cropped-desde-alla-from-afar-2015-lorenzo-vigas-01-932x496.jpgdi Daniela Brogi

 [La prima parte della rassegna dei film in competizione si può leggere qui]

LEONE D’ORO
Desde Allá (From Afar) (Lorenzo Vigas, Venezuela 2015)
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LEONE D’ARGENTO
El Clan (The Clan) (Pablo Trapero, Argentina / Spagna)
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• Abluka (Emin Alper, Turchia /Francia /Qatar) Premio della Giuria
• Heart of a Dog (Laurie Anderson, USA)
• Sangue del mio sangue (Marco Bellocchio, Italia / Francia / Svizzera)
• Remember (Atom Egoyan, Canada / Germania)
• Per amor vostro (Giuseppe Gaudino, Italia / Francia) Coppa Volpi miglior attrice a Valeria Golino
• Rabin, The Last Day (Amos Gitai, Israele / Francia)
• A Bigger Splash (Luca Guadagnino, Italia)
• The Endless River (Oliver Hermanus, Sudafrica / Francia)
• Anomalisa (Charlie Kaufman – Duke Johnson, USA) Gran Premio della Giuria
• 11 Minut (11 Minutes) (Jerzy Skolimowski, Polonia / Irlanda)
• Beixi Moshuo (Behemoth) (Zhao Liang, Francia)

Proviamo a evitare i mezzi termini, com’è tradizione ormai in queste rassegne destinate soprattutto a chi non era a Venezia e voglia coordinate chiare per ragionare su quali film cercare o prepararsi a vedere in sala: il Presidente della Giuria di Venezia 72, il regista messicano Alfonso Cuarón (Y tu mamá también, I figli degli uomini, Gravity), ha probabilmente forzato la mano nell’assegnazione di entrambi i Leoni ai due film sudamericani in concorso. Ma non ha fatto un lavoro sporco, e la Giuria, come dimostra anche la scelta degli altri premi, ha lavorato con serietà. Per di più, erano ben altri i rischi all’orizzonte: poteva essere premiato il film-mantra di Laurie Anderson, che propone pensierini senza capo né coda sulla vita e sull’amore, stravolgendo a proprio uso la grandezza del pensiero buddhista e dei principi della meditazione – Heart of a Dog, producendo la strana impressione di un’implicita scala di valori, racconta in sequenza prima la morte della madre, poi quella della propria cagnetta, che occupa il centro del racconto, e infine, in debole dissolvenza, quella di Lou Reed. Oppure poteva vincere un film fatto bene e scambiato per un capolavoro come l’opera di Skolimowski – e il rischio in questo caso era appunto nell’eccesso di enfasi; oppure poteva vincere Bellocchio; o un film come il turco Abluka: un’opera faticosa dalla trama volutamente paranoica – il film, secondo il commento del regista «racconta di come il sistema politico trasformi gli “uomini semplici” in parti del suo meccanismo violento» – che è un caso di sovrapposizione cerebrale artisticamente non produttiva tra opacità (nel senso di qualcosa di non immediatamente comprensibile) e oscurità (nel senso di qualcosa che rimane incomprensibile e basta).

Quello che certamente va detto è che, nell’economia del paesaggio proposto, avrebbero ricevuto degnamente il Leone anche altri film: Francofonia, per esempio, di cui si era già parlato nella prima parte di questa rassegna, o ancora Remember, Beixi Moshuo, 11 Minut, Rabin – The Last Day, che sono opere di buon livello senza che tra di esse, come complessivamente nell’intera lista dei ventuno candidati, spiccasse un vero capolavoro.

Ma procediamo con ordine.

Il protagonista del film che ha vinto il Leone d’Oro, Desde allá, ambientato a Caracas, è un uomo di mezza età, Armando (Alfredo Castro), abituato a mantenere sempre una distanza di sicurezza tra sé, le proprie emozioni, e il mondo: vive da lontano quando lavora, da solo, nel proprio desolato ambulatorio dove si costruiscono e si riparano protesi dentali (che sembrano simboli coerenti di una presa sulla vita sempre in attesa di compiersi); e resta lontano anche quando adesca ragazzini teppisti a cui chiede, nel silenzio di una vecchia casa di famiglia ingombra di oggetti di pessimo gusto, di spogliarsi e di farsi guardare di spalle, mentre lui, a distanza, si masturba. L’incontro con Elder, un adolescente di strada violento e spaccone che lo mena e stabilisce dunque un contatto fisico, “stana” Armando da questo sistema asettico e anaffettivo, perché lo porta fuori, verso le emozioni; ma l’interruzione di questa protetta vita in disparte crea uno squilibrio drammatico (anche in senso visivo e uditivo) che Armando non sa più controllare (questo, anche scenicamente, è l’aspetto migliore del film), con una relativa e parossistica vicenda di scivolamento verso la distruzione sadica di quel rapporto. Il film di Vigas, il primo film venezuelano che arriva a Venezia, non è soltanto la storia di una relazione omosessuale, ma la messa in scena di due identità maschili che entrano in conflitto con i propri archetipi di riferimento senza evitare di soccombere.

El Clan, ispirato a una storia vera, è un classico film d’azione ambientato a Buenos Aires, agli inizi degli anni Ottanta. Dopo la deposizione di Videla, Archimedes Puccio, ex agente segreto che agisce impunemente anche grazie alla sua fedeltà alla giunta militare, mette su una banda che organizza sequestri e omicidi, seviziando e tenendo nascoste le vittime nella medesima casa, nel quartiere di San Isidro, dove vive con la famiglia, vale a dire con la moglie – che affetta il tacchino arrosto intanto che i prigionieri sono percossi -, con due bambine, con un ragazzino e con il fratello più grande, campione di rugby e coinvolto di prepotenza nell’attività criminale. Il film è mandato avanti, in senso ritmico, da un montaggio del suono magistrale, che accosta urla, orgasmi, balli e risate di famiglia per comporre in una perfetta sintonia la banale normalità di questo orrore. Attraverso la figura centrale di un padre padrone dagli occhi glaciali e disposto a portare la famiglia alla distruzione pur di non fare un passo indietro, il film di Trapero è interessante anche perché racconta gli effetti aberranti della mistica della famiglia unita usando, anziché la retorica della madre, i deliri del paternalismo. El Clan si meritava un premio non fosse altro che per mostrare come si possa realizzare un film sulla famiglia come sistema organizzato di sterminio delle individualità e come metafora di una società in crisi anche senza ricorrere a una trama sgangherata e morbosa come quella di Sangue del mio sangue – anche senza travestire Alba Rohrwacher da Lucia Mondella per farle dire, senza alcuna ironia, «io le amo le nostre galline!».

Il film visivamente più elaborato e perfetto presentato al Festival era anche uno dei più attesi per il Leone: Beixi Moshuo, del cinese Zhao Liang, che è interessante anche perché è una narrazione orientale che si serve di una struttura allegorica e tripartita di ispirazione esplicitamente dantesca. Attraverso la successione dei tre distinti spazi dei sottosuoli incandescenti delle miniere di carbone, della praterie mongole e delle distese di grattacieli delle città fantasma cinesi, il film mette in scena, componendo quadri di una perfezione estetica talvolta troppo perfetta, le esistenze mangiate dal vento e prive di speranza dei minatori dai volti anneriti e dai polmoni pieni di polvere – le voci sono solo quelle del commento fuori campo.

Gli undici minuti a cui allude il titolo del film del regista polacco Jerzy Skolimowski (11 Minut) sono quelli in cui si giocano le esistenze di undici personaggi che arrivano a un appuntamento paradossale con un destino inevitabile ma che, se non avesse agito una sorta di scherzo fatale, poteva essere evitato – e qui ci fermiamo per non dire troppo. È un film che ricorda le macchine combinatorie allestite da Altman, e che funziona per un verso attivando perfettamente tutti i codici del thriller, e per l’altro costruendo una multifocalità di sguardi impersonali. Potrà trattarsi degli occhi di un telefono, o di un computer acceso su skype, o di telecamere a circuito interno, o altro ancora: sono per lo più sguardi staccati da un occhio umano, dispositivi che sorvegliano ma non vedono più l’essenziale. Il film fa deflagrare questa indifferenza.

Remember, di Egoyan (vale la pena di ricordare che è il regista di False verità: Where the Truth Lies, 2005) è una narrazione d’avventura che usa un impianto solido per mettere in scena non solo il tema della memoria dopo Auschwitz (cosa accadrà adesso che sono morti quasi tutti i testimoni?), ma anche il tema del riconoscimento e delle responsabilità legate alla memoria, oltre che il motivo del rapporto stretto tra memoria e scrittura. L’inizio del film è costruito con una trovata scenica che già contiene il film: con il repentino spostamento dallo spazio della scena iniziale, dove c’è un vecchio che si risveglia a fatica nella propria camera, arredata all’antica, invocando il nome della moglie, si alza confuso apre la porta della stanza e improvvisamente si trova dentro lo spazio completamente altro di una modernissima clinica per anziani. Questa esperienza di spaesamento, che è sia interna sia esterna allo schermo, non ci parla solo della demenza del protagonista, che non ricorda mai chi è, cosa fa, che sua moglie è morta; ma prefigura il confine nebuloso tra apparenza e verità che manda avanti tutta l’azione e i significati di Remember. Zev (Christopher Plummer) e Max (Martin Landau) – anche lui ebreo e ospite dello stesso istituto, ma costretto su una sedia a rotelle – sono gli unici sopravvissuti di Auschwitz ancora in vita rimasti capaci di riconoscere il volto del nazista che ha sterminato le loro famiglie. Guidato da una lettera di Max, di cui Zev si serve nei momenti di amnesia per ricordarsi chi sia e cosa stia facendo, Zev parte per andare a uccidere il carnefice della sua famiglia. Esistono quattro uomini con quel nome: seguendo il racconto di Max, Zev andrà in cerca di ognuno di loro.

Anche in Rabin, The Last Day, Amos Gitai lavora sul tema della memoria, mescolando il linguaggio del cinema documentario con le risorse del cinema di finzione (un piano sequenza in un campo profughi vale da solo la visione), per far diventare l’attentato al primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, ucciso il 4 novembre 1995, uno scenario che ancora possa parlare dei pericoli presenti della violenza di matrice religiosa.

Nel film sudafricano The Endless River la parte più bella è quella dei titoli di testa, che scorrono lentamente su un paesaggio sconfinato in campo lungo, e riempito da una colonna sonora in puro stile colossal anni Cinquanta, mentre per il resto del tempo crescono i dubbi e la stanchezza.

Restano tre film: Anomalisa, che ha ricevuto il Gran Premio della Giuria; Per amor vostro, con cui Valeria Golino ha conquistato, a ragione, la Coppa Volpi come miglior attrice; e A Bigger Splash, che non ha ricevuto nessun premio e a dire il vero nemmeno troppi consensi, ma forse era il film più bello tra quelli italiani in concorso.

Anomalisa è un film di animazione che in sala sarà vietato ai minori, perché contiene scene esplicite di sesso orale. È un’opera realizzata in tecnica stop-motion e interpretata da pupazzi, che ha regalato a Venezia 72 uno dei lavori più geniali. I registi sono Charlie Kaufman (sceneggiatore di Essere John Malkovich e Eternal Sunshine of the Spotless Mind e regista di Synecdoche, New York) e Duke Johnson. Il film si apre e si chiude con due lettere di due donne abbandonate dal protagonista, Michael Stone, autore guru di libri sul tema del customer service. Siamo nel 2005: Anomalisa racconta l’avventura tanto intensa quanto effimera di Michael con una donna, Lisa, durante un soggiorno a Los Angeles – in occasione di una conferenza. Il lavoro meticoloso su ogni secondo dell’animazione, e la scelta di una storia raccontata nei suoi snodi più realistici e meno eclatanti – l’arrivo in un albergo, la scelta di una cena in camera, una doccia, uno sciatto tentativo di flirt – producono l’effetto di una sorta di indagine anatomica della solitudine umana. Il racconto scava fino alle forme più essenziali, nello stesso istante in cui, sempre attraverso il lavoro sulla forma, si procura anche – attraverso le cuciture a vista dei volti dei pupazzi, o la camminata artificiosa– un senso di intimità con qualcosa che ci assomiglia tanto di più quanto di più è antirealistica: siamo tutti esseri “costruiti” in maniera “uguale”, sembra dirci Anomalisa.

In Per amor vostro Gaudino si serve delle risorse dell’elaborazione digitale per arricchire di nuove possibilità espressive una sperimentazione sul cinema inteso come officina di tecniche miste che è la cifra stilistica di tutta la sua opera. È tutto spinto fino all’esagerazione, in Per amore vostro: la cultura pop napoletana e la sceneggiata si mescolano con il teatro di Eduardo, con la Compagnia di Canto popolare. Per consegnarci, nella scansione di una ballata in tre parti, la storia di come Anna, la “capasciacqua” – vale a dire quella che ha la testa che non trattiene l’acqua, che non ha mai un baricentro da quanto è in balìa degli altri e della propria fragilità – riesca a ribellarsi al marito “cassiere”, cioè usuraio, trasformandosi in una sorta di “madre coraggio”. Tutto è estremo, spesso anche troppo, in questo film con un’eroina assoluta che, anche se talvolta, rispetto alla definizione del personaggio, può ricordare i ruoli di Sophia Loren ne La ciociara, o in Matrimonio all’italiana, conosce invece, nella recitazione di Valeria Golino, un’interpretazione del tutto personale – forse la migliore di sempre.

A Bigger Splash riprende, come noto, La Piscine, il film realizzato da Jacques Deray nel 1969 con Romy Schneider, Alain Delon, Jane Birkin e Maurice Ronet. I suoi meriti migliori però riguardano proprio le differenze dal film del 1969, e forse potrebbero anche aiutarci a riflettere sui motivi per cui il film di Guadagnino, il più bello tra le opere italiane in concorso, possa creare curiose resistenze. A Bigger Splash racconta una vacanza a Pantelleria della rock star Marianne (Tilda Swinton) e del suo compagno Paul (Matthias Schoenaerts), sorpresi dall’arrivo dell’ex fidanzato di Marianne Herry (Ralph Fiennes) e di sua figlia Penelope (Dakota Johnson). Nel primo film il sistema dei personaggi era essenzialmente tutto giocato sul triangolo che aveva al centro Marianne tra Paul e Herry. Qui invece, malgrado Penelope continui a esser un personaggio più defilato, acquista più spazio, come del resto Herry: abbiamo un quadrilatero. Ne La Piscine l’azione si svolgeva in una villa della Costa Azzurra, e la telecamera si spostava da quello spazio solo nei due momenti in cui la protagonista va a far la spesa col suo ex e quando, finalmente, può rimettere su un aereo e spedire a casa Penelope. In A Bigger Splash invece lo spazio esterno alla villa diventa importante. E qui ci avviciniamo al punto: allo scarto più forte dal film di Deray, nonché a uno degli aspetti più interessanti del film di Guadagnino. A Bigger Splash non è soltanto un film intorno alle complicazioni di un rapporto simbiotico (quello tra Marianne e Paul) minacciato dall’arrivo di due corpi estranei. A Bigger Splash è un film che usa anche il mondo esterno alla villa per dare profondità di campo alla storia, riuscendo, anche così, a far qualcosa che non fa quasi nessuno in Italia, vale a dire mostrarci con serietà come vive la gente ricca: come ignori con beata e aristocratica indifferenza tutto quello che non è al proprio stesso livello. Guadagnino, in tal senso, come già aveva fatto in Io sono l’amore (2010), ma là ancora con qualche residuo di moralismo, ha il merito di raccontarci qualcosa che né il cinema né la narrativa italiana riescono a rappresentare. Con serietà, intendo. Nell’indifferenza con cui Herry, appena arrivato, piscia su un’antica tomba, perché tanto «l’Europa è tutta una tomba», nel tono leggero con cui i quattro amici parlano di scendere in paese per la festa del Santo Patrono perché «c’è musica, balli, cibo orribile: non te la puoi perdere» (e in effetti poi ci andranno per impossessarsi degli spazi, come divinità scese in terra, e imbambolare tutto il paese sul loro concerto improvvisato); in ciascuno di questi dettagli, finalmente, c’è qualcuno che mette in scena il punto di vista di chi è sul tetto del mondo, senza spiegarci che dobbiamo pensare che sono cattivi. E non è soltanto l’assenza di didascalismi, ma il senso della composizione delle scene che crea questo sguardo: che non solo è più libero, ma in certi casi forse anche più capace di raccontare l’Italia, e le contraddizioni che abitano il Sud in questo momento, al di fuori dei soliti lamentosi clichés. Come quando Penelope, accompagnata da Herry, assaggia la ricotta “deliziosa” che sta preparando una signora del posto, nella sua cucina, mentre intanto una piccola tv passa le immagini dei centri accoglienza per gli immigrati sbarcati sull’isola. Avviene tutto impercettibilmente, eppure quella scena, come molte altre, sa raccontarci una verità tanto antipatica quanto importante da vedere: non solo in senso cinematografico.

[Immagine: Desde Allá (From Afar), di Lorenzo Vigas, 2015 (dbr)].

2 thoughts on “Il Leone d’Oro e gli altri film in concorso a Venezia 72

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