di Pietro Bianchi
[LPLC si prende una pausa estiva; la programmazione ordinaria riprenderà a settembre. Per non lasciare soli i nostri lettori ripubblichiamo alcuni testi usciti nel 2013. Questo articolo è stato pubblicato il 16 aprile 2013].
La storia dei tentativi di portare la psicoanalisi sul grande schermo sono innumerevoli. Il primo risale addirittura ai primissimi anni della scoperta freudiana. Siamo nel 1926 e Georg Wilhelm Pabst con la collaborazione di Karl Abraham e Hanns Sachs (Freud rifiuta di collaborare) gira I misteri di un’anima, un film che si pone esplicitamente il compito di rappresentare le teorie della nascente psicoanalisi. La storia si svolge come un caso clinico e narra le vicende della nevrosi del chimico viennese Martin Fellman e del suo incontro con il Dr. Orth che riesce facendogli ricordare i propri traumi passati a guarirlo. Rimozione, complesso di Edipo, castrazione, sogni: il film mescola tutti gli ingredienti che ci aspetteremo da una buona divulgazione della psicoanalisi. Tuttavia Freud si affrettò subito a disconoscere il lavoro del grande regista tedesco e in una lettera ad Abraham scrisse: “io non scorgo la possibilità di poter rappresentare le nostre astrazioni dal punto di vista grafico in modo rispettabile”. Aveva ragione? Quali sono le difficoltà di tradurre in immagini una disciplina così sfuggente e singolare come la psicoanalisi? È possibile vedere la psicoanalisi?
Che la faccenda sia particolarmente insidiosa lo dimostrano i molti e celebri registi che si sono cimentati nell’impresa… e gli scarsi risultati ottenuti. Il Freud di John Houston non è nulla più che un diligente biopic, la BBC tentò la strada dello sceneggiato su Freud negli anni Ottanta con pessimi risultati, persino un peso massimo del cinema (e apparentemente così “psicoanalitico”) come Hitchock quando incluse esplicitamente la psicoanalisi nei propri film fece tra le sue opere meno ispirate (Spellbound e Marnie). Ma ci furono anche il lacaniano Benoît Jacquot con il suo Princesse Marie, Faenza su Jung, recentemente A Dangerous Method di Cronenberg, le Confidences trop intimes di Leconte, i riferimenti di Moretti e Allen. Eppure pare sempre che qualcosa nel mettere in scena quell’esperienza già così straniante e teatrale che è lo studio di un analista rimanga sempre un po’ invisibile, anche sul grande schermo.
Sta qui uno dei tanti motivi di interesse di In Treatment, la serie televisiva in onda su Sky Cinema a partire da lunedì 1 aprile per le prossime sette settimane. Il format in realtà ha già qualche anno e viene da una fortunata serie israeliana che è stata poi comprata e portata al successo dal canale via cavo HBO, celebre produttore americano di televisione di qualità. HBO negli ultimi anni ha rivoluzionato il mondo della televisione mettendo in crisi il primato dei canali generalisti: forti di un pubblico di nicchia ma appassionato (che paga un canone mensile o che acquista le serie in DVD) hanno proposto produzioni sperimentali, audaci, a volte persino controcorrente, permettendosi di osare anche in termini formali là dove nemmeno il cinema indipendente oramai osa più. In Treatment ne è un esempio lampante. Si tratta di una serie tv pressoché unica: racconta le vicende di uno psicoanalista attraverso le sedute con i propri pazienti. Ogni puntata però racconta di un solo paziente, in modo che 5 diversi pazienti si alternino lungo i 5 giorni in cui ogni settimana viene trasmessa la serie. Così tutti i lunedì avremo le puntate sulle sedute di Sara, martedì quelle di Dario e così via, fino al venerdì in cui sarà l’analista stesso a calarsi nel ruolo di paziente per la seduta di controllo. L’impressione è dunque quella di partecipare alla routine dell’analista che ogni giorno accoglie in seduta i propri analizzanti all’orario prefissato. Ma l’aspetto senz’altro più interessante della serie è che non viene mai fatto vedere ciò che viene detto durante le sedute. In Treatment adotta un approccio minimalista: tutto ciò che viene mostrato è solamente ed esclusivamente lo studio dell’analista. Un paziente entra, stringe la mano all’analista, si siede, comincia a parlare. I gesti e le azioni sono ridotti al minimo e viene lasciato tempo e spazio alla vera protagonista della serie, che è la parola.
Il cinema ha un rapporto particolare con la parola, a partire già dall’invenzione del sonoro agli albori della sua storia. Non deve dire ma mostrare: far sì che un’idea non venga enunciata ma si incarni in una certa relazione tra corpi, elementi, immagini, e poi in un certa espressione del tempo. Persino i registi che non sembrano fare altro che riprendere un attore che legge un testo – come fanno Jean-Marie Straub e Danièle Huillet nei loro ultimi film – lo fanno perché sanno che tra la parola come traccia scritta di un testo e quella che si fa carne in un corpo la differenza è minima ma abissale. Tuttavia l’immagine e la parola molto spesso si mettono l’una contro l’altra: sono tanti quelli che hanno accusato il cinema di essersi sottomesso alla parola e di non aver fatto altro che illustrare le storie della tradizione del romanzo ottocentesco (Godard, Rancière, Epstein, Deleuze etc.). Oppure, come ha fatto spesso il cinema sperimentale si è tentato di espellere la parola dall’immagine per arrivare a una relazione diretta coi corpi. Tuttavia quando si ha a che fare con la psicoanalisi la questione è più complessa perché si tratta di una parola che è qualitativamente diversa.
L’ha sottolineato con grande precisione Massimo Recalcati nella bella recensione che ha dedicato a In Treatment su Repubblica (“Il potere del lettino, l’inconscio diventa show”, 5 aprile 2013): il grande assente della serie di Sky è il divano. Sergio Castellitto e i suoi pazienti si guardano negli occhi quando parlano. Ed è proprio questo che fa mancare completamente l’incontro con il vero protagonista della psicoanalisi: l’inconscio. Il “vis-a-vis empatico” non può che cancellare la spigolosità dell’esperienza freudiana. Ma perché guardarsi negli occhi nasconderebbe l’essenza della parola psicoanalitica?
Secondo Lacan il primo elemento di estraneità a noi stessi è il linguaggio. Parlare vuol dire emettere una serie di significanti il cui senso è enigmatico innanzitutto a colui stesso che parla. La presa che le parole possono avere sulla realtà è sempre scivolosa: troppe le imprecisioni, le arbitrarietà, le ambiguità. Ribaltando la prospettiva della semiotica che pensa che le parole siano meri strumenti in grado di esprimere un pensiero già costituito nella testa del mittente, la psicoanalisi pensa che è innanzitutto l’intenzione (o desiderio) di chi parla a essere opaca. Noi non parliamo per esprimere ciò che vogliamo; parliamo per provare a interrogare ciò che neanche noi sappiamo di noi stessi. Parliamo per provare a dire: che cosa voglio? Chi sono? Non è forse per quello che spesso ci affrettiamo a specificare meglio ciò che era nostra intenzione dire, usando sempre nuove parafrasi e espressioni, quasi come se si mancasse sempre l’incontro tra le parole e la nostra intenzione? Non è forse per questo motivo che rileggiamo in continuazione ciò che abbiamo appena scritto sulla pagina quasi a voler interrogare il nostro stesso pensiero come se fosse quello di un altro? Quasi a voler accusare le parole di dire sempre un po’ troppo o troppo poco? Come dice Lacan le parole non servono a rappresentare la realtà, ma scavano un buco nella realtà: dicono strutturalmente sempre un po’ troppo o troppo poco. Rileggere o riascoltare le proprie parole misura la scarto che c’è tra la nostra intenzione e il suo risultato; o, per meglio dire, tra noi e noi stessi. L’inconscio appunto.
È qui che si colloca la critica che Lacan muove alla comunicazione intersoggettiva. Parlare con qualcuno non vuol dire comunicare un contenuto oggettivo tramite il mezzo del linguaggio. Comunicare vuol dire chiudere quello spazio che le parole hanno aperto tra noi e noi stessi. Non funziona forse così? Una persona emette una serie di parole e l’altro annuisce e dice: “si, ho capito”. Oppure: “no, non sono d’accordo”. In ogni caso indipendentemente da ciò che le parole dicano c’è un senso che rimane immutato in tutte le forme di comunicazione, ed è: “sì, le parole che tu mi hai detto sono proprio quelle che volevi dirmi”, “sì il significato di queste parole è proprio questo”. O meglio ancora: “non avere dubbi, non porti domande, quello che volevi dire è proprio questo”. La comunicazione intersoggettiva non serve a parlare con qualcuno, serve a dire a noi stessi che “sì, siamo proprio quello che abbiamo detto”. Siamo il senso (che l’altro ci conferma) delle nostre parole.
La parola della psicoanalisi invece rompe con la comunicazione intersoggettiva. Ed è per questa ragione che in analisi non si sta seduti l’uno di fronte all’altro. Il paziente, o come voleva chiamarlo Lacan, l’analizzante, si sdraia sul divano così che non abbia nessuno di fronte a lui. E parla. Parla senza che nessuno gli dica: “sì, questo è proprio quello che lei mi voleva dire”. Senza che nessuno annuisca alle sue parole. In un certo senso, e contrariamente a un classico luogo comune, l’analista è colui che non ascolta. È colui che non ascoltando, o meglio, lasciando vuoto il posto del destinatario della comunicazione intersoggettiva, permette all’analizzante di ascoltare le proprie parole così come se fossero quelle di un estraneo. Così che uno si possa chiedere: “È proprio questo quello che volevo dire?” “Cosa volevo dire con queste parole che ho appena detto?”, “Qual è il mio desiderio?” etc.
La psicoanalisi è un’esperienza di sottrazione dalla sfera della comunicazione sociale, dall’empatia generalizzata, dalla comprensione reciproca. Si paga per poter non comunicare. E così per la prima volta ascoltare le proprie parole. Perché il posto del destinatario delle nostre parole – che è il perno fondamentale su cui si costituisce il narcisismo dell’identità – sia, per una volta tanto, vuoto. In Treatment, imperniato com’è sul dialogo tra analista e paziente nella più tipica dialettica cinematografica di campo-controcampo che fonda la continuità e il successo della comunicazione, non può che nascondere questa dimensione asimmetrica della psicoanalisi. La parola di In Treatment è quella che si incarna nel dialogo tra due persone, come tradizionalmente avviene al cinema. Non è quella che è sempre, per così dire, oltrel’incarnazione che ne dà un soggetto. Ma era possibile fare diversamente? Forse per poter far vedere al cinema la spigolosità dell’inconscio non bisogna cercare di rappresentare lo studio dell’analista, ma cercare da qualche altre parte come solo i più grandi registi in passato sono stati in grado di fare. In Treatment, rimane una serie televisiva splendida, girata da un ottimo regista e interpretata da attori eccellenti. Il fatto che si sia misurata con un problema così difficile ma anche ambizioso come la parola psicoanalitica ripaga ampiamente di limiti che forse non erano comunque alla sua portata di poter esser risolti.
[Immagine: Sergio Castellitto nella versione italiana di In Treatment]
L’avventura della psicoanalisi, le convinzioni dei suoi fondatori e la trasposizione, più o meno azzeccata, nel cinema, rappresenta lo sforzo dell’intelligenza umana a comprendersi, a capire l’individuo e la sua individualità in rapporto con il mondo esteriore, con gli altri e con l’abisso che è in lui. “…Secondo Lacan il primo elemento di estraneità a noi stessi è il linguaggio. Parlare vuol dire emettere una serie di significanti il cui senso è enigmatico innanzitutto a colui stesso che parla…” giusta osservazione da parte dell’autore dell’articolo, così come il sottolineare che: “…il primo elemento di estraneità a noi stessi è il linguaggio…” perché nel linguaggio e con il linguaggio l’individuo può rivelare sé stesso, ma senza dimenticare che questa predisposizione naturale (parlare per farsi capire) è valida solo se è frutto di un proprio sforzo personale e non per la contaminazione forzata (educazione o contaminazione scolastica) indotta da chi si prefigge di veicolare la vita degli individui. E questo sarà il caso della Teoria Gender che se adottata dallo Stato Italiano come programma di educazione sessuale nelle scuole statali, avverrà che sin da bambino, l’uomo verrà privato della libertà di essere, di crescere secondo natura. Il bambino parlerà con il linguaggio imposto dagli adulti e sarà un adulto privo della libertà di scegliere il linguaggio più personale possibile per trasmettere le proprie condizioni psico-emotive. La psicoanalisi a questo punto non sarà più quella che è stata prospettata da Freud, da Jung o da Lacan, ma diverrà il laboratorio, anzi l’officina, a cui verranno individui a riparare i danni imposti e indotti da Teorie che hanno lampi di diabolicità. E tutto questo nel silenzio totale dei padri, dei saccenti rappresentanti, della psicoanalisi italiana
… “l’uomo verrà privato della libertà di essere, di crescere secondo natura”. Ma lei, caro Antonio, che frequenta questi ambienti virtuali e che presumo abbia qualche lettura alle spalle, perché viene a seminare in margine a questo articolo molto raffinato il suo pensierino? Gentilmente, le chiedo, che cosa intende per natura?
Da più parti è stata giustamente mossa alla serie televisiva ‘In treatment’ la critica di non dare spazio all’inconscio, preferendo descrivere un trattamento terapeutico centrato sull’immediatezza dei comportamenti mostrati dai pazienti del dr Marr.
Duole dirlo, ma questo è un fotogramma abbastanza fedele della realtà di un analista. La pratica clinica di ogni giorno accoglie una sofferenza diffusa, un molteplice confuso e disorientato che travalica il censo, la provenienza, e altre appartenenze più o meno riconosciute.
Aprire la porta a qualsivoglia disarmonia dell’essere umano, non significa a chiunque, giacchè bisognerebbe smetterla con la piccola impostura che l’ascolto analitico possa adattarsi a ogni persona, a ogni sofferenza. E in questo la serie televisiva non mente, evitando di mettere tutti sul lettino.
Non mente nemmeno quando mostra un reale sporco, disordinato, alcolista e tossicomane, che non poco confligge con una certa idea, purtroppo ancora in voga, della pratica clinica come balocco profumato o disciplina asettica e d’elitès. La gente di carne, che corrisponde in pieno ai pazienti che bussano alla porta del dr Mari, corrisponde sempre meno ai casi clinici esposti nei congressi altisonanti o discussi a più voci.
Il quotidiano è popolato da tanti agrimensori, dispersi e con poco desiderio, abbagliati da chimere farmaceutiche disseminate lungo le strade che quotidianamente percorrono.
La voglia di cambiamento, i dolori patiti, le sofferenze, le cicatrici della vita, le voglie di riscatto, appaiono per così dire sottotraccia. L’epoca del consumismo salutista ha riempito gli scaffali di rimedi farmaceutici pronto uso per affanni dell’anima da poco sfornati dagli scriba del DSM, capaci di catalogare e tramutare tante sfumature dell’animo umano in ‘patologie’. Anni ed anni di negazione della nostra interiorità hanno portato ad una generazione più incline alla pillola che non alla introspezione.
‘Dicono che sono brava ad insegnare, vorrei che lei mi dicesse di cosa soffro, e cosa secondo lei posso fare’ dice la giovane ragazza anoressica che sta ‘un po male’, e bussa alla mia porta perchè ‘bisogna curarsi’. Senza una identità definita, non del tutto inseriti nel legame sociale, non completamente dentro alla famiglia, non convinti. Un po’ sofferenti, un po’ gaudenti nel loro soffrire. Un poco boh. In cerca perenne di identità, di accettazione, di una collocazione difficile in quanto privi di un Altro alle spalle che abbia loro fornito una solida base. Questi sono gli italiani del contemporaneo. Il lavoro analitico è difficile, oggi, nella misura in cui la sogettivazione paga il prezzo a miriadi di identificazioni, sovente sintomatiche, delle quali si è perso il conto.
Per contro, il signore che sta realmente male, si presenta con la carta patinata dello studio professionale, che lo definisce affetto da ‘ depressione di terzo grado legata ad evento stressante’, formula che lo inquieta e sovrasta il suo dire.
‘Ho qualcosa? Ma cosa ho?’ parole che diventano un’ infinita interpellanza in cerca di una diagnosi che li plachi. Etichetta che facilmente trovano anche presso gli studi degli analisti.
Anch’essi spesso privi di quel solido lavoro alle spalle che permetterebbe loro di non commettere alcuni degli errori controtransferali nei quali incappa Castellitto.
La psicoanalisi deve essere attuale, ma demodè: cioè perseguire una pratica della singolarità e rinunciare a categorie onnicomprensive che nascondono il soggetto e schiacciano l’inconscio e le sue produzioni.
Molti psicoanalisti, per contro, hanno tramutato l’analisi in una religione per pochi adepti, sostituendo ai pazienti del dr Mari tomi di infinite disquisizioni teoriche, sempre più fini, sempre più ‘eleganti’. Edificando luoghi dai quali si può uscire convinti che le psicosi o le depressioni siano raffinate costruzioni, appannaggio di grandi musicisti scrittori, o poeti. Certi che un qualsiasi Herr Schreber aprirà il libro dei suoi deliri accompagnandoci in un percorso di verifica delle nostre teorie. Seccati se questo non avviene.
Il dottor Marri dunque apre la porta a richieste svogliate, scoraggiate e poco inclini ad ogni accenno di approfondimento, poiché vedono l’analista come il tedioso padre che, ad ogni costo, vuole condurli alla radice dei loro comportamenti, superato da centinaia di rimedi farmacologici acquistabili ovunque. Bene fa ad essere informale senza essere narciso, presente ma non presenzialista. Per questo motivo , e il film lo mostra bene, il transfert appare debole, cercando la prima paziente di mettere subito l’analista al suo pari, come uomo sul quale alimentare fantasie erotiche, stupita della sua non reazione.
L’impassibilità e il silenzio del buon analista, sono considerate oggi una anomalia retrograda, in un mondo liquido, spettacolarizzato, nel quale chi non accetta l’ingaggio o non nutre il suo narcisismo nei luoghi dello spettacolo, appare fuori tempo. Ma non dice , questa serie televisiva, della capacità dell’analista di saper sgombrare il tavolo da tutti questi preliminari, e aspettare l’inconscio manifestarsi sottoforma di sogno o lapsus.
‘Faccio l’analista perché so aspettare’, scriveva J. Lacan. Una massima fuori moda, oggi che i pazienti paiono avere fretta di guarire, come molti analisti di arrivare ad avere dati da pubblicare.