cropped-18970725.jpgdi Gianluigi Rossini

[Una versione più lunga di questo intervento è uscita su Between]

Siamo ormai abituati a sentire che la televisione contemporanea si trova in una sorta di età dell’oro, un momento di creatività elevatissima e di risultati straordinari. Normalmente questo tipo di affermazioni fa riferimento a alcune serie TV, una forma televisiva particolare che è diventata un po’ il prodotto televisivo per eccellenza, in particolare per quanto riguarda la fiction. I personaggi ricorrenti che diventano quasi membri della famiglia, la possibilità di costruire un racconto che si dipana lungo un numero di ore improponibile per qualsiasi altra forma visuale, la tensione tra ripetizione e innovazione in ogni episodio: la serie sembra sfruttare al meglio alcune delle caratteristiche intrinseche del medium.

Eppure quando la televisione ha iniziato a diffondersi, tra la fine degli anni ’40 e la prima metà degli anni ’50, la serie era solo una delle forme possibili di racconto televisivo e non era né la più diffusa  né la più prestigiosa. Come ben sa chi ricorda l’invasione dei “telefilm americani” negli anni ’80, la serie TV è una forma che ha avuto il suo laboratorio e il suo centro di irradiazione negli Stati Uniti. Le televisioni europee hanno continuato per lungo tempo a preferire le serate-evento o le miniserie in una manciata di puntate. Come ha scritto Todd Gitlin nell’ancora fondamentale Inside Prime Time (1983): «Non c’è nessun imperativo tecnologico dietro alla serie di lunga durata [long-running series]. Serie limitate a sei o tredici episodi sono comuni in Europa. Perché i personaggi ricorrenti non sono sempre e comunque alla base della cultura popolare? Forse gli americani hanno più bisogno di figure familiari rispetto agli inglesi, che hanno nei reali la continuità di una quasi-famiglia? Le teorie che partono dalle richieste dell’audience si trovano sempre in conflitto con il fatto che il gusto popolare non nasce spontaneamente, viene costruito». La serie TV è il risultato di una certa evoluzione dell’industria televisiva. Può essere utile, quindi, ricordare che anche negli Stati Uniti, in un certo momento storico, ci sono state altre forme di racconto televisivo che hanno raggiunto grande successo e prestigio.

Il bello della diretta

Se prendiamo in considerazione tre fortunate periodizzazioni della storia della televisione, elaborate per tre paesi diversi, troviamo un accordo fondamentale su un punto: una prima era televisiva si conclude tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80: gli Stati Uniti, secondo Rogers, Epstein e Reeves, hanno già conosciuto tre ere, TV I, II, e III; per la Gran Bretagna, John Ellis (2000) ha parlato di passaggio dall’età della scarsità (scarcity) all’età dell’abbondanza (availability), ormai superata a sua volta dall’età della disponibilità (plenty); Umberto Eco, poi ripreso da Francesco Casetti (1988), aveva distinto per l’Italia tra paleotelevisione e neotelevisione. Ci sono enormi differenze tra queste tre visioni, tanto nell’impostazione teorica quanto nei criteri utilizzati per dividere i periodi; quello che interessa qui, tuttavia, è constatare che in tutti e tre i casi il trentennio che va all’incirca dal 1950 al 1980 incarna un primo ciclo storico del medium, durante il quale esso ha trovato le sue forme e le ha saturate, per poi iniziare un rinnovamento. In questo periodo la TV ha elaborato la sua retorica, le sue forme di rappresentazione e le sue forme narrative.

Glenn Creeber (2013) individua due fasi successive della «early television»: una sperimentale, che va dalle primissime trasmissioni degli anni ’30 fino alla metà degli anni ’50, e una più matura, fino alle fine dei ’70. Di questa prima fase sperimentale moltissimo è stato perso, in particolare per quanto riguarda la porzione che precede la guerra mondiale: la stragrande maggioranza delle trasmissioni era in diretta e prima del 1947 era piuttosto raro sia che venissero effettuate delle registrazioni, sia che, una volta fatte, venissero archiviate e conservate. Eppure il breve periodo che va dalla fine dei ’40 alla metà dei ’50 ha un grande rilievo nella storia della televisione statunitense: è questa la prima «golden age», il momento in cui il nuovo medium genera più entusiasmo e interesse che preoccupazione e riprovazione. Già nel 1961, dopo lo scandalo dei quiz show, l’invasione delle serie western e delle sitcom, le proteste per l’eccesso di violenza in serie come The Untouchables (ABC, 1959-63), la televisione era ormai diffusamente considerata una «vast wasteland».

Una delle forme narrative di maggior successo in questo periodo era il live anthology drama o teledramma: rappresentazioni di stampo teatrale, trasmesse in diretta da studi dislocati per lo più a New York, inserite all’interno di contenitori antologici come The Kraft Television Theatre (NCB, 1947-58), Philco/Goodyear Television Playhouse (NBC, 1948-55), Studio One (CBS, 1948-58). Inizialmente i teledrammi erano adattamenti di spettacoli di Broadway, romanzi o classici del teatro, ma presto vennero prodotti anche moltissimi testi originali, anche perché il nuovo medium rivelò immediatamente la sua gigantesca fame di storie. Come ricorda lo sceneggiatore Robert Dozier: «Fu un periodo molto eccitante. C’erano forse 15 ore di teledrammi in diretta ogni settimana a New York. C’era un enorme bisogno di materiale e c’erano pochi scrittori. Potevi metterti giù a scrivere con la quasi certezza che se avessi tirato fuori qualcosa di minimamente accettabile lo avresti venduto». (Stempel 1996: 44)

Nonostante i ritmi frenetici e i budget ridotti, nonostante le restrizioni e difficoltà tecniche che la diretta comportava, i teledrammi venivano visti come quanto di meglio la televisione potesse offrire: erano innovativi e provocatori, popolari e raffinati. Raymond Williams li definì senza mezzi termini «il maggior contributo creativo nella storia del broadcasting americano» (Williams 1974: 58), riconoscendo la grande influenza che ebbero sulle successive produzioni britanniche. Essi incarnavano, inoltre, una rivincita della cultura teatrale contro il cinema di massa, non solo perché facevano entrare Shakespeare e Ibsen nei soggiorni di milioni di americani, ma anche per la lontananza dei testi originali dal glamour e dalla spettacolarità dei film di Hollywood. Ciò era in parte dovuto a questioni di necessità: la diretta rendeva molto difficili i cambi di ambientazione e di costumi, l’uso degli esterni, le scene affollate, i campi lunghi. Tuttavia, il cast artistico proveniva per lo più dal teatro e aveva le competenze per trasformare questi limiti in risorsa: i teledrammi tendevano così a focalizzarsi su situazioni ordinarie, stanze chiuse, analisi della psiche dei personaggi.

Nel tempo il teledramma ha acquisito una propria coscienza estetica, allontanandosi dall’idea di “teatro filmato” e creando anche delle peculiari forme di virtuosismo: movimenti di camera complessi, soluzioni ingegneristiche tramite le quali realizzare ambientazioni apparentemente impossibili, come in «Shakedown Cruise» (1955), il cui setting era un sottomarino allagato (Jacobs 2003: 75). Ma era nel senso di intimità e nella rappresentazione delle situazioni ordinarie che il teledramma trovava la sua vera forza: «storie compatte, piuttosto che panoramiche, conflitti psicologici, piuttosto che fisici» (Barnouw 1990: 160).

Gli scrittori erano i veri protagonisti dell’epoca, nonostante registi come Delbert Mann, Arthur Penn, Sydney Lumet, John Fenkenhemeir abbiano iniziato qui la loro carriera. Tra i più famosi si ricordano Paddy Chayefsky, Rod Serling, Reginald Rose e Gore Vidal; nell’intervista citata poco sopra, Robert Dozier raccontava di aver ricevuto per anni lettere dai fan. Dialoghi e volti degli attori in primo piano erano il mezzo espressivo di questa forma, che non potendo utilizzare ambientazioni troppo complesse si focalizzava sulla caratterizzazione del personaggio e riusciva al meglio con una struttura compressa, «che iniziava già nei pressi del climax, contrariamente dalla struttura multiscena del film» (Barnouw 1990: 160).

Uno dei più citati dell’epoca è «Marty» di Paddy Chayefsky, trasmesso il 24 maggio del 1953 dalla NBC all’interno del Philco Television Playhouse, con protagonista un giovane Rod Steiger. La trama ruota intorno a un solitario macellaio trentacinquenne del Bronx che vive con la madre, al suo disperato desiderio di un amore e al suo incontro con un’insegnante modesta e non particolarmente bella. Era questo, secondo lo stesso Chayefsky, il tipo di materiale narrativo che riesce al meglio in televisione: essa doveva occuparsi dell’ordinario, di personaggi tipici, non eccezionali. «Ho provato a scrivere i dialoghi come se fossero la trascrizione di una registrazione. Visualizzavo le scene come se la macchina da presa fosse stata puntata sui personaggi a loro insaputa, e li avesse catturati in un momento di vita intatto. Questa letteralità meticolosa è qualcosa che non può essere fatto con nessun altro medium» (Chayefsky 1995: 183). «Marty» fu il primo testo televisivo a essere trasformato in un film, che nel 1955 vinse quattro Oscar e la Palma d’Oro. Ne seguirono molti altri, come «Twelve Angry Men» di Reginald Rose, «The Rabbit Trap» di JP Miller, «Requiem for a Heavyweight» di Rod Serling.

Il teledramma, quindi, fiorì sfruttando le tre caratteristiche estetiche che definivano il nuovo  medium: la diretta video come sua capacità esclusiva, intimità e domesticità in opposizione al cinema, una natura ibrida che permetteva di appoggiarsi su forme precedenti. La forza della diretta non va sottovalutata: all’epoca la possibilità di far vivere un’esperienza simultanea e irripetibile a un grande numero di persone era qualcosa di quasi mistico, che superava le possibilità di qualsiasi altro medium conosciuto; è noto un articolo del New York Times del ’57 in cui di Rod Serling sentenziava: «se la televisione ha avuto dei momenti memorabili, essi erano all’interno di spettacoli in diretta. Se la televisione ha sviluppato delle tecniche proprie, sono tecniche della diretta» (Serling 1957b). Va anche considerato che l’esposizione e il rischio degli interpreti era totale: parte della bravura del cast stava anche nella capacità di risolvere problemi durante la trasmissione. Lez Cooke (2003: 41) racconta di un caso estremo: durante la diretta di «Underground» uno degli attori protagonisti si accasciò e morì. Il regista Ted Kotcheff, nei due minuti e mezzo dell’interruzione pubblicitaria, riorganizzò le scene e ridistribuì le battute, in modo da portare lo stesso il dramma fino alla conclusione. Il rischio era certamente uno dei fattori di interesse che uno spettacolo in diretta era in grado di suscitare.

Come ha fatto notare Jane Feuer (2003), due fattori in particolare rendevano il teledramma eccitante e prestigioso: da un lato era una forma nuova e sperimentale, che sfruttava caratteristiche essenziali del proprio medium; dall’altro si richiamava al teatro, cioè a una forma più antica ed elevata, ereditandone il prestigio culturale. Secondo la studiosa questo schema contraddittorio torna ciclicamente in ballo ogni volta che si parla di “quality television”: forme sperimentali a livello tecnologico, ma conservatrici a livello strutturale. D’altra parte, seguendo invece Bolter e Grusin (2003), si potrebbe facilmente argomentare che il teledramma rientri nelle strategie utilizzate dal medium emergente per posizionarsi nel mercato, poiché la contraddizione evidenziata da Feuer corrisponde precisamente alla doppia logica della rimediazione: da un lato si sfruttava la trasparenza della TV per portare il teatro nei salotti, dall’altro si sviluppava una tendenza a ipermediare nel rendere la forma sempre più evidentemente televisiva.

Sono sempre i migliori quelli che se ne vanno

L’età del teledramma statunitense non durò a lungo: quando nel 1955 Paddy Chayefsky tornò a New York da Hollywood, finite le riprese del film Marty, pensò che la stagione delle antologie fosse già finita (Stempel 1996: 50). Non era del tutto vero, dato che Playhouse 90 iniziò nel 1956 con l’ambizioso formato da un’ora e mezzo e andò avanti fino al 1960; tuttavia, era già chiaro che l’asse produttivo si stava spostando verso la costa ovest e che i programmi filmati stavano prendendo il sopravvento: se nel 1953 l’80% delle trasmissioni televisive era in diretta, nel 1960 la percentuale era scesa al 36% e in caduta libera (Thompson 1996: 22).

La morte del teledramma coincide con l’espandersi della televisione a livello nazionale: nel 1950 solo il 9% delle famiglie americane possedeva un televisore; nel 1959 era l’85,9% (Marc-Thompson 2004: 64). È piuttosto allettante, quindi, ipotizzare che una delle cause sia stata l’allargamento della platea alle fasce meno abbienti e meno istruite della popolazione, rispetto alla borghesia medio-alta urbana che rappresentava, idealmente, il target iniziale di un apparecchio piuttosto costoso. Tuttavia, come ha sostenuto Lynn Spigel, già a partire dal 1948 possedere un televisore non era più uno status symbol ma «un lusso da poveri» (Spigel 1992: 49–50). Non va dimenticato, inoltre, che altrove il teledramma ebbe vita molto più lunga, anche se spesso in forma registrata e non più in diretta: in Gran Bretagna la stagione d’oro dei single play si estende ben oltre il 1970, così come quella dello “sceneggiato” italiano.

Per Raymond Williams il teledramma americano sparì a causa di «problemi di sponsorizzazione» (1974: 58). Gli sponsor sono i colpevoli anche secondo Erik Barnouw (1990), soprattutto per il progressivo esacerbarsi della censura e delle pretese di controllo sui contenuti. Tuttavia il teledramma aveva sempre convissuto con l’invadenza degli sponsor: come gli stessi titoli delle antologie mettono in evidenza, ognuna di esse era finanziata da un’unica azienda e aveva, quindi, un unico padrone, la cui sensibilità non poteva essere urtata. Secondo Anna Everett (2005), infatti, l’attenzione alle storie ordinarie e ai problemi individuali era necessaria anche perché le aziende rifiutavano sistematicamente testi che trattassero problemi politici e sociali potenzialmente scottanti o polarizzanti. Il testo originale di «Thunder on Sycamore Street» di Reginald Rose, per esempio, parlava di una famiglia nera che si trasferisce in un quartiere bianco e viene maltrattata ed espulsa dal vicinato. I produttori di Studio One accettarono il testo purché la famiglia protagonista fosse trasformata da nera a bianca, con il padre ex galeotto: nessuno voleva far arrabbiare i telespettatori degli stati del Sud. Nello stesso anno in cui Rod Serling scriveva l’articolo per il New York Times citato poco sopra, veniva pubblicata una raccolta di sue sceneggiature (Serling 1957a) nella cui prefazione descriveva diffusamente tanto le limitazioni tecniche della live television quanto la pesantissima ingerenza degli sponsor: in un testo scritto per l’antologia Appointment with Adventure (CBS, 1955-6), finanziato da una marca di sigarette, gli fu chiesto di sostituire tutte le ricorrenze di ‘American’ con ‘United States’ e tutti i ‘lucky’ con ‘fortunate’, per evitare di richiamare marche rivali.

È probabile, quindi, che non sia del tutto corretto pensare che sia stata la pressione degli sponsor a soffocare il teledramma. Inoltre, va detto che l’ammirazione con cui spesso vengono ricordati i live anthology drama beneficia di uno sguardo nostalgico e non del tutto obiettivo. Quelli che si ricordano sono, ovviamente, i migliori: la qualità media probabilmente non era molto elevata, e molti di essi aderivano acriticamente a un «dead-centrism» (Everett 2005) che rifletteva i valori comuni della classe media, sorvolando su tutto ciò che rischiava di offendere la sensibilità di qualcuno. E. Jack Neuman, sceneggiatore piuttosto attivo nel periodo, non ricorda le sue produzioni con molto favore: «I migliori erano film di terza categoria […] A Playhouse 90 pensavo sempre a quello che avrei potuto fare su un set cinematografico, e quanto limitata e problematica fosse quella situazione. Le persone che dirigevano al tempo […] volevano preservare quella stronzata della “spontaneità”. […] No, era un medium noioso, secondo me» (Stempel 1996: 56)

Durante la seconda metà degli anni ’50 tre eventi modificarono in maniera rilevante il sistema televisivo statunitense: innanzitutto, nel 1956 chiuse definitivamente DuMont, il quarto network nazionale, l’unico che non proveniva da un precedente network radiofonico e che spesso si era distinto per produzioni sperimentali. In secondo luogo, a partire dal 1955 l’iniziale ostilità tra network e major cinematografiche si risolse in un matrimonio commerciale, in virtù del quale le seconde iniziarono a produrre massicciamente contenuti filmati per i primi. L’efficienza e le possibilità tecniche garantite dal film, almeno per quanto riguarda le forme narrative, erano semplicemente irraggiungibili dalla diretta.

In ultimo, in questi anni cambiarono radicalmente le forme di finanziamento delle produzioni televisive. Nella prima metà del decennio il modello più comune era lo sponsor unico: una sola azienda finanziava un certo programma e agganciava a esso il proprio marchio, un po’ come per le squadre sportive. Materialmente, era l’agenzia pubblicitaria che curava il marchio in questione a creare il contatto e a occuparsi della produzione, mentre il network veniva pagato per la semplice trasmissione. In un mercato del genere gli ascolti, pur essendo molto importanti, non erano sempre il fattore principale per decidere della sopravvivenza o meno di un programma: alcuni sponsor tenevano più al prestigio che alla pubblicità vera e propria, altri desideravano più essere presenti che ottenere un ritorno immediato. The United States Steel Hour (ABC/CBS, 1953-63), per esempio, era finanziata da un’impresa che non aveva nessun interesse nella pubblica distribuzione, la U.S. Steel Corporation. Fu l’ultima live anthology a chiudere.

Questo modello, tuttavia, non era ottimale per i network: avevano tutta la responsabilità per i contenuti di fronte alla censura e pochissimo controllo su di essi; ancora peggio, in un momento in cui la diffusione della televisione era in crescita vertiginosa, venivano pagati la stessa cifra indipendentemente dal successo di un determinato programma. I network iniziarono presto a cercare forme di finanziamento alternative, ma l’occasione per cambiare definitivamente il sistema fu fornita dallo scandalo dei quiz show del 1958.

La vicenda è piuttosto nota: in poche parole, si scoprì che alcuni dei quiz più popolari del tempo erano pilotati, in modo da costruire personaggi e sfruttarne la popolarità. Gli autori decidevano chi dovesse vincere e come, fornendo le risposte in anticipo o intimando a un concorrente di perdere. Quando la cosa venne scoperta seguirono una grande ondata di indignazione e dei processi veri e propri, ma i network si svincolarono dalle accuse incolpando i responsabili della produzione, cioè gli sponsor e le agenzie pubblicitarie. Sull’onda di questi eventi, nel giro di poco tempo il modello di finanziamento standard diventò la «partecipation» o «magazine sponsorship» (Mittell 2003; Boddy 1992), già sperimentato dalla NBC e considerato molto più redditizio, anche se più rischioso.

Nel nuovo modello i network commissionavano programmi ai produttori e costruivano il palinsesto, vendendo successivamente “spot” individuali da 30 a 60 secondi nei blocchi pubblicitari misti che erano previsti all’interno di ogni programma. Acquisivano, in questo modo, un controllo molto maggiore sulla produzione e sulla gestione del palinsesto, aumentando i guadagni per i programmi di successo. Aumentava, tuttavia, anche il rischio imprenditoriale: un programma fallimentare poteva causare grandi perdite. In questo nuovo scenario chi non raggiungeva rapidamente buoni ascolti o non li sosteneva abbastanza a lungo veniva cancellato senza troppe cerimonie. Per il teledramma diventò sempre più difficile sostenere la concorrenza di un animale decisamente meglio equipaggiato per la sopravvivenza televisiva in questo nuovo ambiente: la serie episodica filmata.

Bibliografia

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[Immagine: The Untouchables, tv drama, abc 1959-1963]

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