di Gianluigi Rossini
[LPLC si prende una pausa estiva; la programmazione ordinaria riprenderà a settembre. Per non lasciare soli i nostri lettori ripubblichiamo alcuni testi usciti nel 2013 e 2014. Questo articolo è apparso su LPLC il 13 aprile 2014. Riportiamo anche la didascalia originale.
Oggi va in onda negli Stati Uniti la prima puntata dell’ultima stagione di Mad Men. Rendiamo omaggio a questa serie televisiva, una delle più importanti mai girate, con due saggi. Il primo è di Gianluigi Rossini, che da alcuni anni si occupa di generi, forme e tipologie narrative delle serie televisive contemporanee. Una versione più lunga di questo articolo è uscita sull’ultimo numero di «Contemporanea. Rivista di studi sulla letteratura e sulla comunicazione», 10 (2012) ]
Due delle principali critiche che Mad Men ha ricevuto, soprattutto durante la prima stagione, riguardavano la sfera della nostalgia: secondo alcuni la serie suscitava un ingiustificato autocompiacimento per la società contemporanea; secondo altri mirava furbescamente a far rimpiangere un periodo in cui i ruoli di genere erano ben stabiliti ed era possibile molestare le segretarie senza temere di essere denunciati[1]. Eppure è difficile dire che Mad Men idealizzi gli anni ’60, considerando che ne mette in primo piano proprio la parte più inaccettabile per lo spettatore contemporaneo: tra le prime cose che saltano all’occhio ci sono la rappresentazione cruda e sfacciata di sessismo, razzismo, omofobia, il soffocante conformismo dei suburbs e perfino una condotta genitoriale per lo più irresponsabile.
È interessante notare che Vera Dika (2003), ad esempio, arrivi a conclusioni simili analizzando Grease (1978): è una fantasia utopica, ritagliata sullo spettatore contemporaneo e ambientata in anni tanto innocenti e divertenti quanto immaginari. I costumi sociali e il vestiario anni ’50 sono parodiati «con delicatezza», e lo spettatore è invitato a considerare, «con un sorrisetto autocompiaciuto», quanto ci si è evoluti nel frattempo. Ma in Mad Men c’è ben poco di parodico e ben poco di delicato: piuttosto, lo spettatore si trova a oscillare costantemente tra seduzione e ripugnanza.
Come ha dichiarato Weiner in un’intervista: «Volevo dare alla gente un’esperienza sensoriale. […] Dovevo vendere lo show come ‘il periodo più sexy della storia americana’». Fotografia e scelte cromatiche, costumi e oggetti di scena, corpi e volti degli attori, tutto in Mad Men è volto a creare uno stile visuale sontuoso ed erotizzato. Allo stesso tempo, però, sempre Weiner: «Amo quell’epoca e amo il design, ma abbiamo cercato in tutti i modi di non farlo sembrare un film dell’epoca. […] I film di allora erano l’ultimo grido del design. Quindi quella roba non rifletteva la vita reale […] C’è molta bruttezza nella show, volontariamente. Ci sono molti cavi, cenere, macchie di sudore, colori stinti».
Questo contrasto indica un uso complesso dello stile nostalgico, il cui scopo più evidente è proiettare sul presente gli stessi conflitti sociali che vediamo rappresentati nel passato. L’interesse primario non è smascherare le ipocrisie dell’epoca o le false mitizzazioni che ne sono state fatte, ma rivelare in maniera indiretta quanto di tutto questo sopravvive ancora oggi. Si tratta di una strategia che, almeno all’inizio, non tutti hanno colto. In una brillante recensione della prima ora, Bernie Heidkamp ha sostenuto che Mad Men è ambientato in un «passato allegorico», grazie al quale sessismo e razzismo contemporanei sono messi in mostra come difficilmente si potrebbe fare altrimenti. Scorrendo le recensioni di altri critici, Heidkamp notava come alcuni riuscissero a cogliere l’allegoria, mentre altri vedessero semplicemente stereotipi misti a sensualità. Weiner, in un’altra dichiarazione, è arrivato a tirare in ballo la fantascienza: «È una specie di ambiente da fantascienza, e ci sono un sacco di cose delle quali non puoi parlare adesso, ma puoi parlarne in quel mondo»[2].
Fantascienza, ma nel passato, per dire quello che altrimenti non si potrebbe dire. In questo senso, Mad Men e Grease hanno davvero qualcosa in comune, cioè l’idea di creare un mondo alieno e fantastico sulla base di passato relativamente recente. Ma, oltre alla differenza di segno di questa creazione (distopia/utopia), c’è un altro punto fondamentale: Mad Men è una serie, come tale ha uno spazio narrativo enorme, e questa distopia è solo un punto di partenza. Il passato allegorico in cui veniamo risucchiati, infatti, è enormemente ricco, complesso e cangiante, quindi difficilmente riducibile a una sola estetica o a una sola interpretazione.
Le allusioni alla fantascienza abbondano, in Mad Men, dalla prima alla quinta stagione. Nelle interviste successive Weiner non ha più ripetuto l’associazione, preferendo da un lato sottolineare l’impegno profuso nella cura del dettaglio d’epoca e nell’evitare gli anacronismi, dall’altro dichiarare ambizioni ben più elevate di una denuncia dei costumi: «Sto cercando di raccontare una sotoria su come siamo diventati ciò che siamo ora» (intervista con Alan Sepinwall). La formula “science fiction in the past”, però, continua a cogliere un punto centrale: Mad Men non è una ricostruzione dell’America dei Sixties, è la costruzione di un passato immaginario, per quanto assemblato sulla base di autentici materiali d’epoca. Questo passato diventa allo stesso tempo una narrazione delle origini e un’ipotesi sperimentale tramite la quale indagare il rapporto tra individuo e cambiamento sociale.
Non sempre l’esperimento funziona come dovrebbe: a volte, ad esempio, la psicologia dei personaggi sembra schiacciata sulla loro funzione di ingranaggi del meccanismo allegorico. In generale, però la ricchezza dei significati convogliati dalla serie è enorme, e va molto al di là di quello che si potrebbe dire nello spazio di questo saggio.
Tematizzando Mad Men dal punto di vista della nostalgia, tuttavia, credo si possano individuare due elementi fondamentali che la caratterizzano: uno stile nostalgico basato sull’estetica vintage e un modello di evoluzione storica basato sulla “presa di coscienza”.
Lo stile nostalgico di Mad Men
In un saggio piuttosto in anticipo sui tempi e raramente citato[3], Marc Le Sueur (1977) individua una prima ondata di «nostalgia films»: The Last Picture Show (1971), American Graffiti (1973), The Way We Were (1973) e altri. Le Sueur traccia una linea evolutiva dell’“arte nostalgica” che parte dal Rinascimento e si basa su due strategie estetiche fondamentali: il realismo di superficie («surface realism») e l’arcaismo volontario («deliberate archaism»). Se ci riferiamo al cinema, il primo è la ricostruzione visuale di un periodo mediante oggetti materiali riconoscibili, come vestiti, arredamento, automobili; il secondo è la creazione di “uno strano ibrido estetico”, un “artefatto vecchio-nuovo”, che imita l’aspetto delle forme artistiche del periodo di ambientazione. Le due strategie estetiche possono essere utilizzate contemporaneamente, sebbene con bilanciamenti diversi, e si richiamano tanto al feticismo per gli oggetti del passato, quanto alla sostituzione delle immagini mediate alla memoria personale.
La realizzazione di un realismo di superficie efficace comporta una notevole ricerca storica e una certa fedeltà al periodo, ma ciò non toglie che la scelta di cosa mettere in primo piano possa determinare risultati estetici quasi opposti: tanto American Graffiti quanto A Single Man (2009) sono ambientati nella California del 1962, ed entrambi sono stati apprezzati per la ricerca del dettaglio. I mondi che ritraggono, tuttavia, sembrano del tutto incompatibili[4]. In maniera simile, per quanto riguarda l’arcaismo volontario, Pleasantville (1998) ritrae gli anni ’50 imitando le sitcom dell’epoca, mentre Far From Heaven (2002) riproduce lo stile cinematografico di Douglas Sirk, con effetti e intenzioni molto diversi.
L’attenzione per il «period detail» e la lussureggiante ricostruzione di abiti, arredamento e oggetti d’uso dell’epoca è una delle qualità di Mad Men su cui più spesso ha posto l’attenzione tanto la critica quanto la propaganda di AMC; la maniacalità di Weiner a questo proposito è leggendaria. Questo sforzo di coerenza storica, però, è strutturato in modo da mettere in moto un meccanismo ben più complesso del semplice richiamo alla memoria generazionale o mediale: la superficie visuale di Mad Men è altamente seducente, fortemente erotizzata, sontuosamente bella. Ma perché, e in che senso, vestiti fuori moda, oggetti di altri tempi che a volte non ricordiamo (e che uno spettatore non americano spesso non ha mai visto) ci sembrano belli?
Come nota Emiliano Morreale (2009), nel corso del Novecento sono emerse almeno tre categorie estetiche con una componente nostalgica, che si tuffavano con piacere nella riproposizione di oggetti del passato: il camp, il trash e il vintage. Il camp, come è noto[5], si riferisce a «un gusto, una sensibilità, più che una corrente artistica» (Fusillo 2009, p. 157), descritto per la prima volta da Susan Sontag nel 1964. È un concetto difficilmente categorizzabile, dai confini sfumati e cangianti, ma che ha avuto enorme successo e diffusione. Massimo Fusillo lo riassume così:
Il camp scardina gli assi portanti dell’estetica tradizionale, proclamando che qualcosa può essere bello perché orribile, e che quindi esiste «un buon gusto del cattivo gusto» (Sontag); non va infatti confuso con il kitsch, in quanto non scaturisce dallo scadimento estetico, ma dal successo nel trattare il serio come frivolo (e viceversa), e quindi da una posizione di straniamento. (Ivi, 158)
È un gusto, quindi, estremamente raffinato e consapevole, intellettuale ed elitario, impregnato di codici segreti e di atteggiamenti doppi, ironici, provocatori. Non è necessariamente legato al recupero dal passato; tuttavia, come dice la stessa Sontag:
Tanti oggetti apprezzati dal gusto camp sono antiquati, fuori moda, demodé. Non si tratta di un amore per il vecchio in quanto vecchio. È che il processo d’invecchiamento, o di deterioramento, crea il necessario distacco o suscita la necessaria simpatia. (Sontag 1967, p. 383)
Il camp si è rapidamente massificato, e nella sua versione contemporanea «tende a un ossimorico elitarismo di massa» (Fusillo 2009, p. 159). Secondo Morreale:
Una volta divenuto una sensibilità diffusa, il camp si scinde in due nozioni gemelle: il trash e il vintage. Entrambe, però, sacrificano del concetto originario il senso clandestino, elitario, e di irriducibilità al sociale. […] Il vintage può essere considerato come l’ultima frontiera dell’equazione tra camp e chic: è un recupero delle mode passate, considerate non più con sarcasmo ma come «ultimo grido». (Morreale 2009, pp. 37-38)
Lasciando da parte il trash, la supposta parentela tra vintage e camp suscita qualche perplessità: l’unica cosa che i due concetti sembrano avere in comune è il recupero del passato, anche se, come si è detto, nel caso del camp si tratta di una tendenza, nel caso del vintage di una condizione necessaria. Un oggetto, infatti, non può essere considerato propriamente vintage se è stato prodotto di recente, e dire di aver visto uno spettacolo teatrale vintage sarebbe semplicemente privo di senso.
La parola vintage viene dalla viticultura: se si parla di vini, secondo il dizionario Treccani, il significato è «denominazione generica di vini d’annata di pregio». Nel momento in cui passa ad altre categorie merceologiche (automobili, strumenti musicali e, in particolare, abbigliamento), porta con sé l’idea di annata, qualità e competenza. Il vintage clothing, nella ricostruzione di DeLong, Heinemann e Reiley (2005), nasce già negli anni ’80 e si diffonde soprattutto nei ’90, aiutato tanto dall’esplosione del grunge e della conseguente moda “alternativa”, quanto dal successivo revival dello stile anni ’70. Rovistare nei mercatini e nei negozi dell’usato, in quest’ottica, perde lo stigma sociale e si trasforma in una caccia al tesoro per intenditori. Il vintage shopper, quindi, non vuole riportare in vita lo stile di una qualche epoca ma, grazie un’elevata competenza che gli permette di riconoscere annate, qualità e tessuti, vuole creare uno stile personale e un repertorio di possibilità che si adattino al meglio al proprio corpo, personalità e desideri: «My way, for today»[6]. Si tratta di una forma di creatività del consumo, che sottintende sia una ribellione alla moda massificata, sia una riappropriazione del proprio corpo, poiché permette di sfuggire all’imposizione di uno stile unico per il quale non tutte le forme sono adatte. Generalizzando, quindi:
Tutto ciò che adesso è descritto come vintage sottintende l’applicazione di principi da intenditore in relazione al consumo, presentazione, manutenzione e conservazione di oggetti vecchi. (Hamilton 2012, p. 229)
La sottile differenza tra vintage e retro, infatti, è proprio in questa etica da archivisti:
Dove il termine retro enfatizza l’approccio o la filosofia del consumatore come “guardare indietro per andare avanti”, il più recente termine vintage enfatizza l’expertise del consumatore nell’applicare questo approccio. (Ibidem)
Rispetto al camp, quindi, siamo in un territorio completamente diverso: il recupero del passato avviene nel segno dell’ammirazione e del rispetto, senza sarcasmo né ironia; necessita sì di un gusto allenato e raffinato, ma nel senso di conoscenza enciclopedica del campo specifico di applicazione; rappresenta una ribellione alla massificazione, ma come proposta di stili di consumo più consapevoli e responsabili, non come vero e proprio sovvertimento. L’oggetto vintage, inoltre, acquista valore nel suo essere investito di un insieme di significati che si collegano alla storia del consumo, della produzione, del design e della cultura in generale.
Un’opera contemporanea che adotta un’estetica vintage, a questo punto, gioca su un doppio binario: da un lato sfrutta un clima culturale che valuta positivamente la riproposizione di forme del passato, e quindi può essere fruita da chiunque; dall’altro si fa apprezzare dai conoscitori, in quanto assemblaggio creativo filologicamente coerente e consapevole.
Mad Men, appunto, ricostruisce l’America degli anni ’60 seguendo questa estetica, come un emporio di merci accuratamente scelte, riorganizzate e caricate di significato all’interno della narrazione. «Sono i dettagli a raccontare la storia, e quei dettagli hanno vita propria», ha detto Weiner, «nessun oggetto di scena è improvvisato». L’accumulo di dettagli non corrisponde semplicemente a un gusto barocco nel riempire l’inquadratura, a una sensualità diffusa, ma contribuisce in maniera determinante alla costruzione del senso. Si veda, ad esempio, la caratterizzazione di Betty, Joan e Peggy attraverso tre diversi stili di abbigliamento, come analizzata da Rosenheck (2013). Il New Look di Betty, fatto di corsetti rigidi, girovita stretti e gonne voluminose, comunica immediatamente il suo status di moglie casalinga suburbana: è uno stile sfarzoso, artificiale e poco pratico, che esalta il dimorfismo sessuale e la trasforma in una specie di bambola con una scarsa mobilità; i tubini di Joan, invece, aderenti alla figura e sensuali, insieme ai tacchi a spillo, la caratterizzano come “sexy single girl”, indipendente e consapevole, posizionata però in una zona grigia tra la presa di possesso della propria immagine e della propria sessualità e un autoasservimento al potere maschile; Peggy è forse la più complessa delle tre, poiché subisce un’evoluzione continua nel cercare la propria identità, non essendo né una Jackie né una Marilyn (come si dice in Maidenform, 2:06), e passa dall’imitare Joan all’incontro con la controcultura e le magliette a righe (molto interessanti, a tal proposito, le analisi fatte nel blog Tom and Lorenzo).
Il realismo di superficie di Mad Men, quindi, è governato da un’estetica vintage, più che da esigenze di vero e proprio realismo. Ma considerazioni analoghe possono essere fatte per il suo arcaismo volontario: il casting, gli ambienti e le inquadrature sono costruiti secondo un elaborato vocabolario visuale basato in particolare su The Apartment (1960) e The Best of Everything (1959), ma che attinge abbondantemente anche da Hitchcock e da altri titoli come How to Succeed in Business Without Really Trying (1967), The Bachelor Party (1957), The Man in the Grey Flannel Suit (1956) e molti altri[7]. La lobby della Sterling Cooper, ad esempio, è ripresa quasi di peso da The Apartment, come la secretarial pool è quasi un omaggio a The Best of Everything. Allo stesso modo il ritmo compassato, la preferenza per le inquadrature fisse, le carrellate lente e marcate, i raccordi di montaggio e la profondità di campo richiamano lo stile della Hollywood classica. Ma, anche qui, più che di un pastiche, si tratta di un elaborato processo di selezione, riproposizione e ri-significazione, che ingaggia una riflessione sulla costruzione dell’immagine e complementa il racconto.
La presa di coscienza
Una delle strategie tipiche dello stile nostalgico è la rottura della continuità temporale: il passato viene rappresentato (e vissuto) come separato dal presente; c’è un allora e c’è un adesso, e i nessi di causalità che li connettono sono in secondo piano o dimenticati. Questa strategia si è spesso manifestata nel paradigma narrativo della “fine dell’innocenza”, che deriva dal Bildungsroman ed è «nello stesso tempo l’ultimo residuo della forma-romanzo e l’affermazione di un prima e un dopo incommensurabili» (Morreale 2009, 9). La qualità tardo-moderna di questo paradigma è il tentativo di unire individuale e collettivo, storia personale e storia nazionale, riorganizzando entrambe intorno a una narrazione di crescita e perdita dovuta a eventi traumatici. Inoltrandosi nella contemporaneità, tuttavia, si nota che:
La nostalgia di massa pienamente dispiegata farà a meno di questa narrazione […]. Dal modello del romanzo di formazione ottocentesco […] si passa a sottolineare meramente il lato della perdita dell’infanzia, senza che a questa corrisponda un guadagno emotivo, neanche per partito preso. (Ibidem)
Possiamo vedere questo paradigma in azione in American Graffiti (1973), non a caso ambientato in un 1962 che rappresenta l’ultimo anno dei Fifties, prima che l’omicidio Kennedy, l’escalation in Vietnam, le rivolte per i Civil Rights e la rivoluzione sessuale trasformassero irrimediabilmente la società americana[8]. Il film si svolge in un solo giorno, dopo la fine della scuola superiore e prima della partenza per il college di due dei protagonisti, dei quali alla fine solo uno, Curt, partirà davvero. Il piccolo mondo della gioventù di Modesto, California, è messo in scena in un’ultima notte di bravate, tra gang di greaser e DJ radiofonici, approcci con le ragazze e corse con le macchine, tutto accompagnato da un rock’n’roll divertente e spensierato. Con la partenza di Curt la narrazione si arresta, e i protagonisti “muoiono” metaforicamente. Nell’ultima immagine, infatti, il testo in sovrimpressione ci informa sul loro destino: Curt, ragazzo di buona famiglia, è diventato uno scrittore e vive in Canada; Steve, che aveva deciso di restare per amore, vive ancora a Modesto ed è un rappresentante di assicurazioni; Toad, il ragazzo impacciato e povero (privo di automobile, infatti) è disperso in Vietnam; John, il greaser e pilota più veloce della zona, è morto in un incidente stradale[9]. È un brusco ritorno alla realtà: chi aveva vissuto il periodo ricordava bene che molta gioventù di allora aveva dovuto scegliere tra partire per la guerra, sposarsi per evitarlo o disertare fuggendo in Canada, e che spesso i primi a partire erano stati i greaser e quelli che provenivano dalle famiglie meno abbienti (cfr. Dika 2003, pp. 89-94). Sotto questa luce, il periodo in cui quattro ragazzi così diversi formavano ancora un corpo unico diventa un paradiso incontaminato, un allora in cui tutto, effettivamente, era più semplice.
Mad Men inizia, allo stesso modo, nell’allora: la prima stagione va dal marzo 1960 al novembre dello stesso anno, quindi dagli ultimi mesi della presidenza Eisenhower all’elezione di Kennedy. Ma, come abbiamo visto, non c’è nulla di innocente in questo mondo. Quello che rende il 1960 di Mad Men un allora, invece, prima ancora dei costumi, è l’inconsapevolezza dei personaggi: in questo mondo non solo sono tutti conformisti, sessisti, razzisti e omofobi, ma non sanno nemmeno di esserlo.
Nei primi episodi il meccanismo è quasi urlato, messo in primo piano praticamente in ogni scena. Andando più avanti si fa più sottile, ma comunque molto forte: in The Gold Violin (2:07), ad esempio, dopo un pic-nic con i bambini, Betty e Don spargono in tutta tranquillità i rifiuti sul prato. La scena è un campo lungo composto in modo da essere il più indigeribile possibile: in alto a sinistra, sulla strada, Don e i bambini salgono sulla nuova scintillante Cadillac, mentre Betty scrolla la tovaglia e si avvia a risalire; in basso a destra, incorniciato da due alberi, il mucchio di rifiuti, in evidente e sgradevole contrasto con il verde del prato. La macchina da presa rimane ferma mentre l’auto esce dall’inquadratura, lasciandoci a contemplare lo scempio.
La forza di scene come questa deriva in parte dal fatto che i colpevoli sono i protagonisti, quegli stessi Don e Betty sui quali abbiamo investito molto tempo e nei quali siamo praticamente costretti a identificarci, in quanto spettatori fedeli. Ma un’altra considerevole parte deriva, appunto, dalla totale inconsapevolezza dimostrata da personaggi che, fra l’altro, sono caratterizzati come la più raffinata upper class, elegante nei gusti e nei modi.
La strategia utilizzata da Mad Men in questo senso si potrebbe descrivere come un opposto del processo di rimozione nostalgica operata da film come American Graffiti: le negatività dell’epoca sono in primo piano per gli spettatori, ma completamente invisibili ai personaggi. La rimozione, così, è come un basso ostinato in una composizione musicale: sullo sfondo, ma sempre presente. Questo rimosso minaccioso di tanto in tanto viene lasciato emergere, in maniera a volte esplicita e a volte simbolizzata.
Sempre in The Gold Violin, l’incuria per l’ambiente viene contrapposta alle ripetute raccomandazioni di Don ai bambini affinché non sporchino la Cadillac. La sera del giorno successivo al pic-nic, Don e Betty sono all’elegantissima festa di inaugurazione del programma televisivo di Jimmy Barrett, comico che ha lavorato con la Sterling Cooper, con la moglie del quale Don ha avuto una relazione. Jimmy, che ha capito, lo dice prima a Betty e poi, con il massimo disprezzo, a Don. Durante il ritorno in macchina, nel silenzio più glaciale tra i due, Betty vomita, improvvisamente e incontrollabilmente. Lo sguardo di Don, inorridito, si dirige d’istinto verso il basso, verso i sedili.
Il paradigma che regola la modalità nostalgica di Mad Men, allora, è una sorta di inversione della fine dell’innocenza, che potremmo definire “presa di coscienza”. Il mondo dell’allora non ha nessuna coscienza di sé, oppure la percezione che ha di sé è completamente sballata, e i personaggi agiscono per lo più senza capire o senza prendere in considerazione le conseguenze. Contemporaneamente la Storia, le forze che trasformeranno l’allora in adesso sono in movimento, e lo spettatore si ritrova ad aspettare il momento in cui il mondo franerà sotto i piedi di questi incoscienti.
Può essere utile, per chiarire quest’idea, un confronto con Far From Heaven, la cui struttura è più un disvelamento dell’oppressione nell’utopia, un portare allo scoperto le ipocrisie e la repressione degli anni ’50 esplicitando il discorso che era già contenuto, in forma latente, nei melodrammi di Sirk a cui si ispira. In Far From Heaven il problema della segregazione razziale, inizialmente nascosto, emerge lentamente fino a diventare esplosivo: quando Cathy e Raymond, una bianca e un nero, si trovano insieme in un locale pubblico (prima in uno per neri e poi in uno per bianchi, ma poco cambia), percepiamo tutto il peso della disapprovazione generale. Alla possibilità della loro unione la società reagisce come un corpo attaccato da un virus, mobilitando le proprie difese immunitarie (lo scandalo nella piccola città di Cathy, i ragazzini che lanciano pietre alla figlia di Raymond) per impedirne la realizzazione. Ma nonostante i due debbano, alla fine, cedere alle imposizioni e separarsi, per un attimo li vediamo concepire la possibilità di un mondo diverso.
Siamo, quindi, all’interno di uno schema ben noto, per quanto attualizzato con raffinatezza: il razzismo esiste/è esistito, ma esiste anche la «good white people» (Ono 2013, p. 422) o i «magic negroes» (Goodlad-Kaganovsky-Rushing 2013, p. 19), che sanano la ferita, contrastandolo. Allison Perlman descrive queste narrazioni come «fables of reassurance for white folks» (Perlman 2011, p. 211), tendenzialmente incentrate su personaggi bianchi che, nelle tre versioni più comuni, disimparano il razzismo attraverso l’incontro con i neri, operano come eroi dei Civil Rights, o incarnano un ideale di innocenza che contrasta con la società razzista. Tramite questi topoi, secondo Perlman, si costruiscono delle narrazioni rassicuranti, che riorganizzano l’integrazione come un cammino lineare, garantito dai presupposti di libertà e uguaglianza che sono a fondamento della società americana. La rappresentazione del razzismo in Far From Heaven non è certo così semplicistica, ma il punto è che, in ogni caso, il film permette l’identificazione in Cathy e Raymond, e sono i due personaggi ad addossarsi il compito di rielaborare l’emersione del rimosso nostalgico.
Come abbiamo detto, nulla di tutto questo avviene in Mad Men. Nessuno dei personaggi è esplicitamente razzista, ma sappiamo perfettamente che tutti lo sono. I neri sono praticamente invisibili fino alla fine della quarta stagione. Il primo episodio della quinta, Tea Leaves, si apre proprio con un gruppo di neri che manifestano sotto al palazzo della Young & Rubicam, agenzia pubblicitaria concorrente della Sterling Cooper Draper Pryce. Alcuni impiegati gettano dei gavettoni d’acqua sui manifestanti, dalle finestre, ma vengono scoperti. Siamo nel 1966, il Civil Rights Act è stato promulgato già da due anni e, nonostante la segregazione sia ancora una realtà di fatto, il discorso pubblico sanziona il comportamento degli impiegati, creando un danno d’immagine alla Y&R. Il cambiamento è in atto: prima nessun nero avrebbe manifestato impunemente in pieno downtown Manhattan, e i giornali avrebbero riportato la notizia in modo diverso. Ma che percezione hanno del cambiamento i bianchi impiegati alla SCDP? Roger Sterling, per provocare la Y&R, fa pubblicare un annuncio che qualifica la SCDP come «equal-opportunity employer». Il risultato è che il giorno successivo la lobby dell’agenzia è piena di afro-americani pronti a candidarsi per un impiego. L’imbarazzo e la preoccupazione con cui tutti reagiscono è eloquente: i pregiudizi di ciascuno sono rimasti esattamente gli stessi di prima. L’improvvisa apparizione di una folla di neri nella bianchissima lobby della SCDP è anch’essa una forma di emersione del rimosso, che come sempre coglie i personaggi di Mad Men completamente impreparati[10].
Ma la rimozione opera a un livello ancora più profondo. Se si confronta Mad Men con altre quality series contemporanee, una cosa che colpisce è la totale assenza di autoanalisi da parte dei personaggi. Quasi mai li sentiamo parlare di se stessi e di quello che provano, quasi mai sembrano riflettere su di sé, e quando lo fanno è del tutto chiaro che stanno mentendo oppure non stanno centrando il vero problema. Ancora di più, tutti sembrano completamente refrattari all’elaborazione dei traumi. La stessa cecità che i personaggi dimostrano verso l’oppressione sessuale e razziale, quindi, ingloba anche la loro interiorità e la loro visione della psiche altrui. Sembra, in sostanza, che Mad Men sia ambientato in un’epoca in cui l’inconscio non è stato ancora scoperto.
Nessuno dei personaggi principali, infatti, sembra in grado di giustificare le proprie e le altrui azioni andando al di là dei principi di causa-effetto più superficiali. Nessuno sembra riflettere sulla propria condizione guardandosi dal di fuori, in maniera lucida.
Revolutionary Road (2008)[11], per fare un confronto, richiama molti dei temi di Mad Men, come il contrasto verità/menzogna messo in rapporto con il conformismo e la piccineria dei suburbs, il tentativo di conciliare le imposizioni sociali con le proprie aspirazioni, e così via. I protagonisti April e Frank, che vivono in una piccola città suburbana del Connecticut, si considerano in qualche modo migliori, più evoluti, rispetto ai loro vicini bigotti. Loro vivono nella verità, gli altri non fanno che raccontarsi bugie. Ma la morsa della periferia li sta cambiando, e nella prima scena li vediamo impegnati in un litigio furibondo, durante il quale Frank dice a April:
I don’t happen to fit the role of dumb, insensitive suburban husband; you’ve been trying to hang that one on me ever since we moved here.
Ora, è impossibile immaginare il Don Draper delle prime tre stagioni dire una frase del genere, e non tanto perché sia un conformista con una doppia vita: il fatto è che Don, per quanto partecipi attivamente al gioco dei ruoli sociali e riesca ad assumerne più d’uno contemporaneamente, non ne elabora mai una versione distaccata e tantomeno sarebbe capace di articolarla a parole. I suoi litigi con Betty sono un continuo «I don’t know» e «What do you want me to say?». All’eloquenza dimostrata sul lavoro si accompagna un’afasia emotiva.
Anche in questo caso ci sono dei momenti di emersione. Nella quarta stagione Don, ora divorziato da Betty e single, sprofonda sempre più nell’alcol e nel disordine mentale. In The Summer Man (4:08), dopo che nell’episodio precedente sembrava aver perso definitivamente il controllo, lo vediamo sforzarsi di riprendere in mano la propria vita. Ridotto il numero di drink e ripresa l’attività fisica, inizia anche a tenere un diario. I primi tentativi sono di una semplicità imbarazzante:
My mind is a jumble. I can’t organize my thoughts. And typing feels like work. I’ve never written more than 250 words, not even in high school. Five paragraphs, 50 words each. God I was lazy.
Verso la fine dell’episodio, però, una consapevolezza comincia ad emergere:
When a man walks into a room, he brings his whole life with him. He has a million reasons for being anywhere, just ask him. If you listen, he’ll tell you how he got there. How he forgot where he was going, and that he woke up. If you listen, he’ll tell you about the time he thought he was an angel or dreamt of being perfect. And then he’ll smile with wisdom, content that he realized the world isn’t perfect. We’re flawed, because we want so much more. We’re ruined, because we get these things, and wish for what we had.
Sentiamo queste parole pronunciate dalla voce fuori campo di Don, mentre sullo schermo vediamo Betty e il suo nuovo marito. L’uomo di cui si parla è evidentemente Don stesso, e la stanza è il salotto di quella che una volta era casa sua, dove si festeggia il compleanno di suo figlio e lui è un estraneo, probabilmente sgradito.
Nel suo ruolo di pubblicitario, in The Wheel (1:13), Don ha metaforicamente inventato la nostalgia di massa[12]. Qui, per la prima volta, sembra provare davvero nostalgia. Ed è una nostalgia amara per l’inconsapevolezza, per un sogno di perfezione dal quale prima o poi si è costretti a svegliarsi.
Questo barlume di autocoscienza non durerà molto: la scelta di sposare la giovane Megan, abbandonando invece la consapevole e assertiva dott.ssa Miller è l’inizio di un brusco processo di regressione, e nella quinta stagione il rimosso emerge in maniera più inquietante e negativa, con le visioni di Mistery Date (5:04), in cui Don, febbricitante, immagina di uccidere una donna che vuole sedurlo a tutti i costi, e The Phantom (5:13), in cui lo stordimento causato da un dente infetto lo porta a vedere il fratello morto suicida.
Come si vede dall’alternanza di rimozione/emersione dei traumi, il modello della presa di coscienza si adatta perfettamente alla forma seriale di Mad Men: il punto di partenza è un passato prenostalgico, proprio in quanto privo di consapevolezza di sé. I traumi rimossi, costantemente visibili sullo sfondo ma ignorati dai personaggi, riemergono all’improvviso, ciclicamente, sconquassando il mondo dei protagonisti e spingendoli a cercare un nuovo equilibrio. Ed è così che si svolge il doloroso processo di presa di coscienza della realtà e di rielaborazione del proprio passato. Se la fine dell’innocenza prevede un unico allora e un unico ora, perché l’innocenza si perde una volta per tutte, la presa di coscienza è un processo infinito, che potrebbe essere ri-narrato in mille modi diversi all’interno della storia di una persona o di una nazione. È così che Mad Men proietta efficacemente il suo stile nostalgico sul presente, costruendo una complessa allegoria sul rapporto tra l’individuo e il cambiamento sociale.
Bibliografia
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[1] Per questa ricostruzione cfr. Goodlad-Kaganovsky-Rushing (2013b); Bérubé (2013).
[2] The Making of Mad Men, video promozionale per la prima serie diffuso da AMC nell’agosto 2007.
[3] Recuperato da Christine Sprengler (2011; 2009).
[4] Sia detto per inciso che la produzione di A Single Man è stata eseguita dallo stesso team di Mad Men, e i setting californiani dei due titoli hanno infatti molto in comune. Nel film c’è anche un cameo di Jon Hamm, non inserito nei titoli di coda: è sua la voce che annuncia al protagonista la morte del compagno.
[5] Per un’introduzione rimando a Cleto (2008).
[6] Postrel 2003, cit. in DeLong–Heinemann–Reiley 2005, p. 24.
[7] Cfr. Goodlad-Kaganovsky-Rushing (2013); Sprengler (2011); Butler (2011).
[8] Come osserva anche Vera Dika (2003, p. 227) i Sixties veri e propri, intesi come periodo di forte cambiamento della società statunitense, iniziano in realtà nel 1963.
[9] Notevole che George Lucas abbia escluso da questo epilogo i personaggi femminili. Secondo Pollok (1999, p. 106) i due co-sceneggiatori del film avevano fortemente contestato la scelta, difesa dal regista in termini strettamente formali: avrebbe significato aggiungere un’altra inquadratura, e comunque considerava i quattro ragazzi i veri protagonisti.
[10] Va detto che la rappresentazione, o più che altro la mancata rappresentazione dei Civil Rights in Mad Men ha suscitato molte critiche. Per quanto il razzismo strisciante sia rappresentato in maniera molto efficace, infatti, resta il fatto che la serie non ha mai dato un ruolo di qualche rilievo a un personaggio afro-americano. La scelta è coerente con le premesse e l’architettura narrativa, ma è innegabile che in questo modo si resti confinati all’interno di un punto di vista totalmente bianco.
[11] Faccio qui riferimento in particolare al film di Sam Mendes, i cui dialoghi, però, sono ripresi quasi senza modifiche dal romanzo di Yates.
[12] La scena di The Wheel in cui Don presenta una campagna per il Carousel Kodak è una delle più dissezionate dell’intera serie, spesso interpretata come myse en abyme. Mi limito quindi a rimandare ai volumi su Mad Men citati nell’introduzione. Sulla nostalgia in quest’episodio, cfr. in particolare Ciasullo (2012); Brevik-Zender (2012); interessante il punto di vista di O’Sullivan (2011), che lega il Carousel alla “condizione seriale”.
[Immagine: Locandina di Mad Men (gm)].
Ho particolarmente apprezzato la profondità di questa analisi, la completezza del saggio e la chiarezza dell’esposizione.
Complimenti, davvero molto affascinante!