cropped-82.jpgdi Riccardo Falcinelli

[A partire da domani, l’Università di Roma Tre ospita per tre giorni la prima edizione italiana di “Historical Materialism” (per vedere il programma del convegno clicca qui) a cui parteciperanno, fra gli altri: Riccardo Bellofiore, Roberto Finelli, Mario Tronti, Paolo Virno, Ida Dominijanni, Alberto Toscano, Giacomo Marramao.
Anticipiamo sul nostro sito la versione italiana della relazione che Riccardo Falcinelli terrà domani partecipando, insieme a Daniele Balicco e a Cecilia Canziani, al panel: On Aesthetic Credibility: Economy, History and Mass Discourse].

Viviamo circondati da immagini, in un numero enorme se confrontato con qualsiasi società che ci abbia preceduto. Gran parte di queste sono pensate per intrattenere, per raccontare, per sedurre, come quelle della fiction, dei videogiochi o della pubblicità. Un’altra parte è fatta per testimoniare o per spiegare: si tratta delle foto giornalistiche e delle immagini scientifiche. In entrambi i casi si mostra qualcosa e si afferma che quanto si sta mostrando è “vero”. Sarebbe però più corretto dire che si pretende sia vero, visto che il rapporto delle immagini con la verità non è dato una volta per tutte ma sempre frutto di un accordo, di una negoziazione tra chi mostra e chi guarda. Condizione stringente nel caso delle immagini scientifiche che esibiscono spesso cose non visibili a occhio nudo: l’atomo, un virus o il DNA li conosciamo infatti attraverso raffigurazioni e non tramite esperienza diretta. C’è dunque da chiedersi quali strumenti figurativi vengano impiegati a questo scopo e perché questi e non altri.

Il 25 aprile 1953 Francis Crick e James Watson presentano su “Nature” l’articolo epocale sulla struttura dell’acido deossiribonucleico che li avrebbe portati qualche anno dopo al premio Nobel. Vi compare un’immagine che, in forme diverse, sarebbe stata destinata a un enorme successo: la prima effigie del DNA sotto forma di elica. Per l’occasione il disegno viene realizzato dalla moglie di Crick – che è pittrice – partendo da uno schizzo del marito. Una nota al piede dice che l’immagine è niente più che uno schema: “purely diagrammatic” recita la didascalia.

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[Fig.1 – “This figure is purely diagrammatic. The two ribbons symbolize the two phosphate-sugar chains, and the horizontal rods the pairs of bases holding the chains together. The vertical line marks the fibre axis”]

Crick e Watson ci tengono a chiarire che si tratta di un modello concettuale e non di un “ritratto dal vero”; il disegno espone delle relazioni e non somiglia a qualcosa di visibile a occhio nudo o tramite apposita strumentazione.

È noto il successo di questa icona delle scienze naturali, tanto che in molti sono convinti che il DNA sia fatto proprio in quel modo. Immagini dell’elica sono diventate lo standard dell’immaginario scientifico divulgativo e non solo. Sono state riprodotte su giornali, viste in televisione e sulle copertine di molti manuali scolastici. Il DNA insomma non lo si è semplicemente scoperto, lo si è comunicato. E il pubblico ha finito per trattare un’invenzione di visual design come fosse la realtà tout court.

Su un piano di epistemologia delle immagini dire che quell’immagine non è la realtà non significa dire che il DNA non è reale. Il DNA esiste ma lo si potrebbe raffigurare in molti altri modi. Questa [Fig. 2] per esempio è una recente fotografia realizzata al microscopio elettronico. 

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Oppure questa [Fig. 3]

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la cosiddetta “Foto 51”, la prima fotografia indiretta del DNA realizzata tramite raggi x nel 1952 da Rosalind Franklin; immagine che contribuì – pare in modo determinante – alla concettualizzazione visiva di Crick e Watson.

Ecco invece una rappresentazione di tutt’altro tipo [Fig. 4]:

4la sequenza genetica delle quattro basi sotto forma tabellare. Immagine a uso degli scienziati ma di minor impatto per la divulgazione.

In tutti questi casi siamo ben lontani dall’elica così icastica e famosa.

Queste che seguono sono invece alcune delle immagini che compaiono per prime se inserisco “DNA” nel motore di ricerca immagini di Google [Fig. 5].

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Riguardo a queste ultime raffigurazioni non è esagerato dire che sono invenzioni. Sul piano strettamente figurativo sono né più né meno che “fiction”: non sono fotografie al microscopio di qualcosa di osservabile o di molto ingrandito. Sono ricostruzioni.

La questione riguarda però più in generale lo statuto delle immagini prodotte dalla scienza. L’illustrazione scientifica si impegna infatti a visualizzare alcuni fatti e, proponendosi come un’evidenza, ci dice che le cose stanno così e così. La domanda che si pone la scienza è corretta: che forma dare alle cose che non si vedono per spiegarle meglio? Sennonché, ogni evidenza è tale da un determinato punto di vista, e ogni cultura elabora una propria ideologia dell’esattezza e delle figure. Così un’immagine può cambiare negli anni, al cambiare del punto di vista, e può essere modificata o sovvertita. È nota a tutti la raffigurazione dell’atomo fatta con due pallini: uno al centro e un altro che gli ruota intorno. Oggi sappiamo che questa è una raffigurazione troppo schematica, e che l’elettrone dovrebbe presentarsi come qualcosa di più sfumato, non una traiettoria dunque, ma una nebulosa che avvolge il nucleo. Quest’esempio mostra come le invenzioni visive per spiegare e divulgare si affidino a un immaginario già noto: nel caso dell’atomo si stava imitando il sistema solare, trattando gli elettroni come pianeti.

Le nostre immagini del DNA disattendono, magari in buona fede, l’avvertimento di Crick e Watson che avevano sottolineato come la loro elica fosse “purely diagrammatic”. Queste immagini non sono diagrammi bensì sono più simili a fotografie o a dipinti, sono icone non schemi.

Sul piano dell’invenzione possiamo dividerle grossomodo in tre gruppi. Alcune hanno un tono fantascientifico o da medical-thriller: i contrasti luministici sono molto marcati; le ombre sono scure; e i valori cromatici sono impostati su un registro drammatico, tanto che l’elica finisce per somigliare a una creatura primordiale, a un ultracorpo marziano o a un essere vermiforme.

Il secondo gruppo sviluppa il disegno originario di “Nature” dandogli maggiore plasticità: qui l’elica prende la forma di un allegro intrecciarsi di nastri colorati, quasi fosse la pubblicità di una merceria (e già Crick e Watson li avevano battezzati “ribbon”, nastri appunto).

Infine ci sono quei modelli dal tono didattico, da aula di scienze, in cui palline e bacchette si incastrano per dare forma alle relazioni fra i pezzi: è il cosiddetto sistema “ball and stick” inventato nel 1865 per rappresentare tridimensionalmente i legami chimici che compongono una molecola. Questo modello iconografico sembrerebbe il più neutro dei tre ma è forse il più insidioso. La struttura somiglia infatti a un gioco di costruzioni, come il Lego o il Meccano, e mentre racconta le relazioni suggerisce indirettamente – in maniera indubbiamente elegante ma partigiana – anche cosa si potrebbe farne di queste relazioni. Ci dice insomma che il DNA, appunto come le costruzioni, può essere montato, smontato e rimontato: in queste immagini si parla implicitamente d’ingegneria genetica, che per esempio nel primo gruppo di immagini non era suggerita.

Tutte queste raffigurazioni, dalle più pittoriche alle più austere, pretendono, in modi diversi, di essere “vere”. Cioè si propongono al nostro sguardo non come semplici illustrazioni ma come testimonianze: parlano di un fatto che è alla base dell’identità delle creature viventi, tanto che il DNA è ormai elemento probante in ambito processuale. Questo statuto di verità che le immagini reclamano è costruito tramite elementi diversi: il tipo di contesto in cui vediamo l’immagine; chi è che la mostra (un conto è un’immagine vista su una prestigiosa rivista di scienze naturali un conto quella vista su un tabloid); il mondo della comunità scientifica; il sistema della scuola e della divulgazione e così via. La verità che viene rivendicata ha luogo all’interno di un’arena sociale. Ma – se è pur vero che il garante di verità è il contesto istituzionale – c’è però un aspetto strettamente figurativo su cui vorrei concentrami per mostrare come questa verità venga messa in scena attraverso uno “strumento retorico” che precede la concettualizzazione: si tratta dell’uso delle ombre, uno degli elementi chiave nel lessico pittorico occidentale che da qualche anno accompagna quasi tutte le immagini scientifiche realizzate al computer.

La produzione di immagini con caratteristiche di realismo illusionistico – in cui cioè si stabilisce una somiglianza col visibile ottico-naturale – è la qualità caratterizzante la storia artistica occidentale, tanto che quando nel Seicento i gesuiti insegnarono la prospettiva e la pittura a olio ai cinesi, questi in principio trovarono quell’uguaglianza “retinica” un po’ volgare.

L’invenzione della rappresentazione prospettica e l’uso della pittura a olio sono allo stesso tempo fatti tecnici e storici: a metà del Quattrocento una nuova borghesia chiede sempre più insistentemente una pittura non più esclusivamente simbolica ma “concreta”. Luoghi privilegiati di questa storia sono Firenze (dove la committenza è protocapitalista, banchieri e latifondisti) e le Fiandre. Storicamente la paternità della prospettiva lineare è attribuita a Brunelleschi, quella della pittura a olio a Jan Van Eyck [Fig. 6].

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La prospettiva fornisce uno spazio misurabile, percorribile, tangibile in cui posizionare le cose e far accadere gli eventi. La pittura a olio – a differenza dei medium usati in precedenza che seccavano velocemente – concede il tempo di sfumare con facilità i colori e di creare passaggi morbidi fra tinte e toni dando vita a superfici illusionistiche o, come diremmo oggi, “fotorealistiche”.

Da un punto di vista psicologico per creare immagini realistiche è necessario che il disegnatore possa – prima di tracciare segni – maneggiare queste forme mentalmente: ruotarle, girarci intorno, guardarle da punti di vista diversi usando l’immaginazione. È questo il presupposto che porta gli artisti a progettare scheletri prospettici come il Calice di Paolo Uccello, che è senza dubbio il prodromo più elegante di tutta l’attuale progettazione al computer, il cosiddetto Cad (Computer Aided Design) o come viene chiamato più colloquialmente “modellazione 3d” [Fig. 7].

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È questo il sistema con cui vengono realizzati cartoni animati e videogiochi, basato sulla costruzione di strutture a “filo di ferro”, wireframes in inglese, su cui vengono montate finiture mimetiche e soprattutto ombre e luci che conferiscono verosimiglianza [Fig. 8].

8 È il sistema delle ombre che permette di tirar fuori i volumi e quindi la credibilità tridimensionale, quel realismo illusionistico proprio della fotografia.

Recenti studi di neuroscienze e psicologia della percezione hanno sottolineato come sia attraverso le masse luminose che la nostra mente estrae dalla scena le qualità necessarie per valutare la profondità e la percorribilità dello spazio che ci circonda e quindi per entrare in relazione col mondo. Per esempio i bambini appena nati sono in grado di capire quando hanno a che fare con un volto umano grazie a un meccanismo precablato alla nascita che si basa con ogni probabilità sul riconoscimento delle masse d’ombra.

Non stupisce che le ombre con la loro eloquenza siano diventate uno strumento di successo in ambito figurativo. Se confrontiamo un cartone animato delle origini con uno di oggi modellato al computer, non è tanto l’aspetto volumetrico a segnare una differenza ma la presenza di ombre [Fig. 9].

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Si può insomma dire che il lungo percorso della rappresentazione realistica (iniziato più volte nella storia umana: nelle grotte di Lascaux, nell’Ellenismo e nel Rinascimento) abbia lasciato il mondo dell’arte diventando il braccio armato della società dell’entertainment. La verosimiglianza è appunto un forte strumento retorico, perché – non essendoci evoluti per interagire con immagini artificiali – quando le cose appaiono come nella realtà sono per la nostra mente incredibilmente persuasive.

A questo punto tornando all’elica del DNA, vale la pena notare come le raffigurazioni proposte dai mass media – come molte altre immagine scientifiche – siano realizzate con gli stessi software e soprattutto con la stessa mentalità progettuale con cui vengono prodotti cartoni animati e videogiochi. Ne condividono dunque uno stesso orizzonte sul piano del linguaggio. Mentre però il realismo del cartone animato punta al plausibile (come se fosse vero), l’immagine scientifica, forte di un tacito patto, pretende di essere “il vero”. Ma come potrebbe del resto fare altrimenti? È proprio della scienza avere a che fare con un mondo misurabile. Ma è altresì proprio delle immagini (di tutte le immagini) essere forme di esegesi. Non esistono immagini vere in sé. Le figure, anche quelle scientifiche, sono un’interpretazione di dati, la scelta dei quali è già una mediazione, è già un modo di sentire le cose. Non bisogna dunque credere che nella società di massa i confini tra sedurre e informare siano troppo rigidi: come nella pubblicità c’è informazione, così nelle immagini scientifiche ci sono delle caratteristiche stilistiche (e dunque retoriche) che le rendono riconoscibili secondo codici di realismo, di qualità o di prestigio.

Dal punto di vista delle scienze naturali le ombre sono una caratteristica del sistema in cui ci siamo evoluti frutto dalla fisica della luce e della biologia del nostro occhio: non tutti i viventi conoscono le ombre, i lombrichi per esempio non ne hanno mai viste e i calabroni se pur le vedono non sanno probabilmente che farsene. Al livello di strutture minuscole come il DNA parlare di ombre è dunque privo di senso: le ombre esistono solo a certe condizioni e a certe dimensioni. Con un paradosso potremmo dire che le ombre si sono evolute per il nostro sguardo. Per questo usarle nelle rappresentazioni è uno strumento retorico e per questo nel mondo delle immagini digitali le ombre sono diventate la forma parlante di una pretesa di verità. Una pretesa legittima purché non ci si scordi che quell’elica del DNA è una metafora, cioè una cosa che sta per un’altra cosa. E le metafore sono utili e splendide, a patto di non scambiarle per la realtà.

Crediti delle immagini

1. © “Nature” 25 aprile 1953

5. Google / Science Photo Library

8. © Giorgio Lorenzetti

9. © Disney Pixar

[Immagine: La realizzazione 3d di Childhood’s Bravery, © Giorgio Lorenzetti].

 

7 thoughts on “Le immagini della scienza e la pretesa di verità

  1. “ 3 marzo 1985 – Il continuum televisivo, la falsa immediatezza, la verosimiglianza assoluta. Si dice: « una finestra sul mondo », ma si dovrebbe dire « una finestra sulla Rai », i furbi dirimpettai. “.

  2. Secondo me, l’articolo fa confuzione tra immagine in quanto tale e finalità dell’immagine.
    Se io voglio dare un aspetto tridimensionale ad un oggetto, uso le ombre, ma le ombre forniscono quella profondità che aiuta la nostra immaginazione a ricostruire l’oggetto, e quindi trovo privo di senso chiedersi se le ombre ci siano veramente.
    Un discorso di tutt’altro tipo mi pare la questione della rappresentazione visiva di quanto il nostro occhio non può vedere perchè troppo grande o troppo piccolo. Anzi, a questo proposito aggiungerei qualche dubbio aggiuntivo rispetto all’articolo che riporta le immagini al microscopio elettronico come se fossero immagini ottiche.
    Oggi, abbiamo dei “microscopi ” ben più efficenti del vecchio microscopio elettronico, ma sono tutti basati su una teoria. L’immagine è cioè il frutto di un software che trasforma una determinata grandezza fisica misurata in una posizione, in modo che connettendo tra loro tutti questi punti, si può ottenere la froma di un determinato oggetto. Credere ad un’immagine di questo tipo è in ultima istanza un atto di fede, perchè richiede che il soggetto creda al software utilizzato.
    Alla fine, giungiamo alla questione fondamentale, che viene sempre riproposta, ma con scarso successo, soprattutto nei confronti dei più giovani, che le scienza sperimentali non abbiano diritto ad uno statuto differente rispetto agli altri saperi, e quindi io dico all’impossibilità di conoscere la realtà.
    Io sostengo anzi la necessità di separare la sorte del termine “realtà” da quello di “verità” a cui attribuirei un significato limitato al piano puramente linguistico. Potrei dire che anche quando diciamo il vero, non riusciamo egualmente a dire il reale.

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  4. Criticare certe tipologie di rappresentazione, come quella del DNA, o il modello planetario di atomo è sensato, ma bisogna ammettere che sono necessarie. Non si può avere la pretesa di interessare il grande pubblico con le immagini originali degli esperimenti e bisogna considerare che spesso è difficile avere una piena comprensione di un fenomeno senza conoscere la matematica, o in generale la scienza, ad esso sottostante. La divulgazione cerca proprio di fare questo, ma un mezzo sintetico, come quello grafico, difficilmente può rendere la scienza sottostante ad un fenomeno. Meglio sedurre il pubblico, piuttosto che annoiare, magari, concordemente con l’autore, precisando più spesso che le immagini utilizzate sono delle rappresentazioni “pittoriche”.
    A Vincenzo Cucinotta:
    Bisogna definire con precisione cosa si intende per conoscere la realtà: se si parla di conoscenza metafisica, alla quale si riferiscono le discipline non basate su un metodo scientifico allora è chiaro che la scienza non ci porterà mai a quel livello. Ma se la conoscenza scientifica è quella che ci consente di “misurare” e prevedere l’evoluzione temporale (entro i dovuti limiti) di un sistema fisico allora bisogna ammettere che la scienza dà ottimi risultati. È vero che anche la microscopia si basa su teorie, ma questo non è affatto qualcosa di negativo: la teoria si autosostiene ed il fatto di essere continuamente sottoposta alla prova sperimentale ne accresce la validità nel tempo. Una teoria non sarà mai confermata al 100% (se non altro per il fatto stesso che è una schematizzazione di una realtà che possiamo misurare, ma non percepire pienamente e direttamente), ma sfido qualcuno a dire che il bosone di Higgs non esiste perché al CERN si è visto che esiste al 99,99999% e non al 100%! Saluti.

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