cropped-iol.jpgdi Daniela Brogi

  • Looking for Grace (Sue Brooks, Australia)
  • Equals (Drake Doremus, USA)
  • Beasts of No Nation (Cary Joji Fukunaga, USA)
  • Marguerite (Xavier Giannoli, Francia/Repubblica Ceca/Belgio)
  • The Danish Girl (Tom Hooper, Danimarca/Regno Unito)
  • L’attesa (Piero Messina, Italia/Francia)
  • Francofonia (Alexsander Sokurov, Francia/Germania/Paesi Bassi)
  • L’Hermine (Christian Vincent, Francia)

Tra gli otto film proiettati sino ad oggi, dei ventidue selezionati, le opere più interessanti sono Francofonia, Marguerite e The Danish Girl; il più brutto è L’attesa; quello che lascia più dubbi intorno alla sua presenza tra i candidati per il Leone è Looking for Grace; e quello più insidioso è Beasts of No Nation.

Con Francofonia Sokurov usa i mezzi del film di montaggio per spingere alle frontiere estreme del saggismo cinematografico uno dei temi che più attraversano la sua opera, vale a dire la riflessione sul potere – proprio ad esso è dedicata la tetralogia conclusasi con Faust, Leone d’oro a Venezia 68. Il potere di cui ci parla Francofonia è il potere della bellezza, dell’arte, della cultura della grande tradizione europea. Protagonista del film è il Louvre, trattato proprio come una sorta di personaggio. In Francofonia si accavallano, assemblandosi convulsamente come delle onde in una tempesta, quattro piani narrativi diversi: quello dello studio del regista, dal quale la voce narrante guarda filmati di repertorio dell’occupazione nazista di Parigi, nel 1940, e si connette via skype con un equipaggio che sta compiendo una disperata traversata; quello della nave in mezzo alla burrasca mentre sta trasportando opere d’arte; quello del Louvre, all’interno del quale appaiono e scompaiono illusionisticamente le due icone della storia di Francia: Marianne, che ripete tra i corridoi “Liberté, Egalité, Fraternité!”, e Napoleone, che si celebra come il padre del Louvre («c’est moi!); e infine, il piano di racconto che forma la cellula narrativa del film: quello che riguarda l’incontro tra Jacques Jaujard, Conservatore del Louvre all’epoca della seconda guerra mondiale, e il conte Wolff-Metternich, inviato da Berlino per decidere le sorti del patrimonio conservato al Louvre. È grazie alla originale scelta di entrambi – del francese che fece portar via dal Louvre i più importanti tesori, e del tedesco che decise di non farli rientrare, ben sapendo che una volta a Parigi sarebbero andati dispersi nel bottino di guerra – che quei quadri ancora esistono, ci guardano, ci fanno essere ciò che siamo; e possono traghettare ancora l’identità europea, adesso che può sembrare così incombente il senso della catastrofe: la Zattera della Medusa, di Géricault, torna più volte nel film, quasi fosse una variazione dell’arca. Non mancano, certo, le ambiguità, il rischio del nazionalismo, per esempio; né le imperfezioni. Ma non sono imprevisti, piuttosto appaiono come rischi che la regia ha scelto di percorrere. Francofonia, in questo senso, più che un film è un’esperienza del cinema in quanto paradosso. «Che assurdità!», ci dice Jaujard guardando in macchina, nell’ultima battuta del film.

Può apparire strano avvicinare film così lontani, e in effetti lo è, visto che appartengono a generi completamente diversi; ma c’è qualcosa, nei temi affrontati da Sokurov, che dialoga, per affinità o per contrasto, con altri due film, Marguerite e Equals, che come si diceva sono due opere assolutamente differenti, ma proprio per questo possono stare vicine in un Festival che voglia mettere in mostra non cosa debba essere il cinema, ma quante cose diverse può essere. Anche Marguerite, che parte come un film in costume ambientato negli anni Venti del Novecento, affronta infatti il tema della grande tradizione del vecchio mondo europeo, raccontato nel punto di massimo splendore e massima detonazione (come l’inno russo in frammenti che ascoltiamo alla fine di Francofonia, anche qui l’inno francese sarà eseguito in una strana e stridente performance). L’epoca in cui è ambientato Marguerite è quella dell’estetismo e dell’espressionismo: quella in cui, contrariamente a quanto raccontano molte volte i manuali alzando steccati e antagonismi, euforia e disperazione possono talvolta formare un unico amalgama, e abitare un’unica biografia. E così la vita di Marguerite Dumont, ispirata a una vicenda vera ma spostata in Francia, non è soltanto la vicenda di una ricchissima aspirante cantante che pur di realizzare il proprio sogno di celebrità organizza falsi concerti – ricordando, in questa sua folle mascherata, certi tratti di Enrico IV, di Pirandello – rappresentato per la prima volta nel 1922. Anche con eccessi formali di maniera – insistendo così spesso sul motivo dello sguardo, o citando in continuazione scene da antologia della storia del cinema come Viale del tramonto, o il teatrino di Fanny e Alexander, o C’era una volta in America Marguerite compone la nuda verità di un preciso mondo. La stecca con cui la protagonista entra in scena, sgolandosi, ci procura un “avvertimento del contrario” che il film farà progredire, proprio con procedimento pirandelliano, in un “sentimento del contrario”. Perché strilla così Marguerite? Non smetteremo di chiedercelo, anche alla fine del film; e Catherine Frot che interpreta la protagonista, è ben avviata verso la Coppa Volpi come miglior attrice.

Equals, invece, dialoga con il tema di una cultura giunta alla sua irreversibile crisi dal punto opposto, sia nel senso del genere sia dei temi. Gli “uguali”, infatti, sono le creature di un mondo distopico dove tutto è uguale, tutto è controllato, come in 1984, e tutto è bianco e geometrico: per sventare il ripetersi di una Grande Guerra, si è applicata la soluzione estrema dell’addestramento alla rimozione di tutti i desideri e le emozioni. I protagonisti, Silas e Nia, contraggono il virus della “neuropatia emotiva difettosa” innamorandosi.

Ambiguità: questa parola, per certi versi, è la parola chiave per molti dei film in concorso visti finora. Può trattarsi, come in Francofonia, dell’ambiguo abbraccio tra l’amore per la cultura e l’amore per la guerra; dell’ambigua maschera indossata dall’io; o dell’ambiguità di un’identità in metamorfosi, come nel caso di The Danish Girl, il film girato da Tom Hooper (Oscar per la regia de Il discorso del re) e interpretato da Eddie Redmayne (Oscar miglior attore per La teoria del tutto). Il film è un melodramma perfetto usato per mettere in scena la storia di Einar Wegener, artista danese chiamata anche Lili Elbe (1882-1931)e passata alla storia per aver affrontato per prima un’operazione di riassegnazione sessuale. The Danish Girl, come Marguerite, è un film che lavora sulle emozioni e sulla commozione per spostare attenzione. Chi pensa che il cinema non possa fare anche questo, dialogando con il grande pubblico, è pronto a far parte del mondo di Equals.

Ma l’ambiguità di cui si parlava prima può riguardare, oltre che i temi, le storie, le forme, anche gli sguardi creati dal film. Se usata come strategia d’autore diventa, nei migliori casi (Sokurov) straniamento; se invece l’ambiguità è un effetto nemmeno previsto, né considerato, può diventare malafede: tanto espressiva quanto ideologica. Può sfiorare l’osceno. È il caso, direi, del film diretto da Cary Joji Fukunaga (noto per la prima stagione di True Detective) per Netflix (la società di streaming on demand) che racconta dei bambini soldato in Africa. Protagonista è Agu, bambino ghanese, addestrato a combattere nella guerra civile di un paese africano (quale? come? dove?, chi lo sa), agli ordini di un sanguinario comandante. Beasts of No Nation è uno stupefacente esempio di neocolonialismo: tutto il film tratta l’Africa, e in particolare i bambini, come uno zoo vivente dove certo si parla di guerra e di situazioni per così dire attuali, ma talmente rinchiuse in stereotipi esotici che a nessuno certo, magari mentre guarda il film in streaming sul divano di casa, potrebbe mai arrivare una forma di attenzione reale per quelle battaglie tra selvaggi in mezzo alla giungla. L’Africa diventa un non-luogo senza identità e confini. Quei bambini-bestie che si fanno la guerra sono e rimangono figure di un’alterità che è tanto rassicurante nella sua capacità di farci provare un orrore catartico che non smuove di un millimetro il nostro sicuro senso di appartenenza a un mondo altro e superiore. Africa, la raccolta di saggi del Premio Nobel africano Wole Soyinka, pubblicata nel giugno scorso da Bompiani, può rappresentare un efficace antidoto a questo gusto per la falsificazione dell’Africa.

Looking for Grace, costruito intorno alla fuga da casa di una ragazzina e agli eventi scatenati da questa circostanza, ricorda qualcosa della serie tv australiana (come il film) The Slap, del 2011 (ma riproposta in versione statunitense nel 2015). Come The Slap, e il romanzo omonimo da cui era tratta, anche Looking for Grace mette in scena, attraverso una struttura polifonica, le ricadute di un singolo fatto sulla vita dei vari personaggi di un microcosmo familiare.

L’hermine, interpretato da Fabrice Luchini e Sidse Babett Knudsen è un piccolo gioiello di film: che racconta una storia d’amore tra un burbero presidente di una corte d’assise e un’anestesista incontrata tanti anni prima. Ha un ritmo perfetto, grazie alla cura dei dialoghi e alla direzione degli attori.

Deludente invece, il primo film italiano in concorso, L’attesa, parzialmente ispirato al dramma pirandelliano La vita che ti diedi. Il film lavora su un’ossessione materna: siamo in Sicilia, e dopo la morte del figlio ventenne, la madre, Anna (Juliette Binoche) non accetta il lutto, e così nasconde la notizia alla fidanzata del figlio, una ragazza francese arrivata a casa di Anna pochi giorni dopo la tragedia. Le due donne adesso attendono: che arrivi la Pasqua, che Giuseppe torni, e intanto stanno insieme. L’attesa è un film con un soggetto che poteva essere interessante (l’incapacità di elaborare un lutto; un delirio materno di controllo; un’ansia egocentrica di non far spazio a nessun altra emozione se non alle proprie, una competizione tra due donne); d’altra parte la vicenda è affaticata da un onirismo elegiaco che parla a se stesso ma non allo spettatore, riempiendo la scena di immagini compiaciute – la prima inquadratura sulla vecchia tutta vestita di nero che bacia i piedi della statua di Gesù, l’inquadratura, durante il funerale, sul filo di urina che scende fino ai tacchi a spillo di Anna; la scena, molto più avanti, di Jeanne e due amici che fanno il bagno, che fa venire in mente lo spot del profumo “Dolce & Gabbana Light Blue”. E proprio come nelle altre immagini di Dolce & Gabbana ambientate in Sicilia, il sud, ancora una volta, è confezionato secondo i soliti falsificati luoghi comuni che un po’ ammiccano a Viaggio in Italia, di Rossellini, un po’ richiamano la pubblicità.

 [Immagine: Francofonia, di Alexander Sokurov (2015)].

3 thoughts on “Venezia 72. I film in concorso

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