di Andrea Bajani
[Questo articolo è uscito su «Alias»].
Il dolore, nei romanzi di Jón Kalman Stefánsson che abbiamo letto sin qui, era un sasso che il destino metteva sulla schiena degli uomini indicando loro la salita da fare. Nella trilogia che l’ha rivelato ai lettori italiani nel 2011 con la pubblicazione di Paradiso e inferno, cui sono poi seguiti La tristezza degli angeli e Il cuore dell’uomo (tutti Iperborea, tutti nell’elegante ed empatica traduzione di Silvia Cosimini), la sofferenza stava dentro la vita degli uomini come un’artrosi di cui era tanto impossibile quanto inutile liberarsi. In quel mondo primario, fatto di mare e di pesca, di paure e speranze, di attese e scoperte, agli uomini spettava il misero compito di un attraversamento: quello di una passerella di tempo in un Tempo più grande. Vivere, nei romanzi della trilogia (che valse a Stefánsson la finale nei premi Bottari Lattes Grinzane e Von Rezzori nel 2012), non era che questo passaggio tra il primo e l’ultimo giorno di un’esistenza scandita dai giorni. La morte arrivava così, come l’inevitabile accidente che semplicemente dava la misura alla lunghezza della passerella. Era quello che fermava il cronometro, certificava la durata dell’attraversamento. Questo era la morte, questo era la vita.
Il dolore era il resto: il peso da portare, una fitta inseparabile dal respirare. Nel tempo in cui i tre romanzi sono ambientanti, che è un punto imprecisato e tutto sommato atemporale del secondo Ottocento, soffrire era un aspetto del vivere di pertinenza del Fato. Non era dato all’uomo sapere il come liberarsi dalle catene, né in fin dei conti il pensiero che lo si potesse fare davvero. La prosa lirica di Stefánsson era la corda a cui si aggrappavano nella salita gli uomini e le donne delle sue storie senza sapere dove avrebbe portato la strada. Così l’incipit di Paradiso e inferno: “I monti incombono sulla vita e sulla morte e su queste case che si stringono una sull’altra sulla lingua di terra. Viviamo nel fondo di una conca, il giorno passa, si fa sera, si riempie a poco a poco di tenebre, poi si accendono le stelle. Brillano in eterno sopra di noi, come se portassero un messaggio urgente, ma quale, e da parte di chi? Cosa vogliono da noi, o forse piuttosto: cosa vogliamo noi da loro?”. L’uomo che racconta Stefánsson nella triologia sta lì, in questa domanda senza interlocutore, perché l’uomo non domanda ai monti e in ogni caso non aspetta risposta. E se anche chiede qualcosa alle stelle sono desideri più che spiegazioni, coincidenze di luce che segna uno sbrego nel buio e speranze umanissime e fragili. La natura islandese (inevitabile e quanto mai feconda per noi l’eco di Leopardi che risuona in questo paradiso miltoniano perduto due volte) era l’evidenza di questa sordità alle vicende dolorose degli uomini.
Incombono i monti, incombe il mare, incombe la morte che non restituisce alla terra gli uomini dopo una battuta di pesca. L’acqua trascina i morti sotto la superficie, i vivi ritornano a riva con il pesce pescato, qualche donna piange quelli che non ce l’hanno fatta e poi tutto ricomincia da capo: ancora domande a cui nessuno risponde, e speranze, e il freddo, e il giorno e la notte. E soprattutto, infine, le parole, che sono l’evidenza di un ennesimo scacco ma sono anche l’evidenza che quel peso da portare sulla schiena può essere suddiviso per frasi, e quindi pesare di meno. “Ti consegniamo le nostre parole – ancora in Paradiso e inferno – queste squadre di soccorritori smarriti e dispersi, insicuri del loro ruolo, tutte le bussole rotte, le carte geografiche strappate o superate, ma tu accettale comunque”.
I pesci non hanno gambe, che Iperborea pubblica adesso e ancora nella traduzione di Silvia Cosimini, segna non solo la fuoriuscita dalla trilogia ma la fine, la crisi di un’estetica del Destino. Non siamo più nel Tempo assoluto di quell’Ottocento eternizzato, ma ai giorni nostri, tra Copenaghen e la piana di Keflavík, in Islanda. Non siamo più tutti sintonizzati sul battito del cuore dell’Uomo che nasce, lotta, muore, ma dentro le vita di Ari, poeta ormai “ex” ed editore di volumi trascurabili dal grande successo di vendite. Il Tempo è caduto in terra – sembra dire Stefánsson – e questa scheggia, questo tempo con una t piccola piccola è tutto quello che ho. Prima l’epica, ora la parabola biografica. Prima il silenzio ottuso dei monti, ora un aereo per sorvolarli. Su quell’aereo c’è appunto il protagonista, Ari, che di colpo abbandona la famiglia in Danimarca (una moglie e tre figli cresciuti) per fare ritorno in Islanda. Sembrerebbe una chiamata del Destino – l’avvicinarsi della morte del padre e il conseguente ritorno alle origini – ma Stefánsson ci dice chiaramente che non è altro che un pretesto. Il padre di Ari si è avvicinato più volte a quella soglia, non l’ha mai passata, e soprattutto le altre volte che è successo, il figlio non ha mandato la propria vita a carte quarantotto. L’ha affrontata come una faccenda pratica, e come tale l’ha superata. Ora però non è più così: di mezzo c’è una donna, di cui la moglie di Ari ha trovato tracce nel telefono di lui. Niente di che, veniamo a sapere, ma comunque la promessa, o anche soltanto l’ipotesi, di una felicità alternativa. E dunque il pensiero che l’abbandono del tetto coniugale possa rappresentare per Ari una soluzione a quella specie di infelicità che vive tutti i giorni, e dunque una possibile via d’uscita dal dolore.
Sta tutta qui la rivoluzione copernicana che I pesci non hanno gambe (primo di due volumi di una saga in corso di pubblicazione) rappresenta nel percorso artistico e verrebbe da dire esistenziale di Jón Kalman Stefánsson. L’idea che il dolore non sia più appannaggio del Fato ma degli uomini e delle donne, e che dunque stia agli uomini e alle donne trovare delle pratiche per ridurne il peso quando non per provare addirittura a debellarlo. Per questo la storia di Ari, di sua nonna Margrét sveste i panni del Tempo e cade giù nel tempo degli anni Ottanta, con i Pink Floyd, i Beatles, l’adolescenza islandese, la base militare USA, la scoperta del sesso, la nudità esibita, la trasgressione. Altro non è che la parabola biografica di Ari che abbandona il Tempo della poesia e si dedica con profitto a pubblicare libri di procedure in dieci passi per essere felici: “Aspiriamo a una soluzione, aspiriamo alla serenità, ma non abbiamo tempo, non abbiamo la pazienza, non abbiamo la tenacia per cercarla e ingoiamo riconoscenti soluzioni veloci”. Eccoli, i libri a cui si dedica Ari: “Dieci modi per smettere di bere, di ingrassare, di rimpiangere, di aver paura, dieci modi per vivere, raramente sono più di dieci, non ce la faremmo ad assimilarne di più, dieci come le dita, dieci come i comandamenti”. Smettere di pensare che il dolore sia un’artrosi della vita, prendere la propria sofferenza in mano e poi curarsi. E dunque: non più le parole per affrontare l’ignoto là dove ogni pratica ulteriore sarebbe fallimentare (“Dove finisce il gasolio, comincia la letteratura” e “Le lacrime cominciano forse dove si fermano le parole, sono messaggi dal profondo, dall’abisso insondabile e incontaminato”), ma le parole di servizio di un manuale d’istruzioni per essere felici. I pesci non hanno gambe racconta tutto questo: l’Uomo che si scrolla il Dolore dalla schiena perché pensa di aver capito come fare, e in un istante diventa piccolo e meschino, fedifrago e penoso. Racconta che cosa succede al Tempo quando cade (gli anni Ottanta sembrano più vecchi e ingialliti, anche nella scrittura, dell’Ottocento della trilogia), con tutta la maestria di uno dei più importanti scrittori europei in attività. Perché Stefánsson sa che la letteratura è anche la certificazione di questo fallimento, e sa far vedere cosa succede quando l’epica si accartoccia e quel che resta è poco o niente. Saltano fuori uomini e donne spauriti, nevrotici, con dolori ridicoli che rosicchiano il sonno promettendo altrettanto ridicole felicità future.
[immagine: Jón Kalman Stefánsson]