di Gianluigi Simonetti
[LPLC si prende una pausa estiva; la programmazione ordinaria riprenderà a settembre. Per non lasciare soli i nostri lettori ripubblichiamo alcuni testi usciti nel 2013. Questo saggio, apparso in una versione più lunga e completa su Between, III.5 (2013), è stato pubblicato il 23 settembre 2013].
1. Circa vent’anni fa, a Pisa, quando cominciai gli studi universitari, alcuni dei miei insegnanti di allora spiegavano che anche la letteratura più apparentemente frigida ed asettica ha molto a che fare col desiderio. Un po’ perché la letteratura serve a esprimere, in una struttura di compromesso, desideri consci o inconsci – con qualche preferenza per quelli socialmente o ideologicamente incompatibili; un po’ perché se il desiderio si manifesta nell’uomo, almeno apparentemente, come grandezza infinita, l’arte, soprattutto nella modernità, si è spesso pensata come ‘infinito possibile’, e quindi come equivalente stilistico del desiderio stesso[1].
Sono considerazioni che continuano a sembrarmi valide, ma che andranno in parte corrette o integrate se si guarda, come ci accingiamo a fare, al modo in cui desidera la narrativa italiana contemporanea, con un interesse particolare alla situazione degli ultimi anni. Impossibile investigare tutti i desideri – innumerevoli – che attraversano il nostro campo letterario; più banalmente si potrà tentare una schematica ricognizione della situazione della narrativa, attraverso l’analisi di alcuni testi esemplari. Al centro della nostra attenzione metteremo inoltre un solo tipo di desiderio – ma sarà il desiderio ‘forte’ per eccellenza, quello più incline alla mimesi e alla ricerca dell’infinito, ovvero il desiderio erotico (senza privarci di qualche puntata in sfere contigue, quando se ne presenterà l’occasione).
Proprio la centralità del desiderio come passione impone al nostro discorso la prima delle correzioni alle quali si accennava in apertura. Per secoli l’eros, e soprattutto l’eros considerato deviato o perverso, ha costituito per il discorso pubblico un contenuto represso perché socialmente inaccettabile, e dunque travisato o bandito dalla comunicazione ordinaria. Per queste stesse ragioni è stato spesso un oggetto poetico privilegiato, espresso nelle forme dell’arte al prezzo di molteplici compromessi strutturali; oppure esplicitato in quanto argomento trasgressivo, ma allora segregato, anche fisicamente, in un settore marginale e specifico dell’espressione artistica, quello degli ‘inferni’ delle collezioni private e delle biblioteche. Col passare del tempo, però, le leggi della censura e dell’autocensura si sono trasformate profondamente; il nostro senso comune prevede che l’esibizione dei desideri, anche di quelli più perversi ed estremi, sia sempre meno un contenuto rimosso, o un’infrazione morale, o un peccato, e sempre più qualcosa che è indifferente o addirittura appagante esibire – oggetto di comunicazione di massa e di scambio sociale (cfr. Bazin 1985: 251). Lo scandalo del desiderio, nell’estetica contemporanea, si esaurisce sempre meno nel piano dei temi e dei significati espliciti; l’«essere contro», o «altrove», che è tipico soprattutto della grande letteratura moderna, non coincide quindi l’affermazione di contenuti osceni; la perversione è sempre più glamour, ma il glamour è il contrario della (grande) letteratura.
D’altra parte – ecco la seconda correzione – la ricerca di un rapporto antagonistico con la società, la scommessa sullo spessore delle forme, l’investimento sul carattere ambivalente e polisemico dell’opera restano attivi nell’ambito della grande arte, e della letteratura che insiste a riconoscersi nel paradigma postromantico. Si tratta però di esperienze estetiche sempre più rare e di nicchia – non perché il valore degli autori o delle opere sia calato, ma perché sono cambiate, e stanno cambiando, le domande di senso che la società rivolge all’arte e alla letteratura. L’estetica della comunicazione di massa concepisce e induce socialmente a concepire l’arte sempre meno come ‘infinito possibile’ e via per l’assoluto, sempre più come evasione o divertimento, manufatto fungibile, realizzato da specialisti in scritture cosiddette di target, da scrittori ‘di categoria’ (i giovani, i personaggi televisivi, i giallisti, eccetera). Il rapporto tra arte e infinito, e quindi tra arte e desiderio, ne risulta profondamente modificato. Pochi libri che si ostinano a dare del tu all’assoluto, e che continuano a porsi come ‘infinito possibile’, si ritrovano circondati da testi che non hanno alcuna speranza né pretesa di sostituirsi al mondo, e che pure costituiscono a tutti gli effetti ‘letteratura‘ – che anzi ormai rappresentano la maggior parte, e la più visibile, della letteratura circostante. Testi che si accontentano di intrattenere il lettore, per poco tempo e con poco sforzo, sono ormai così numerosi, così ingombranti socialmente, così frequentemente scambiati per arte autentica da indurci sempre più spesso a pensare che la letteratura sia proprio quella cosa lì, incatenata alla mediocrità dei propri desideri.
Paradossalmente, nulla come il romanzo, nelle sue più grandi riuscite, ha saputo e sa raccontare la finitudine e la mediocrità. Nel momento in cui ci confrontiamo col romanzo che si scrive oggi, andrà sottolineato il fatto che nel sistema dei generi letterari proprio il novel ha rappresentato l’ambito più scettico, se non proprio il più critico, verso il desiderio – verso un desiderio considerato, nonostante le apparenze, inautentico e immaturo; che la lirica (e la musica) moderna di solito hanno immaginato l’eros con molte meno inibizioni – basti pensare alla proposta simbolista (ed ermetica) di un desiderio disseminato e indeterminato, sottratto al tempo e allo spazio, e quindi anche ai desideri borghesi, compromissori e abbassati, di cui ama discutere il novel.
2. Esiste però, ed è sempre esistito, un ambito di genere nel quale il romanzo stesso ha ceduto generosamente alla cattiva infinità del desiderio, e anzi se ne è nutrito: è quello del rosa, e della narrativa di consumo di argomento erotico–sentimentale. Opere seriali pubblicate in collane specifiche, a volte assemblate da semplici redattori, a volte romanzi ‘d’autore’ disponibili in collane di narrativa generalista; romanzi tout court nei quali però sopravvivono chiari elementi di genere. Ebbene, all’atteggiamento critico e realistico del novel, alla sua pervicace volontà di razionalizzare, sminuire e smascherare, il romanzo rosa e quello erotico–sentimentale contrappongono da sempre l’incommensurabilità, l’ineffabilità, l’infinità dell’eros:
E’ l’amore. L’amore con la A maiuscola, l’amore folle, quella felicità assoluta, quello per cui non esiste più nessuno per quanto è bello. Amore infinito. Amore sconfinato. Amore planetario. Amore, amore, amore. Tre volte amore. E vorresti ripetere questa parola mille volte, e la scrivi sui fogli e scarabocchi il suo nome, anche se poi di lui non sai quasi niente. (Moccia 2007: 357)
In quest’ambito il romanzo non spinge il lettore a capire, ma a «rilassarsi», a «stare bene» – o almeno a darsi un tono; la cultura stessa, quando se ne parla direttamente, rappresenta meno uno strumento di conoscenza e di accertamento che un ‘oggetto’ seducente:
A volte, mentre passeggio, mi viene voglia di andare in una libreria. Entrare e trascorrere del tempo, prendendo ogni tanto un libro in mano, mi rilassa. Mi fa stare bene. Mi fa sentire sempre un po’ più intelligente e interessante di come sono realmente. Se poi incrocio lo sguardo di una donna, solitamente le faccio un sorriso delicato e educato. Mi sento un uomo affascinante in una libreria. (Volo 2007: 62)
La paraletteratura si sottrae a quel compito di smascheramento dei meccanismi inautentici del desiderio che il novel ha esercitato e tendenzialmente continua a esercitare, nel ghetto dorato di quella che chiameremo, per capirci, letteratura ‘in senso forte’. Il contributo della letteratura triviale risulta dunque specifico, e andrà analizzato iuxta propria principia, e integrato alla fisionomia generale del campo letterario. Se quel che si intende costruire, attraverso lo studio della letteratura contemporanea, è un’ipotesi di storiografia del presente, le scritture di consumo devono restare all’interno dell’ambito d’indagine, anche al prezzo di modificarne il perimetro: è questa la terza delle correzioni che occorre applicare ai nostri postulati di partenza. Tanto più che la paraletteratura tende a essere, molto più della letteratura ‘in senso forte’, espressione diretta del desiderio; perché più prossima alla materializzazione e alla realizzazione del fantasma, e perché in collegamento meno mediato con l’inconscio stesso[2].
Il nostro discorso non potrà quindi fare a meno di distinguere tra una narrativa esplicitamente di consumo, declinata nei sottogeneri a volte mescolati del rosa e dell’erotico, e una che si vuole ‘forte’, e in alcuni casi specificamente sperimentale. In mezzo, una narrativa sospesa tra ricerca di riscontro mercantile e aspirazione alla vidimazione culturale – presenza sempre più rilevante negli scaffali delle nostre librerie. Una letteratura che definirei di «nobile intrattenimento» – come ho sentito fare, durante una conversazione privata, dal funzionario di un’importante casa editrice italiana, persona intelligente e abile scrittore in proprio.
3.1. Come tutti i prodotti di genere, anche il romanzo rosa sente di non poter fare a meno di schemi ricorrenti: il lettore di paraletteratura è proprio colui che rinuncia in partenza alla potenzialmente infinita varietà dei testi per scegliere «quell’unico “testo” che è il genere» (Rak 1980: 64). La bruttezza, anche nel caso specifico del romanzo rosa, nasce quindi dal rigoglio degli stereotipi, il quale a sua volta deriva dalla necessità di ‘far scorrere’ la lettura, di assicurare «l’immediata visibilità dell’intreccio» (Rak 1999: 79); il genere produce conferme, regalando al lettore l’illusione di essere padrone del testo – destinatario onnipotente e affrancato dal reale[3]. Quanto alla morfologia del rosa, dal primo dopoguerra in poi ricorda in particolare quella della fiaba, che influenza anche la narrativa erotica e perfino quella pornografica[4]. L’intreccio si sviluppa a partire da un incontro, da cui scaturisce il desiderio, che si esprime in una mossa di appropriazione; in un mondo fatto di relazioni semplici e lineari, di legami sostanzialmente privi di ambiguità, l’eroe o più spesso l’eroina mettono alla prova i loro limiti; esitano, vacillano, ma di solito (anche se non sempre) vincono – l’esito è spesso quello della realizzazione del fantasma, magari attraverso il matrimonio. Le difficoltà, se ci sono, finiscono subordinate al mito dell’amore felice; a soddisfare, più che il lieto fine, è l’andamento stesso del racconto, ovvero la certezza che ogni passaggio narrativo è funzionale a un ordine[5].
Lo schema di Cenerentola, da questo punto di vista, non è tanto diverso da quello di tanti esemplari del ‘rosa’ classico – i libri di Liala, nell’epoca d’oro del romanzo sentimentale italiano – o da quelli del più recente ‘rosa seriale’ di matrice Harlequin (in Italia Harmony o Bluemoon)[6]. Oggi se ne ritrovano tracce in diversi romanzi di Federico Moccia e Fabio Volo – per esempio Scusa ma ti chiamo amore o Il giorno in più; testi perfino meno coraggiosi, in definitiva, dei vecchi romanzi di Liala, perché neanche ci provano a simulare il conflitto tra eros e realtà, preferendo correre a briglia sciolta verso la realizzazione del desiderio stesso. Alla rappresentazione della felicità di coppia non viene riservato il momento dello scioglimento finale, come si potrebbe pensare, ma il corpo stesso del testo, integralmente happy; i momenti disforici coprono uno spazio brevissimo, i traumi sono piccoli e spesso reversibili. In Scusa ma ti voglio sposare i tre migliori amici del protagonista Alex, tutti sposati, vengono lasciati dalle mogli nel giro di poche settimane, uno dopo l’altro; lo stesso Alex entra in crisi con Niki (il matrimonio annunciato all’inizio arriverà solo alla fine del libro): ma tempo qualche settimana e tutti (tranne uno) torneranno con le rispettive compagne e saranno più felici di prima. Nel finale a sorpresa di Amore 14 Carolina scopre di essere stata tradita dal suo grande amore Massi, ma bastano tre pagine e pochi minuti per rimetterla in sesto («Faccio un respiro lungo e mi sento un po’ più sicura», Moccia 2008: 411).
Qualcosa di simile si ritrova in Fabio Volo. In Il giorno in più, la fuga dell’amata Michela non solo non dura più di una trentina di pagine – e comunque il dolore che ne deriva è espressamente censurato, espunto dal racconto:
C’è stato un periodo, circa due settimane, in cui è mancata. […] Non riuscivo a darmi pace. Quella separazione mi angosciava, mi angosciava il senso di impotenza: non potevo rivederla o rintracciarla, non sapevo nulla di lei.
Di quelle tristi mattine non voglio parlare. (Volo 2007: 24–25)
Dietro le sue rimozioni, il romanzo sentimentale dei nostri anni sembra sforzarsi soprattutto di conciliare due desideri opposti: il desiderio egocentrico di coltivare il proprio individualismo fuori dalla coppia, e il desiderio borghese di fondersi simbioticamente con il proprio partner, all’interno della coppia. Nei romanzi di Liala un analogo dualismo del desiderio si incarnava regolarmente in due tipologie ben distinte: trasporto della protagonista verso un uomo più anziano, indulgente e paterno, e trasporto verso uno più giovane, ardente e appassionato. Nel ‘rosa’ moderno, di matrice Harlequin, si verifica più spesso una metamorfosi del desiderio, cui corrisponde la transizione di uno stesso personaggio da una tipologia all’altra: la simpatica canaglia che a un certo punto del libro si trasforma in fedele innamorato sotto gli occhi stessi dell’eroina (come alla fine della trilogia di Fifty Shades of Grey). In ogni caso, entrambe le esperienze, corteggiamento selvaggio e coniugalità rispettosa, eros e agape, risultano a disposizione della protagonista femminile – ma separatamente, e in diacronia (cfr. Roccella 1998: 61). In Moccia, invece, o in Volo – per riprendere i due nomi fatti prima – un’analoga opposizione tra individualismo centrifugo e simbiosi centripeta si presenta simultaneamente, e investe tanto i protagonisti maschili quanto quelli femminili, oggetto e soggetto del desiderio. Si potrebbe parlare di una scissione al cuore di tutti i personaggi principali, se non fosse che questa opposizione senza ambivalenza non viene affatto percepita, e tantomeno tematizzata, come una scissione. Tutti i protagonisti di Moccia e Volo sono costruiti attorno al nucleo – vuoto – di una infinita disponibilità al desiderio (e quindi anche a desideri contrastanti tra loro); c’è qualcosa di antropologicamente nuovo, e di profondamente consumistico, in questa ‘impossibilità di negarsi’ – e, fondamentalmente, di scegliere:
Una delle cose che mi piacevano con Michela era che con lei si poteva andare ovunque. Sia nei posti ignoranti, anche un po’ squallidi, sia nei posti eleganti. Senza nessun problema. Aveva la capacità di scendere e salire dai tacchi, entrare e uscire da abiti e jeans senza mai essere diversa. Era sempre lei in qualsiasi situazione. (Volo 2007: 225)
«Amo giocare. Essere libera. […] Sono felice di me anche quando faccio la spesa e spingo il carrello. Se mi va la sera esco, altrimenti me ne sto a casa a leggere o a guardarmi un film […]. Sono indipendente. Difenderei questa condizione con tutte le mie forze. Sempre. Eppure anch’io a volte avrei bisogno di un abbraccio, di arrendermi e perdermi tra le braccia di un uomo. Un abbraccio che mi faccia sentire protetta anche se so proteggermi da sola… Sono in grado di fare le cose di cui ho bisogno, ma a volte vorrei far finta di non esserlo per il piacere di farle fare a qualcun altro per me. È una sensazione. Ma non voglio stare con un uomo per questo. Non posso scendere a compromessi, e non posso rinunciare a tutto quello che ho, alla mia libertà, per quell’abbraccio». (Ibid.: 145)
Avrei voluto essere quell’abbraccio in cui desiderava perdersi. Protetta e libera di lasciarsi andare, perché tanto c’ero io a prendermi cura di lei, a difenderla dal freddo e dal male. (Ibid.: 195)
«Protetta e libera di lasciarsi andare»: in Volo, come in Moccia, il compromesso è localizzato in una formula – la «libertà dell’amore» – sulla cui contraddittorietà logica il lettore è invitato a sorvolare:
Sto molto bene da solo, e la mia vita senza di te è meravigliosa. Lo so che detto così suona male, ma non fraintendermi, intendo dire che ti chiedo di stare con me non perché senza di te io sia infelice: sarei egoista, bisognoso e interessato alla mia sola felicità, e così tu saresti la mia salvezza. Io ti chiedo di stare con me perché la mia vita in questo momento è veramente meravigliosa, ma con te lo sarebbe ancora di più. […] Più una persona sta bene da sola, e più acquista valore la persona con cui decide di stare. (Volo 2003: 178)
Una soluzione a breve termine della contraddizione tra il volersi amare e il voler essere liberi, in Il giorno in più, è quella del «fidanzamento a termine»; fin dall’inizio della loro relazione i due amanti decidono che staranno insieme solo per nove giorni, per poi lasciarsi di comune accordo. Guarire da quella sindrome che è lo stabilire legami è possibile attraversando per il tempo della terapia un legame in miniatura, un microfidanzamento, «senza paranoie sul futuro, senza mettere tra noi tutto il nostro passato» (Volo 2007: 168):
Libero di essere ciò che volevo. […] Pensandoci bene, l’idea che, comunque fosse andata quella storia, sarebbe durata solo nove giorni, stranamente mi tranquillizzava. (Ibid.: 165)
Quanta nevrosi dietro questa abolizione consensuale delle «paranoie»:
Pensa che io per stare bene con una donna ho bisogno del contrario: meno mi sento legato e più sto bene. (Ibid.: 146)
A lungo termine, la contraddizione è teorizzata (e resa accettabile) nella forma del cambiamento:
Quel gioco mi aveva reso migliore. Avevo fatto progressi enormi nell’espressione della mia emotività. (Ibid.: 244)
Ma non è certo la Bildung dei personaggi romanzeschi classici, lenta e legata ai progressi di una psicologia che si sente e si vuole unitaria; semmai una trasformazione istantanea e ingiustificata, a rischio continuo di reversibilità, legata a una personalità vagamente schizoide; una psicologia in continua espansione, sulla quale è preferibile non farsi domande:
«Non ho mai fatto una cosa così per una donna, e non so nemmeno perché l’ho fatto adesso.»
«Beh è un buon segno, no? O preferivi essere ancora una volta la stessa persona?» (Ibid.: 130)
Il cambiamento è così repentino da non dare il tempo di classificare la contraddizione, organizzarla, ed eventualmente superarla; l’importante non è capire, ma vivere. E quando i personaggi riflettono sulla loro esperienza è solo per concludere che è meglio non riflettere troppo; le esperienze valgono per la loro capacità di svilupparsi in orizzontale (cioè in ricchezza e varietà di soluzioni), non in verticale (cioè in profondità e in durata). A essere rimosso a favore di una presentificazione onnipotente è soprattutto il passare del Tempo, inteso come costruzione e usura:
Ciò che stavamo vivendo non era come quando si è innamorati, era una cosa nuova. Forse non migliore, ma sicuramente diversa. […] Non stavamo costruendo un rapporto, lo stavamo semplicemente vivendo. (Ibid.: 236)
Il narcisismo dei personaggi è pervasivo e simmetrico; l’amore, la proiezione di un fantasma su uno specchio (o una «sega mentale», Ibid.: 128), un gioco tra estranei che del resto non vogliono tanto conoscersi quanto riconoscersi – specchiati – negli occhi dell’altro:
Quella mattina ho visto il suo sguardo riflesso dal finestrino. Mi guardava. Ci siamo incontrati lì, su quel vetro che, in trasparenza, riusciva a catturare le nostre immagini. E lì, nell’incontro dei nostri visi specchiati, ho scoperto che è molto più intimo uno sguardo incrociato che uno diretto. (Ibid.: 21)
Vorrei evaporare in mille bollicine e ricompormi sul vetro dietro di te, dove l’altro giorno ho visto la tua immagine e la mia riflesse. Vorrei essere la stessa immagine di me che l’altro giorno non ho riconosciuto. (Ibid.: 127)
Tu sei la donna con cui mi sono sentito più bello e ciò che ho visto di me stando con te sarà eterno. (Ibid.: 216)
3.2. «Se in Liala l’amore viene identificato col piacere, nei nuovi rosa l’amore viene identificato dal piacere» (Roccella 1998: 65): rispetto ai loro incunaboli primonovecenteschi, i rosa contemporanei risultano meno conflittuali narrativamente e più espliciti tematicamente. Ma mentre come vedremo la narrativa più ambiziosa fa spesso un punto d’onore del varcare la soglia del buon gusto, dell’infrangere chiassosamente – e non disinnescare – la legge morale, il rosa e perfino l’erotico mostrano l’accortezza di fermarsi un passo prima che il desiderio diventi ossessione, degrado o scarnificazione. Fondamentale è che il desiderio sia sempre valorizzato, mai messo veramente in discussione.
E’ quanto sostanzialmente si verifica anche in quei testi di genere che esibiscono un erotismo che saremmo indotti a classificare come perverso. La trilogia di Fifty Shades – non un romanzo italiano (e per questo fuori dalla presente analisi), ma un modello internazionale che sta già producendo equivalenti italiani[7] – è interessante perché la natura perversa del desiderio dei protagonisti viene tematizzata nel motivo sadomasochista, e perché lo stesso patto sadomaso si prolunga e si sublima in un matrimonio prima e poi in una famiglia (versione derisoria del ‘contratto’ al centro del legame masochista)[8]. Da un lato Fifty shades contribuisce a democratizzare pratiche un tempo percepite come estreme; dall’altro un vero adepto del sadomaso è destinato a rimanere deluso da questa rappresentazione – non solo perché il desiderio perverso del protagonista viene messo in relazione a un’infanzia di abusi, ma perché risulta capillare nel testo il bisogno di riscattare la trasgressione, di integrarla al perbenismo del genere. Dietro un’audacia ben temperata e l’eleganza del restyling continuano insomma ad agire i due poli novecenteschi del romanzo di consumo – la dialettica fra riconferma dei ruoli e (blanda) volontà di eversione, tra una trasgressione ‘a orologeria’ e una vena schiettamente pedagogica[9].
Il passaggio dal rosa all’erotico, o meglio a un erotico tinto di rosa, si presenta dunque segnato da un incremento di dettagli apparentemente trasgressivi in un quadro strutturalmente stabile. Come i personaggi di Moccia e Volo, anche la protagonista di Tre di Melissa P. dichiara fin dall’inizio di voler vivere la propria natura contraddittoria, divisa tra una «natura libertina» e un’«indole borghese»[10] (Melissa P. 2010: 136). La prima la spinge alla promiscuità sessuale, la seconda alla ricerca di «un amore più autentico», fatto di appartenenza e simbiosi. Ritorna il motivo narcisistico della ricerca di specchi (e dei suoi surrogati: le droghe, gli amanti), a ricucire i lembi della contraddizione:
Si era incastrata in una catena di infinite e costanti negazioni: chi le dava l’amore le negava il desiderio, chi nel desiderio la lasciava sguazzare le negava l’amore. (Ibid.: 47)
Anche Gunther è fatto di contraddizioni («sotto la sua scorza rumorosa, esisteva un cuore caldo», ibid.: 17; «sano e folle nello stesso tempo», ibid.: 72), e del resto è bisessuale, come George: saranno loro gli amori di Larissa, perché messi insieme ne rappresentano in buona misura il doppio – lo specchio quasi definitivo. Quasi, perché alla fine sarà Gunther a imporsi; verso di lui, in particolare, la protagonista non avverte «alcun elemento di separazione»:
Per la prima volta, tra tanti amanti aveva trovato uno specchio. Una corrispondenza, una fusione di altruismo ed egoismo, assenza e presenza. […] Era da sola, come sempre si sentiva, eppure c’era lui, la cui forza riusciva a percepire vena contro vena. (Ibid.: 36–37)
Era sempre stata una donna che solo desiderava il desiderio, che si dava tanto, troppo da fare, per ricercarlo e poi attribuirlo a quelle che erano soltanto maschere. Non aveva mai desiderato un uomo, né aveva mai davvero desiderato fare l’amore con un uomo. Era sempre successo per noia o vanità. (Ibid.: 99)
Con Gunther e George Larissa scopre una nuova dimensione del desiderio, di cui peraltro non sospetta il bovarismo di fondo; anzi, l’aspetto potenzialmente critico della scoperta è spazzato via dall’esigenza di simmetria e di infinità:
Stare in tre non era, come molti pensavano mentre loro tre si scambiavano baci, spezzare in tre punti l’energia e renderla inadoperabile. Era proprio il contrario: l’amore ha bisogno di essere moltiplicato e più lo moltiplichi più la sua energia sale, e scambiarsi triangolarmente energia equivaleva a rendere infinite non solo le possibilità del loro corpo, ma perfino le mete dello spirito che un qualsiasi altro rapporto tradizionale avrebbe ostacolato. (Ibid.: 116)
Quando sopraggiunge «un forte bisogno di vivere l’esperienza della maternità» (ibid.: 113), la logica simmetrica sembra prendere il sopravvento:
Chissà se lo sperma di tre uomini era in grado di essere sintetizzato dal suo utero e di generare un figlio che fosse il frutto non di due ma di quattro persone. (Ibid.: 119)
Soprattutto, si ricompatta la struttura del rosa: piccante e morbosetto fuori, ma conformista dentro, e sempre incline, al di là delle apparenze esorbitanti, a razionalizzare il desiderio dove più sembra scatenarlo («Mentre George soddisfaceva l’esigenza di Larissa di vivere una vita calma e, su più punti, misteriosa, Gunther le forniva le infinite possibilità del sogno e della magia», ibid.: 126). Si creano i presupposti affinché, nell’epilogo, la trafila delle trasgressioni e l’ebbrezza dell’orgia lasci il posto alla coppia tradizionale e alla maternità. Non sorprende che questo romanzo, segnato da un libertinismo esibito e, fin dal titolo, plurale, si chiuda con un rifiuto della promiscuità; la protagonista che si nega alla deriva orgiastica che lei stessa ha scatenato:
Dopotutto il suo corpo adesso era un tempio e la sacralità con la quale cercava di proteggerlo le faceva dimenticare ogni dilettevole promiscuità. Il suo corpo, fedele ai suoi accadimenti interiori, aveva bisogno di familiarità, di calore vero, di comprensione. (Ibid.: 152)
E ancor meno stupisce che il romanzo culmini in un parto, e nella scelta eloquente di un ritorno alla coppia; le possibilità restano infinite, ma «la vita è una» – il compromesso (come in Fabio Volo) è trovato nello stabilizzarsi di un rapporto in cui una parola ormai troppo grossa come ‘amore’ resti impronunciabile e impronunciata:
«Siamo tanti e le possibilità infinite. Ma la vita è una, il senso che le si può dare è solo uno. Non ci sono alternative», l’aveva presa per mano.
E fu in quel momento che Larissa sentì un’appartenenza totale a Gunther. Non aveva senso parlar d’amore o di sentimenti. Erano tutti argomenti che banalizzavano la loro natura. (Ibid.: 160)
3.3. Lo schema della conciliazione degli opposti funziona anche al di fuori della tematica strettamente erotica, perché alludendo alla forma stessa del desiderio che attraversa questi testi è pronta a ripercuotersi su tutti i desideri dei protagonisti. Vale la pena di notare, ad esempio, che una forma di conciliazione analoga attraversa l’opposizione tra due desideri non erotici – quello di essere altrove e quello di essere qui. Tutte le opere su cui ci siamo soffermati esprimono infatti una pulsione anarchica al nomadismo, o meglio, al turismo infinito, e una esigenza, tradizionalmente borghese, che spinge invece a consistere in uno spazio familiare. Il baricentro di questi romanzi si trova nei quieti interni borghesi di Roma o Milano: ma Tre prevede una lunga sosta a Buenos Aires, e qualche incursione parigina:
Seduto in un caffè di Montmartre, aspettava che il cameriere raggiungesse il suo tavolo per raccogliere i bicchieri vuoti. […] Guardò la fila dei calici che aveva allineato davanti a sé, tenendo un dito dentro un libro di poesie di Boris Vian. (Ibid.: 23)
Parigi ritorna anche in Scusa ma ti chiamo amore, e nella cornice di Il giorno in più, che è ambientato in buona parte a New York – come Scusa ma ti voglio sposare (parentesi più smaccatamente esotiche saranno le spiagge di Capo Verde in Un posto nel mondo e la fiabesca «isola blu» dove viene celebrato il matrimonio di Scusa ma ti voglio sposare). Escursioni più o meno lunghe ma tutte funzionali a una moltiplica dell’esperienza amorosa («Forse quella volta il film era uguale per tutti e due, e, in più, lo stavamo proiettando a New York», Volo 2007: 131) che il ritorno a casa dovrà poi compattare. L’ambientazione esotica costituisce spesso, in questi libri, una tappa rivelatrice del desiderio, e altrettanto spesso coincide con un exploit del piacere (il che suggerisce, tra l’altro, una sotterranea omologia tra eros ed esotismo):
Perché anche dal punto di vista emotivo ero un turista, visitavo per la prima volta quel territorio d’amore (Ibid.: 228)
Ma quel che più conta è che «trovarsi insieme all’estero» permette agli amanti di risolvere la contraddizione di voler essere contemporaneamente qui e altrove (e dentro e fuori la coppia). Essere e non sembrare un turista come essere e non sembrare un compagno monogamo:
Quando sono all’estero cerco sempre di sembrare uno del posto. Evito per esempio le zone turistiche, le cartine geografiche e le macchine fotografiche a tracolla. (Ibid.: 115)
In ogni città dove vado a vivere per un po’ c’è sempre un luogo che diventa «il mio posto». Quello dove vado per pensare, quello che mi regala una sensazione familiare di intimità. (Ibid.: 15)
Vale la pena di chiedersi, a questo punto, se la conciliazione degli opposti costituisca non solo la forma del desiderio, ma, in fondo, il desiderio stesso della letteratura di consumo, il nucleo che resiste in ciascuna delle sue provvisorie incarnazioni – l’amore, il sesso, il turismo – e tutte le accomuna. Un desiderio a suo modo anche politico; apparentemente anti-ideologico, ma tutt’altro che neutro nel decretare la fine delle mediazioni e delle alternative nette, binarie. Utopico, forse, nella sua ricerca di una conciliazione che sia elemento terzo, risolutore del conflitto (o addirittura rivoluzionario nell’immaginare una società che in assenza di conflitti può finalmente rinunciare a ogni forma di mediazione). Così, in Il giorno in più, il «microfidanzamento» tra il protagonista e Michela; così, in Tre, il sodalizio tra Gunther, George e Larissa:
Non è scopare e basta, non è ti amerò per sempre, è un terzo modo di stare insieme (Ibid.: 162)
Nessuno pensò alla parola amore, nessuno ebbe l’impressione che si trattasse di un’avventura erotica di breve vita (Melissa P. 2010: 105)
E’ soprattutto Tre a porsi come esplicito, anche se paradossale, elogio della molteplicità, della disponibilità infinita (paradossale, intendo, perché la protagonista finirà poi per scommettere, proprio come Fabio Volo, sulla più tradizionale delle coppie, eliminando con George uno dei lati del triangolo):
Voleva solo aiutare Ariel a capire quanto un rapporto a tre potesse essere giusto, in quel mondo che ingiustamente criticava o fraintendeva i rapporti multipli. (Ibid.: 143)
Ma un desiderio consumistico, anche, perché non prevede nessuna rinuncia e non ricerca nessuna autocoscienza[11]. Un desiderio entropico, che arraffa tutto; che aggira gli ostacoli, abolisce gli spigoli, abbatte le genealogie:
Era il momento, per Larissa, di onorare la promessa che si era fatta: addolcire i suoi spigoli, non rendersi troppo odiosa, non diventare come sua madre. (Ibid.: 141)
Bibliografia
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[1] Cfr. Orlando 1971, poi ripreso in Id. 1973, in particolare pp. 24 3 sgg. (ma cfr. anche Id. 1985).
[2] «La paralittérature se tient au plus près du fantasme, et, pas sono intermédiaire, au plus près de l’inconscient. La fin recherchée est l’obtention la plus directe possible d’un plaisir narcissique au travers du langage», Mandel 1970: 443. Cfr. anche Faeti 1981: 170.
[3] Rivive così la vecchia nozione gramsciana di letteratura popolare come sogno di rivincita; nozione preziosa e ancora cruciale, se all’accento sul contenuto di rivalsa sociale tipico di questa narrativa si somma la struttura spesso onirica che la contraddistingue, l’architettura di ‘sogno realizzato’ che permette l’evasione antirealistica di cui si nutre la cultura di massa. Cfr. Roccella 1998: 8.
[4] «Comme les enfants gourmands imaginent un monde de maisons en chocolat et de rues en nougatine où tout se lèche, se suce et se mange, le “porno” est un de ces mondes merveilleux où la réalisation du désir devance sa formulation» (Le Brun 2000: 280-281). In effetti nella pornografia i vincoli narrativi sono ancora più deboli che nella fiaba e nel ‘rosa’, e la proposta morale, fondamentale in quei generi, anche se non problematica, qui manca del tutto, o è di circostanza; molto più importante, nel porno, è la politesse («La politesse est en effet la première vertu des films pornographiques: il ne nous offrent jamais rien de plus que ce que nous désirons nous voir offrir», de Sutter 2007: 64).
[5] Cfr. Lazzarato – Moretti 1981: 25. Sulla centralità del bonheur nella metafisica del porno, cfr. de Sutter 2007: 17-33. Un’interpretazione opposta del nesso tra felicità e pornografia, e del significato politico di quel nesso, in Agamben 2002: 56-57: «Mostrare il potenziale di felicità presente in ogni minima situazione quotidiana e ovunque vi sia una socialità umana: questa è l’eterna ragione politica della pornografia. Ma il suo contenuto di verità, che la pone agli antipodi dei corpi nudi che affollano l’arte monumentale di fine secolo, è che essa non solleva il quotidiano nel ciclo eterno del piacere, ma esibisce, piuttosto, l’irrimediabile carattere episodico di ogni piacere, l’intima digressività di ogni universale. […] Nulla è più noioso di un uomo che abbia realizzato i propri sogni: è l’insulsa buona lena socialdemocratica della pornografia».
[6] Su Cenerentola come archetipo del romanzo ‘rosa’, cfr. Lazzarato – Moretti 1981: 16 sgg.
[7] Cfr. Borghese 2013, o, ancora più fedele al modello, la trilogia di Irene Cao.
[8] Cfr. Deleuze 2007, in particolare p. 66 sgg.
[9] All’interno di questo modello, una gamma di soluzioni differenti può portare a distinguere tra un ‘rosa’ più trasgressivo e uno più pedagogico – cui corrispondono storicamente, nella stagione d’oro del rosa (dagli anni Trenta ai Sessanta), i due opposti interdetti della critica: l’accusa di eccessiva trasgressione e quella di eccessivo conservatorismo. Mura è un esempio del primo caso, quando ripulisce la narrativa sentimentale di ogni scoria dolorosa e quasi esalta, a colpi di passività fiduciosa e ottimista, il peccato e la seduzione femminile. In Italia si è imposto soprattutto un rosa più genericamente virtuoso, pragmatico più che puritano, in cui la trasgressione è pronta a rientrare nei ranghi – come accade spesso nei libri di Liala. Cfr. Roccella 1998: 37 sgg.
[10] Il residuo psicologico della contraddizione è niente più che un fastidio: «Quel costante oscillare da un’incoscienza infantile e innamorata a una coscienza conforme alle regole morali della società in cui vivevano rendeva Larissa nervosa», Melissa P. 2010: 136.
[11] E perché a volte mutua il lessico delle transazioni finanziarie – come quando, in Un giorno in più, viene presa in considerazione l’idea di un matrimonio «a tempo determinato», con tanto di opzione di rinnovo: «Alla fine dei cinque anni se ci amiamo ancora e se ci va rinnoviamo, altrimenti ciao», Volo 2007: 179.
[Immagine: Sylvia Camarda in L’Étrange Couleur des larmes de ton corps (2013), di B. Forzani e H. Cattet (gs)].