di Alessandro Giammei
Li ho persi molto presto, ahimè, ma quando ero ragazzino ero fissato coi miei capelli e tendevo a farli crescere — e a curarli, niente capellonismo pasoliniano. Alle medie però, proprio i primi mesi, cominciarono a prendermi in giro con il goffo imbarazzo della pre-adolescenza (un bullismo in fondo mite, da Roma sud) e ritrovai il coraggio di portare i capelli da femmina solo intorno ai sedici anni, quando praticamente già esistevano gli emo. C’era un gioco per soli maschi (le cui dinamiche mi restano in sostanza oscure ancora oggi) che si chiamava teschio e consisteva appunto nel gridare teschio mentre si toccava rapidamente l’inguine di un altro ragazzino, il quale doveva piegarsi per schivare il colpo e poi passarlo a qualcun altro ancora. Non saprei dire chi alla fine vinceva, o cosa. La prima e unica volta che fui coinvolto, pensando di agire in modo assai coatto (come si diceva), mi contrassi per cercare di rimanere impassibile all’arrivo del teschio: chi me lo passava reagì dicendo che ovviamente restavo fermo non perché fossi particolarmente mascolino, ma anzi perché tra le gambe avevo una fica invece che le palle. A quel punto cominciai a tagliarmi i capelli corti e continuai, come dicevo, per cinque anni almeno.
Ho ripensato al mio banalissimo trauma del teschio qualche settimana fa, quando su tumblr mi sono imbattuto in un meme con la classica operaia russa da propaganda sovietica e la frase «Why do people say “grow some balls”? Balls are weak and sensitive. If you wanna be tough, grow a vagina. Those things can take a pounding». Malgrado l’elementare stratagemma verbovisivo che lo connota politicamente nella versione che trovai, google attribuisce largamente il ragionamento a Betty White, un’icona dello spettacolo che si è sempre pronunciata tiepidamente sul femminismo ma che qualcuno definisce oggi feminist role model. Googlando ‘grow a vagina’ si raggiungono un’enormità di meme diversi (quelli, appunto, esplicitamente veterofemministi, quelli neutri delle ecards, quelli neo-feminist con glitter e pupazzette, e finalmente anche quelli con la faccia o almeno il nome di White) e anche thread di forum in cui ci si interroga genuinamente sul cortocircuito tra parola e cosa nell’uso metaforico dei genitali. L’elemento più interessante di tali epifanie lessicali in rete è la tendenza — non maggioritaria, ma inquietantemente diffusa — a tornare a soluzioni logiche da fisiologia medievale: la vagina in realtà è debole perché è un pene ‘interiore’ o non formato, i testicoli in realtà sono forti perché producono ormoni che danno forza, la vagina predispone naturalmente le femmine all’aggressione dei maschi e così via. La verità ovviamente è che i miei compagni delle medie avevano inavvertitamente fatto centro ed erano, in fondo, sulla linea di Betty White.
Mi interessa, come si sarà capito, fare un discorso (temo non poi così raffinato) di gender identity in prospettiva cis-maschile e femminista, di rapporto tra sesso genere e linguaggio (sia verbale che visivo), assecondando altri due discorsi che hanno avuto una significativa fortuna in rete negli ultimi mesi: quello — che mi è parso straordinariamente potente e facile da seguire — alle Nazioni Unite di Emma Watson (altro felicissimo feminist role model in cui pure io, devo dire, mi identificavo da lettore/spettatore adolescente di Harry Potter), e quello di Beata Tiskevic-Hasanova (ancora un’attrice) e della fotografa Neringa Rekasiute sull’improvvisa leva militare obbligatoria di ragazzini in Lituania a causa dell’instabilità della situazione ucraina. Watson, lanciando HeForShe, ha formalmente invitato i maschi alla causa femminista, posando un inaspettato accento sulla bilateralità dei pregiudizi di genere e sulla trasversalità del bisogno di equality; le due inventrici di They Won a Lottery hanno fotografato quattordici ragazzini (di una bellezza sconcertante e con cui è facilissimo entrare in empatia, visto che sembrano rastrellati da Williasmburg o Berlino piuttosto che da Vilnius) mentre piangono vestiti da soldati. L’idea di Tskevic-Hasanova e di Rekasiute è nata come reazione al dissenso raccolto sui social network dai teenager lituani coscritti che desideravano rifiutare il servizio militare, e in rete riceve a sua volta commenti come questo (che copio dalle risposte a un post della fotografa su boredpanda): «These men here ARE NOT real men, they are hipsters. These men were spoiled when they were young, look at them now. They are big pussies». Anche della proposta di Watson si è discusso aggressivamente — specie su twitter, dove alcuni hanno trovato di per sé sessista l’hashtag stesso #heforshe — ma al di là degli haters mi pare particolarmente interessante che il Telegraph abbia definito la portavoce ONU «A Disney princess with balls».
È ovvio a questo punto dove voglio andare a parare. Se Watson avesse sul serio le palle — o se le avesse Laura Boldrini, o Angela Merkel, o Sheryl Sandberg — non sarebbe letteralmente più vulnerabile? Se i ragazzi in mimetica e lacrime avessero una pussy (oltre a evitare per diritto fisiologico la coscrizione, visto che — cito il capo del parlamento lituano — «le donne devono occuparsi della famiglia e fare bambini mentre i maschi entrano nell’esercito» non correrebbero meno rischi, non sarebbero meno esposti al dolore e meno fisicamente fragili? I genitali sono una sineddoche assurda, al di là dell’inerente assurdità degli stereotipi di genere, e ancora più assurdo è immaginare di dare forza e durezza a un corpo femminile aggiungendovi testicoli, o di indebolirne uno maschile con una vagina. In un’allucinante canzone punk (My vagina) Fat Mike canta giustamente, beandosi di aggiungere al suo male privilege anche una fica nuova fiammante: «Now I show all my friends / My new designer cunt / They think I’m kinda weird / But that’s OK with me / Cause now I kick their ass / Playing from the ladies tee / Theres nothing finer than having a vagina». La cerca arturiana della vaginoplastica in Invisible Monsters prescinde dal fatto che Brandy Alexander, per tagliare con l’accetta la fabula del cult di Palahniuk, si riveli essere un maschio assetato di autonomia più che una transgender M to F, e resta tra le poche cose stabilmente autentiche della trama. La grottesca scena di Zombie Strippers in cui le spogliarelliste non-morte adoperano le loro vulve come fucili per sparare palle da bibliardo nel night club ha molto più senso, a pensarci, della correlazione metaforica — antica, e arrivata indenne a Umberto Saba, a Lucio Dalla, a Stefano Benni — spada-pene (quale spada si piega sotto il rubinetto dell’acqua fredda?), o di quella vagina-fiore che Georgia O’Keeffe, malgrado la vulgata, ha sempre rifiutato.
In margine e a corollario del meme di White mi domando dunque: perché si chiama fighetta chi sembra fragile di cuore e coglione chi sembra duro di testa? Perché i ragazzini lituani sono pussies ed Emma Watson è una ragazza with balls? Posto che ogni persona dovrebbe individualmente sentirsi libera di essere e manifestarsi sensibile/fragile o aggressiva/dura al di là di qualsiasi incidentale caratteristica fisica, quanto è faticoso e antieconomico associare linguisticamente simili qualità non ad oggetti della cultura, dell’identità, dell’espressione di genere, ma ad elementi dell’anatomia sessuale che rispondono a caratteristiche opposte? Una vagina assoluta è più somigliante agli stereotipi della maschilità rispetto ad assoluti genitali maschili, e viceversa.
Compiuto questo modesto scarto cognitivo (che forse sarà ovvio, ma mi ha colto di sorpresa) vale la pena di ri-incollare i genitali ai corpi e i corpi alle identità e agli stereotipi. In La viandanza di Biancamaria Frabotta c’è una poesia famosa e tradotta che parla di uno splendido bambino non-nato, Post coitum test:
Perfino un voto e intorno a me il vuoto
ma nulla valse a scalfirlo
quello splendido utero senza costrutto
quel cavo oscuro imbuto che così
strenuamente tenne testa
al capitombolo innamorato del tuo codino
pavoneggiante.
Eiaculato limpido,viscosità normale.
Soltanto la reazione si dimostrò alcalina
ma la vitalità spenta in quell’ora dura
risorse e ancora dura…
E dire: sarebbe nato un così bel bambino.
E invece: nemmeno fosse un serpente
da addomesticare
un sibilo lungo di vento confuse nei mari mossi
del grembo il tuo biondo vanto di generare.
È facile, tenendo presente che Frabotta è stata (ed è) forse la voce letteraria più alta del femminismo italiano — nonché una femminista militante, autrice di studi politico-filosofici di genere —, leggere «codino pavoneggiante» in senso derisorio, diminuente più che diminutivo. In questo momento tuttavia il tono mi sembra due volte quello protettivo, sorridente della madre, o meglio della donna solida come una vagina di fronte a un tu (e poi a un lui) fragile come un testicolo o un pene: «tuo codino» rima con «bel bambino», e questa è l’unica rima oltre a quella equivoca, ricca e baciata «ora dura»:«ancora dura» (che, tra l’altro, bene si oppone alla prima marcando con enfasi l’aggettivo pur mai riferito alla soglia dell’inespugnato utero senza costrutto). Quando, a undici anni, scoprii i pavoni a Holland park, il modo in cui ho imparato la differenza tra chi ha il pene e chi ha la vagina mi impediva di credere — lo ricordo benissimo — che quelli colorati con la coda fossero i maschi e quelli bruni senza coda fossero le femmine. Quando Ruggiero in balia di Alcina opta per vesti morbide, indossa collane e bracciali, si lascia pendere fili d’oro dalle orecchie diventando una specie di adoncino, non cede forse alla natura inerente del sesso che ha tra le gambe, a sua volta un pendaglio molle e pavoneggiante? E Bradamante che lo salva per interposto incantesimo dal giogo della strega non somiglia a sua volta, imbattibile e avvolta dall’armatura, alla natura anatomica dei suoi genitali capaci di strenuamente tenere testa ai capitomboli innamorati degli altrui codini? Il pavone non è d’altronde affatto l’unico, si sa, tra gli animali presso cui le più evidenti differenze fisiche contrastano coi rimproveri di Atlante. Dopo aver letto la poesia di Frabotta viene da ridere ricordando la qualità metaforica (utero – navicella – femminilità e intelletto – fragile forza) di molti commenti giornalistici al rientro di Samantha Cristoforetti dallo spazio.
Tutto questo discorso mi porta a pensare che la mia legittima intenzione di somigliare agli altri maschi alle medie non avrebbe dovuto portarmi a tagliare i capelli (il codino pavoneggiante), ma a mostrarmi invece fragile all’arrivo del teschio come si aspettavano tutti. A non trovare imbarazzante la posizione che si assume a calcetto quando si fa la barriera (dubito che nel calcio femminile si stia spalla a spalla con le mani tra le gambe, ma non riesco a trovare foto o video dirimenti in questo momento). D’altro canto — in questa prospettiva — resta da correggere la questione terminologica: Emma Watson è una pussy, i ragazzini lituani mostrano balls in foto. Ovviamente non c’è nulla di determinante, nella fisiologia con cui si nasce, rispetto alle scelte d’identità, ma per superare certi pregiudizi dall’altro lato della presentissima e vivissima questione della gender inequality può essere salutare pensarsi — quando si fugge legittimamente dai conflitti, quando si piange, quando si è vittime invece che promotori di qualsiasi tipo di violenza — fragili come un fallo. E al contempo magari pensare ai propri modelli di forza, di tenacia, di imperturbabilità e imbattibilità non come a persone cazzute o con più palle, ma come a persone dure come una vagina.
In questo momento non è in esposizione, ma il MoMA possiede una scultura sospesa in lattice e gesso di Louise Bourgeois che si intitola Fillette e rappresenta con ogni evidenza un pene appeso per il glande. Si sa che di peni, nelle gallerie d’arte moderna, se ne vedono tanti, ma questo ha la particolarità di apparire fragile e delicato nelle sue decuplicate proporzioni. Insomma, l’impressione è che se Alex in Arancia meccanica avesse imbracciato questa scultura invece di quella Herman Makkink non sarebbe andato in galera. La posizione è eretta ma senza curva: non c’è tensione, e gli strati di materiale plastico danno l’idea di una carne riposata, esposta pericolosamente ad eventuali disturbi esterni. L’opera è stata interpretata in relazione ai problemi di Bourgeois coi maschi della sua famiglia d’origine, e la targhetta del museo nel 2012 (credo la più recente data di esposizione) invitava gli osservatori a considerare l’oggetto anche come un possibile torso femminile — i testicoli sarebbero monconi di cosce, il glande la testa etc. «When I wanted to represent something I love», ha ragionato però l’artista, «I obviously represented a little penis», parlando dell’amore che prova per la ‘forma’ di suo marito e dei suoi figli; e soprattutto (a scanso di equivoci) ha dichiarato «From a sexual point of view, I consider the masculine attributes to be very delicate». Da un punto di vista sessuale aggiungerei, sentirsi una fillette in questo senso è forse la cosa più maschile del mondo.
[Immagine: Neringa Rekasiute, They Won the Lottery].
Che figata non li conoscevo, grazie. Tra l’altro, come apprendo da wikipedia, creature di fat mike.
Prego. Credo venga da qua la canzone:
http://www.feministes-radicales.org/wp-content/uploads/2010/11/Stoltenberg-Refusing-to-be-a-Man.pdf
E appunti sparsi:
Merete Gerlach Nielsen – conferenza, l’uomo nodo e l’uomo molle.
L’uomo molle danese (Den bløde Mand) e l’uomo dolce norvegese (Den Myke Mann). Robert Bly, americano, parla di Soft Male, oppure Lovely boy.
http://i41.tinypic.com/xfoy12.jpg
Non riesco però a trovare documenti su come si fa la barriera nel calcio femminile. Ho scovato solo un particolare sospensorio femminile, che però mi pare quasi per nulla usato visto che lo produce una sola azienda e non si trova facilmente su amazon. Ultimamente ho anche sentito Paola Colaiacomo parlare di iconografia maschile postmoderna e di come, secondo lei, Pasolini abbia contribuito a produrre l’attuale immagine vincente dell’uomo molle, che in certi ambienti visivi (tipo la moda) si sposa con più antichi elementi di immaginario orientale e soprattutto giapponese.
be’, questo è molto bello, e nel frangente si vede che non si proteggono neanche il seno, ma può dipendere dall’essere consapevoli della potenza del tiro.
http://video.gazzetta.it/calcio-femminile-schema-punizione-incredibile/20f06498-d9d7-11e4-991d-c99679f62d66?refresh_ce-cp
Non conoscevo Paola Colaiacono
Le punizioni e le code (pavoneggianti?)
L’analisi è interessante ma gravemente incompleta se non consideri il seno: la tetta sta alle palle per le stesse qualità distintive per cui la opponi alla vagina (è fragile e delicata, penzola, etc., e rende difficile se non impossibile ogni interazione agonistica: mai viste atlete con la quarta o la quinta, e infatti le professioniste vengono piallate fin dall’adolescenza a botte di ormoni. L’equivalente del sospensorio femminile è allora forse il reggiseno rinforzato delle atlete). In ogni caso, se vuoi fare un discorso serio sul piano delle opposizioni simboliche a livello fisico e culturale non puoi fermarti al pube.
@Orlando
Ho pensato molto al seno, specie a quella parte di critica femminista (soprattutto del secolo scorso) che ne fa un elemento fallico. Tuttavia — al di là del fatto che è un tratto genitale secondario, come la barba nell’uomo, e dunque estremamente più variegato, fisiologicamente, nelle sua declinazioni individuali — non rientra nella stessa equazione semantica di cui parlo nel pezzo: non si usa la parola ‘tetta’ come sineddoche per descrivere una persona, né si dicono cose come ‘quello è un uomo con le tette’. Mi interessava riflettere su un uso specifico dei genitali primari nell’immaginario, non escludere tratti fallici dalla femminilità (anzi). Sarebbe interessante estendere il discorso, come dici tu, al resto dei tratti anatomici legati alla sessualità (mi interesserebbe in particolare, come si è capito, la differenza nella lunghezza dei capelli), ma si passerebbe a una questione diversa, meno legata alle parole e più determinata dalle immagini. Almeno credo. Grazie mille per aver tirato fuori la questione.
@Fortini vs Pasolini
D’altronde saranno allenate a prendere la palla di petto, no? Mi domando se allora il calcio in sé non sia gendered, come forse tutti gli sport, e le donne che lo praticano non siano costrette a imitare gesti sensati solo per il corpo maschile (come lo stop di petto) perché nessuno ha mai pensato a svilupparne altri basati su un corpo diverso. Si può giocare a calcio senza stop di petto? Con cosa lo sostituisci?
be’, ci ho pensato e non mi viene in mente nulla su eventuali altri movimenti, per cui non credo sia gendered in sé. Su youtube ci sono immagini di barriere in cui si proteggono il seno
https://www.youtube.com/watch?v=teJY6U-aEjI
e in fondo lo stop di petto, che comunque non credo impossibile, dipenderà dalla velocità del pallone, non è così fondamentale nel calcio, anzi; meno la palla è a terra e più stanno giocando male.
Oh! Grazie per l’articolo e i commenti! Che interessante, tutto…
@Eleonora
Prego! :D