cropped-obey-desktop-wallpaper2.jpgdi Valeria Pinto

[LPLC si prende una pausa estiva; la programmazione ordinaria riprenderà a settembre. Per non lasciare soli i nostri lettori ripubblichiamo alcuni testi usciti nel 2013/14. Questa intervento, che era già apparso su «Paradoxa», VII, 2, 2013, è uscito il 10 febbraio 2014].

Il topo divenne l’unità monetaria
(Z. Herbert, Rapporto da una città assediata;
poi D. DeLillo, Cosmopolis)

1. Nell’ultima tappa del suo viaggio intorno al mondo Hermann Keyserling passa per gli Stati Uniti, si ferma a Chicago, visita il mattatoio. “Non è stata un’esperienza piace­vole”, scrive. “Nondimeno sono contento, poiché è difficile che abbia nuovamente occasione di veder funzionare un meccanismo altrettanto perfetto: ho l’impressione che negli Stock Yard sia stato raggiunto il massimo pensabile in fatto di sfruttamento dell’uomo e del tempo […]. Un maiale viene trasformato in salsicce in meno di venti minuti, una pecora in ventisei, mentre ce ne vogliono trentacinque per squartare un bue. Ogni addetto compie un’operazione specifi­ca, a intervalli prestabiliti, e ciascuno lo fa nel miglior modo possibile. Tra un uomo e l’altro comunicano le macchine, di modo che in un’ora un singolo macellaio può agevolmente scannare mezzo migliaio di maiali”. A Keyserling torna in mente la parabola del macellaio di Chuang-tzu, la cui lama coglie sempre nel punto giusto e che all’ammirazione del principe Wen Hui risponde: “Quando ho iniziato a squartare buoi non vedevo davanti nient’altro che buoi; dopo tre anni ero giunto però al punto di non vederli più tutt’interi, ma già a pezzi; oggi mi affido completa­mente allo spirito e non più a ciò che vedo: ho abbandonato il sapere dei sensi e opero seguendo gli impulsi dello spirito”. Anche i macellai di Chicago vedono i maiali già a pezzi. Forse sono anche loro votati al Tao? Non è così. Questa meccanizzazione (“non ho nulla contro la meccanizzazione della vita in sé”, dice Keyserling: “al contrario, vorrei che tutto il meccanizzabile venisse meccanizzato il più presto […], ma ciò che spaventa in questo mondo è che la vita si esaurisce completamente nel meccanizzabile”) è “l’esatto opposto”: qui “l’intera energia disponibile si trasferisce in uno strumento, sicché mentre il mezzo dà indub­biamente risultati favolosi, l’uomo cessa di esistere”.

Eppure non vi è alcuna riduzione di intensità della vita. Al contrario. Questo stile di vita “stimola come nessun altro il sentimento vitale”, perché “costringe ogni energia disponibile a confluire nell’angusto canale dell’attività sfrenata, di modo che essa acquista un’intensità mostruosa”. Qui sta il tratto diabolico, la vertigine e la smisurata attrazione del rimpicciolimento dell’uomo in quel che oggi chiamiamo il self-empowerment, cioè nel fatto che esso “non consiste nel rendere meno vivi gli uomini, ma nel semplificare in modo inaudito l’organismo psichico”, rendendolo “talmente angusto, talmente limitato, da porre in tensione ogni energia vitale”. Il tal modo “chiunque, anche il più misero dei garzoni, diviene cosciente della pienezza della sua esistenza”, e così come “nessun tritone, nessun verme aspira a uscire dal suo stato”, ecco che “l’umanità insegue uno stato infimo scambiandolo per uno stato supremo”. Così “la spirale dello sviluppo storico ha con­dotto a un ristabilmento della schiavitù a uno stadio più alto”: come questo modello di vita “riduce tutti i valori all’unico valore della quan­tità, del pari riduce l’intera psiche a una macchina per far soldi, ricacciando l’uomo nello stadio degli animali inferiori”: “di nuovo l’uomo viene giudicato esclusivamente in base alla sua prestazione, di nuovo egli ha solo un valore di mercato, e ciò oggi vale per la precisione non solo dei lavoratori coatti, ma di tutti” [1].

Cento anni dopo il viaggio del conte Keyserling, il talent show televisivo MasterChef approda in Italia. Tra le prove che selezionano i concorrenti, il pressure test opera sul tempo e sulla quantità. Nella ventesima puntata Spryros e Ilenia hanno 20 minuti di tempo per cucinare il maggior numero di uova all’occhio di bue. Ilenia ne consegna 25, Spyros 31. Ma la giuria, composta da tre cuochi esperti, discrimina tra le uova fatte come si deve e quelle che non lo sono. Non è questione solo del numero di uova all’occhio di bue cucinate, dunque. Ma neppure se un uovo all’occhio di bue sia migliore di un altro. Decisivo è il numero delle uova all’occhio di bue che superano i requisiti minimi. Il giudizio di ammissibilità è dato senza assaggiare le uova, solo guardandole, sulla base di parametri chiaramente esplicitati come il punto di cottura del bianco, la centratura del tuorlo, la precisione dei margini… Particolare severità è riservata alle bruciature: gli esperti sollevano sdegnosamente l’albume, fanno commenti sprezzanti. Soprattutto, esigono che i concorrenti davanti ai quali si svolge la cernita riconoscano i propri errori. La mancanza di umiltà è una delle colpe più duramente sanzionate in MasterChef. “Anche questo non va. Vuoi dire tu perché Spyros?”. E Spyros, gli occhi bassi, balbetta: “Il bianco…”. L’esperto conferma: “Il bianco”. È l’ultimo uovo. A Ilenia sono state ammesse 16 uova su 25, Spyros, benché ne abbia presentate 6 di più, è a quota 15. Il rifiuto di quest’uovo è la sua sconfitta. Spyros stringe le labbra, si vede che pensa “Il bianco” e si vergogna. (In qualche modo questa vergogna è la sua salvezza: due puntate più tardi, alla fine di tutte le prove, sarà proprio l’umile e laborioso Spyros a vincere la prima edizione di MasterChef Italia)[2].

Lo stesso anno, con il ministro Maria Stella Gelmini, la “valutazione” fa ufficialmente il suo ingresso nelle procedure per il reclutamento universitario. Unico caso in un paese occidentale, la neonata Agenzia per la Valutazione italiana nominata dal ministro imposta la selezione degli idonei a professore di I e II fascia sulla base della nozione statistica di mediana. Ai professori ordinari dei cosiddetti “settori non bibliometrici” occorre superare una mediana, almeno una delle tre stabilite dall’Anvur (due mediane per gli ordinari dei “settori bibliometrici”), perché il semaforo (effettivamente raffigurato nel loro sito docente) possa accendersi sul verde e sia loro concesso di transitare nella popolazione degli “aspiranti commissari”. In altri termini, occorre superare in via preliminare il giudizio positivo dell’Agenzia (una valutazione su pubblicazioni mai lette), per potere essere eventualmente estratti a sorte come componenti delle commissioni che decideranno (sempre sulla base di criteri stabiliti dall’Anvur e di pre-giudizi quantomeno orientativi rilasciati dall’Anvur) gli idonei a partecipare ai futuri concorsi di professore di I e di II fascia.

Si tratta di una svolta decisiva, perché attraverso il riferimento alla mediana un giudizio qualitativo di merito, che dovrà mettere capo a un verdetto sull’idoneità (di una persona) a svolgere un determinato ruolo, è costretto a non poter prescindere da indicatori numerici, ossia a formarsi attraverso non soltanto un riferimento forzato a criteri e parametri stabiliti da un organismo di nomina ministeriale ma anche attraverso il concorso di un giudizio meccanico emesso direttamente da questo organo sulle pubblicazioni di ciascun aspirante. Il superamento della mediana, infatti, non è solamente il superamento di un numero – p.e. il superamento di un numero minimo di pubblicazioni – ma corrisponde a tutti gli effetti ad un giudizio positivo (al limite parziale, ma pur sempre un giudizio positivo). La mediana, si legge nel DM 76 del 7 giugno 2012, è “il valore di un indicatore”, ossia di uno di quegli “strumenti operativi mediante i quali è resa possibile la quantificazione e quindi la misurazione dei parametri”, vale a dire degli – esplicitamente – “elementi di giudizio che sono suscettibili di una quantificazione e quindi possono essere valutati mediante il risultato di una misura” (art. 1, c.vo mio). Il fatto che il riferimento alla mediana compaia nel DM come un elemento tra altri (d’ora in poi parlerò per semplicità di mediana, lasciando emergere dal contesto il senso preciso in cui di volta in volta adopero il termine: generale concetto statistico, indicatore di impatto, precisa soglia numerica…) non deve trarre in inganno circa il peso di questa innovazione, che non a caso ha catalizzato il dibattito. Se infatti è vero che numerosi sono i criteri e parametri che l’Anvur ha deciso di indicare alle commissioni giudicatrici, le quali non potranno non tenerne in conto in un modo o nell’altro; e se, ancora, è vero che non pochi sono gli elementi di vera e propria novità introdotti tra essi (basti pensare alla “capacità di attrarre finanziamenti competitivi”); è però anche vero che il riferimento alla mediana rappresenta sotto più di un aspetto un principio dirompente, anzitutto perché corrisponde appunto ad un giudizio insindacabile di un’agenzia ministeriale, che in tal modo “valuta” in linea di principio non “meritevole” di far parte di una commissione giudicatrice la metà dei professori ordinari attivi.

Non mi soffermerò qui ad elencare gli errori e le innumerevoli scorrettezze imputabili ad Anvur, tutte le imprecisioni e inesattezze di tipo tecnico-formale, in parte anche esplicitamente ammesse come tali dall’Agenzia[3]. Non credo, infatti, che sia questo, almeno per certi versi, il punto sostanziale. Tali questioni, che hanno certo una loro rilevanza, in alcuni casi tale da potere costituire anche oggetto di contenziosi giuridici, rischiano di offrire molteplici via di fuga rispetto al centro e al senso complessivo di un’operazione che sarebbe un errore giudicare nel suo insieme frutto di incapacità e pressapochismo, là dove essa semmai teorizza e assume positivamente una certa quota, se non di incapacità e pressapochismo, senz’altro di non-capacità e imprecisione dei (e nei) principi dell’azione, in nome però dell’efficacia e efficienza di questa stessa azione, ovvero – stando alla definizione canonica – in nome della capacità di raggiungere un obiettivo prefissato (efficacia) con le risorse minime indispensabili (efficienza). “Essenziale è far partire il sistema […]. Qualche errore ci potrà essere, ma escludere dalle commissioni un docente valido è meno ingiusto di aprire le porte a uno inadeguato”[4]. Sarà la misura degli esiti reali dell’operazione (da intendersi alla lettera: quanto? quanto sono stati raggiunti gli obiettivi: reclutamento di studiosi internazionalmente riconosciuti, rottura della cooptazione locale, svecchiamento del corpo docente…) a decidere dell’autentica bontà dei principi e quindi di come e in che misura si dovrà riaggiustare il tiro. La revisione della procedura è sempre prevista (“L’Anvur è capace di correggersi”[5]), unicamente però per affinare i metodi sulla base dei risultati raggiunti, non per riflettere sulle idea guida di questa “neo-valutazione”[6] (mediane, bibliometria, neo-capacità scientifico-manageriali come la “capacità di attrarre fondi”, eccetera).

Si tratta, alla fine, della uniformazione – per molti (anche di quelli che la dettano) singolarmente inconsapevole, in certo modo militaresca – del sistema italiano dell’istruzione superiore e della ricerca alla generale impostazione di quello che Guy Neave ha chiamato lo “evaluative state”[7]: un modello di controllo delle istituzioni educative attraverso la verifica “regolare, stretta e ripetuta dei loro risultati e delle loro prestazioni grazie all’uso di criteri formali e indicatori di performance”, che consente allo stato di essere “di gran lunga più pervasivo, capace di intervento e rapido negli effetti”[8]. Tale modello si è ormai radicato e radicalizzato a livello globale, in corrispondenza “della rapida adozione da parte dei governi di neoliberalismo e managerialismo come veicoli di riforma ideologici e operativi”[9] (secondo quella che è oggi la linea di interpretazione critica della valutazione più riconosciuta a livello internazionale, dal lavoro pioneristico di Bill Readings fino ai più recenti e consolidati filoni di ricerca dei “governmental” e “critical management” studies). Ciò che qui in particolare emerge – anche ben oltre l’ambito educativo (lo stesso Neave mette in guardia dal confinare il fenomeno al punto di vista dello “higher-educationism”[10]) – è la trasformazione dell’intera funzione di governo in funzione di controllo, ossia un mutamento della presenza dello stato, che anziché ritrarsi, come spesso si dice, dalla società, si sovraordina ad essa come meccanismo di sorveglianza a vantaggio del libero mercato. In altre parole, il modo di esistere dello stato in quanto evaluative state è quello di una ‘azione a distanza’, nella quale “cognizione, calcolo, sperimentazione e valutazione” assumono un ruolo assolutamente strategico[11].

2. In particolare gli “indicatori” – strumenti la cui definizione e statuto epistemologico risulta tutt’ora assai mobile, a fronte di quella che è una vera e propria esplosione o epidemia – valgono qui da “tecnologia di governance globale”. Tutt’altro che neutri rilevatori dello stato delle cose, essi hanno “il potenziale per alterare le forme, l’esercizio e forse anche le distribuzioni di potere”[12]. A questo livello, le domande che non dovrebbero mai mancare (e che invece puntualmente mancano, allorché l’attenzione si focalizza sugli errori, deviata da quello che con Desrosières potremmo chiamare il “realismo metrologico ingenuo”, concentrato sull’esattezza della misurazione e sul miglioramento tecnico degli strumenti di misurazione[13]) sono, ad esempio: “Quali processi sociali circondano la creazione e l’uso di indicatori? In che modo le condizioni di produzione degli indicatori influenzano i tipi di conoscenza che essi forniscono? In che modo l’uso di indicatori nella governance globale cambia la natura della definizione degli standard e il processo decisionale? Come influisce sulla distribuzione del potere tra coloro che governano e sono governati?”[14], ecc. Un indicatore, difatti, non è un semplice numero o calcolo numerico (per quanto anche gli stessi numeri e calcoli non siano mai a loro volta solo numeri e calcoli, se è vero che per esempio – e lasciando da parte questioni di carattere ontologico – alla cifra si accompagna sempre un “valore sociale della cifra”[15]), ma è in termini molto generali una informazione sintetica relativa a un fenomeno. Anche se spesso assume forma numerica o può essere trasformato in un dato numerico, un indicatore, in senso stretto, non è neanche propriamente una cifra; anche quando si presenta sotto la compatta unità di un nome, esso è appunto una unità di sintesi, una raccolta o compilazione, un mash up, dove dati di diversa provenienza sono addensati dal compilatore o fornitore di indicatori in modo discrezionale, secondo ponderazioni spesso imperscrutabili, filtrando alcuni valori giudicati anomali, escludendo dati ritenuti inaffidabili o irrilevanti, sostituendo talora dati grezzi con statistiche (p. e. medie e deviazioni standard) o “rimpiazzando i dati mancanti con valori stimati sulla base di dati esistenti”, sicché “tipicamente il nome specifico imposto ai dati semplificati e organizzati in questo modo denota il fenomeno sociale che i dati sarebbero intesi rappresentare”[16].

Tutto questo lo vediamo con chiarezza se prendiamo in considerazione “gli indicatori di attività scientifica non bibliometrici” assunti dal regolamento delle abilitazioni “al fine della valutazione della qualificazione degli aspiranti commissari” (DM 76, all. B): in particolare, per semplicità di analisi, l’indicatore “a) il numero di libri nonché il numero di articoli su rivista e di capitoli su libro dotati di ISBN pubblicati nei dieci anni consecutivi precedenti la data di pubblicazione del decreto”, lasciando quindi da parte l’altro indicatore, ossia “b) il numero di articoli su riviste appartenenti alla classe A pubblicati nei dieci anni”, riferito alle cosiddette riviste eccellenti (allestite non si sa come e da chi… o meglio si sa come e, in certa misura, anche da chi)[17].

Questo indicatore, anzitutto, assume come “cifra” dell’attività scientifica l’attività oggettivatasi in “prodotti” visibili; data l’impossibilità, almeno per il momento, di rilevare il tempo dedicato alla riflessione, allo studio, alla fase costitutiva dell’elaborazione scientifica (impossibilità solo tecnica, cui già si va mettendo riparo ai livelli più elementari, per esempio predisponendo sistemi di rilevazione della lettura dei testi elettronici[18]), si cerca di risalire e dare ordine all’attività scientifica a partire dai suoi risultati o “prodotti”.

Tra questi “prodotti” visibili, ora, l’indicatore decide di assumere come significativi “dell’importanza e dell’impatto dell’attività scientifica” le sole pubblicazioni accompagnate da codice ISBN o apparse in riviste riconosciute dall’Anvur (e non per esempio attività che si depositino in prodotti meno convenzionali: p.e. un portale web, l’organizzazione di un festival o di una mostra…).

Tali pubblicazioni sono distinte e/o accorpate in libri, capitoli, articoli su rivista, decidendo quindi di distinguere o meno “prodotti” differenti: si possono sommare tra loro libri e articoli? e cosa significa esattamente “libri”? si possono sommare monografie monumentali e opuscoli, lavori di ricerca e traduzioni? e i “capitoli di libro”, cosa sono precisamente? Queste associazioni e/o disgiunzioni tra i prodotti sono state a lungo incerte, per poi stabilizzarsi tacitamente – nei settori “non bibliometrici” – nella distinzione di due differenti mediane fatte nascere da un “nonché”: una mediana di libri e una, distinta, di articoli e capitoli di libro[19]. Ma è consentito spacchettare un libro in capitoli di libro così da poterli assommare agli articoli? Sì e no. Un imponente lavoro scientifico frutto del lavoro di un solo studioso non potrà – salvo accusa di comportamento “non etico” – essere smembrato in capitoli e il “libro” varrà un desolato “uno” nel calcolo della relativa mediana; ma un lavoro compilativo, come può esserlo, per esempio, un manuale per le scuole scritto a più mani, si troverà invece convenientemente trasformato in una dozzina di capitoli di libro, sicché sarà dato superare la soglia numerica richiesta dalla mediana degli articoli e dei capitoli con meno della metà di un “libro” opportunamente “salamizzato” (converrà in futuro scrivere almeno a quattro mani o avere magari uno pseudonimo in cui sdoppiarsi, per potersi poi giocare il proprio monte pagine come meglio serve).

Tra i libri, inoltre, l’indicatore stabilisce che debbano essere conteggiati solo quelli dotati di ISBN, ovvero di un codice commerciale acquistabile sul libero mercato (in internet c’è chi ne vende per 5 dollari), che nulla ha a che fare con uno standard di ordine scientifico e nulla garantisce quanto a circolazione nei circuiti scientifici[20]. I libri peraltro potranno essere anche libri di filastrocche, ricette, pagine bianche, tanto poi non si è costretti a sottoporli a giudizio: possono restare punti elenco di una badlist utile unicamente a fare numero.

Le riviste invece, stabilisce l’indicatore, potranno anche non essere fornite di ISSN, ma dovranno essere riconosciute “scientifiche” secondo una inedita delimitazione della scientificità per settori “scientifico-disciplinari” (i quali non hanno alcun rapporto né tradizionale né logico con le finalità di una rivista), talmente priva di senso da esplodere nelle mani dei suoi stessi ideatori. Così, per esempio, si determina una lista di riviste scientifiche per l’“Area 11” (Filosofia, storia, pedagogia…), in base alla quale l’indicatore computa come pubblicazioni scientifiche quelle apparse su “La Gazzada” ma non quelle apparse su “Filosofia e Società”, accoglie “L’aldilà” (rivista dedicata a santa Zita) e non le “Annales de philosophie et sciences humaines”, “Acta herpetologica” e “Ingegneria sismica” sì e “Journal of Moral Philosophy” no… Ancora, se, come accade, un filosofo pubblica un articolo di filosofia della cultura su una rivista di diritto non inclusa nella lista della sua area (ma magari “di eccellenza” nell’area di diritto), questa pubblicazione gli varrà zero; ma se pubblica un pezzo letterario su una rivista letteraria che per avventura sia inclusa nella lista delle riviste di area, questo, almeno nella badlist, può contare come pubblicazione su rivista scientifica.

In effetti gli elenchi di riviste scientifiche allestiti da Anvur e dai suoi gruppi esperti valutazione e gruppi riviste e libri (assieme alle società scientifiche), dove spiccano testate come “Suinicoltura” e “Yacht Capital”, hanno fatto un certo rumore anche sulla scena internazionale[21]. Si tratta però solo dell’aspetto più clamoroso di un evento assai più significativo, vale a dire la riuscita trasformazione, in poche settimane, di studiosi seri e stimati in accaniti compilatori di liste – espertissimi delle proprie discipline ma alquanto sprovveduti sulle nozioni di disciplina e interdisciplinarietà[22] – pronti (anche gli stessi GEV e gli stessi esperti dei gruppi riviste e libri, in eclatante, come si dice, conflitto di interesse) a candidarsi a commissari dopo essersi spesi per favorire alcuni e sfavorire altri tramite inclusioni e esclusioni anche indifendibili.

Già queste semplici notazioni, senza aggiungerne altre, mostrano come un indicatore anche piuttosto semplice come il numero di libri e articoli sia in realtà un costrutto niente affatto neutrale, capace anche di creare dal nulla figure di potere prima inesistenti (“Esperti di riviste e libri”). A partire dalla denominazione dell’indicatore (ci si potrebbe chiedere, p.e., cosa abbia a che fare con la “importanza” dell’attività scientifica il numero di libri e articoli, salvo fare del termine un uso eufemistico tipo “un naso importante”), passando per le modalità di misurazione che gli si prescrivono e per la semplificazione di attività complesse che gli si richiede, fino al suo uso a scopi valutativi, tutto “riflette ma anche concorre a determinare cambiamenti nelle strutture e nei processi decisionali”. I processi che si basano sugli indicatori “possono essere rappresentati come efficienti, coerenti, trasparenti, scientifici e imparziali”, in una parola come “oggettivi”[23], eppure ogni segmento dell’indicatore, se guardato appena da vicino, mostra una discrezionalità estrema: l’oggettività è qui solo la invisibilità dei soggetti che decidono. Che cosa significa allora affidare a strumenti del genere (per di più applicati retroattivamente[24]) una funzione di filtro? Che cosa significa rendere sempre più naturale la presenza di questi strumenti e l’affidamento ad essi? E soprattutto, che cosa significa che questa discrezionalità e questo potere siano nelle mani di un’Agenzia di (opaca) nomina ministeriale e dei suoi esperti (opacamente nominati, nonostante l’enfasi oratoria sulla trasparenza)?

3. La stessa nozione di “mediana” era inizialmente qualcosa di incomprensibile per le comunità scientifiche. Se si guardano le reazioni delle società dei settori umanistici ai primi documenti Anvur che ne proponevano l’adozione, si ha l’evidenza di un completo fraintendimento, la mediana era per lo più confusa con la media[25]. Oggi invece la mediana è diventata nozione comune. Ma così come allora, quando non si sapeva cosa fosse, si era incapaci di porsi le domande giuste, ugualmente adesso, che questo strumento statistico è neutralizzato in senso comune, nessuno si chiede quale sia l’origine della sua inedita applicazione al reclutamento universitario, a chi sia venuto in mente, su quali basi teoriche e culturali, con quali riferimenti, con quali prospettive. Perché non è ovvio, se ci si pensa un momento, che si faccia uso di uno strumento del genere in ambito accademico. La mediana divide in due – chi è dentro e chi è fuori, chi sta sopra e chi sta sotto, chi merita e chi no – con la nettezza di una lama. Idealmente, ad ogni tornata una quota elevata dei professori ordinari in ruolo (il 50%, se non si combinassero tra loro al momento più soglie) va esclusa dalla funzione di commissari di concorso (art. 4.1) e tutti i candidati, per sperare nell’abilitazione, devono collocarsi almeno alla pari della metà dei docenti meglio valutati della fascia per la quale concorrono (art. 3.1).

La scelta di questo indicatore di notevolissima forza simbolica esige, in linea di principio, standard di “importanza e impatto” ogni volta più elevati. Nelle intenzioni dell’Anvur ciò soddisferebbe il “principio del miglioramento progressivo della qualità scientifica dei docenti abilitati”[26]. La mai ben chiarita paternità di questo indicatore, che cancella la metà dei docenti di I fascia (come prima nella VQR la formula magica 10-20-20-50 cancellava la metà della produzione scientifica[27], con l’aggravio ora di trasferire sui singoli e in vista della selezione della futura docenza un criterio statistico già fortemente discusso per la valutazione delle strutture), non impedisce di individuarne la provenienza: appunto il Miglioramento Continuo della Qualità, un principio cardine del Total Quality Management, dove “qualità” non è un attributo che appartiene alla cosa sottoposta a giudizio ma è piuttosto un concetto statisticamente costruito[28] e pertinente ai processi di produzione, alla loro organizzazione ovvero al loro controllo: uno strumento di organizzazione, di benchmarking secondo la ormai completa assimilazione del TQM nei modelli europei di gestione pubblica[29]. In questo modo una specie di filosofia aziendale della storia, volta a promuovere un indefinito incremento (non della qualità ma) della competitività, viene serenamente assunta a guida della valutazione scientifica. “Quando ci candidiamo a fare parte di questo sistema di valutazione, non facciamo altro che proporre al sistema universitario un elemento del nostro essere impresa”, spiega un presidente dell’Associazione Industriali di Foggia e Componente del Comitato Tecnico Education Confindustria ad un convegno Crui sulla valutazione universitaria. “Le nostre imprese se non le verifichiamo non crescono e non si migliorano […]. Nei nostri manuali di qualità nelle imprese ci sono le procedure e ci sono le non conformità […]. L’impresa […] stabilisce come quella non conformità possa essere superata, con un impegno preciso: in quanto tempo lo fai e come lo fai […]. Un metodo semplicissimo, ma sostanzialmente significa stabilire che bisogna migliorarsi continuamente e che, quindi, gli standard raggiunti non devono essere motivo di soddisfacimento o di stasi dal punto di vista mentale e organizzativo”. Questa, precisa l’oratore, “non è una recitazione di quant’è bella l’impresa […], ma è la dichiarazione non solo politica ma anche operativa a diventare interlocutori stabili del sistema universitario […]. Perché poi le università sono la CRUI, sono il Ministero dell’università e della pubblica istruzione, ma le università sono anche territorio, sono interlocuzione diretta con i bisogni e gli obiettivi del territori”[30].

Se per Education Confindustria le università sono fondamentalmente la Crui, il Miur e il territorio (non docenti, ricercatori e studenti) e se all’ex presidente di Education Confindustria è stata ritualmente riservata, dall’insediamento dell’Agenzia, la carica di presidente del Comitato consultivo Anvur, non stupisce allora che anche nella selezione della docenza (o meglio sarà dire: del personale universitario addetto alla docenza) le nuove tecnologie della valutazione – ovvero le nuove tecnologie di controllo – si siano imposte sia in fatto di legittimazione dei selezionatori sia in fatto di legittimazione “scientifica” dei parametri attraverso i quali è operata la selezione. Non si è trattato però di una imposizione, di un’azione subita, se non al limite quando si sono dovute trarre le ultime conseguenze del processo. Si è trattato piuttosto dell’esito di un lento incorporamento di valori e finalità nuovi e mai prima contemplati. Per alcuni, i più sensibili all’effetto colpevolizzante intrinseco a pratiche valutative che mirano “in modo molto specifico a identificare la incapacità e fare pressione sul peccatore”[31], il suicidio assistito dei vecchi assetti accademici nella “cultura della valutazione” è apparso come la premessa per una rigenerazione. Per altri, più scaltri nel registrare il cambiamento nelle geografie e ritualità del potere, è apparso come un’occasione di riposizionamento, di avvicendamento di forme e generazioni.

Sullo sfondo (o fondale) di una scenografia accademica che ritrae caste e baroni, scandali e mafie, intelligenze umiliate e amanti premiate, cervelli in fuga e figli acefali ai vertici, concorsi paralizzati in ricorsi e un Paese al fondo di tutte le classifiche internazionali, un tecno-populismo politicamente trasversale, fatto di slogan come trasparenza, rendicontazione, merito, chiama accademici troppo screditati per avere l’autorevolezza di esercitare un proprio giudizio a svolgere sostanzialmente una funzione notarile di verifica e accertamento di credenziali rilasciate altrove. Non è più il convincimento dello studioso (detto “discrezionalità”) a riconoscere un pari, ma dirimenti diventano indicatori, criteri e giudizi già emessi da altri. In linea di principio chiunque, reso edotto di quali sono gli editori e le riviste di rilievo, le enciclopedie di prestigio, i premi che contano, sarebbe in grado di riconoscere, come il DM richiede, la “collocazione di prodotti presso editori e riviste di rilievo”, la “direzione di riviste, collane, enciclopedie e trattati di sicuro prestigio”, la “partecipazione ad accademie”, i “premi e riconoscimenti per attività scientifiche” e così via: in astratto non serve neppure una laurea, neppure essere una intelligenza basata sul carbonio… Non tutti, al contrario, sono in grado di leggere e capire un saggio di filosofia, un’edizione di fonti, una dimostrazione geometrica, ed esprimersi sul suo valore prescindendo da ogni “pre”-giudizio. Proprio questa però è la funzione guardata con più diffidenza, quello che in fondo non deve accadere. Tanta diffidenza circonda la comunità scientifica (a torto o a ragione, non ha qui molta importanza) che non le si consente nemmeno di scegliere chi, per valore scientifico, autorevolezza, equilibrio di giudizio, dovrà giudicare. I commissari delle abilitazioni, al contrario, sono sorteggiati tra i docenti selezionati da Anvur[32]. Non siedono in commissione in forza della propria credibilità, ma per puro caso, e la loro unica fonte di legittimazione come giudici sta nell’Agenzia che detta loro i criteri cui uniformarsi e cui devono la propria eleggibilità: mediane, h-index, ponderazioni e calcoli statistici, rating e così via. Solo quei criteri hanno permesso loro di essere estratti (e impedito ad altri di esserlo al loro posto): se i commissari non riconoscessero ad essi validità, starebbero in certo modo andando contro la propria stessa legittimazione, per la qual cosa ci vorrebbe almeno un po’ di forza propria. (Nihil rerum mortalium tam instabile ac fluxum est quam potentia non sua vi nixa).

In questo vortice la naturalizzazione e interiorizzazione del giudizio meccanico diventa tanto forte, che non soltanto seri studiosi si ritroveranno a censurare le proprie convinzioni sul letto di Procuste di griglie che inizialmente hanno anche compattamente respinto[33], ma potranno persino incappare nell’ebbrezza di prescrivere ai candidati (inconsapevolmente o in un delirio della presunzione) il possesso di titoli che loro stessi, come commissari, non hanno. A valle delle dichiarazioni di “assicurazione scientifica della qualità”, di una morale consonante con un rigore da “tolleranza zero”, di standard cui non si deve mai derogare (“è possibile che questo sistema porti all’esclusione di qualche bravo commissario, ma certamente non vedremo commissioni composte da commissari che giudicano candidati più preparati di loro, come spesso è accaduto”[34]), può così capitare di incontrare commissari che stabiliscono essere un criterio rilevante per il conferimento dell’abilitazione il superamento non di una, ma di due mediane, sinceramente convinti, si deve credere, della giustezza del principio e senza por mente al fatto che loro stessi e altri in commissione non le superano, o le superano solo grazie al caso che il sistema fa spacchettare in LPU un manuale scritto a più mani ma non un libro di cui si sia l’unico autore… Insomma, un complessivo, drammatico stordimento, in cui non si riesce più a vedere distintamente né se stessi né gli altri, non più a vedere persone, studiosi, figure intere da apprezzare nella loro qualità. Ai commissari – pressati anche da tempi strettissimi e masse smisurate di pubblicazioni – sarà difficile giudicare i candidati altrimenti che dissezionandoli nel numero dei libri pubblicati, nel numero di articoli in rivista o di capitoli di libro, contando (o “ponderando” come si preferisce dire, ma in senso stretto: peseranno sulla stadera) le pagine e i caratteri, suddividendo in fasce, di contenitore in contenitore, di quanto in quanto, nella culminazione di una “quantofrenia”[35] già da tempo e passo dopo passo incorporata nello sguardo degli accademici di oggi, ma sotto ogni rispetto priva di interna giustificazione.

4. Nel gergo della valutazione si parla non a caso di “Salami-Publication”, “Salami-Slicing” (e per opposizione, di “Slow Science”), metafore che riportano agli Stock Yard della Chicago nouminosa di Keyserling. Da Metropolis, ‘macchina-città-capitale’ che “riduce l’intera psiche a una macchina per far soldi” sicché “di nuovo l’uomo […] ha solo un valore di mercato, e ciò oggi vale per la precisione non solo dei lavoratori coatti, ma di tutti”[36], queste immagini si trasferiscono in un piano sequenza ideale alla Cosmopolis di De Lillo e di Cronenberg, dove la filosofa Vija Kinski spiega al miliardario Eric Packer: “– Questo non è altro che il libero mercato. Questa gente è un’invenzione del libero mercato. Non esistono fuori dal mercato. Non possono starne fuori. Non esiste un fuori”. E mentre sugli schermi scorrono le quotazioni aggiunge: “– I soldi creano il tempo […]. La gente ha smesso di pensare all’eternità. Ha cominciato a concentrarsi sulle ore, ore misurabili, ore lavorative, e a usare il lavoro in modo più efficiente. È il cybercapitale che crea il futuro. Qual è la misura di un nanosecondo? […] – Esistono gli zeptosecondi. […] Gli yoctosecondi. Un settilione di secondo. – Perché oggi il tempo è un bene aziendale. Appartiene al libero mercato”[37]. Un modello così non può non essere totalitario[38].

La massima del neoliberalismo recita: “Dove i mercati non esistono si devono creare, se necessario attraverso l’intervento dello stato”[39]. Non si tratta più di far arretrare l’azione del governo, come nel liberalismo classico, ma di agire top down per creare mercati e/o estendere la logica del mercato all’insieme della società. Sanità, governo del territorio, gestione penale, risorse idriche, difesa, ricerca e formazione: in tutti questi ambiti è necessario definire “un sistema d’informazione che sia analogo a quel che è un sistema di prezzo per un mercato”, e quindi valutare, ossia dare un valore quantificabile che, se non è proprio una moneta, possa funzionare come una “quasi-moneta”: “uno strumento di misura del valore delle produzioni dell’attività dei soggetti e del valore dell’attività medesima”. Naturalmente “questo sistema può essere assolutamente assurdo”: numero di contravvenzioni, numero di interventi chirurgici, numero di promossi al diploma… Il problema non è “sapere se ciò che si misura rimanda a qualcosa come una ‘utilità sociale’ (a ciò che l’economia politica classica chiamava un ‘valore d’uso’); la sola cosa che importa è il carattere autoreferenziale del sistema di segni o segnali posto in opera: bisogna che essi non rimandino al ‘senso’ di un’attività, ma che rimandino indefinitamente a se stessi per stimolare gli individui ad acquisirne e ad accumulare il numero più grande possibile di unità di conto”[40]. Si tratta per questa via di “far penetrare via evaluative state i capisaldi del neoliberalismo”[41]. Il nuovo quadro normativo (e retorico: una falange di parole d’ordine interamente mutate nel loro significato: cultura dell’autonomia, cultura della valutazione, talento, merito, reputazione, qualità, eccellenza…) sollecita un’adesione senza scarti e quindi senza distanza o variazione, sicura come un riflesso.

C’è anche qualcosa di grandioso e spettrale in questo. Ricorda il futuro dell’american way of life di Kojève, condizione di cui “gli animali post-storici della specie homo sapiens […] saranno contenti […], visto che, per definizione, essi se ne accontenteranno”, al prezzo di non aver più “conoscenza [discorsiva] del Mondo e di sé’”[42]. Epperò le immagini di forze che sovrastano e travolgono in un nuovo mondo, al di là di epoche sepolte e non più esistenti se non in effusioni nostalgiche, non rendono la realtà delle cose prossime. Fuori dalla sua rappresentazione levigata di illimitato consumo improduttivo, l’economia mantiene assai più di quanto non si dica l’appartenenza che la sua etimologia richiama: la casa, la dimensione domestica e conservativa, tinelli, un mondo popolato solo di colleghi e parenti, malanimo e rabbia numerica – “la società non esiste, esistono solo gli individui e loro famiglie” (M. Thatcher). E le famiglie devono essere messe in condizione di scegliere al meglio per i loro figli, come ritorna in tutti i discorsi sulla valutazione, anche quando si parla di università e dunque a tutti gli effetti di individui adulti. La furia tassonomica non ha qui nulla del fascino delle grandi classificazioni – non la grandiosità del sistema di Linneo ma neppure quella di un catalogo di Sade – e tutto invece di un accanimento da tabelle millesimali, da quote condominiali, da se tanto mi dà tanto… Lo aveva intuito già Nietzsche, quando pensava la “ormai inevitabile amministrazione economica generale della terra” sotto il segno dell’“adattamento, l’appiattimento, la superiore cineseria, la modestia degli istinti, la contentezza per il rimpicciolimento dell’uomo”[43]. I numeri qui non sono quelli che scorrono sugli schermi della “prousted limousine” di Eric Packer, che ambisce ad acquistare la Rothko Chapel mentre è impegnato in una battaglia per la vita o per la morte contro lo Yuan. I numeri che vediamo sono quelli delle pagine di libri pubblicati in fretta e furia nei print on demand (“Illustre Professore, la nostra casa editrice, indicizzata presso… è a disposizione ventiquattr’ore su ventiquattro…”), quelli dei mesi/uomo inventati per i progetti di ricerca, quelli delle età accademiche ponderate per i periodi di maternità. Ciò cui la qualità di questi numeri è prossima più di tutto è il buonsenso del bottegaio Poujade, che ha in odio l’intellettualità, lo spirito, tutto quanto è fuori dal “contatto con il mondo reale”, dalla “realtà computabile”.

In Miti d’oggi Roland Barthes parla di questa “vocazione all’immanenza” della piccola borghesia poujadista, cui “ogni fenomeno che ha il proprio termine in se stesso per un semplice meccanismo di ritorno, cioè alla lettera, ogni fenomeno pagato, riesce gradito […], tutta una matematica dell’equazione rassicura il piccolo borghese, gli fa un mondo a misura del suo commercio […]. Così la riduzione del mondo a una pura eguaglianza, l’osservanza dei rapporti quantitativi fra gli atti umani, sono degli stati trionfanti […]. Tutto questo chiude il mondo in se stesso e produce una felicità: è quindi normale che si sia fieri di questa contabilità morale: il vanto piccolo-borghese è tutto nell’eludere i valori qualitativi, nell’opporre al processo di trasformazione la statica delle uguaglianze […]. Il buon senso è come il cane da guardia delle equazioni piccolo-borghesi: tappa tutte le uscite dialettiche, definisce un mondo omogeneo, in cui si sia a casa propria, al riparo dai disordini e dalle fughe dal ‘sogno’ (si intenda di una visione non contabile delle cose)”[44]. Lo straordinario, oggi, è che questa prospettiva appare interamente accolta da chi deve l’esistenza propria e della propria attività esattamente alla rottura di questa dimensione, al disconoscimento dell’ovvio, all’incrinarsi dell’immediato, e ora si affanna invece per (ri)accreditarsi tramite l’ovvio e l’immediatamente riconoscibile. L’ideologia anti-intellettualista – “il mondo quantitativo del buon senso”[45] e dello accountant – si impadronisce degli stessi ambienti intellettuali. Anche qui si comincia a pensare che “oltre un determinato tasso di scienza si approda al mondo dei veleni”, ossia che, “uscita dai sani limiti della quantificazione, la scienza è screditata nella misura in cui non la si può più definire un lavoro. Gli intellettuali […] non fanno niente: sono degli esteti […], frequentano i caffè chic della rive gauche”. Si tratta, osservava Barthes, di “un tema caro a tutti i regimi forti: assimilazione dell’intellettualità all’oziosità; l’intellettuale è per definizione un pigro, bisognerebbe una buona volta farlo lavorare, convertire un’attività che non si lascia misurare se non nel suo nocivo eccesso, in lavoro concreto, cioè accessibile alla misurazione poujadista. Si sa che al limite non può esserci lavoro più quantificato – e quindi più benefico – dello scavare buche e ammonticchiare pietre: questo è il lavoro allo stato puro, ed è d’altra parte quello che tutti i regimi post-poujadisti finiscono per riservare all’intellettuale ozioso[46].

Postilla.

L’invito richiedeva agli autori anche di “trarre dall’analisi sviluppata sull’argomento di pertinenza una proposta concreta (anche modesta, ma praticabile), da offrire come contributo a chi dovrà prendere delle decisioni cruciali per decidere dell’alternativa tra ripresa o declino del nostro paese”. La mia proposta, molto modesta e credo praticabile, è di pensare, ricominciare a pensare. Il modello francese delle abilitazioni potrebbe essere un buon punto di partenza.

 


[1] H. Keyserling, Diario di viaggio di un filosofo. Cina, Giappone, America, a cura di G. Gurisatti, Neri Pozza, Vicenza, 1998, pp. 338 sgg.

[2] La prima edizione dello show è andata in onda nell’autunno 2011 sulla rete televisiva Cielo ed è stata poi ripresa su Sky; la 20ma puntata è visibile oggi in rete, p.e. su http://www.youtube.com/watch?v=sOydfAmNCQ8.

[3] La ricognizione più documentata si trova nei molti interventi apparsi sul sito roars.it (con ampi rimandi esterni, anche a documenti ufficiali Anvur), cui rinvio senza altre aggiunte.

[4] Sergio Fantoni, presidente dell’Anvur, su “Il Sole24Ore” del 17.09.2012 (c.vo mio). Nello stesso senso i documenti ufficiali dell’agenzia, p. e. Sul documento ANVUR relativo ai criteri di abilitazione scientifica nazionale. Commenti, osservazioni critiche e proposte di soluzione, approvato dal Consiglio Direttivo il 25 luglio 2011, accessibile su anvur.org: “L’ANVUR è consapevole del fatto che nessun sistema è esente da errori. Si tratta, tuttavia, nella necessità di avviare in tempi molto rapidi le procedure di abilitazione, di non rifiutare il buono inattesa dell’ottimo, e, cioè, di ponderare gli errori, e chiedersi se vale la pena di correre il rischio di commetterli, piuttosto che non fare nulla (e commettere in questo modo errori ben più gravi). Gli indicatori quantitativi di qualità della ricerca hanno una precisione che è inversamente proporzionale al grado di risoluzione del problema: nella valutazione di grandi strutture (aree scientifiche, università), si possono trovare degli indicatori adeguati, mentre se si valuta una singola persona, il grado di imprecisione può diventare rilevante”. (Inutile dire che pochi mesi dopo esattamente questi “indicatori” sono stati applicati alle valutazioni dei singoli ai fini della ASN).

[5] Cfr. l’intervento a firma di A. Bonaccorsi (Direttivo Anvur) su “Il Sole 24 Ore” del 08.07.2012. Cfr. anche il documento Anvur citato alla nota precedente: “Si deve ribadire qui il concetto di ‘prima applicazione’ della normativa e chiedere una revisione almeno dopo il primo giro completo di giudizi di idoneità, o almeno dopo tre anni dalla prima applicazione”.

[6] Cfr. C. La Rocca, Commisurare la ricerca. Piccola teleologia della neo-valutazione, di prossima pubblicazione nel fascicolo ottobre-dicembre 2013 di “aut aut”.

[7] Cfr. per ultimo G. Neave, The Evaluative State. Institutional Autonomy and Re-engineering Higher Education in Western Europe, Palgrave Macmillan, London, 2012.

[8] G. Neave, op. cit., p. 6.

[9] Ivi, p. 199.

[10] Ivi, pp. 17-18.

[11] P. Miller e N. Rose, Political Power beyond the State: Problematics of Government, “The British Journal of Sociology”, 43/2, 1992, pp. 173-205, qui p. 175. Il lavoro di B. Readings menzionato nel testo è The University in Ruins, Harvard University Press, Boston, 1996. Per un approfondimento e una discussione di tutti questi aspetti rimando ad altri miei studi recenti, in part. V. Pinto, “Larvatus prodeo”. Per una critica del sistema della valutazione, “Iride”, 25, 2012, pp. 475-494; Ead., Valutare e punire. Una critica della cultura della valutazione, Cronopio, Napoli, 2012; Ead., La valutazione come strumento di intelligence e tecnologia di governo, di prossima pubblicazione nel fascicolo ottobre-dicembre 2013 di “aut aut”.

[12] K.E. Davis, B. Kingsbury, S.E. Merry, Indicators as a Technology of Global Governance, “Law & Society Review”, 46/1, 2012, pp. 71-104, qui p. 71.

[13] Cfr. A. Desrosières, Sur l’histoire de la méthodologie statistique: mesurer ou instituer? Deux traditions de recherche encore largement séparées, Congrès de la Société Française de statistique, Bruxelles, 23 mai 2012, accessibile su http://jds2012.ulb.ac.be/myreview/files/default/submission/submission_85.pdf. Per una prospettiva più ampia cfr. Id., La politique des grands nombres. Histoire de la raison statistique, La Découverte, Paris, 1993.

[14] K.E. Davis, B. Kingsbury, S.E. Merry, op. cit., p. 72.

[15] Cfr. A. Ogien, La valeur sociale du chiffre. La quantification de l’action publique entre performance et démocratie, “Revue Française de Socio-Economie”, 5, 2010, pp. 19-40.

[16] K.E. Davis, B. Kingsbury, S.E. Merry, op. cit., p. 74.

[17] Sul punto, nel riferimento particolare al caso delle riviste di filosofia, rimando a V. Pinto, Valutazione della ricerca: tecnologie invisibili e pasticcerie manifeste, “Rivista critica del diritto privato”, XXX, 1, 2012, pp. 107-118.

[18] A proposito della nuova tecnologia sperimentata da CourseSmart presso alcune università americane, cfr. p.e. M. Parry, Now E-Textbooks Can Report Back on Students’ Reading Habits, “The Chronicle of Higher Education”, 8-11-2012, http://chronicle.com/blogs/wiredcampus/now-e-textbooks-can-report-back-on-students-reading-habits/40928.

[19] Sul punto rimando a V. Pinto, De trinitate. Abilitazioni: la mediana una e trina dei settori non bibliometrici, ROARS, 19 luglio 2012, http://www.roars.it/online/de-trinitate.

[20] Il Consiglio di Stato si è espresso ripetutamente sulla non rilevanza della presenza del codice ISBN per una pubblicazione scientifica, cfr. per ultima la sentenza sez. VI, 31 maggio 2012, n. 3276.

[21] Cfr. p. e. M. Mazzotti, Listing wildly, “Times Higher Education”, 8 novembre 2012; G.A. Stella, Riviste (per nulla) scientifiche, “Corriere della sera”, 17 ottobre 2012; L. Illetterati, Anvur cerca di far luce sulle liste di riviste pazze…, ROARS, 24 ottobre 2012, e tutta l’irresistibile analisi del caso svolta dalla redazione di roars.it, in part. negli interventi del 21 settembre, 15 ottobre e 5 novembre 2012.

[22] Ad esempio, gli Esperti dei settori filosofici potevano scrivere in calce all’elenco delle riviste di classe A che “L’unificazione degli elenchi dei settori 11/C1, 11/C2, 11/C3, 11/C4 e 11/C5 è dettata dalla necessità di salvaguardare la interdisciplinarietà all’interno delle discipline filosofiche”, riuscendo cioè a rendere interdisciplinare un elenco di riviste della medesima disciplina, ma escludendo dalla interdisciplinarietà tutte le discipline cui un filosofo può essere chiamato a dare un contributo interdisciplinare. La lista originaria del settembre 2012 oggi si legge su http://www.roars.it/online/wp-content/uploads/2012/09/rivistearea11_classea.pdf, giacché Anvur cancella spesso i propri documenti quando si accorge di uno svarione. La lista delle riviste di classe A che si legge sul sito anvur.org è stata aggiornata nel febbraio 2013 (e l’avvertenza in calce è sparita), in considerazione anche delle riviste indicate dai candidati all’abilitazione. Naturalmente può esservi chi, non avendo sufficienti pubblicazioni presenti nella precedente lista, ha rinunciato a candidarsi. Ma questo è solo un esempio tra i tanti della opacità e spregiudicatezza dei lavori dell’Agenzia. Resta celebre la dichiarazione sfuggita a uno degli “Esperti riviste e libri” su un noto blog (Giovanni Federico su http://noisefromamerika.org/c/6596/89405, 20 luglio 2012): “lasciamo che gli ordinari vecchi vadano in pensione, facciamo mobbing su quelli giovani ma mediocri o peggio per farli andare in pensione (p.es. tagliamoli fuori dalle commissioni di concorso e facciamone degli zombies). Quando poi i nostri colleghi avranno imparato ed il clima sarà cambiato, allora i soldi saranno ben spesi. In questo processo ci saranno delle ingiustizie? Purtroppo sì, ma sempre meno di quelle che ci sono state finora con il sistema baronale tradizionale”.

[23] K.E. Davis, B. Kingsbury, S.E. Merry, op. cit., p. 84.

[24] Il far “dipendere la valutazione della qualità della produzione scientifica da un elemento estrinseco (‘classe’ di appartenenza delle riviste su cui sono comparsi gli articoli) definito ora per allora e con effetto retroattivo” è uno dei principali argomenti del ricorso proposto dall’Associazione Italiana Costituzionalisti contro il DM 76, per lesione “dei principi di eguaglianza e ragionevolezza, nonché del principio di affidamento legittimamente sorto nei soggetti”. Il ricorso è stato poi respinto dal TAR: non però nel merito, ma per “difetto di legittimazione” dell’Associazione.

[25] Cfr. p.e. il Documento del Consiglio Direttivo della Società Italiana di Filosofia Morale sul Documento “Criteri e parametri di valutazione dei candidati e dei commissari dell’abilitazione scientifica nazionale” approvato dal Consiglio Direttivo dell’Anvur (22 giugno 2011), accessibile sul sito della sifm.it.

[26] ANVUR, Criteri e parametri di valutazione dei candidati e dei commissari dell’abilitazione scientifica nazionale, 22 giugno 2011, accessibile sul sito anvur.org.

[27] Il Bando VQR 2004-2010, 7 Novembre 2011, art. 2.4, p. 7, accessibile sul sito anvur.org, richiede che ciascuna pubblicazione sia collocata in segmenti percentili della “scala di valore condivisa dalla comunità scientifica internazionale” (che per alcune discipline semplicemente non c’è). Alle pubblicazioni che si collocano nel 20% superiore è attribuito il giudizio di “A. Eccellente (peso 1)”, a quelle che si collocano nel successivo 20% è attribuito il giudizio di “B. Buono (peso 0.8)”, a quelle che si collocano nel successivo 10% è attribuito il giudizio di “C. Accettabile (peso 0.5)”. Al restante 50% è attribuito il giudizio “D. Limitato. La pubblicazione si colloca nel 50% inferiore (peso 0)”.

[28] Cfr. A. Desrosières, Sur l’histoire de la méthodologie statistique, cit., pp. 3 sgg.

[29] Cfr. I. Bruno, La recherche scientifique au crible du benchmarking. Petite histoire d’une technologie de gouvernement, “Revue d’histoire moderne et contemporaine”, 55-4bis, 2008, pp. 28-45.

[30] N. Biscotti, Il ruolo dei portatori d’interesse esterni nella valutazione, in C.A.T. Casciotti (a cura di), La valutazione: un indispensabile strumento di garanzia e di governance, Crui, Roma, 2003, pp. 117-121.

[31] G. Neave, op. cit., p. 48, che così continua: “[…] disseminando pubblicamente tale informazione, una tecnica cui ci si riferisce talvolta come ‘nominare e svergognare’ [naming and shaming]. Questo è uno degli scopi delle classifiche e dei ranking che si ammette meno volentieri”.

[32] Su questo punto cfr. le centratissime considerazioni di A. Bellavista, Il reclutamento dei professori (e dei ricercatori) universitari dopo la legge “Gelmini”, in F. Carinci e M. Brollo (a cura di), Abilitazione scientifica per i professori universitari. Legge n. 240/2010 e decretazione attuativa, Ipsoa, Milano, 2013, pp. 19-39. L’intero volume rappresenta un importante contributo sulla materia, particolarmente per gli aspetti giuridici.

[33] Ancora nel 2011, p.e., le società scientifiche di area 10 e 11 avevano sottoscritto un “Documento unitario delle Consulte e delle Associazioni delle aree 10 e 11” nettamente contrario all’uso delle mediane (cfr. http://consultafilosoficaitaliana.unipr.it/documenti/DOCUMENTO%20per%20ANVUR.pdf).

[34] A. Bonaccorsi e G. Novelli (Direttivo Anvur), lettera pubblicata su “Il Messaggero” del 22.09.2012.

[35] Per il concetto di quantofrenia cfr. P. A. Sorokin, Mode e utopie nella sociologia moderna e scienze collegate, tr. it. di M.L. Martelli, Giunti, Firenze, 1965, in part. capp. VII e VIII. L’insensato incremento della produzione scientifica per venire incontro alle richieste della valutazione è denunciato da tempo, cfr. p.e. L. Waters, Enemies of Promise. Publishing, Perishing, and the Eclipse of Scholarship, Prickly Paradigm, Chicago, 2004. Oggi se ne accorgono da noi anche i quotidiani (cfr. M. Bucchi su “Repubblica” del 1 giugno 2013) e si chiedono come faranno i commissari delle abilitazioni a “leggere 1610 pagine al giorno” (G.A. Stella sul “Corriere della sera” del 30 maggio 2013).

[36] H. Keyserling, op. cit., p. 341.

[37] Cosmopolis, dir. David Cronenberg, interpreti R. Pattison, S. Morton, 2012, eOne Films, sceneggiatura di D. Cronenberg su soggetto di D. DeLillo (Cosmopolis, tr. it. Einaudi, Torino, 2003).

[38] Cfr. Th. Hohne, Evaluation als Wissens- und Machtform, Giessener Elektronische Bibliothek, 2005, p. 12 http://geb.uni-giessen.de/geb/volltexte/2005/2105/pdf/HoehneThomas_Eva­luationt.pdf; P. Dardot e Ch. Laval, La nouvelle raison du monde (Essai sur la société néolibérale), Paris, 2009.

[39] D. Harvey, Breve storia del neoliberismo, tr. it. di P. Meneghelli, Il Saggiatore, Milano, 2005, pp. 10-11.

[40] P. Dardot, Qu’est-ce que la rationalité néolibérale?, in B. Cassin, R. Gori, C. Laval (a cura di), L’appel des appels. Pour une insurrection des consciences, Mille et une nuits, Paris, 2009, pp. 293-306.

[41] G. Neave, op. cit., p. 85.

[42] A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel Lezioni sulla “Fenomenologia dello Spirito” tenute dal 1933 al 1939 all’Ecole Pratique des Hautes Etudes, raccolte da R. Queneau, tr. it. di G. Frigo, Adelphi, Milano, 1996, pp. 541-542.

[43] F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, in Id., Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. VIII, tomo II, Adelphi, Milano, 19903, pp. 113-114 (10 [17]).

[44] R. Barthes, Miti d’oggi, tr. it. di L. Lonzi, Einaudi, Torino, 1994, pp. 80 sgg.

[45] Ivi, p. 186.

[46] Ivi, p. 183.

[Immagine: Shepard Fairey, Obey].

 

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