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di Paolo Gervasi

1. Il Commentario penniano pubblicato da Giuseppe Leonelli per Nino Aragno è un commento senza testo che pone, letteralmente e materialmente, il problema del rapporto tra critica e letteratura. Amputato delle poesie per ragioni editoriali, il commentario finisce col presentarsi come una riscrittura del corpus penniano: un commento interlineare che deborda sostituendo i testi, e sovrascrivendo la poesia. Per forma, composizione e linguaggio, per la densità aforistica della notazione, il commento ambisce a diventare una raccolta di poèmes en prose critici. Leonelli del resto, nei suoi Prolegomeni al commento, tematizza lo statuto della critica come riscrittura e come ripetizione: «la poesia è tautologica, sempre, e per parlare di essa dovremmo, estremizzando, usare le sue stesse parole, ovvero tacere». La scrittura è il solo luogo di fondazione del senso, e la critica non può spiegare i significati di un testo, ma soltanto dislocarli in nuovo testo, che è il testo critico: «la scrittura, solo la scrittura è maieutica; non esiste altro per parlare della poesia, per esprimere le emozioni che ci suggerisce e poterle comunicare». Leonelli contrappone al saggio, genere che si è dato la libertà di costruire significati a partire dal testo, ma anche divergendo dal testo, il commento, pratica che invece resta avvinghiata alla radice del testo: «Il commento, genere della critica insieme umile e superbo, è l’unico, vero strumento esegetico adeguato a quell’infinita disseminazione, che è anche un’inseminazione della realtà, di cui veramente possiamo servirci». Se il saggio proietta sull’opera il proprio disegno prospettico, o al limite costruisce un’anamorfosi del testo di partenza, il commento è un corpo a corpo cieco, che addirittura impedisce al critico di vedere il poeta, di collocarsi alla distanza necessaria a riconoscerne la fisionomia: «un’esperienza come questa cancella piuttosto o relativizza qualsiasi immagine dell’autore o meglio la riconsegna problematicamente ai testi. Penna, insomma, per me, alla fine della lettura intensa e articolatissima (parola per parola, ho detto) presupposta dal commento, non esiste più: in un certo senso chi fosse lo sapevo, o mi pareva di saperlo, meglio prima».

Questa accecante prossimità tra esercizio critico e testo letterario, con la nozione di testo che si estende anche alla vita del poeta, ricorda da vicino l’attitudine di un critico del quale Leonelli è stato amico e collaboratore, Cesare Garboli, a sua volta interprete di Penna profondamente compromesso con il poeta, in una prossimità esistenziale, biografica e perfino co-creativa. Per Cesare Garboli la relazione tra letteratura e critica, tra chi scrive e chi legge cercando di interpretare, è sempre una storia di seduzione: una relazione fondata sul desiderio reciproco, all’interno della quale si può assistere a una costruzione conflittuale del significato, a una collaborazione antagonistica. Nel caso dell’incontro tra Garboli e Penna il critico e il poeta combattono per la determinazione del senso, si strappano di mano l’interpretazione della poesia, allestiscono concorrenti rappresentazioni dell’opera, declinando nel loro corpo a corpo l’eterna lotta notturna di Giacobbe con l’angelo, attraverso la quale Giacomo Debenedetti ha metaforizzato l’incontro tra critica e letteratura. Nella prossimità Garboli ha strappato alla poesia di Penna i suoi significati più profondi, seguendo intuizioni che il commento di Leonelli sembra ora confermare e documentare.

2. Il rapporto tra Penna e Garboli contiene un paradosso della prossimità: è proprio «la conoscenza personale, la frequentazione, l’amicizia» che consente al critico di «scoprire l’universalità di Penna», ma appunto in un senso quasi contrario a quello visibile nelle intenzioni del poeta. Mentre conosce l’opera di Penna da una posizione ravvicinatissima, testimone del processo della creazione, il critico impara a «leggere le sue poesie interpretandole da una riva opposta e lontana, come se gli facessero dei gesti diversi dalle loro parole». Andando oltre la ricorrenza di una sorta di «sindrome ossessiva e ripetitiva dell’eros efebico» Garboli individua un nucleo più profondo nella poesia di Penna, un sottosuolo di gravità che contrasta con la facilità della superficie, e fa affiorare «un sistema di leggi morali fuori dall’umano, severissime e indiscutibili, un’attitudine impressionante a vivere di sogni caduti prima ancora di farli, la dura, invisibile coerenza di chi non si aspetta niente dal mondo e si arrangia con una sapienza antichissima e oracolare, come i cinesi che credono nel Tao».[1]

Garboli tenta di rovesciare uno dei luoghi comuni critici più tenaci della poesia novecentesca, ovvero la piana cantabilità della poesia penniana, l’immediata e naturale felicità del suo verso (Garboli approfondisce la potente eccezione di Pasolini, che per primo ha individuato in Penna una forma del male alla radice della grazia). Un luogo comune fondato nella sostanza stessa della scrittura penniana, che diverge con evidenza dalle strategie di significazione della poesia contemporanea: «di tutti i poeti del Novecento, Penna è il solo che non adoperi simboli»; Penna sembra ignorare la dannazione alla metafora che ha esiliato la poesia contemporanea dalla pienezza del senso. Nel secolo dell’oscurità Penna «è tutto in luce, tutto lì, nelle parole che pronuncia, infimi strumenti e materiali di artigiano che bastano a spiazzare, di colpo, il complicato e faticoso edificio a chiave costruito, come un immenso giocattolo, dalla poesia moderna».[2]

Nel sistema di opposizioni della poesia italiana del Novecento alla negazione montaliana, che pronuncia la parola «cuore» solo per denunciarla come uno «scordato strumento», risponde il recupero sabiano della rima «più antica e più difficile», cuore:amore. Penna si colloca istintivamente dalla parte sabiana del sistema, accetta la difficile facilità della rima cuore:amore, pronuncia parole originarie e apparentemente impronunciabili, come vita, uno dei suoi lemmi-chiave, credendo nell’autenticità del loro significato. Penna è un poeta della vitalità, e in questo senso assolutamente minore e marginale nel contesto dell’esperienza contemporanea, seppure la sua vitalità, avverte Garboli, è «solitaria e angosciosa», è « la gioia di sentirsi anonimi, liberi e soli». Della vita, della sua consistenza carnale e del suo mistero, Penna sembra poter intuire la forma essenziale, nucleare, la composizione fondamentale: una serie di esplosioni puntuali e spersonalizzanti del desiderio, che fanno vacillare la tenuta della soggettività.

3. Il rovescio della facilità di Penna è una scrittura che elude il ricorso al simbolismo moderno per risalire a una figuratività sapienziale, a una letteralità sacrale in cui le parole tornano a essere cose, e a fornire un accesso magico alle verità dell’esistenza. La voce perpetuamente in fuga delle poesie di Penna si arresta, il suo sguardo diventa immobile, abbandona la superficie per scendere a una profondità insondabile: «ed ecco i grandi, sorprendenti versi di Penna, gli enormi blocchi di pietra, i resti di un antico edificio in un paesaggio vario, mobile e inquieto». Sono versi inaspettati, che rompono l’omogeneità della dizione di Penna, quasi alterandone il respiro, per imporsi come eventi misteriosi, «simili alle rughe enigmatiche e lineari sul volto di un idolo». Non sono versi dettati dal pensiero, da un’ispirazione mediata dall’ideologia o dalla poetica, nemmeno da «quella smarrita e vulnerabile di un poeta-fanciullo, sempre lì a giocare con la sua meraviglia». Si tratta piuttosto della «strana e impenetrabile ispirazione di un legislatore mitico, di un duro e adulto conoscitore dei fatti dell’uomo». Quando Penna scrive un verso come «Ognuno è nel suo cuore un immortale», si sospetta che «qualcuno è passato in questa poesia, ha parlato a Penna, e ha lasciato sulla sabbia un’orma che non è del nostro tempo».[3]

Il passo sapienziale e misterico immette nel livello oscuro, sotterraneo della poesia di Penna, sempre strenuamente rifiutato e occultato dal poeta. Penna, ricorda Garboli, «soffriva e si lamentava se osavo denunciargli la negatività delle sue poesie, o se gli facevo notare l’ambiguità del meccanismo di cui io lo sentivo prigioniero: meccanismo obbligato di traduzione subitanea del male di vivere nella numinosità narcotica, onirica dell’eros, secondo un processo formale di segno opposto alla felicità naturale in cui Penna si riconosceva o voleva riconoscersi». Penna vuole rappresentare la propria poesia come il luogo nel quale le dinamiche del desiderio si sciolgono, trovano una loro composizione pacifica, una loro espressione immediata: «si sentiva un poeta innamorato del mondo, un poeta solare, e io lo vedevo, al contrario, nella pratica di questo culto, come un fedele pieno di zelo ma anche offeso e malato». Per quanto apparentemente inconciliabili, le due rappresentazioni non si elidono reciprocamente. Attraverso una paziente auscultazione, e una laboriosa concertazione, Garboli arriva a sintetizzare la complessità della poesia di Penna proprio nella «compresenza di due livelli, per così dire, di adulazione del desiderio: uno più oscuro e profondo, che mi dava ragione, l’altro esteriore ma tutto in luce, che mi dava torto».[4] La semplicità di Penna è un risalire all’assolutezza delle forme semplici di cui ha parlato Jolles. Il contenuto, la verità ultima della forma semplice escogitata da Penna è la struttura essenziale del desiderio, e la sua dirompente centralità nell’esistenza umana. Si tratta di una semplicità, dunque, che buca il tempo e ripercorre a ritroso la storia della cultura, per accedere a una originaria profondità.

4. Mentre difende la rappresentazione apollinea della propria poesia, Penna consegna, letteralmente, a Garboli un se stesso sconosciuto e inedito, aprendo a una lenta, obliqua e contraddittoria adesione a un’immagine diversa di sé. Nell’agosto del 1973 Penna affida a Garboli «un fascio disordinato di fogli e foglietti di diverso formato, un po’ manoscritti e un po’ dattiloscritti, in parte nuovi e in parte ingialliti. Contenevano alcune fra le più belle poesie che Penna abbia mai scritto. Erano poesie scritte in tempi diversi, molti anni fa, e mai pubblicate. Penna diceva di averle trovate per caso, e che, fino a qualche giorno prima, ignorava di averle scritte».[5]

L’attenzione di Garboli è attratta soprattutto da due poesie, La battaglia[6] e La rinuncia,[7] che sembrano rivelargli con assoluta evidenza un Penna perturbante, attestato su una misteriosa e solenne intonazione dantesca, confermata, nel primo dei due componimenti, da una sorta di dialogo enigmatico con un coro di ombre (e chissà che accanto al modello dantesco non vada collocato anche il Leopardi del Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie).[8] Segnalando nel gennaio del 1974 le due poesie su «Paragone» Garboli ne sottolinea «la disappartenenza […] allo stile più vulgato di Penna, e la loro appartenenza a un Penna del “profondo”». E attribuisce già a quest’altezza proprio a Penna l’intenzione di scalfire la sua stessa vulgata, nella quale finora è rimasto acquattato, per rendere finalmente pubblico il rovescio segreto della sua poesia: «con la voce allappata dai tranquillanti, Penna si lagna, oggi, della sua lunga fortuna di poeta “alessandrino”. Lamenta che si parli della “magica fluidità”, della “divina semplicità dei versi penniani”. Preferisce essere, dice, un poeta del mistero. E siccome Penna è un grande critico, perché non cominciare a pensare che egli abbia ragione?».[9]

La poesia atemporale di Penna, sospesa in una sorta di antica eternità, nella quale ogni «data si perde in una vita che non ha date»,[10] sembra in questo periodo conoscere un impercettibile movimento. Nel 1970 Penna pubblica in volume Tutte le poesie, un’edizione riassuntiva che produce, per quanto invisibile a occhio nudo, una cesura. Lavorando a Stranezze, il libro successivo alla prima fissazione delle sue opere, oscuramente Penna sente di poter trascorrere, se non in un’altra fase, in un’altra dimensione della propria poesia. Davanti a una tale possibilità naturalmente recalcitra: è terrorizzato da un’ipotesi di maturazione, dall’idea che la sua poesia possa sottostare alle leggi di uno sviluppo, anziché restare sospesa nella sua perenne fuga sul posto. Penna stesso lascia cadere un indizio di questa paura, attraverso alcuni dei suoi «versi rivelatori, sibillini, imperiosi, i versi di grande, fulminea sapienza oracolare», che denunciano: «Non c’è più quella grazia fulminante / ma il soffio di qualcosa che verrà». Con questo dubbio «Penna ha frantumato la statua, l’idolo della sua poesia»,[11] dai suoi versi «è fuggito il delirio, è volata la droga»[12] dei sensi, le costrizioni dovute alla macchina del desiderio sempre in funzione. La fine della giovinezza crea delle soste, delle grandi pause, nelle quali può dispiegarsi il passo sapienziale che precedentemente affiorava soltanto nei brevi arresti, ottenuto attraverso l’intensificazione e la concentrazione delle forme: «oggi questo piano discorso, il ritmo oracolare di Penna s’intreccia senza soluzione di continuità alla svelta polimetria narrativa, alla volubile vena del grande impressionista con il bianco taccuino sotto il sole».[13]

Stranezze arriva a confermare le diagnosi di Garboli, i sintomi, trapelati anche attraverso le anticipazioni, che il critico aveva sentito provenire da sotto la superficie della poesia di Penna. Accreditando la coesistenza di un doppio livello, di una doppia natura dei versi penniani, che in questa raccolta raggiunge un equilibrio quasi perfetto, una convivenza pacificata: «il Penna visivo, il Penna che guarda e trascrive le cose è lo stesso Penna che emette sentenze, il Penna che legifera»; il poeta che ha scoperto la gravità nascosta nella sua leggerezza è «uno strano animale che lascia orme incancellabili, impronte da pachiderma sulla sabbia, senza abbandonare per questo il capriccio di un trotto leggero».[14]

Sta nella costruzione di questa immagine divergente il significato della critica di prossimità di Garboli, le cui intuizioni appaiono ampiamente confermate dal commento ravvicinato e documentato di Leonelli: la comprensione della poesia di Penna conosce nel corpo a corpo con la critica un approfondimento e uno scarto. Il poeta che scrive poesie sul bianco taccuino inondato dal sole si scopre un poeta sapienziale, un poeta che sintetizza in forme assolute ed enigmatiche alcune verità radicali sull’esistenza. Un poeta che, ricorrendo alla assolutizzazione della forma e alla essenzializzazione dei significati introduce una differenza irriducibile nel contesto della poesia novecentesca. Penna, nel ritratto di Garboli, è «il solo poeta italiano che abbia creduto di parlare in positivo e a gola spiegata, dicendo chiaramente chi era e che cosa voleva in contrasto con la grande e vincente formula montaliana di negatività, quindi a prezzo di un continuo accento di sfida e di una terribile infrazione sistematica che sarebbe ingeneroso e riduttivo ricondurre al solo tema omosessuale». La vera trasgressione penniana non riguarda il sesso, e va ricercata nel «miracolo di felicità» collocato dentro un sistema che vieta alla poesia ogni accesso alla vitalità. Alla rimozione dell’esistenza si contrappone la strana gioia di vivere «di un poeta indisponibile ad allinearsi con chi rimane a terra, ma anche costretto, se voleva nuotare, a tuffarsi dalla rupe sbagliata».[15] L’omosessualità come contenuto non basta a definire il senso della differenza di Penna: «più forte dell’identità dei sessi è il pensiero della diversità e del disordine dell’amore, di ogni amore».”[16] Lo scandalo è la faglia che l’amore apre, sempre, nella vita degli individui, e nella quale si inserisce l’irriducibilità dell’Altro. Penna allora diventa un mitico trascrittore delle leggi del desiderio, della loro misteriosa ineluttabilità, della loro potenza lacerante che si sottrae a ogni simbolizzazione, a ogni allegorica sublimazione. Le pulsioni del desiderio sono tutto ciò che siamo e ciò che vogliamo: questo sta scritto nelle rughe degli idoli di pietra interrogati da Penna, e conficcati nel deserto delle nostre esistenze.

Note

[1] Cesare Garboli, Penna, Montale e il desiderio, in Id., Storie di seduzione, Torino, Einaudi, 2005, pp.108-139: 113.

[2] Cesare Garboli, Muori Pennino, in Id., Penna Papers, Milano, Garzanti, 1984, pp. 15-22: 19.

[3] Cesare Garboli, Al di qua del Male, in Id., Penna Papers, cit., pp. 27-31: 31.

[4] Cesare Garboli, Penna, Montale e il desiderio, cit., pp. 119-120.

[5] Cesare Garboli, Penna inedito, in Id., Penna Papers, cit., pp. 23-26: 24.

[6] «“Tua madre è morta”, mi diceva un coro / sommesso immemorabile sereno. / “Morta”, mi ripetevo e un lieve riso / di tempi immemorabili sereno / tingeva l’acre angoscia nella luce. “E quello / che fu nei tempi oscuri il grande amico / è forso morto?” “Oh, quello”, / dicevano più cauti, “in due tagliato / da un solo colpo, mai non lo vedemmo / altrimenti piegato”. E io baciavo / piangendo i resti di quel panno amico / che ricoperto aveva sotto il sole / una cosa nel mondo mai toccata». La poesia passerà poi nella sezione 1957-1965 della raccolta Stranezze, Milano, Garzanti, 1976.

[7] «Ma quando fu perduto – e l’acqua intorno / alla sua fine si fece più nera – / libero e solo sulla riva accanto / vide in un soffio di sole il ragazzo. / Nudo piegato sulle gambe, usciva / dal suo corpo la cosa giornaliera. / Gridò più volte, e con minore angoscia / si risentì nel mondo e nella noia. / Guardò il sesso che apparve umile e assente. / Altra cosa pendeva; e fu con gioia, / quasi con gioia che guardò l’immota / immagine invocata, come assente / guardare alla sua fine, fu con gioia / che in un guizzo felice entro di sé / si chiuse ancora». Stessa sorte editoriale della poesia precedente.

[8] La battaglia «sembra scritta in sogno. O fra la veglia e il sonno. Un incubo, si direbbe, da dormiveglia, da sonnolenza epatica, visitato da fantasmi e bagnato di un pianto per il quale non è errato un richiamo alla Vita nuova. Il commosso, agitato paesaggio interiore, che però è anche quello dell’Umbria medievale, affiora fra le palpebre infiammate, lo stile è gotico, l’accento purgatoriale rimanda anch’esso a Dante, rinvio confortato da una reminiscenza quale “in due tagliato / da un solo colpo”, evidente detrito lasciato dal travolgente passaggio nella memoria di Purg, III, 107-108 “biondo era bello e di gentile aspetto / ma l’un dei cigli un colpo avea diviso”». (Cesare Garboli, Stranezze, in Id., Penna Papers, cit., pp. 33-41: 33-34).

[9] Cesare Garboli, Penna inedito, cit., p. 26.

[10] Ivi, p. 25.

[11] Cesare Garboli, Stranezze, cit., p. 38.

[12] Ivi, p. 39.

[13] Ivi, p. 40.

[14] Ivi, pp. 40-41.

[15] Cesare Garboli, The Penna Papers, in Id., Penna Papers, cit., pp. 53-85: 81.

[16] Ivi, p. 82.

[Immagine: Wolfgang Tillmans, Bournemouth 1992 (gm)].

4 thoughts on “Le leggi del desiderio. Penna, Garboli e un nuovo commento

  1. Non so se sia un problema relativo al mio terminale; non riesco a creare un .pdf di questo articolo, che pure mi interessa – non riesco peraltro a salvarlo in altro formato. Qualcuno può, per favore, aiutarmi? Molte grazie.

  2. Se qualcuno avesse la bontà di creare un .pdf e inviarmelo, gliene sarei molto grato; purtroppo non riesco, pur avendo provato più volte.

  3. “ 16 aprile 1987 – « Al primo grillo quando l’aria ancora / è tutta luce io rinnego il lungo / arido elenco dei ritrovi a sera. » (Penna in «Tempo presente», 6, 1959) “.

  4. Che fine hanno fatto i manoscritti originali che Cesare Garboli custodiva delle poesie di Sandro Penna? So che in vita, Garboli aveva il desiderio di collocarli.

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