di Alessandro Della Corte
[LPLC si prende una pausa estiva; la programmazione ordinaria riprenderà a settembre. Per non lasciare soli i nostri lettori ripubblichiamo alcuni testi usciti nel 2013. Questo intervento, apparso il 16 dicembre 2013, risponde a quello di Mauro Piras, intitolato Abolire la storia della filosofia, ripubblicato ieri].
Lo spirito che anima l’intervento di Mauro Piras sull’insegnamento della filosofia è secondo me del tutto sano: detto in breve, l’autore critica il relativismo smidollato che ha prevalso in tempi recenti (non solo nell’insegnamento) e propone un robusto ricorso, nella didattica, al «contenuto di verità» come criterio principale di analisi delle teorie filosofiche. Questa esigenza, secondo Piras, contrasta con la classica trattazione scolastica articolata su base storica, che procede da Talete a «qualche terra vaga del Novecento» cercando di fornire un quadro sintetico dei singoli filosofi e dello sviluppo storico del loro pensiero.
Trovo curioso (anche se non inspiegabile) che la proposta di abbandonare questo tipo di percorso sia considerata oggi alternativa a posizioni relativiste, mentre solo pochi anni fa le due tendenze procedevano in parallelo: la riforma Berlinguer-Maragliano, ad esempio, sostituiva con gli «elementi di filosofia» lo studio della sua storia, e contemporaneamente abbracciava con entusiasmo indifferente ogni forma di pensiero debole. D’altra parte, bisogna riconoscere che la versione della storia della filosofia descritta e criticata da Piras («ogni teoria è relativa, dipende dall’epoca, non esistono verità in generale ecc.») corrisponde bene a un modello oggi abbastanza diffuso.
Per sostenere il suo punto di vista l’autore impiega, tra gli altri, uno strumento dialettico ormai sempre più comune: citare le scienze dure come paradigma metodologico per tutte le discipline. Scrive infatti Piras:
La proposta che faccio è semplice: bisogna insegnare la disciplina così come è costituita. Più precisamente: bisogna insegnare i fondamentali della disciplina, come si possono individuare dal suo stato attuale. Per fisica ed economia, per esempio, a scuola si insegnano i fondamentali della disciplina: i manuali sintetizzano le conoscenza basilari, sulla base dello stato attuale della disciplina. Lo stesso si deve fare con la filosofia. Quindi, il punto di partenza è lo stato attuale della disciplina.
Vorrei discutere la posizione di Piras cominciando da questo punto specifico. Il brano appena letto illustra il punto di vista probabilmente più comune, oggi, sul modo in cui verrebbero usualmente insegnate le scienze dure come la fisica (la matematica, la chimica). Si tratta di un punto di vista che, sebbene abbastanza diffuso anche tra gli scienziati, è semplicemente sbagliato. Non è possibile, infatti, insegnare a scuola lo «stato attuale» della fisica.
Con ciò non voglio intendere solo, banalmente, che non è possibile trasmettere i contenuti che si trovano, a tutt’oggi, sulla frontiera della conoscenza. È del tutto ovvio che gli strumenti tecnici necessari per leggere un articolo di Physics Reports non possono essere posseduti dagli studenti (né peraltro dalla stragrande maggioranza degli insegnanti) di un liceo; semplici considerazioni di questo tipo sono spesso utilizzate (non senza fondamento) da chi, difendendo lo studio delle discipline su base storica, sottolinea come solo ripercorrendo le tappe successive che hanno condotto alle odierne elaborazioni si possono acquisire gli strumenti concettuali necessari alla loro piena comprensione.
Io intendevo però qualcosa di più radicale: non solo, infatti, è impossibile studiare la fisica partendo direttamente dai suoi sviluppi più recenti; anche affrontando i primi fondamenti della scienza, in effetti, si dovrà studiare dapprima una loro versione “obsoleta”, significativamente diversa da quella corrispondente allo «stato attuale della disciplina» (per la precisione: con essa contraddittoria). Per un complesso di conoscenze rigidamente organizzate come le teorie della fisica, infatti, ogni progresso sostanziale implica un generale ripensamento di tutta l’architettura, che si riflette anche sulla formulazione dei concetti più elementari.
Facciamo qualche esempio. Nelle prime lezioni di fisica, al liceo come all’università, viene introdotto il concetto di quantità di moto di un corpo, e la relativa legge di conservazione: nell’interazione tra corpi sufficientemente lontani da tutti gli altri, la somma dei prodotti delle masse per le velocità è una grandezza invariante. Non possiamo pensare a questa legge come a un pezzetto ormai acquisito di una più generale “verità”, ben collocato tra le solide fondamenta di tutto l’edificio teorico quale che sarà l’architettura dei suoi piani superiori. Con l’avvento della relatività ristretta, ad esempio, la quantità di moto diventa un concetto sostanzialmente diverso, che può esprimersi in vari modi equivalenti (come prodotto della massa, corretta relativisticamente, per la velocità; oppure come prodotto della massa a riposo per la velocità misurata rispetto al tempo proprio del corpo in moto), ma che in ogni caso assume una nuova forma, di cui quella classica è solo un’eccellente approssimazione.
Poiché la definizione stessa di massa è logicamente connessa alla conservazione della quantità di moto, è evidente che anche l’introduzione di questo concetto basilare non corrisponde affatto (anche nella didattica universitaria) alla sua versione «attuale», e neppure a quella ormai vecchia di più di un secolo della relatività ristretta. Se pensiamo poi alla relatività generale o, facendo un salto di alcuni decenni, all’odierna teoria delle particelle elementari, che per spiegare la massa usa strumenti formali lontanissimi dalla nostra idea intuitiva di “materia”, come l’introduzione di opportuni campi scalari complessi (il campo di Higgs), diventa ancora più chiaro che quella fornita nei primi passi dello studio della fisica è solo la preistoria del suo contenuto corrente.
Un altro esempio più semplice (ma in un certo senso più rozzo): la definizione di energia che viene dapprima adottata in meccanica, deve essere progressivamente estesa man mano che si procede verso teorie più recenti (termodinamica, elettromagnetismo, fisica relativistica), affinché le relative leggi di conservazione restino valide; in particolare, un grosso salto di qualità concettuale è naturalmente connesso all’introduzione della possibilità di una conversione massa-energia. Anche relativamente a questo concetto, quindi, il percorso seguito nella scuola non corrisponde affatto a una descrizione sistematica (per quanto semplificata) del punto di vista della fisica «attuale», ma all’esposizione dei contenuti più o meno nel loro ordine storico.
Gli esempi potrebbero facilmente essere moltiplicati, ma credo che il concetto sia chiaro: la rigidità che caratterizza una scienza esatta come la fisica, la stretta connessione tra le sue parti, comporta la necessità di una sua rielaborazione profonda e continua, e quindi l’impossibilità di disporre di fondamenta indefinitamente solide e allo stesso tempo «attuali» da trasmettere agli studenti fin dalle prime lezioni. Ciò non vuol dire affatto che la versione dei fondamenti della fisica insegnata a scuola non abbia in sé un senso ragionevolmente preciso e, entro certi limiti, compiuto; vuol dire solo che non si tratta della versione attualmente assunta dai fisici nel loro lavoro di ricerca, ma di una forma più elementare che di fatto ripercorre (in modo ovviamente semplificato) lo sviluppo storico della scienza.
Per molti concetti della matematica si può fare un discorso del tutto simile. I primi elementi di calcolo delle probabilità, ad esempio, vengono esposti nella scuola in un’“obsoleta” forma ingenua (come del resto quasi tutta la matematica, con l’importantissima eccezione della geometria sintetica), senza fare ricorso alla rigorosa sistemazione logica che fu introdotta da Kolmogorov negli anni ’30 e che rappresenta il sistema assiomatico oggi più comunemente utilizzato. Se dovessimo spiegare sistematicamente il calcolo delle probabilità in modo corrispondente al suo stato «attuale», dovremmo partire proprio dalla sua assiomatica, cercando di renderla accessibile al livello della scuola secondaria. Il percorso seguito, che trascura inizialmente i problemi fondazionali, è invece molto più simile a quello storico.
Questo aspetto metodologico non è, infine, tipico delle sole scienze esatte. Perfino in una scienza molto più schiettamente sperimentale come la biologia sono osservabili, in misura minore, fenomeni analoghi. I risultati paleontologici della seconda metà del Novecento hanno ad esempio comportato una profonda revisione dei meccanismi elementari attraverso cui la selezione naturale guida l’evoluzione delle specie viventi (penso in primo luogo alla teoria degli equilibri punteggiati di Gould e Elredge), e il quadro gradualista esposto in genere nella scuola, in cui le specie evolvono lentamente passando con continuità e con velocità evolutiva uniforme attraverso tutti gli stadi intermedi, non corrisponde più alla visione generale della biologia «attuale».
Questo stato di cose è a mio avviso del tutto fisiologico se assistito da una sufficiente consapevolezza epistemologica. Uno degli scienziati dal pensiero filosofico più raffinato, Henri Poincaré, aveva intravisto le ricadute potenzialmente problematiche della «nuova fisica» sulla didattica già al suo primo apparire. Ecco cosa scriveva, nel suo tipico stile cristallino, concludendo il lungo articolo La nuova meccanica (1908), pubblicato in Italia in Scienza e metodo (Einaudi, 1997):
Per concludere, mi sia concesso esprimere un auspicio. Supponiamo che nei prossimi anni queste teorie siano sottoposte a nuove verifiche e le superino brillantemente: il nostro insegnamento secondario correrà allora un serio pericolo. Alcuni professori saranno probabilmente ansiosi di dare spazio alle nuove concezioni; le novità sono così allettanti e com’è difficile non sembrare abbastanza al passo coi tempi! Vorranno almeno schiudere ai loro ragazzi ampi orizzonti, e prima di insegnar loro la meccanica ordinaria, li avvertiranno che questa ha fatto ormai il suo tempo e poteva andar bene tutt’al più per quel vecchio babbeo di Laplace. E gli studenti non prenderanno dimestichezza con la meccanica ordinaria.
È bene avvertirli che questa meccanica è soltanto approssimata? Sì, ma più tardi; quando ne saranno completamente imbevuti, quando si saranno abituati a pensare solo attraverso di essa, quando non correranno più il rischio di disimpararla, allora non vi saranno inconvenienti a indicare quali sono i suoi limiti.
I timori di Poincaré si sono puntualmente avverati, e la caratteristica fisiologica dell’insegnamento scientifico finora descritta è stata vista spesso come un grave limite della didattica. I tentativi di rimediare a questo problema, tuttavia, hanno di solito portato solo a perturbazioni superficiali del sistema: da questo punto di vista i manuali di fisica degli ultimi anni si differenziano da quelli precedenti, in genere, solo perché si limitano a interpolare, nella vecchia trattazione sistematica, alcune “schede” relative ai contenuti più recenti, spesso banalizzanti e/o incomprensibili, che vengono di solito trattate dall’insegnante dotato di pigro buon senso come un di più inessenziale. (Il fatto poi che in genere nella scuola non venga assorbita in modo soddisfacente neppure la fisica “preistorica” è un altro, più grave problema).
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Una critica energica alla deriva relativista della conoscenza (come quella che le viene a mio parere giustamente riservata da Piras) corre quasi sempre il rischio di sfociare direttamente in posizioni speculari secondo me altrettanto insostenibili.
Parlando del dibattito tra ermeneutici e analitici, Piras sintetizza la questione nel seguente modo:
Il secondo dibattito si presenta invece così: o la filosofia appartiene sempre al suo contesto di origine, e allora va interpretata; o la filosofia è una conoscenza razionale, che va fatta sistematicamente, tramite le tecniche dell’analisi filosofica. La prima opzione sarebbe quella ermeneutica, erede di storicismo ecc.; la seconda sarebbe quella della filosofia analitica.
L’autore prosegue sostenendo la complessiva sterilità di un dibattito di questo tipo in prospettiva didattica, ma io vorrei cogliere l’occasione per una riflessione nel merito. Credo infatti che proprio attraverso un paragone con le scienze dure sia possibile mettere in luce più chiaramente alcuni limiti intrinseci di questo tipo di dibattito.
L’antitesi tra prodotti culturali e «conoscenze razionali», secondo me, non mette quasi mai correttamente a fuoco il problema quando si parla di elaborazioni teoriche complesse. Il rifiuto di posizioni ingenuamente relativiste (tra cui quella «erede dello storicismo» criticata da Piras) non deve implicare necessariamente, infatti, l’adozione di un’ottica “assolutista” altrettanto ingenua, che rovesci in tutto e per tutto la precedente senza per questo intaccarne la rozzezza.
Gli esempi provenienti dalla scienza mi sembrano in tal senso particolarmente illuminanti. La validità delle teorie scientifiche non è “relativa” come, ad esempio, quella degli ideali estetici o delle credenze religiose. Ciò non significa, tuttavia, che possiamo ingenuamente pensare alla scienza corrente come a una “verità oggettiva” del tutto indipendente dalla cultura che la produce e la consuma. Le teorie scientifiche infatti, pur essendo indubbiamente un tentativo di organizzare una «conoscenza razionale» della realtà, sono anche prodotti culturali, come dimostra il semplice fatto che nessuna civiltà ha mai reinventato, in modo del tutto indipendente dalla sua nascita nell’ambito della cultura ellenistica, gli elementi essenziali che caratterizzano la scienza esatta, come la struttura ipotetico-deduttiva. Per comprendere davvero la scienza dobbiamo guardarla attraverso gli occhi del mondo che la circonda, altrimenti rischiamo di limitarci a una prospettiva del tutto superficiale. Un esempio semplice: supponiamo che tra qualche secolo qualcuno si metta a studiare i fondamenti di un’antica scienza chiamata informatica teorica limitandosi agli odierni manuali tecnici, senza avere nessuna idea del fatto che essa abbia avuto uno stretto rapporto con la progettazione e l’uso di strani oggetti come i computer, né dell’enorme ruolo giocato da questi oggetti nella nostra vita; nel migliore dei casi, l’informatica teorica sarebbe giudicata solo un gioco follemente complicato, nel peggiore sarebbe completamente fraintesa in uno dei virtualmente infiniti modi possibili. Potremmo forse pensare che uno studio del genere restituisca un’immagine appropriata della nostra scienza?
Un discorso in una certa misura analogo vale, secondo me, anche per le teorie filosofiche, e in questo senso le (provocatorie?) affermazioni di Piras sull’irrilevanza del contesto storico (l’autore parla di «informazioni di natura storica e contestuale che attualmente appesantiscono inutilmente i corsi e i manuali») mi sembrano abbastanza discutibili. Credo che la comprensione della gnoseologia kantiana, per fare un esempio collegato a quanto discusso finora, sia resa molto più difficile se essa non viene connessa all’ambiente culturale del suo tempo, sottolineando ad esempio il ruolo dell’immensa autorità acquisita, all’epoca, dalla scienza esatta, in particolare grazie all’impetuoso sviluppo della meccanica celeste. La riflessione gnoseologica di Kant nasce come un tentativo di sistemare dal punto di vista filosofico l’universo descritto dalla fisica newtoniana, e ignorare questo rapporto sarebbe quanto meno fuorviante. Questo non vuol dire affatto, secondo me, che essa non sia portatrice di un «contenuto di verità» che può avere ancora oggi un significato oggettivo per noi. Credo infatti che almeno alcuni dei problemi che Kant si pone siano risolti con ragionevole successo nell’ambito della sua opera, ma penso anche che Kant non se li sarebbe posti affatto se non si fosse trovato in quel periodo e (per lo meno) in quel continente.
Un esempio altrettanto chiaro è quello della logica, a proposito della quale Piras scrive:
La domanda infatti adesso è: come procedere in ogni ambito? Io penso che la risposta sia la più banale, legata allo stato della disciplina: secondo la natura dell’ambito stesso. Per esempio: in logica è evidente che non si procederà storicamente, ma sistematicamente.
Credo, al contrario, che studiare la logica proposizionale stoica (e il suo rapporto genealogico con la teoria aristotelica del sillogismo), sia un modo di introdurre lo studio della logica decisamente preferibile rispetto a una trattazione «sistematica» che introduca fin dall’inizio, ad esempio, il concetto di proposizione indecidibile, per motivi del tutto analoghi a quelli già esposti relativamente ai contenuti delle teorie fisiche.
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Il punto di partenza del discorso di Piras, che condivido in buona parte, era l’aspra critica alla prospettiva storicista di stampo hegeliano. Mi sembra però che la sua idea di estendere la censura alla stessa trattazione su base storica comporti un salto logico. Come infatti egli stesso scrive, «il problema non è solo l’impostazione storica, ma il disegno storicistico che c’è dietro». Piras, tuttavia, motiva il suo generale rifiuto dell’approccio storico con il fatto che
[…] il modello storicistico, in qualsiasi variante, tende a prevalere surrettiziamente su qualsiasi interpretazione “solo” storica. Mi spiego: in un modo o nell’altro, il docente e il manuale tendono a sovrapporre una chiave interpretativa generale, che permetta di chiarire perché è giusto passare da un autore all’altro, al di là della pura cronologia. Questa chiave interpretativa può essere lo sviluppo dialettico del concetto, il succedersi delle epoche storiche o delle formazioni economico-sociali, il cambiamento di episteme ecc. In ogni caso si cade in questa roba qui, anche senza volerlo, perché si vuole dare un senso al percorso.
Oppure, se davvero non si fa questo, possono succedere solo due cose: o si affonda in una erudizione storico-filosofica pazzesca (oggettivata dalla mole impressionante dei manuali), oppure ci si riduce ad alcuni “medaglioni”, che isolano i grandi pensatori con le loro teorie, piuttosto scollegati tra di loro. La sua conclusione quindi, come già detto, è che bisogna eliminare i problemi troncandoli alla radice, poiché
[…] sui problemi specifici, all’interno di ambiti specifici, è più facile vedere la forza o la debolezza di una soluzione teorica. Una certa perdita dell’unità delle opere dei filosofi non è quindi un problema. Ovviamente, si tratta di fare, in tal senso, una scelta culturale. Ma anche quella di preservare tale unità con l’impostazione storicistica è una scelta culturale, che ha costi molto più alti per lo statuto della filosofia, perché ne mina le pretese di verità.
Dal mio punto di vista quello che la (condivisibile) pars destruens di Piras mette in evidenza è in realtà un vuoto culturale. Se il problema è questo, se cioè la prospettiva storicista di stampo hegeliano «tende a prevalere surrettiziamente» in ogni studio articolato storicamente, ciò è dovuto infatti alla mancanza di un quadro alternativo altrettanto semplice e generale. Si tratta, come dice Piras, di fare una scelta culturale, e si può scegliere solo tra le alternative esistenti.
La risposta di Piras, in questo senso, appare come una resa distruttiva. Mi sembrerebbe preferibile, tutto sommato, affidarsi alla sorte e lasciare le cose come stanno, confidando nel ragionevole grado di sensatezza intrinseca che dovrebbero possedere le tradizioni culturali che hanno superato una selezione di sufficiente durata.
Ma mi piacerebbe molto di più un tentativo di colmare finalmente il vuoto. L’assenza di un nuovo quadro generale, che sia allo stesso tempo storicamente fondato (come spesso non si è rivelato quello di stampo hegeliano) e ragionevolmente semplificato (e quindi utilizzabile a scopi didattici), è responsabilità in primo luogo degli esponenti di punta della classe intellettuale, di chi per lavoro elabora nuova cultura e, ciò facendo, dovrebbe esercitare anche il suo ruolo sociale. Partecipare alla sua costruzione potrebbe essere, perfino in un paese smanioso di decomposizione come l’Italia attuale, un compito appassionante.
[Immagine: Andreas Gursky, Terra (gm)].