cropped-kubrick_2.jpgdi Lorenzo Marchese

[LPLC si prende una pausa estiva; la programmazione ordinaria riprenderà a settembre. Per non lasciare soli i nostri lettori ripubblichiamo alcuni testi usciti nel 2013. Questo articolo è stato pubblicato il 4 settembre 2013].

Perché “Exit auctor”? L’intenzione sarebbe di prendere due esempi di autofiction considerati all’unanimità tali, sebbene essi declinino strategie di fiction e di confessione autobiografica partendo da modelli diversi e volgendo a scopi del tutto eterogenei. Troppi paradisi (2006) di Walter Siti e Lunar Park (2005) di Bret Easton Ellis sono testi che, per essere analizzati esaurientemente, meriterebbero un saggio a parte. Qui mi limiterò a constatare che entrambi presentano, e in qualche modo presuppongono (proprio a causa di ciò che raccontano), una fine dell’autore-personaggio, una sua uscita di scena che è anche una morte testuale, secondo quanto esposto alla fine del capitolo precedente; e ad analizzare l’articolazione di questa “estinzione” tutt’altro che pacifica.

Per prima cosa va precisata la natura della differenza strutturale fra TP e LP, certo profonda. Walter Siti è, in Italia, uno degli intellettuali che più ha riflettuto sul genere dell’autofiction, usandone consapevolmente gli strumenti con risultati elaborati e difficili da inquadrare a una prima occhiataA quanto so, è inoltre l’unico autore ad avere esordito come “autofittizio”, in questo vicino a Doubrovsky, creando perciò non poco (voluto) spaesamento nei propri lettori. Dopo un lavoro di dodici anni, ha pubblicato il suo primo romanzo Scuola di nudo (1994) a quarantasette anni, nel quale poneva se stesso al centro di una serie di vicende “in presa diretta” all’interno dell’Università pisana, oggetto di una satira feroce e dichiaratamente sincera (anche se in realtà costruita “a chiave”, quindi ingannevole). Libro di intrinseca natura abnorme e onnivora[1], è stato notato, ma soprattutto autofinzione dichiarata a partire dalla non-coincidenza fra dati biografici effettivi e dati forniti nel libro, testo in cui dichiaratamente “Realtà e finzione stanno da una parte, verità e menzogna dall’altra”[2]. La conferma del dubbio di esistenza è data, dopo lunga attesa, solo nell’Avvertenza alla fine del libro: “la coincidenza delle mie generalità con quelle del protagonista di questo libro non è che una sconcertante omonimia” e ancora “Pisa è una città che non conosco”[3], nonostante un lettore informato sappia che Siti ha vissuto a lungo in quella città ed è per davvero un professore universitario. Altrettanto illusionistici i rapporti interpersonali: se al Cane e al Padre, personaggi creati ad hoc, si possono associare persone reali, così non vale per gli amanti, gli amici e i culturisti che affollano la narrazione. Ancor di più la famiglia: in Scuola di nudo un padre e una madre morti da poco, in Un dolore normale (1999) entrambi vivi (in più, un fratello prima mancante) e così pure in Troppi paradisi (dove il fratello diventa una sorella). La cosa non è, ovvio, un capriccio ma è una fra le spie di un cambiamento psicologico del personaggio Siti nei confronti della realtà esterna. L’antagonismo del “Walter-ego” che in Scuola di nudo si esplicava con la stesura di un mostruoso zibaldone (e i richiami a Leopardi sono dichiarati, per prima la mise en abîme della conferenza universitaria[4]) cambia di segno nel corso dei romanzi. L’opposizione del personaggio Siti al mondo, visto come “inferno”[5] farsesco riscattato in parte solo dalla metafisica derealizzazione dei culturisti o dal caso particolare dell’amore, comincia ad incrinarsi con la virtuosistica e sfumata elegia di un amore più comune e “convenzionale” di Un dolore normale: già da questo secondo libro, la condizione di mostruoso “uomo del sottosuolo” che nondimeno si espone con le modalità dell’autobiografia rousseauiana viene a mancare nel suo integralismo. Fermo restando l’obiettivo ambizioso di costruire un romanzo che, insieme, neghi se stesso attraverso un eccesso combinatorio e ricostruisca sulla propria fisionomia ambigua una capacità nuova di coinvolgere il lettore, da Un dolore normale Siti inizia a paventare una possibilità di “nascita”, la cui ossessiva ricerca è alla base della sua poetica[6]. La “possibilità di un’isola” si fa concreta e testimonia un mutato atteggiamento verso il mondo contemporaneo in TP, conclusione di un personaggio Walter Siti che trova una possibile resistenza solo in una categorica inesistenza.

A prima vista, è difficile da immaginare un autore più distante da Siti che l’americano Bret Easton Ellis. Nato nel 1964 e autore di sei romanzi e un libro di racconti[7], Ellis ha trattato nelle sue opere la derealizzazione in cui incorrono gli abitanti terribilmente belli, glam e nichilisti dell’America degli anni ’80. In American Psycho la follia omicida dello yuppie Patrick Bateman si rivela un sintomo dell’alienazione da cui erano affetti in ugual misura, salvo sporadici e vani (quanto lirici) scatti di coscienza, i personaggi dei testi precedenti. In filigrana, Ellis avvia un discorso sull’impossibilità di discernere immaginazione e realtà nella “società dello spettacolo” (G. Dèbord) da cui nessuno è immune; ma, a differenza di Siti e altri scrittori che a vario titolo si sono interrogati su tale condizione, Ellis non ha il passo del saggista. Spiegare non gli interessa minimamente, al contrario, il procedimento narrativo usuale vede un racconto in prima persona e insieme, a creare una frizione evidente, tutto esterno, estroflesso e ingannevole fino allo spaesamento. L’iperviolenza e il nichilismo, costanti della narrativa ellisiana, vengono sempre più sottoposte a una angosciata “derealizzazione” che sospende il giudizio e potenzia la scrittura: in ciò Ellis è integralmente postmoderno fino alle soglie della pornografia e dell’immoralità, allo stesso modo in cui Sade portò ad estreme e coerenti conseguenze le idee dell’Illuminismo. Il successivo Glamorama è un vasto affresco sociale sul mondo della moda, nonché una storia (molto inquietante) sul terrorismo, che prova a sviluppare alcuni temi del complesso rapporto fra strategie del terrore e realtà, vuoi fenomenica vuoi mediatica[8]. Contiene già,per la frizione tra fiction e non-fiction, quanto per lo slittamento tra verosimile e fantastico”[9], i temi che saranno sviluppati in Lunar Park, o meglio, che l’autore Ellis decide in questo libro di sperimentare sul proprio personaggio, proseguendo con coerenza il suo discorso.

Che i romanzi dello scrittore americano possano essere visti come varie sequenze[10] di una riflessione unica lo suggerisce proprio il capitolo iniziale di LP, intitolato The Beginnings. Dopo la puntualizzazione nella Nota dell’editore dichiarante “This is a work of fiction”[11], esso sembra smentirla subito del tutto, rovesciarla, poiché ha luogo una riflessione sulla propria esperienza di scrittore e di individuo dai caratteri molto personali (e referenziali). Ellis narra, con un tono a metà fra il divertito e il distaccato, dei suoi trascorsi di droga, sesso e vita spericolata in un impeto di confessione a prima vista genuino, in fondo alquanto elaborato e intessuto di richiami inter e infratestuali[12]. Addirittura, in un passaggio nega esplicitamente la possibilità di un’autobiografia quando racconta di essersi arenato su una sua stesura, e dichiara: “I could never be as honest about myself in a piece of nonfiction as I could in any of my novels” (LP, p. 32). E si intuisce la volontaria sfuggevolezza della “confessione”, ancora una volta, a partire dal paratesto. La duplice dedica del romanzo è a Robert Martin Ellis, padre di Bret e protagonista di LP sotto le spoglie di un fantasma horror di reminescenza amletica, e a Michael Wade Kaplan, che invece in LP non compare mai, sebbene noi lettori sappiamo per altre vie che Kaplan è stato il compagno di Ellis fino alla sua morte prematura nel 2004. Dunque, a fronte di tanti resoconti di incontri anche fugaci e dimenticabili, un personaggio fondamentale nella vita di Ellis (e che dovrebbe quindi, a rigor di logica, entrare in un’autobiografia) viene omesso del tutto. O forse, semplicemente, trasferito in una figura del libro, il figlio Robby amato e odiato, sulla cui sparizione si innesta la conclusione di LP: figlio che l’Ellis reale, a quanto pare, non ha, e dunque una creazione illusionistica tutta interna al romanzo. Il carattere di autofiction è però dato dalle ultime pagine di The Beginnings, in cui Ellis introduce i fatti “sovrannaturali” accaduti a lui e alla sua famiglia nella loro casa losangelina a Elsinore Lane (Hamlet di Shakespeare è un testo cardine per l’interpretazione di LP). Lo scrittore che non ha mai voluto esporre teorie sulla letteratura avverte il lettore con un discorso davvero esemplare, alla luce di tutte le voci critiche sull’autofiction che abbiamo visto finora:

I’ve recounted the “incidents” in sequential order. Lunar park follows these events in a fairly straightforward manner, and though this is, ostensibly, a true story, no research was involved in the writing of this book. For example, I did not consult the autopsy reports concerning the murders that occurred during this period –because, in my own way, I had committed them. I was responsible, and I knew what had happened to the victims without referring to a coroner. There are also people who dispute the horror of the events that took place that autumn on Elsinore Lane, and when the book was vetted by the legal team at Knopf, my ex-wife was among those who protested, as did, oddly enough, my mother, who was not present during those frightful weeks. (…) My psichiatrist at the time, Dr. Janet Kim, offered the suggestion that I was “not myself” during this period, and has hinted that “perhaps” drugs and alcohol were “key factors” in what was a “delusional state”. Names have been changed, and I’m semivague about the setting itself because it doesn’t matter; it’s a place like any other. Retelling this story has taught me that Lunar park could have happened anywhere. These events were inevitable, and would have occurred no matter where I was at that particular moment of my life [LP, pp. 39-40].

Il testo è chiarissimo nella propria reticenza. Eventi collettivi, non referenziali nonostante le apparenze, dal valore universale, riferenti realtà alterate (ma non si può sapere quanto). Quello che però interessa, ai fini del discorso, è il percorso compiuto dall’autore-personaggio all’interno di una vicenda inverosimile ma data come avvenuta e creduta dal narratore. Anzi, una delle peculiarità di LP, appartenente, con i dovuti distinguo, anche ad altre autofiction, risiede appunto nell’indecidibilità del lettore nell’attribuire un preciso statuto di realtà ai diversi avvenimenti del romanzo. Se nelle opere precedenti lo sguardo del lettore poteva essere o quello di uno spettatore cinematografico, distaccato e divertito o quello alienato simile alla percezione di tutti i personaggi romanzeschi, Ellis cambia qui atteggiamento ed esige un’adesione totale del lettore alla narrazione, pur nella consapevolezza dell’iperletterarietà menzognera di LP[13]. Attraverso una narrazione “in presa diretta” alquanto ingannevole, ma caratteristica di tutta la sua produzione, Ellis riferisce dell’attacco subito, insieme alla sua famiglia, da numerose forze oscure e mostruose desunte dall’immaginario di Stephen King ma, in ultima istanza, riconducibili all’esperienza strettamente personale dell’autore-personaggio. LP si configura perciò come un’autobiografia fantastica costellata di indizi, simboli, segni della memoria e della letteratura che si fanno violentemente concreti: il libro stesso è una minaccia vivente, allo stesso modo, insinua Ellis, dell’intera letteratura. In un passaggio la riflessione metaletteraria (estremamente seria, lontana da una visione ludica e in ciò distante dal postmoderno) diventa scoperta. Il lettore è informato della provvisoria stesura di un improbabile thriller pornografico intitolato Teenage Pussy, ma Ellis scopre le carte e scrive: “Writing will cost you a son and a wife, and that is why Lunar Park will be your last novel”[14]. L’affermazione è ardita, ma è la spia di ciò che accade nel finale all’autore-personaggio Ellis. La vicenda di LP sembra precipitare insieme alla crisi familiare fra Ellis e il figlio Robby, che nel finale sparisce misteriosamente insieme ad altri ragazzi della città, in una fuga (scopriamo) volontaria ma in ultima analisi inspiegabile. Gli eventi soprannaturali che occorrono a getto continuo fino allo scioglimento appaiono quasi un epifenomeno della vicenda personale e familiare dello scrittore-personaggio, e in questo fallimento personale hanno fine nella brusca maniera in cui sono iniziati. Disappear here è la frase con cui inizia e finisce Less than Zero: con essa gli avvenimenti fantastici, ma vissuti come iperreali, di LP si concludono, e anche l’io autofittizio Ellis trova la sua personale sparizione.

In TP ha individuato una chiave di lettura interessante Daniele Giglioli. Dopo l’antagonismo dichiaratamente sconfitto e irrisolvibile di Scuola di nudo, in cui il personaggio Siti era perdente in una dialettica hegeliana servo-padrone (incorniciata in almeno un passo del romanzo, quello del discorso accademico su “Odi Melisso” di Leopardi), nell’ultimo capitolo della trilogia autofittizia l’autobiografia diventa automaticamente “sociologia”[15], un tentativo dato come disperato nel tempo “dell’individualità come spot”[16]. Il personaggio Walter Siti, in precedenza disperatamente conscio della propria mostruosità, in senso etimologico, diventa qui un mediocre, un non-personaggio privo di individualità forte (simile in questo ai numerosi “personaggi televisivi”, una categoria di umanità considerata quasi a parte, che costellano TP), una figura che per sua naturale inclinazione è e vuol essere uniforme alla massa, contravvenendo quindi al principio di eccezionalità dell’autobiografismo rousseauiano che dettava il passo in SN. L’omologazione di Walter al mondo dell’Occidente, alla società del piacere e alla “magnifica merce” è forte e riconoscibile sin dal modo in cui il personaggio viene definito. Contrariamente ai primi due romanzi, il mondo del Walter-ego viene definito, più che dal proprio raffinatissimo, rimuginante essere intellettuale, dalle denotazioni merceologiche e contingenti della “società dello spettacolo”, con un processo di nominazione molto vicino al name-dropping derealizzante caratteristico della narrazione di Ellis. Come ha notato Carlo Tirinanzi de’ Medici, tale tecnica descrittiva sortisce un risultato curioso:

(…)ricollega il testo a una realtà oggettiva, esterna sia all’autore che al lettore, che dona all’immagine mentale una patina di autenticità: la descrizione s’impegna per suscitare nel lettore un effetto di vero. In questo modo il mondo d’invenzione che l’atto di finzione genera diviene molto più vicino al nostro mondo, quello reale[17].

La mediocrità omologante perseguita in TP si accorda al desiderio, già citato, di nascita al mondo e di una corrispondente accettazione dell’esistente. Prima di tutto è una riconquista, un desiderio di possesso generato da pulsioni intricate, il cui sviluppo è raccontato con un la forma del journal intime tanto, in superficie, “in presa diretta” quanto elaborato e rifratto dalla coscienza letteraria. Non è un caso che la riconquista, oltre a toccare il campo familiare in precedenza motivo principe della scissione psichica[18], abbia luogo nel campo erotico, dove si erano registrati i fallimenti più clamorosi del Walter-personaggio con la morte irrisolta, in Scuola di nudo e Un dolore normale, della persona amata. In TP l’oggetto (più difficile parlare di persona) di un desiderio assoluto e metafisico è il corpo mercificato di Marcello Moriconi, culturista tossicodipendente presentato come un curioso misto di idiota dostojevskiano e borgataro senza morale. Presentare un riassunto della storia di questo desiderio “girardiano”[19] sarebbe ozioso. Basti dire questo: con un procedimento tanto consumistico da apparire, agli occhi di un lettore attento, una resa totale e cinica all’Occidente, ossia con un’operazione chirurgica per guarire dall’impotenza, l’autore-personaggio riesce a possedere Marcello, e raggiunge così un’integrazione simbolica col mondo della merce. A questo punto, non c’è per lui più nulla da vivere e raccontare. Siti lo spiega con esattezza argomentativa, come sempre nella sua narrazione iper-teorica e di stampo saggistico:

Marcello mi sta espellendo dall’autobiografia: dopo essere penetrati nell’Assoluto, che resta da dire? Vederlo concentrato, remissivo, mentre si soffia il naso che gli sto ancora dentro e sento il contrarsi dei suoi muscoli anali, beh, se lui è un dio come ho creduto finora, non mi resta che cadere in ginocchio, muto per sempre. Se non lo è, allora gli altri esistono davvero, e non è più con l’autobiografia che si possono trattare. Quanto era povera e ristretta, e distorta, l’esperienza su cui tanto ho elucubrato. (…) Ora sono nato: da circa sette mesi sono nato. Se in più di mille pagine ho prodotto un sosia, era perché io non c’ero, non ci volevo essere: adesso ci sono. Nel bene o nel male, nell’ipocrisia o nella sincerità; nell’assistere o nell’agire, nella banalità o nell’intelligenza. Ora che Dio mi ama, non ho più bisogno di esibirmi. Sto meglio man mano che il mondo peggiora, pazienza. Le mie idiosincrasie si scontreranno con quelle degli altri in campo aperto; se avrò qualcosa da raccontare, non sarà su di me [TP, p. 424-425].

Ecco la logica sparizione, in tono tanto entusiastico da creare un sospetto di ironia, di un io autofittizio che, parlando in un ilare, autodistruttivo falsetto, potrebbe rivelare in filigrana un’opposizione critica (inconsapevole nella sua fiction) a una Realtà detestata. TP segna la fine del personaggio Siti e anche dell’uso di autofiction. Come per molti degli autori che hanno attraversato il decennio passando per questo “genere”, con risultati più o meno felici, la possibilità dell’autofiction viene usata come laboratorio di una specifica tipologia di discorso critico sul ruolo dell’autore e sull’impotenza (o l’onnipotenza, che confina comunque col fallimento) della “realtà rappresentata” (la Wirklichkeit hegeliana, e poi auerbachiana) in letteratura. Una volta concluso l’esperimento, quale che sia il risultato ottenuto, la carta autofittizia viene tolta dal tavolo per essere ributtata in giochi narrativi di natura differente. Magari proprio nell’ambito della non-fiction, o di un lavoro iperletterario sulle modalità del saggio in prima persona, o piuttosto dell’inchiesta giornalistica che vuole sfondare il diaframma neutro della cinepresa, entrare con tutta la testa nel proprio oggetto. Proprio Siti in Il contagio (2008) propone un reportage sulle borgate romane, intrecciando le storie di borghesi e borgatari, soggetti alle stesse nevrosi e alla stessa condanna sociale: ma è un testo decisamente fuori dalle norme del genere per via del suo illusionismo narrativo[20], dello scarso valore testimoniale e referenziale e della presenza dell’autore-personaggio non in quanto cronista “in prima linea”, ma in quanto personaggio equipollente agli altri descritti, incapace di salvezza e di evasione[21]. Alla luce di tutte queste scelte, che formano una precisa visione di nichilismo e fallimento personale, si può secondo me parlare di una recusatio della “nascita” celebrata in TP e, soprattutto, del valore della scelta “autofittizia” fin lì perseguita. Con altrettanta sicurezza, Il contagio può essere letto a causa del suo particolare uso delle categorie di fiction e non-fiction come un “Anti-Gomorra”, di cui ribalta programmaticamente e con cognizione di causa gli aspetti più pregnanti[22]: il primo segno di una sperimentazione romanzesca mossa ormai su strade differenti dall’autofiction, congedata con una nascita-annullamento.

In LP, viceversa, la conclusione prevede in apparenza uno scioglimento positivo della vicenda, ma nasconde una sparizione senza consolazioni. Ellis, per placare lo spirito vendicativo del padre morto, sparge le sue ceneri nell’oceano e chiude la storia palesando la sua completa testualizzazione e, di fatto, la sua sparizione, quasi che anche lui sia cenere dispersa, bruciato dal suo stesso essersi scritto, letto e poi riscritto. Rivolgendosi al figlio Robby (scomparso per davvero, nella storia, senza lasciare neanche la cenere) scrive, concludendo il romanzo:

So, if you should see my son, tell him I say hello, be good, that I am thinking of him and that I know he’s watching over me somewhere, and not to worry: that he can always find me here, whenever he wants, right here, my arms held out and waiting, in the pages, behind the covers, at the end of Lunar Park [LP, p. 399].

Nel romanzo successivo, l’autore-personaggio Ellis è una comparsa citata da una creazione romanzesca dello stesso Ellis, Clay. Imperial Bedrooms segna così il ritorno dell’autore a una narrazione più consapevolmente noir e postmoderna, dopo aver esaurito le possibilità dell’autofiction in un’impietosa e artificale autoanalisi che non poteva che portare a un annullamento conclusivo. A una prima occhiata, mi sentirei di dire, sembra in questi due testi che l’autofiction nella produzione recente sia stata concepita come scavo chirugico condotto in estrema solitudine sulla persona dell’autore, e si possa parlare di un “genere” interno al romanzo in cui si racconta di “un mondo in cui ogni storia, ogni destino sono sì equivalenti a ogni altro nella loro irrilevanza, ma anche intransitivi. Le monadi sono tutte eguali; ma tutte monadi”[23]. È ancora presto per dire se l’orizzonte dell’autofiction sia estremamente fecondo ma destinato per sua stessa natura a una breve durata, a un esaurimento veloce di potenzialità narrative virtualmente fortissime ma ristrette nella gamma. E troppo tardi, mentre sto per finire di scrivere, per allargare il campo alla produzione autofittizia italiana e straniera di questi anni, pur abbondante e significativa, anche se quasi mai di un valore simile.

 


[1] “Una sorta di autobiografia deviata, vera e falsa nello stesso tempo, potenziata e dilatata da un incastro di istanze narrative che si smentiscono e rovesciano a vicenda; unite in un io onnipresente che pretenderebbe di divorare il mondo, di schiacciarlo con il proprio impietoso risentimento. È la ripetizione infinita di una recita in cui la vita riconosce la propria ragione e la propria mancanza di senso, in cui tutta la cultura dell’autore si brucia e si svuota come per eccesso, si affida allo splendore effimero dei volumi e delle superfici corporee, alle estasi del sesso: ma con un angoscioso senso di morte, di asfissia, come in un referto estremo della fine di una cultura e di un modo di essere intellettuale” (Giulio Ferroni, Letteratura italiana contemporanea 1945-2007, Mondadori Università, Milano 2007, p. 299).

[2] Gianluigi Simonetti, Lezioni di inesistenza: Scuola di nudo di Walter Siti, «Nuova Corrente» XLII, 1995.

[3] Walter Siti, Scuola di nudo, Einaudi, Torino 1994, p. 597.

[4] Ivi, pp. 292-300.

[5] Non è mancata una lettura della trilogia romanzesca di Siti sulla falsariga della Commedia dantesca, in Daniela Brogi, Walter Siti, Troppi paradisi, «Allegoria», 55, 2007, pp. 211-215. Ad avallare la lettura “unitaria” e dantesca della trilogia è stato lo stesso Siti; si veda: http://quattrocentoquattro.com/2011/11/28/voglio-raschiare-sotto-intervista-a-walter-siti/.

[6] Mi appoggio alle considerazioni di Alberto Casadei, L’autobiografia e il desiderio in Walter Siti in Stile e tradizione nel romanzo contemporaneo italiano, cit. Utile anche lo studio monografico di Francesca Giglio, Una autobiografia di fatti non accaduti. La narrativa di Walter Siti, Stilo Editrice, Bari 2008.

[7] Nell’ordine: Less Than Zero (1984), The Rules of Attraction (1987), American Psycho (1991), The Informers (1994), Glamorama (1999), Lunar Park (2005), Imperial Bedrooms (2010).

[8] Su cui anche Michel Houellebecq (che ha dichiarato una profonda ammirazione per Glamorama), Plateforme, o Slavoj Žižek, Benvenuti nel deserto del reale, cit.

[9] Gianluigi Simonetti, La scuola delle immagini. Bret Easton Ellis e il romanzo italiano contemporaneo, in L’immagine ripresa in parola. Letteratura, cinema e altre versioni, a cura di Matteo Colombi e Stefania Esposito, introduzione di Massimo Fusillo, Meltemi, Roma 2008, p. 313.

[10] Il termine cinematografico mi sembra il più adatto qui, visto che immagine cinematografica e parola romanzesca hanno un “legame organico” fortissimo (v. Gianluigi Simonetti, La scuola delle immagini, cit., p. 312).

[11] “This is a work of fiction. Names, characters, places, and incidents either are the product of the author’s imagination or are used fictitiously. Any resemblance to actual events, locales, or persons, living or dead, is entirely coincidential”. L’edizione consultata è Bret Easton Ellis, Lunar Park, Vintage Books, New York 2005.

[12] Giustamente Giuseppe Genna ha rilevato la vicinanza (sia pure con diversi esiti) a un’opera simile di Stephen King, dichiarato ispiratore delle tematiche e degli scenari di tutto LP, vale a dire On writing (2000), una riflessione sulla propria scrittura. Scrive Genna: “il naturalismo di Ellis (come quello di King in On writing) non ha nulla a che vedere con la rappresentazione speculare del mondo (interno ed esterno), bensì con la costruzione di una narrazione di sé nel mondo sotto specie di cosmogonia” (http://www.carmillaonline.com/archives/2005/11/001583.html).

[13] “What was there to say? That I was going insane? That my book was now reality? I had no reaction -emotional, physical- to any of this. Because I was now at a point at which I accepted anything that presented itself to me. I had constructed a life, and this is what it offered me in return” (LP, p. 365). Nel brano si parla di una storia narrata da un manoscritto che prende vita fuori dalla pagina ma, dato che questo è uno dei nuclei concettuali dell’opera, mi pare il passo si presti benissimo a un doppio livello di lettura (che è molto frequente in LP).

[14] Ivi, p. 327.

[15] Daniele Giglioli, Senza trauma, cit., p. 82.

[16] Walter Siti, Troppi paradisi, Einaudi, Torino 2008, Avvertenza, p. 2.

[17] Carlo Tirinanzi de’ Medici, Veridicità ed effetto di vero. L’universalismo della prosa in Walter Siti in Finzione, cronaca, realtà, cit., p. 171. L’effetto di vero elaborato dallo studioso è costruito in opposizione all’”effetto di reale” di cui parla Roland Barthes in L’effetto di reale in Il brusio della lingua, cit., pp. 151-159. Per ulteriori letture in questa chiave di TP, si veda anche Davide Luglio, Pantografare l’esperienza, ovvero il romanzo come smascheramento dell’”autenticità” in Finzione, cronaca, realtà, cit.

[18] Delle modifiche subite dal nucleo familiare del personaggio si è detto. Basti aggiungere che in TP il rapporto conflittuale con i genitori viene risolto con un’indifferenza che tradisce un brutale e alienante desiderio di tranquillità, di fine del conflitto. Esemplare il capitolo La miseria dei miei e l’episodio della morte del padre (“Sta famosa esperienza archetipa, nel complesso, si è rivelata fiacca, niente de che”, TP, p. 185).

[19] Il desiderio romanzesco del personaggio Walter trova un corrispondente forte nelle nozioni di “desiderio triangolare” e “divinizzazione dell’uomo” presenti in René Girard, Mensonge romantique et vérité romanesque, Éditions Bernard Grasset, Parigi 1961. È stato notato da Francesca Giglio, Un’autobiografia di fatti non accaduti, cit.

[20] Il primo capitolo Che problema c’è?, presentato come storia “vera”, è nel successivo La casa- I disvelato nella sua natura di esercizio narrativo dall’autore. Siti non rinuncia quindi, in un’opera che apparentemente è un reportage. alla letteratura nel distorcere ogni prospettiva “realistica” terra terra; la cinepresa è truccata, le riprese sono state manipolate al computer.

[21] Nella Terza parte, ironicamente intitolata La verità, l’alter ego dell’autore prende la parola in prima persona, anche se rimane tutto sommato nell’ombra e non ha nemmeno la dignità di un nome proprio, venendo chiamato “il professore”. L’amore per Marcello, assolutizzato in TP, viene svalutato e rifiutato nel capitolo Addio, e nemmeno l’aver descritto con la letteratura la vita delle borgate può salvarlo (si veda a proposito l’ultima pagina di Il contagio).

[22] Per dire solo della conclusione, incentrata sul polo della morte (“Ma vai a casa, va’ … che ti sta cercando la morte e tu sei in giro”, Il contagio, p. 333) opposto all’istinto di sopravvivenza nel finale di Gomorra (“Maledetti bastardi, sono ancora vivo!”, p. 330), ma gli esempi sarebbero molti. Sotto questo aspetto, non è casuale che Siti si sia interessato a lungo della scrittura e la figura di Roberto Saviano, ad esempio in un contributo critico introduttivo a Roberto Saviano, La parola contro la camorra, Einaudi, Torino 2010.

[23] Raffaele Donnarumma, Walter Siti, Troppi paradisi, cit., p. 219.

[Immagine: Stanley Kubrick, Autoritratto (gm)].

 

1 thought on “Exit auctor. Sull’autofinzione contemporanea

  1. “ Lunedì 18 gennaio 2010 – « On a souvent reproché à l’autofiction de n’être qu’un phénomène de mode franco-français, participant d’une décadence de la littérature vouée à une mort prochaine. Cependant, depuis plus de 30 ans, le concept, devenu le coeur d’enjeux théoriques, nourrit les débats universitaires et critiques. De plus en plus nombreux, toutes générations confondues, des écrivains – mais aussi des artistes venus d’horizons divers (de la photographie à la bande dessinée) – se réclament du genre. En outre, le concept franchit les frontières en épousant les spécificités culturelles et sociologiques des littératures auxquelles il s’applique. Il s’agit donc d’interroger et d’ouvrir le concept d’autofiction à la littérature et la culture mondiale. L’autofiction est elle envisagée, pensée et construite de la même manière selon les pays dans lesquels elle se développe? Quelles sont les portées, les enjeux sociologiques et politiques de cette pratique d’écriture de soi? Le moi est-il haïssable partout: comment reçoit-on aujourd’hui les autofictions? » (Dal web) “.

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