cropped-Skyscrapers_of_Shinjuku_2009_January_revised.jpgdi Massimo Rizzante

[LPLC si prende una pausa estiva; la programmazione ordinaria riprenderà a settembre. Per non lasciare soli i nostri lettori ripubblichiamo alcuni testi usciti nel 2013/14. Questa intervista è uscita il 20 gennaio 2014.

Akira Mizubayashi (1952) insegna lingua francese all’università Sophia di Tokyo. Scrive in giapponese e in francese. In francese ha pubblicato Une langue venue d’ailleurs, Gallimard, 2011 e Mélodie: Chronique d’une passion, Gallimard, 2013].

Massimo Rizzante: Un terremoto senza precedenti ha colpito l’11 marzo 2011 la costa pacifica della regione di Tohoku, situata a nord del Giappone, e ha provocato un enorme incidente nucleare, quello della centrale di Fukushima-Daiichi. In questa situazione davvero apocalittica, l’atteggiamento dei giapponesi che sopportavano l’insopportabile con calma e dignità ha suscitato la mia ammirazione e quella di numerosi osservatori stranieri… Da dove nasce signor Mizubayashi questo atteggiamento apparentemente così radicato nel suo popolo?

Akira Mizubayashi: Vorrei prendere in considerazione questo argomento attraverso un aspetto linguistico… Quando, qualche settimana fa, siamo rientrati a Tokyo, dopo un soggiorno di nove mesi a Parigi, io e mia moglie siamo atterrati all’aeroporto di Narita. Una volta scesi dall’aereo, il mio sguardo, come in molte altre occasioni, si è posato su una parola giapponese, Okaerinasai – una parola formata da sette caratteri hiragana – scritta su un grande pannello affisso sul muro. Accanto, naturalmente, si trovava il breve annuncio in inglese: Welcome to Japan! Ho riflettutto sul fatto che le due espressioni non hanno lo stesso significato…

M. R. : Che cosa significa la parola giapponese?

A. M. : Okaerinasai è un modo di dire che si presenta puntualmente nella vita dei giapponesi. Non passa giorno senza che un giapponese non la senta o non la pronunci quando ritrova il suo posto naturale all’interno dello spazio famigliare. Questa parola che un viaggiatore giapponese, una volta giunto all’aeroporto di Narita, scopre alla fine di un lungo corridoio, non significa affatto «Benvenuto!». Si tratta di tutt’altro. «Okaerinasai» viene rivolta esclusivamente a un giapponese, allorché fa ritorno da una peregrinazione più o meno perigliosa nel mondo esterno e ritrova la pace e la serenità nella grande famiglia nazionale chiamata Giappone. Il locutore non esprime la sua gioia di incontrare di nuovo un parente o un amico che è stato lontano. No, non si tratta di questo. Egli anticipa piuttosto la gioia che il viaggiatore deve necessariamente provare nel momento in cui rientra in patria. La locuzione, perciò, rivela una rigorosa distinzione operata dalla coscienza giapponese tra i veri membri della comunità nazionale e gli stranieri che, per statuto, ne sono esclusi. Non ci si deve soprendere dunque se il Giappone non riconosce la doppia nazionalità: non si può essere allo stesso tempo dentro e fuori.

M. R. : Quali sono allora le condizioni grazie alle quali si può entrare a far parte integrante della grande comunità giapponese?

A. M. : Mentre il modello europeo della società politica, così come è stato elaborato da Hobbes e Rousseau, passando per Locke, si presenta come un artefatto realizzato attraverso un patto sociale, cioè attraverso la decisione comune e collettiva di un insieme di individui, la concezione giapponese, quale è in vigore dall’epoca della Restaurazione Meiji (1866-1869), è essenzialmente fondata sul mito della nazione in quanto entità naturale e portatrice di un’anima che si vuole, al di là delle vicende storiche, immutabile. La comunità nazionale, qui in Giappone, non è il risultato di un atto associativo libero e volontario. Non è, in altre parole, una costruzione politica, ma è piuttosto, nella misura in cui è caratterizzata dall’idea della purezza immaginaria del sangue, una struttura essenzialmente etnica. Essa non precede gli individui, ma li ingloba.

M. R. : Quindi il Giappone sarebbe una comunità esclusiva, ripiegata su se stessa e chiusa al mondo esterno… Lei ha spesso affermato e scritto che da questa chiusura discendono i tratti più tipici di tutta la cultura giapponese: l’assenza di dibattito intellettuale; la fragilità di qualsiasi ideale trascendente; l’instanteismo, ovvero il privilegiare il qui e ora in ogni situazione…

A. M. : In una comunità così chiusa, il potere della tacita intesa – reale o supposta – è tale che nulla può favorire l’apertura e lo sviluppo di una cultura deliberativa. Un gesto appena abbozzato dell’uno suscita il sorriso dell’altro. Questo è l’ideale non verbale della comunicazione. Nessun dibattito; nessuno scambio di idee capace di singolarizzare la posizione dell’uno o dell’altro in rapporto alla dinamica consensuale di cui bisogna saper leggere gli indizi silenziosi. Quel che conta è l’assenza di dissenso, la coesione del gruppo, l’armonia, la pace. Une delle gravi conseguenze di questa tendenza alla concordia come valore supremo della comunità, è che le opinioni minoritarie fanno fatica a manifestarsi contro il conformismo dilagante. I giapponesi non si fidano delle opinioni minoritarie apertamente affermate che distruggono l’intesa tacita e consensuale. Fanno in modo che siano dolcemente soffocate fin dall’inizio, a tutto vantaggio della pretesa armonia della collettività.

M. R. : Quindi in Giappone non ci sono delle vere minoranze…

A. M. : Due strade ugualmente pericolose e piene di difficoltà si offrono a colui che, in un gruppo, osando affermare un’opinione diversa, si oppone alla tendenza della maggioranza. Prima possibilità: la comunità lo persuade dell’errore, lo spinge a cambiare idea, lo obbliga a ritornare sui suoi passi e a condividere l’opinione della maggioranza. Seconda possibilità: se l’individuo ribelle si ostina a mantenersi all’opposizione, lo si «bandisce dal villaggio». È una pura e semplice esclusione che permette di salvare, almeno in apparenza, la sacra coesione del gruppo.

M. R. : Da quel che dice la società giapponese risulta essere una società statica, irregimentata…

A. M. : Solo una catastrofe comunitaria inimmaginabile potrebbe costringerla a rimettersi in discussione, a cercare altre vie, a evolvere in modo diverso. Ciò si è verificato nel 1945 con il disastro della guerra e le atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Sarà lo stesso dopo quel che è successo nel marzo del 2011? Non è affatto sicuro. In ogni caso, è prematuro pensare che il popolo giapponese sia capace di riconsiderare da cima a fondo la politica energetica, traendo tutte le conseguenze dal dramma di Fukushima. L’evoluzione della realtà politica dal dicembre 2012 (arrivo al potere dell’attuale primo ministro Abe) mostra piuttosto il contrario. Tuttavia, se «lo stare insieme» della comunità giapponese è strutturato in modo tale che è necessaria una catastrofe perché abbia luogo un cambiamento significativo della società, se, in altre parole, io sono costretto a vivere in una comunità che è continuamente ai bordi di una catastrofe, ciò non può consolarmi.

M. R. : Un’ultima domanda. So che in queste settimane è molto preoccupato a causa di una nuova legge che si sta discutendo nel suo paese e che il governo vorrebbe approvare…

A. M. : Sì. Sto attraversando un periodo di instabilità psicologica legato a quel che sta accadendo nel mio paese. Non credo che in Europa si sappia esattamente quel che i giapponesi vivono in questo momento… C’è un progetto di legge sulla protezione dei segreti di Stato che molto probabilmente sarà adottato visto il peso della schiacciante maggioranza del Primo ministro Shinzo Abe, ultranazionalista, anzi fascista, nipote di Kishi Nobusuke, già ministro del governo Tojo nel 1945, criminale di guerra di classe A. In nome dell’interesse generale e della difesa nazionale, parte integrante della strategia militare americana, il Giappone sta per seppellire con questa legge l’idea fondamentale dei diritti dell’uomo. Direi che perfino la sovranità del popolo è minacciata a vantaggio del ritorno dell’ideologia che governò prima del 1945 l’Impero del Grande Giappone, quella stessa ideologia che ha fatto sprofondare il paese nell’incubo di una dittatura militare e imperialistica a partire dagli anni ’30 fino all’esplosione delle due bombe atomiche. Questo paese non ha dunque appreso nulla dalle lezioni della Guerra dei quindici anni (è così che qui chiamiamo quel periodo buio della storia contemporanea del Giappone). È in questo contesto che sto scrivendo il mio prossimo libro. Sarà un libro sull’idea di erranza. La sua redazione è attraversata profondamente dalle tensioni politiche che avverto. Cerco di calmarmi, ma è difficile. Non posso sfuggire alla pesantezza sociale e politica. Mi domando perché la stampa internazionale, e in particolare quella francese, non si esprime su questo che è il più grande sconvolgimento politico del Giappone da almeno sessant’anni… La Francia tace forse perché Hollande e Abe, nel giugno scorso, si sono accordati per vendere reattori nucleari a tutto il mondo? Mi inquieta il fatto che nessun articolo in Francia parli della progressiva fascistizzazione del Giappone, della progressiva messa a morte dei valori fondamentali della democrazia… E in Italia se ne parla? Siamo già a dicembre del 2013. Procedo nella stesura del mio libro, dove aleggiano i fantasmi imperiali del Grande Giappone. Sono inquieto per questo Giappone

[Immagine d’apertura: Tokio (gm)]

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