cropped-Montale1.jpgdi Federico Condello

1. Premessa

Un mini-parapiglia, piuttosto farsesco, si è scatenato a margine del mio vecchio intervento La dodicesima busta, dedicato al cosiddetto Diario postumo pseudo-montaliano (https://www.leparoleelecose.it/?p=17068). Poiché nel corso della discussione qualche anonimo lettore ha confessato di trovare nel Diario postumo «barlumi di poesia, pur rari ed opachi» – ma sufficienti ad accecarlo, a quanto pare – forse è il caso di provare con la prosa.

Nel 2006 il Melangolo ha pubblicato un inedito che avrebbe dovuto suscitare scalpore: una lunga recensione di Eugenio Montale dedicata alla prima raccolta poetica di Annalisa Cima, Terzo Modo[1]. Essa fu addirittura anticipata dal «Corriere della Sera», 27 gennaio 2006. In tempi più recenti, la prosa è stata rilanciata dalla «Nuova Antologia» (2011)[2]. Mi sembra, però, che il testo non abbia ricevuto l’attenzione che merita: come vedremo, esso non manca di riservare sorprese. Il lettore può gustarselo in versione integrale all’indirizzo http://annalisacima.com/n_presentazioni_12.htm, e lo preghiamo di affrontare la lettura – serve un po’ di coraggio – prima di proseguire.

Di cosa si tratta, in generale? Questa desolante sequenza di svenevolezze, sparate inverosimili e sgrammaticature assortite è o vorrebbe essere un lungo e ispirato peana della Cima neo-poetessa: per Montale, si direbbe, il più notevole talento lirico dell’epoca. La recensione sarebbe stata scritta nel 1969, in seguito al rapimento o turbamento suscitato in Montale dalla lettura di Terzo Modo («Montale le disse: “Ho letto il tuo libro e non mi ha lasciato dormire”»[3]); egli avrebbe voluto pubblicare i suoi incontenibili elogi nientemeno che sul «Corriere della Sera»; ma la Cima, con ammirevole modestia, si sarebbe opposta, e avrebbe preferito conservare per sé il prezioso cimelio («lo pregai di lasciarmi camminare sulle mie gambe: perciò, pur essendogli riconoscente, desideravo tenerlo per me sola. Sarebbe stato il nostro segreto»[4]). Fino, appunto, al 2006, esattamente dieci anni dopo la pubblicazione, per Mondadori, del Diario postumo. Una data certo non casuale, che rinnova i fasti del centenario[5].

L’edificante storiella di questa prosa e della sua genesi ci è stata raccontata in più sedi e in più versioni, con notevoli difformità che ora non mette conto passare in rassegna[6]. Più interessante osservare che i «due foglietti dattiloscritti» – così la Cima stessa[7] – ai quali sarebbe stata affidata la stesura originaria della recensione non possono bastare per un’articolessa di oltre 8000 battute, qual è il testo finalmente reso noto nel 2006. Forse la stesura originaria era solo un abbozzo, in seguito rivisto? Ma quando e da chi, visto che la Cima ci racconta di aver conservato gelosamente, per 37 anni, proprio quei «due foglietti»? Chissà.

Ma la domanda che si impone è un’altra, più drastica: è davvero di Eugenio Montale questa strampalata prosa?

Onde anticipare le obiezioni degli autenticisti di nuova generazione (che sono pochi, anonimi e non sempre attenti ai veri argomenti in campo) voglio precisare subito che nel § 2 elencherò alcune fra le molteplici assurdità e insensatezze che contrassegnano la recensione: assurdità che non bastano, però, a farci giudicare la recensione un apocrifo, anche se ritraggono un Montale improvvisamente incapace di articolare pensieri ragionevoli; nel § 3 elencherò alcune fra le innumerevoli sgrammaticature che rendono pressoché illeggibile la prosa: ma nemmeno queste sgrammaticature, in sé, bastano per la diagnosi finale, anche se con difficoltà ammetteremo che Montale potesse commettere errori tanto badiali e puerili, indegni di una (pessima) tesi triennale; infine, nel § 4, fornirò i dati in grado di spiegare in un colpo solo e assai facilmente, a mio avviso, le incongruenze censite nei §§ 2 e 3. È con questi dati che invito gli autenticisti a misurarsi.

2. Una grandinata di assurdità

E dunque: perché Montale apprezzerebbe tanto la poesia di Annalisa Cima? Ecco alcuni dei suoi mirabili argomenti (l’elenco è altamente selettivo):

1. la metrica della Cima deriva direttamente dalla poesia ‘classica’; anzi, la sua «singolare poesia»

tende, quasi certamente [?], a risuscitare le strofe classiche che già Leopardi e D’Annunzio avevano assorbite da Virgilio e Dante.

Vorremo avere maggiori lumi sulle strofi che accomunerebbero Leopardi e d’Annunzio, a loro volta ispirati dai modelli «Virgilio e Dante»: coppia senz’altro solida, ma non – per quanto consta – sul piano dell’uso metrico-strofico. Si intendono metri barbari? In Leopardi? In Dante? Strofi libere? In Dante? In Virgilio? Non sappiamo. Il seguito pare promettere chiarimenti:

s’intende che i versi, elaborati agglutinando musica e filosofia, resi essenziali con labor limae, quando s’impennano in metriche stravinskijane evidenziano un ritmo fluttuante che porta con sé, dalla profondità della conoscenza, pentametri riecheggianti a metriche classiche, resi attuali dall’invenzione di nuovi schemi.

Risparmiamo la fatica al lettore in cerca di riscontri: ‘pentametri’ di qualsivoglia specie (di specie ‘stravinskijana’?) in Terzo Modo non si incontrano. Del resto, il «ritmo» è «fluttuante». Del resto – aggiunge il recensore poche righe più in là – nella silloge incontriamo «versi classici in chiave polifonica deviati su assi di geometrie musicali». Che vorrà dire Montale? La tempesta di metafore stordisce[8].

2. Dominanti, nella raccolta, sarebbero «i temi di fuga e di sopravvivenza». Essi, annota Montale,

preservano intatto un habitat al tempo stesso fisico e metafisico, si liberano dalle formule convenzionali, contestano il sistema e si nutrono delle contrapposizioni care ai poeti greci.

Non sappiamo come i «temi» possano «preservare un habitat» e «contestare il sistema»[9]: i «temi», non la Cima! La prosopopea è alquanto audace. Peraltro, negli stessi anni, la trita formula ‘contestare il sistema’ è impiegata da Montale solo in senso ironico[10]. Ci piacerebbe sapere, poi, quali siano le «contrapposizioni care ai poeti greci». Forse si allude a qualche presocratico non fra i più noti. Nebuloso[11].

3. L’«intelligenza poetica» dell’autrice

assorbe il passato, legge il presente con lucido disincanto, aspira ad un futuro libero da condizionamenti.

Qui tutti ‘assorbono’: Leopardi, d’Annunzio e la Cima medesima[12]. Quanto all’anelito di libertà, esso è condiviso dagli happy few che costituiscono, secondo Montale, gli «estimatori» almeno potenziali della poetessa:

se mancherà il plauso dei critici militanti si potrebbe comunque tracciare a priori una mappa degli estimatori e si constaterebbe la loro appartenenza a quella categoria di persone che praticano una scrittura libera, mantenendosi sempre su un piano di alta dignità intellettuale e innovativa.

Non sappiamo a chi Montale alluda. Sappiamo che negli stessi anni Montale si fa beffe della «libertà» astrattamente asserita; egli ironizza sulla «presunta libertà dell’arte», osserva che «in ogni tempo gli artisti hanno avuto un padrone», e sentenzia che «dell’uomo libero, non condizionato che da se stesso, la storia non offre esempi»[13]. Bislacca, poi, l’espressione «alta dignità […] innovativa»: che vorrà mai dire?

4. Un’affermazione che non richiede troppi commenti, e che ha almeno il pregio di riportarci all’atmosfera familiare del Diario Postumo[14]:

Annalisa Cima è un caso raro. Una Saffo contemporanea?

Osserva il recensore in quegli stessi anni: «critici italiani che hanno speso generose parole per autori alle prime armi non mancano e se ne potrebbero citare molti»[15]. Qui però Montale non teme rivali. Sappiamo dalla Cima che in privato egli fu non meno generoso: «a me ha fatto piacere, però, sapere di essere fra i suoi poeti preferiti, insieme ad Amalia Rosselli, ma anche a Vittorio Sereni o Andrea Zanzotto o Sandro Penna»[16]; o ancora: «non tentò mai di influenzarmi, perché sapeva che avevo una voce diversa. “Il tuo lessico è alla Celan, intriso di Foscolo e Leopardi”, mi diceva. Trovava la mia poesia molto personale, nutrita da un fuoco poetico interno e non solo dall’erudizione»[17]. Prendiamone atto.

5. Montale mostra di intendere benissimo la poetica della Cima:

per Annalisa Cima, come del resto per me, l’argomento della poesia è la condizione umana in sé considerata: non questo o quell’avvenimento storico-politico, e ciò non significa che ci si estranei da quanto avviene nel mondo, significa solo aver la coscienza e la lucidità di non scambiare l’essenziale col transitorio.

È una sicurezza definitoria che può sconcertare. Ma non sfugga l’inciso: «come del resto per me». Così immediata e profonda l’identificazione? A breve vedremo quanto.

6. Un augurio sentito, e una dichiarazione di poetica ancor più onerosa:

auguro ad Annalisa Cima di continuare la sua fuga, lontano dall’incolore opacità delle scuole contemporanee, di restare ancorata al suo modo-mondo nel quale la poesia non si fabbrica, nasce dentro; è una grazia che si manifesta all’improvviso, in Annalisa s’è manifestata.

Il Montale che in tanti scritti coevi riflette, non senza tormento, su ambiguità e limiti dell’estetica crociana[18], si concede qui una naïveté senza paralleli: «la poesia […] nasce dentro». Chiusa la questione. Questione però riaperta, evidentemente, sette anni dopo, quando Montale scrive (e spedisce a Contini il 3 aprile del 1976) la lirica La Poesia (In Italia), confluita nel Quaderno dei quattro anni: «dagli albori del secolo si discute / se la poesia sia dentro o fuori. / Dapprima vinse il dentro, poi contrattaccò duramente / il fuori e dopo anni si addivenne a un forfait / che non potrà durare perché il fuori / è armato fino ai denti». Ma si sa: tutte le volte che Montale ha che fare con Annalisa Cima sembra scattare in lui la più drastica epoché di ogni ironia.

7. Infine, un défilé di sostenitori illustri entro il quale Montale non esita né ad includere se stesso né a esibire apparentamenti che sbalordiscono:

s’intuisce che Annalisa Cima ha tutte le carte in regola per rappresentare degnamente l’ultima generazione di questo secolo, come i poeti che credono in lei, da Giuseppe Ungaretti ad Aldo Palazzeschi, da Marianne Moore al sottoscritto, hanno rappresentato la prima generazione.

Interessante lo spontaneo accostamento a Palazzeschi e, ancor più, a Ungaretti[19]. Interessante la menzione di Marianne Moore, poetessa carissima alla Cima, eppure mai altrove considerata né menzionata da Montale[20]. Come, del resto, la Cima stessa: di lei, del suo straordinario talento e della sua straordinaria poesia Montale si scordò di far menzione in tutta la sua opera edita e inedita, eccettuato il Diario postumo e i documenti annessi.

Inutile infliggere al lettore un’altra buona serqua di esempi analoghi o anche peggiori; inutile stupirsi se nel finale il recensore osa applicare alla Cima, in poche righe, un noto pensiero di Aristotele e un non meno noto aforisma di Eliot[21].

È ovviamente immetodico negare a Montale la piena licenza di esprimersi – qui e mai altrove, però! – in toni così ingenui e così incongrui; è immetodico negare a chicchessia – aggiungerebbe la Bettarini – il diritto di «rimbecillire». Certo, appare difficile attribuire a Montale la volontà strenua di destinare proprio al «Corriere», sede abituale di scritti ben più arguti e complessi, simili rodomontate o simili bambinate. Ma negarlo a priori non si può.

E allora, se trascorriamo dal piano alquanto aereo delle idee al piano più concreto della forma espressiva, cosa ne ricaviamo? La situazione migliora? Purtroppo no: anzi.

3. Sgrammaticature a profusione

Ecco una modesta selezione di movenze sintattiche del tutto estranee alla prosa montaliana anteriore, coeva o successiva:

1. l’apposizione brusca, al limite della sconcordanza, o l’accostamento frastico privo di ogni minima concinnità:

un libro inquietante, Terzo Modo di Annalisa Cima, versi che non sono sfuggiti all’attenzione di Vanni Scheiwiller.

Ora non vorrei più divagare in dissertazioni, ma è il caso di chiarire le idee al lettore.

La grandezza per lei non consiste nell’essere questo e quello, ma nell’essere sé stessa, un’estetica del vivere che è base di un’etica ferrea.

2. L’accumulo caotico di enunciazioni in paratassi, mediate da un asindeto affatto colloquiale, che privilegia – contro l’uso montaliano – la mera giustapposizione di brevi unità frastiche:

se dovessi far di lei una novatrice, la critica si scandalizzerebbe, il lettore italiano è alieno dalle tematiche toccate dalla Cima.

non mi stupirei se al di là dell’oceano trovasse più estimatori che da noi, la tradizione italiana manca di figure femminili di questo calibro.

Una poetessa ch’io apprezzo per l’agilità e l’acume con cui dissemina versi sapienziali, scelti nel passato e innestati nel presente[22], con forza ed eleganza, ma Annalisa Cima ci riserva altre sorprese, è in preparazione presso lo stesso editore la sua seconda raccolta etc.

È una grazia che si manifesta all’improvviso, in Annalisa s’è manifestata.

Sin da questo primo libro si riconosce nella Cima, hic et nunc, una voce importante del nostro panorama poetico, sono versi che valicheranno le frontiere, grazie anche ad un editore intelligente e a rari qualificati estimatori che capiranno lo spessore e la musicalità della sua poesia.

Annalisa Cima resta aristocraticamente in disparte, lontana dai presenzialismi e dai clamori dei suoi coetanei, le sue origini mitteleuropee, la cultura assorbita in famiglia, le consentono quella sprezzatura che gli scrittori delle ultime generazioni hanno dimenticata.

3. Gli svarioni sintattici come:

pentametri riecheggianti a metriche classiche etc.

4. La punteggiatura a dir poco sconclusionata, che è una costante macroscopica di questa prosa[23]; oltre agli esempi di sovrana disinvoltura censiti ai punti precedenti (1-2), si vedano ancora i badiali errori che seguono:

estranea ad influenze locali o contemporanee, a tal punto, da riportarci versi classici in chiave polifonica etc.

i temi di fuga e di sopravvivenza che s’avvicendano, preservano etc.

Le diaspore del dissenso” che la Cima auspica, non sono ancora giunte “non hanno creato il risveglio.

Davvero Montale poteva essere così indifferente alla tenuta formale di un suo testo, non certo destinato a una pubblicazione periferica, bensì al «Corriere»? Si resta increduli, ma si può ammettere che alcune di queste colpe siano imputabili a chi ha trascritto la recensione: per togliere ogni dubbio, basterà esibire i famosi «due foglietti» del dattiloscritto originale.

Solo di passaggio si osserverà che le stesse mende macroscopiche, con particolare riguardo all’uso delle virgole (quietamente poste fra soggetto e verbo, o comunque fra elementi essenziali della frase), caratterizzano le lettere-legato edite nell’Annuario Schlesinger 1996, molte liriche del Diario Postumo e la prosa di Annalisa Cima[24]. Ovviamente l’indifferenza alle più elementari e spontanee norme della punteggiatura non è un criterio attributivo valido: esso rischierebbe di apparentare il Montale postumo (e Annalisa Cima) a centinaia di tesi triennali di mediocre fattura. Si deve registrare con sconcerto, però, il fatto che svarioni simili affliggano gli scritti di Montale, in maniera tanto sistematica e diffusa, solo quando essi hanno qualche relazione con Annalisa Cima

4. Una prosa-collage: fonti e fattura della recensione

I fenomeni che abbiamo sottolineato sono strani, molto strani. Anche il più fanatico degli autenticisti – vogliamo sperare – ammetterà che essi richiedono una spiegazione. E la spiegazione, io credo, è assai facile: la prosa riesumata nel 2006 è in gran parte un collage, malamente condotto, di scritti giornalistici montaliani editi fra il 1968 e il 1971.

Una sinossi paziente restituisce risultati come questi:

1. Se dovessi citare il nome di uno scrittore giovane che si distingue per l’arte o lo scrupolo di guardare la vita dal buco della serratura io non potrei fare, accanto all’ottantenne Aldo Palazzeschi, che il nome di Antonio Barolini […]. Un paio di libri di versi non sono sfuggiti all’attenzione della critica, la quale, pur non facendo di lui un novatore, ha dovuto astenersi dal presentarlo come epigono […]. Il lettore italiano del testo inglese […] (E. Montale, «Corriere della Sera», 20 aprile 1968)

–> Un libro inquietante, Terzo Modo di Annalisa Cima, versi che non sono sfuggiti all’attenzione di Vanni Scheiwiller. Se dovessi far di lei una novatrice, la critica si scandalizzerebbe, il lettore italiano è alieno dalle tematiche toccate dalla Cima” (recensione a “Terzo modo”)

2. Egli [scil. Barolini] non fa che ritagliare e ridurre i margini del reale per lasciare intatto un habitat in cui l’uomo, non essendo padrone o autore di nulla, possa guardare in faccia senza vergognarsene la propria naturale infelicità” («Corriere della Sera», 20 aprile 1968) + La sua [scil. di Zanzotto] mobilità è insieme fisica e meta-fisica («Corriere della Sera», 1 giugno 1968)

–> Insomma, i temi di fuga e di sopravvivenza che s’avvicendano, preservano intatto un habitat al tempo stesso fisico e metafisico, si liberano dalle formule convenzionali, contestano il sistema e si nutrono delle contrapposizioni care ai poeti greci (recensione a “Terzo modo”)

3. Un’arte libera, che sferza ma si mantiene sempre su un piano di alta dignità formale e intellettuale («Corriere della Sera», 18 giugno 1968)

–> Si potrebbe comunque tracciare a priori una mappa degli estimatori e si constaterebbe la loro appartenenza a quella categoria di persone che praticano una scrittura libera, mantenendosi sempre su un piano di alta dignità intellettuale e innovativa (recensione a “Terzo modo”)

4. La lentezza, la monotonia, l’incolore opacità del mastodonte sovietico possono indurre chi vi soggiorna ad una sorta di claustrofilia” («Corriere della Sera», 14 marzo 1970) + Ricordiamo però che la cultura non si fabbrica, nasce da sé quando è giunto il momento propizio. E il momento stesso è una grazia che bisogna meritare” («Corriere della Sera», 27 gennaio 1970)

–> “Auguro ad Annalisa Cima di continuare la sua fuga, lontano dall’incolore opacità delle scuole contemporanee, di restare ancorata al suo modo-mondo nel quale la poesia non si fabbrica, nasce dentro; è una grazia che si manifesta all’improvviso, in Annalisa s’è manifestata” (recensione a “Terzo modo”).

Inutile moltiplicare gli esempi di questo meccanico taglia-e-incolla che puntualmente rende insensate, o addirittura traballanti, frasi che nei contesti d’origine filano senza intoppi. Si noti, infatti, il ritocco puntualmente in deterius delle espressioni originali; e si noti soprattutto come solo il confronto con gli scritti coevi permetta di spiegare alcune fra le più balorde affermazioni reperibili nella recensione a Terzo Modo. Ci siamo chiesti, per esempio, come potessero, i «temi di fuga e di sopravvivenza», trovarsi sottoposti a una personificazione a dir poco brusca, che li renderebbe capaci di ‘preservare un habitat’ (quale?) o ‘contestare il sistema’; bene: ora sappiamo che nel contesto d’origine è un soggetto animato – il poeta Barolini – a conservare intatto un habitat dalle caratteristiche nient’affatto vaghe. Ci siamo chiesti, allo stesso modo, come si giustificasse la sparata relativa alla poesia che «nasce dentro», frutto nientemeno che della «grazia»: ora sappiamo che in altro luogo, con ben altra coerenza concettuale e stilistica, Montale applica tali termini alla cultura diffusa di una città (Milano), una cultura che non si può ‘fabbricare’ a tavolino o imporre ex alto, e dipendente invece da condizioni storico-politiche che ‘bisogna meritare’ (altro che magica ‘grazia’!). Ciò è vero anche nei dettagli di singole iuncturae: l’abborracciato «divagare in dissertazioni», con quel «dissertazioni» impiegato in accezione non sua, deriva da un’infelice aggiunta a un’espressione in sé linda; l’«alta dignità intellettuale e innovativa» – con dicolon aggettivale a dir poco strambo: che cosa è mai l’«alta dignità innovativa»? – si può intendere o raddrizzare alla luce della più perspicua «alta dignità formale e intellettuale». Non si mancherà di osservare, inoltre, come la maggior parte dei prelievi cadano in concomitanza di giunture asindetiche abborracciate, inconcinnità vistose, etc.: questo collage mostra benissimo le proprie incerte suture.

Chi ha confezionato la recensione a Terzo modo ha lavorato OVUNQUE così. Fino al grottesco giudizio sulla poesia della Cima: «per Annalisa Cima, come del resto per me, l’argomento della poesia è la condizione umana in sé considerata: non questo o quell’avvenimento storico-politico, e ciò non significa che ci si estranei da quanto avviene nel mondo, significa solo aver la coscienza e la lucidità di non scambiare l’essenziale col transitorio». Tale giudizio, purtroppo, si trova identico – ma applicato da Montale a se stesso ‒ in una celebre intervista radiofonica del 1951, riproposta da Zampa in Sulla poesia (1976): «l’argomento della mia poesia (e credo di ogni possibile poesia) è la condizione umana in sé considerata; non questo o quello avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare l’essenziale col transitorio»[25]. Unica differenza saliente (a parte qualche bruttura di dettaglio che contrassegna, guarda caso, il reimpiego del 2006) è l’addizione «come del resto per me», che a questo punto suona decisamente comica.

5. Minime conclusioni: che ne pensa il Melangolo?

Alla regola del collage (ma è un collage frettoloso e puerile, fatto da qualcuno che legge e non intende) obbediscono pressoché tutti gli inediti presunti montaliani usciti finora dai forzieri di Annalisa Cima. Nel mio volume ho raccolto esempi a manciate dello strabiliante fenomeno, e non starò a ripetermi qui: del resto, quanto censito e analizzato da Isella nel 1997 sarebbe dovuto bastare. Chi vorrà ribattere, naturalmente, dovrà trovare paralleli convincenti (per qualità e per quantità!) nel Montale senz’altro autentico; e farà, temo, una gran fatica. Come farà fatica – ciò sia detto in anticipo – a liquidare il problema invocando la casualità.

Veda intanto il lettore laico che pensare di tutto questo. E provveda il Melangolo, magari, a chiedere indispensabili chiarimenti circa la vera origine di questa prosa: sarebbe, da parte di un editore serio, un gesto di doverosa serietà.

Note

[1] A. Cima, Terzo Modo, a c. di C. Angelino, postfazione di E. Montale, Genova, il melangolo, 2006. La raccolta fu edita per la prima volta a Milano, da Scheiwiller, nel 1969. La seconda edizione, sempre per Scheiwiller, è del 1970.

[2] A. Cima-E. Montale, Il Terzo Modo di Annalisa Cima, «Nuova Antologia», 607, 2011, pp. 133-139.

[3] Così racconta la Cima già nel 1986; cf. S. Del Pozzo-M. Dini, Che tesoro, il caro estinto, «Panorama», 5 ottobre 1986, pp. 136-141. L’insonnia è un effetto che le poesie della Cima torneranno a esercitare su Montale nel 1977, all’uscita della raccolta Sesamon: «“non ho potuto dormire”, disse» (A. Cima, Le occasioni del «Diario postumo». Tredici anni di amicizia con Eugenio Montale, Milano, Edizioni Ares, 2012, p. 117).

[4] Cima, Le occasioni, cit., p. 32.

[5] È il termine che almeno uno dei legati testamentari che la Cima ha attribuito a Montale – il nr. 18 – fissa per la rivelazione delle ‘Conversazioni’ inedite: cf. E. Montale, Lettere-legato (1972-1980), «Annuario della Fondazione Schlesinger», VIII, 1996, pp. 51 e 73.

[6] L’ultima versione dei fatti è in Cima, Le occasioni, cit., pp. 31-33. Per una sinossi delle difformi versioni, e per un tentativo (assai faticoso) di far quadrare dati e date, cf. F. Condello, I filologi e gli angeli. È di Eugenio Montale il «Diario postumo»?, Bologna, Bononia University Press, 2014, pp. 23-25 e 309-312.

[7] Cf. Cima, Le occasioni, cit., p. 32.

[8] Forse però se ne ricorda la Cima, che ne avrà compreso appieno il senso, quando, nel 1994, commenta a questo modo le ultime novità del Diario Postumo, da poco edite: «i finti scossoni della metrica rimbalzano sui versi classici con imprevedibile forza; poi diviene atonale, distaccato, sfoltisce rime e geometrie convenzionali» (A. Cima, Agli amici. Da Montale, «L’Unità», inserto «L’Unità2», 26 gennaio 1994, p. 2).

[9] Contestato il sistema è l’ultima delle poesie di Terzo Modo, notevole per il tono scandalistico-apocalittico, impreziosito da vibranti stoccate omofobiche: «contestato il sistema, / gettiamo fiori neghiamo il passato, / permessi i connubi tra fratelli: / plauso al gusto che cambia, / benedette le nozze omosessuali: / gioco in attesa di inutili natali, etc.».

[10] Cf. e.g. E. Montale, Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a c. di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1996, p. 2941: «quei titani dell’aggiornamento porno-sociologico che contestano “il sistema” ritraendone lauti vantaggi» (da Vivere a Milano [1970]); ibid., p. 2948: «la contestazione sistematica del cosiddetto “sistema”» (da Cultura e partecipazione nella Milano degli anni ’70 [1970]).

[11] L’unico appiglio, nella raccolta, è fornito dalla lirica Armonia (Terzo modo, cit., p. 13 dell’edizione 1969 = p. 20 dell’edizione 2006), dove in effetti si specula su identità, contrari, «non lotta, ma raggiunta armonia», e altre nozioni consimili. Però qui si parla di pitagorismo («ordine del mondo quale fu / dei pitagorici, / comunicazione fra monadi»). Confidiamo che Montale non confondesse Pitagorici e «poeti greci». Vero che distinzioni troppo pedanti appaiono estranee alla Cima, per la quale gli «Stoici» sono «Temistio, Galeno», mentre Tertulliano è collocato dopo Galeno e finanche dopo Temistio (cf. la noticina a spiegazione di ‘traducianesimo’ in Terzo Modo, cit., edizione del 2006, p. 19).

[12] L’immagine, del resto, è cara alla Cima stessa: cf. Degli altri, in La genesi e altre poesie (1971): «assorbono in sé l’immanenza / del movimento a ritroso».

[13] Cf. rispettivamente «Settimio Felton» romanzo ricostruito (1967), in Zampa, op. cit., pp. 2848-2851, in part. p. 2851; Critica senza giudizio (1967), ibid., pp. 2869-2872, in part. p. 2871; Il crematorio di Vienna (1970), ibid., pp. 2937-2940, in part. p. 2937. Uniche eccezioni, le pagine in cui Montale discorre di URSS e di purghe staliniane (cf. e.g. ibid., pp. 2895-2900): ma qui la ‘libertà’ dell’arte e dell’artista va intesa in senso assai concreto.

[14] Il paragone fra la Cima e Saffo ritorna in Diario Postumo, 61. Ma cf. anche Cima, Le occasioni, cit., p. 35: «“un diario parallelo”, approvò sorridendo: “Io sarò il tuo Alceo e tu la mia Saffo”» (presunte parole di Montale, pronunciate quando egli avrebbe donato alla Cima la prima poesia del futuro Diario postumo).

[15] La critica «autorevole» (1967), in Zampa, op. cit., pp. 2843-2845, in part. p. 2843.

[16] A. Cima in P. Chessa, Per un verso davvero inedito, «Epoca», 23 gennaio 1991, p. 49.

[17] A. Cima in F. Amoni, «Sì, sono io l’erede di Montale», «Il Giorno», 8 aprile 1997, p. 18.

[18] Cf. e.g. Zampa, op. cit., pp. 2779-2782, 2828-2830, 2869-2872, etc.

[19] La Cima si è sempre impegnata a negare – con poca fortuna – il cliché del contrasto fra i due: «a proposito di Ungaretti, lui e Montale non si amavano molto. “Non è vero niente, Montale sapeva che l’altro lo criticava, ma diceva: è fatto così. Forse a quel tempo io, che andavo dall’uno e dall’altro, ho contribuito a migliorare il loro rapporto”» (A. Cima in M. Dzieduszycki, La Cima delle mie brame, «Europeo», 10 gennaio 1991, pp. 100-102, in part. p. 102; ma è una dichiarazione fra le tante).

[20] Giova ricordare che a Marianne Moore la Cima dedica nel 1968 uno dei libretti – il nr. 6 – appartenenti alla serie dell’«Occhio Magico», da lei curata presso Scheiwiller. Dello spasmodico interesse di Montale per la Moore ci informa ora Cima, Le occasioni, cit., p. 22: «quando cominciammo a frequentarci, Montale volle sapere tutto del mio incontro con Marianne Moore a New York».

[21] «E se la poesia è più filosofica e di più alto valore che la storia, ancora una volta si riconferma la tesi che il grande poeta, nello scrivere sé stesso, scrive il suo tempo e questa definizione s’attaglia perfettamente alla poesia di Annalisa Cima».

[22] A cosa si riferirà? Forse alle non rare citazioni latine; recensendo Aegri somnia per il «Corriere del Ticino» (19 agosto 1989, p. 13), Vico Faggi commentò in modo analogo: «è tempo di segnalare l’uso, che Annalisa fa con molta pertinenza, delle inserzioni latine. Incastonata nel testo, la parola antica sprigiona intorno a sé, per irradiazione, un alone poetico sapienziale».

[23] Caratteristica condivisa – lo si nota di passaggio – dalle lettere-legato edite nell’Annuario Schlesinger 1996.

[24] L’ho documentato, con esempi in verità imbarazzanti, in I filologi e gli angeli, cit., pp. 222-225 (le lettere-legato), 383s. (le poesie del Diario postumo), 384s. (prose di Annalisa Cima).

[25] E. Montale, Sulla poesia, a c. di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1976, p. 569. Si tratta dell’esordio: il prelievo era facile.

7 thoughts on “Un’inverosimile prosa “di Montale” proveniente (come al solito) da Lugano

  1. Mi complimento vivamente con Condello, e nel frattempo mi chiedo: vedremo mai le famigerate tre copie di ‘Terzo modo’ stampate nel 1969 e non orbate di questa eulogica prosa? Che la Cima attenda un’altra lettera aperta prima di presentarci tutti i «gioielli dello scrigno»? Encomiabile, ad ogni modo, la modestia della poetessa, che tutto avrebbe voluto fuorché essere sponsorizzata da una delle principali figure della cultura italiana dell’epoca. Lei voleva camminare sulle proprie gambe, non su quelle di Montale. Anzi, quasi desiderava che fosse Montale a camminare sulle gambe di lei, come tutti possono vedere nello scatto in cui l’ottima Annalisa viene paparazzata a Forte dei Marmi mentre prontamente offre il braccio al vegliardo; quel vegliardo che, per la «Emily / della lombarda alta borghesia», è al tempo stesso Alceo, nonno e madre disposta a custodirla nel (o a espellerla dal?) ventre. Da ricordare, a tal proposito, il verso «anch’io sarò alvo per chi non mi smemora», dove la poca dimestichezza con un arcaismo come «smemorare» porta l’autore a cadere, proprio quando sperava di raggiungere le vette del sublime, nell’inconsapevole violazione della grammatica: che barlume di poesia!

  2. Evidentemente Ceccuti la crede autentica:

    Il che non significa che lo sia.

    Andrebbe interpellato Ceccuti.

  3. “È un universo di forme semplici; il singolo disegno si caratterizza, più che in sé, nel confronto con le sue variazioni, come si trattasse di fotogrammi successivi d’un movimento certo lentissimo. (…) Alla prima impressione di immobilità se ne sostituisce dunque un’altra: quella dello sgranchirsi di una vita geometrica. Ma è ancora un’immagine incompleta: infatti le forme anulari, solcate da fitti intrecci, si presentano come l’immobilizzazione di un precedente movimento intenso anche se legato a un centro di attrazione costante. (…) Soggette alla stessa recursività dei disegni, le parole-chiave, riapparendo lungo il ciclo, offrono, più che indicazioni sulla tematica, una vera sintesi ideale, materiali a disposizione per una possibile archi-poesia. (…) L’astrazione perciò non è orientata verso il concetto, piuttosto si sforza di fermare delle intuizioni, di cogliere dei significati primari, al di qua o al di là dell’elaborazione razionale. (…) Questa poesia pare debba escludere la sollecitazione connotativa dei significanti: i quali possono al massimo ripercuotere gli echi di operazioni attuate direttamente sui significati”.
    Chi riconoscerebbe, in questo vaniloquio, l’esemplare rigore metodologico e terminologico di Cesare Segre?
    Eppure, è precisamente la sua prefazione a “Immobilità” di Annalisa Cima.
    Ed è sicuramente autentica, perché Segre era vivo e vegeto (ma non si sa quanto lucido quando aveva a che fare con la Cima).
    Ecco la mia semplicistica, maschilistica e riduzionistica spiegazione di tutto.
    Guardate le foto di Annalisa Cima da giovane, e anche da un po’ meno giovane (si trovano facilmente in rete).
    Era, diciamocelo, una Fi** Spaziale.
    E davanti alla Dea Fi**, gli uomini, anche se grandi poeti, grandi critici o grandi tutto quel caspio che volete, agiscono decisamente “al di qua o al di là dell’elaborazione razionale”.
    Il che rende tutto possibile, altro che poesie prefazioni etc. etc. etc.

  4. “Ci piacerebbe sapere, poi, quali siano le «contrapposizioni care ai poeti greci». Forse si allude a qualche presocratico non fra i più noti”.

    Legga Euripide (a tacer d’altri). Se poi Empedocle e Parmenide (che se non erro scrivevano poemi) per lei non sono fra i più noti, legga un manuale di filosofia.

    Poietài theologoùmenoi, Poetae theologi… Urge lettura di Aristotele e Agostino.

    “Confidiamo che Montale non confondesse Pitagorici e ‘poeti greci'”.

    Io confido che conoscesse i “Versi Aurei”.

    (Piccolo spot estemporaneo: http://libreriarizzoli.corriere.it/Versi-aurei.-Testo-greco-a-fronte/8876980164/pc )

    “Vorremo avere maggiori lumi sulle strofi che accomunerebbero Leopardi e d’Annunzio, a loro volta ispirati dai modelli Virgilio e Dante”.

    Legga l’ottava egloga. “Numero deus impare gaudet”. Donde il principio della terzina dantesca (per saperlo, basta wikipedia).

    Canzone libera in Leopardi (derivante, stroficamente, dalla barocca “canzone a selva”); “srofe lunga” di D’Annunzio, versi di varia lunghezza, perlopiù imparisillabi. O, se preferisce, meglio ancora, la strofe di “Maia”: “Tre volte sette: la strofe / qual triplicata sampogna / di canne ineguali risuona”. Ancora l’Impari, ben pitagorico.

    “Et pour cela préfère l’Impair / Plus vague et plus soluble dans l’air”…

    I pentametri sono evidentemente quelli inglesi. Montale tradusse Shakespeare. E lamentò, per converso, nell’italiano, il “pesante linguaggio polisillabico”.

    “La tempesta di metafore stordisce”.

    Certo. Se non si possiede la cultura di Montale. O quella ch’egli si attende dai suoi lettori.

    Su una cosa concordo: Leopardi ci sta un po’ – avrebbe detto De Sanctis – a pigione.

    Legga legga legga… Lo dico sempre ai miei alunni del ginnasio.

    Molti nessi logici, certo, sono impliciti.

    Erano gli appunti per la presentazione del libro alla Galleria Borghese.

    Donde la punteggiatura e la sintassi vicine all’oralità.

  5. “Smemorare” transitivo, con varie sfumature, è attestato nella poesia novecentesca (Lucini, Onofri, Ungaretti) e anche in prosa (Bacchelli, che potrà essere palloso, ma non era uno sgrammaticato, bensì un purista).

    Vedere ad vocem il GDLI del Battaglia.

  6. No, nonostante il commovente tentativo di riabilitazione compiuto da un altro commentatore, è bene ribadire che si tratta di un centone di lacerti montaliani di varia provenienza.

    Nel mio piccolo, aggiungo un’altra tessera.

    “… tende, quasi certamente, a risuscitare le strofe classiche che già Leopardi e D’Annunzio avevano assorbite da Virgilio e Dante” ricalca, goffamente, con maldestri rimpiazzi lessicali, un passo di un articolo del 1971 su Valéry, la cui poesia “tende alla scultura, risuscita le grandi strofe classiche che già Hugo e Lamartine avevano mutuato da Malherbe, da Racine e da Rousseau” (“Il secondo mestiere. Prose”, tomo II, Milano 1996, p. 2988).

    C’è da dire che anche Hugo e Lamartine non sembrano avere molto in comune, sul piano strofico, con Malherbe, Racine (che non costruiva “strofe”, scrivendo tragedie, a meno che non si alluda alla sua poesia religiosa, peraltro metricamente diversa dalla poesia di Hugo e Lamartine) e Rousseau, famoso soprattutto per la prosa, essendo marginale la sua poesia in versi (a meno che non si alluda non a Jean-Jacques, ma Jean-Baptiste Rousseau, anch’egli, però, famoso soprattutto come drammaturgo…).

    Insomma, Montale, anche negli articoli autentici, quando istituisce analogie strofiche fa un po’ di pasticci.

    Forse intende “strofe” in senso non strettamente metrico, ma come strutture musicali, in senso lato.

    Infatti parla di “strofe” anche a proposito della prosa di Enrico Pea.

    Gli faceva difetto, a volte, il rigore filologico.

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