di Franco Buffoni
[Oggi è morto Nelo Risi (1920-2015). Per ricordarlo, pubblichiamo la prefazione che Franco Buffoni scrisse per Compito di francese e d’altre lingue, il quaderno di traduzioni di Risi pubblicato da Guerini e Associati nel 1994, nella collana «I testi di Testo a fronte»].
Con Compito di francese e d’altre lingue (1994), Nelo Risi ci dà la possibilità di abbracciare con un solo sguardo le sue scelte traduttive di un cinquantennio. Risi, lombardo di famiglia alto-borghese, segnato nell’adolescenza dall’esperienza del fascismo, nella giovinezza dalla guerra e dall’esilio, consustanziato a un impegno politico e civile sempre fortemente dominato da pulsioni anarchico-libertarie; Risi poligrafo umanista, di formazione classica applicata allo studio del corpo e della mente, poi riversata anche nell’arte per eccellenza del nostro secolo; Risi uomo assolutamente novecentesco – in toto percorso dal/e percorrente il secolo mostruoso; Risi romano e parigino, ma, anche, per legami affettivi ed esperienze, ungherese e mediterraneo… chi sceglie di tradurre? Quali i poeti preferiti ad altri, e perché?
Per disciplinare l’esposizione della risposta è forse opportuno fare riferimento all’opera di Risi poeta, che suggerirei empiricamente di distinguere in tre fasi. Una prima culminante nella pubblicazione di Polso teso nel 1956; una seconda, che si apre nel 1961 con Pensieri elementari per chiudersi nove anni dopo con Di certe cose (e qui configurerei il perno in Dentro la sostanza del 1965). Una terza fase, tutt’ora ben vitale e aperta, si avvia nel 1976 con Amica mia nemica, per proseguire con I fabbricanti del “bello” e i titoli più recenti. Ciascuna fase possiede proprie caratteristiche poetiche. E traduttive. Alla prima, per esempio, fatalmente segnata dal Montale “milanese” e dall’esperienza dei surrealisti francesi, non stranamente si accompagnano le prime versioni da Supervielle e Queneau, un appassionato coinvolgimento nei ritmi prevertiani e persino il primo approccio majakovskiano e con gli ungheresi Petöfi e Radnoti.
Circa questi ultimi tre autori – come d’altronde anche per Kavafis – va subito posta in luce l’importanza che ha per Risi il lavoro traduttivo a quattro mani, il laboratorio, l’officina. Anche se infine il sigillo estetico rimane inconfondibilmente quello del poeta, va sottolineata nella prima redazione la presenza – anche sentimentale, affettiva (e quindi, più che mai, poetica) – di Edith Bruck e di Margherita Dalmati.
Alla seconda fase, caratterizzata da una poesia civile e dotta, limpidissima ed epigrammatica, possono collegarsi le scelte da Apollinaire, Jouve, Frénaud e Michaux. È anche – non a caso – la fase del Risi più politico, più drammaticamente presente al proprio tempo. E per contro coincide con l’elaborazione del primo grande nucleo kavafisiano. Come possano l’esperienza poetico-traduttiva e quella poetica tout court interagire fino ad apparirci l’una come l’indispensabile corollario dell’altra, può essere ben esemplificato da questa poesia tratta da Dentro la sostanza:
L’arte della guerra
Il Faraone avanza sotto un cielo di ventagli l’esercito va sempre a piedi su dodici file
dal deserto di sabbia alle pietre nere di Siria, un leone senza laccio segue il carro reale.
Dove l’erba è fitta una città d’oriente
manda barbagli. Gli ambasciatori si consultano fissano il luogo e il giorno dello scontro,
se una delle parti non è pronta la si attende.
Davvero non è possibile separare Kavafis tradotto da Risi da questo Risi. Se traduzione di poesia è, in sintesi, l’incontro-scontro tra due poetiche, quella del tradotto e quella del traduttore, nulla potrebbe meglio esemplificarlo del dialogo tra Risi e Kavafis. Oppure di quello tra Risi e Majakovskij.
Nella terza fase assistiamo in parte al recupero da parte di Risi poeta delle proprie più autentiche radici stilistiche “milanesi”, in una riflessione che dal “privato” di Amica mia nemica scivola alla considerazione estetica sull’“appartenenza” dell’arte in I fabbricanti del “bello”. E Risi traduttore, in modo molto consonante, abbandona Laforgue (del quale ha integralmente tradotto le Moralità leggendarie) per volgersi nuovamente ai classici, in un recupero di amori e disamori “liceali” che rivela la grande vitalità della sua vena.