philippe Sollers, apparsa su Le Journal du Dimanche del 28 luglio 2002 si può leggere nel sito dell’autore : www.pavelhak.com
[26] Anche il drammaturgo francofono del Québec Wajdi Mouawad, che ne ha favorevolmente recensito su « Le Monde » ( 26 agosto 2011) l’ultimo romanzo, punta l’accento sulla pratica del translinguismo come costitutiva dello stile di Hak “J’ai toujours senti, pour l’éprouver moi-même, combien est grande la difficulté d’arriver à la poésie lorsque la langue dans laquelle nous écrivons n’est pas notre langue maternelle […] Pavel Hak pousse alors sa propre écriture au bout du possible ». È oggi disponibile la seconda traduzione italiana di un romanzo di Hak, edito in Francia da Seuil nel 2006: Trans (Transeuropa, 2015, traduzione di Claudia Ortenzi)
[27] Le scelte di regia di Phillips e O’Brien nei 7’32’’ secondi del video ispirato a Sniper – inquadratura fissa sul cecchino appostato ma inattivo – paiono confermare l’insostenibilità della rappresentazione.
[28] “Poiché la mia ipotesi è che l’individuo non è il dato su cui si esercita e si abbatte il potere. L’individuo, con le sue caratteristiche, la sua identità, nella sua fissazione a se stesso, è il prodotto d’un rapporto di potere che si esercita sui corpi, molteplicità, movimenti, desideri, forze”. (Foucault 2001: 160)
[29] Per il riferimento all’aesthetic turn cfr. Bleiker, 2009.
[30] Posizione non dissimile da quella occupata dai volontari impiegati a Yale dal prof. Milgram per un esperimento che permetteva loro di inviare scosse elettriche di intensità variabile ai colleghi posti dietro una vetrata: “la maggioranza di loro soffriva visibilmente nel provocare le scosse elettriche [in realtà solo simulate, a loro insaputa], ma nessuno si arrestò prima di quelle da 300 volt, 35 la superarono (l’87,5%) e 26 di loro (il 65%) giunsero addirittura a somministrare quella massima di ben 450 volt”. L’episodio è citato da Luigi Zoja (Zoja 2011: 383)
[31] Cfr. Poliquin 2013
[32] Celebre definizione della guerra fornita da von Klausewitz nel suo trattato ottocentesco Sulla guerra.
[33] È questo il sottotitolo del saggio sulla paranoia pubblicato da Luigi Zoja nel 2011.
Bibliografia
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Collins, Randall, Violenza. Un’analisi sociologica, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014.
Ferraris, Maurizio, Manifesto del nuovo realismo, Bari, Laterza, 2012.
Foucault, Michel, “Domande a Michel Foucault sulla geografia”, Ed. Mauro Bertani, Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969 – 1984, Torino, Einaudi, 2001.
Foucault Michel, L’ordine del discorso, Torino, Einaudi, 2004.
Guay-Poliquin, Christian, Au-delà de la « fin » : mémoire et survie du politique dans la fiction d’anticipation contemporaine. Sociocritique de Dondog d’A. Volodine, Warax de P. Hak, et Je dirai au monde toute la haine qu’il m’inspire de M. Villemain, [tesi discussa presso l’Université du Québec à Montréal], 2013.
Hartog, François, Régimes d’historicité. Présentisme et expérience du temps, Paris, Éditions du Seuil, 2003.
Kaldor, Mary, “La violenza organizzata nell’era globale”, Concetti Chiave: Nuove direzioni del Pensiero globale, 5, Trieste, Asterios, 2001, pp. 33-49.
Lenman, Robin – Schulz, Constance B., “Guerra”, Dizionario della fotografia, Ed. Robin Lenman, vol I, Torino, Einaudi, 2008 pp. 493-512
Mazzarella, Arturo, Il male necessario. Etica ed estetica sulla scena contemporanea, Torino, Bollati Boringhieri, 2014.
Moore, Cerwyn, “On Cruelty: Literature, Aesthetics and Global Politics”, Global Society, 24:3, pp. 311-329.
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Zoja, Luigi, Paranoia, La follia che fa la storia, Torino, Bollati Boringhieri, 2011
[Immagine: Le Guetteur, di M. Placido (2011) (gs)].
Lettura estremamente interessante e grande chiarezza di stile. Due annotazioni e una domanda.
1) Hobbes (1588-1679) non è un autore settecentesco
2) Moore viene citato due volte a brevissima distanza, ma la prima citazione inizia dove finisce la seconda, creando una ripetizione inutile della stessa frase
3) Per quale mai ragione il lettore “non può sottrarsi al piacere perverso del particolare raccapricciante”? Forse che i lettori reagiscono tutti allo stesso modo?
Grazie dell’articolo interessante. Segnalo che tra le specialità militari, quella del tiratore scelto è in assoluto la più politically correct: le donne vi figurano alla pari degli uomini, con risultati di eccezionale valore. Vedi per esempio la leggendaria Ljudmila Pavlichenko (309 uccisioni confermate).
“ Domenica 12 gennaio 1997 – Nella cosiddetta civiltà dell’immagine la dote più richiesta è ancora la capacità di chiudere almeno un occhio. “.
Grazie a Jacopo per l’attenta, efficace ed utile lettura (segnalerò senz’altro il refuso “settecentesco”; in quanto invece alla doppia citazione di Moore l’effetto di aggancio è voluto, per quanto non necessariamente felice)
infine, a proposito di quel lettore che non potrebbe “sottrarsi al piacere perverso ecc.”, non di lettore empirico qui si tratta ma di quel lettore già detto “ideale”che per essere un’astrazione dei tempi belli della Teoria non cessa di avere qualche utilità nel discorso critico.
Il lettore ideale pur essendo un’astrazione ecc. è effettivamente utilissimo: ma non sono davvero sicuro che usi della scrittura come quelli intelligentemente esaminati in questo saggio, pur presentando una serie di ricorrenze e di tòpoi, possano davvero prevedere un lettore ideale (o un qualunque lettore tipo).
“ 6 marzo 1995 – Stamani sentendo l’altoparlante della caserma di fronte gracchiare l’inno di Mameli ho ripensato agli anni Cinquanta. C’erano molti militari negli anni Cinquanta. Militari erano molti dei padri dei miei amici. Anche il babbo lavorava come impiegato civile alla caserma Lamarmora. Quando lo accompagnavo mi faceva vedere come salutare la sentinella, con un piccolo cenno della testa, dato che noi eravamo civili. Il rituale mi piaceva, mi sembrava un bel gioco. Mi piaceva anche il « percorso di guerra », quella serie di salti strisciamenti rotolamenti che i soldati dovevano fare per addestramento. Mi piacevano anche le sigle. C.A.R.: Centro Addestramento Reclute. Dei militari ricordo solo che alcuni erano simpatici. Dato che avevo sparato benissimo al Luna Park, mi fecero avere un diploma di « tiratore scelto » di cui andai orgogliosissimo e che devo avere ancora da qualche parte. Allora pensavo che quando avrei fatto il militare mi sarei divertito. Poi non l’ho fatto, ma per altre ragioni. “.
p.s. : NON si chiude un occhio, per sparare sul campo. L’occhio dominante si allinea con la mira, l’altro resta aperto per cogliere la visuale d’insieme. Si chiude un occhio (o meglio, lo si occlude con appositi occhiali) solo nel tiro sportivo.