di Giacomo Giubilini
Michael Mann è un regista di sintomi: la parte del suo lavoro più sbozzata e in fieri, e per questo più interessante, è quella degli anni ottanta. Il carotaggio visivo di un’epoca magmatica e ricchissima come quella porta alla luce una serie di ambiguità che possono essere sintetizzate nelle crisi definitiva dell’identità del maschio e in una ridefinizione del concetto di narcisismo. Senza salvezza alcuna.
Solo apparentemente regista di super uomini, Mann è in realtà un cantore del maschio sfrangiato, frollo, disorientato, alla ricerca continua di una identità, di un appagamento sempre mancato e nevrotico nelle cose. Il maschio di Mann non può avere una famiglia felice, non può avere una precisa identità sessuale, non può avere una donna compiacente e, quando riesce a trovare una consolazione e un approdo, lo trova in ciò che compra e consuma. Il maschio di Mann è gli anni ottanta e il narcisismo di massa che li caratterizza – narcisismo non più arginabile nel percorso teleologico della libido, in fondo di redenzione igienista, codificato da Freud (concetto poi discusso e criticato dalla psicologia del sé di Kohut e da Lasch nel libro che non a caso apre il decennio, La Cultura del narcisismo). L’io maschile dei personaggi di Mann vaga alla ricerca di una serie di oggetti di consumo e di persone da amare: casa , macchina, donna, vestiti che possano identificarlo e consolarlo. Vorrebbe almeno una nostalgia a cui aggrapparsi, ma per la prima volta vede l’abisso e comincia ad esplorarlo. E’ American Gigolò (1980) di Paul Schrader a chiudere un’epoca dove ancora c’è una speranza di redenzione e pentimento possibile, ma è il cinema di Mann che lasciato quel territorio classico naviga per la prima volta in mare aperto. Senza neppure l’appiglio del perdono e della rinascita, senza il sereno porto identitario.
Il narcisismo degli anni ottanta sembra un fremito impazzito senza un io di riferimento e approdo, solo deriva, senza una motivazione e una diagnosi possibili perché privi di oggetto da analizzare. Si può essere incarnazione di narcisismo senza avere un’identità? E nonostante anche al cinema si vestano i panni di un ruolo sociale preciso e manicheo, da film di genere, ovvero il ladro o il poliziotto, si può essere minati in tutto? Il territorio paradossale dove vivono i personaggi di Mann è una palude di stimoli visivi e di costume, la cui importanza, per capire quegli anni, è pari a quella di Bret Easton Ellis, lo scrittore che quegli stimoli identitari e animaleschi li porterà alla luce e li codificherà nel protagonista del libro simbolo che chiude il decennio come summa valoriale e schizoide: American Psycho (1991). Mann ha invece ancora il privilegio di esplorare alcuni valori mentre vanno formandosi. In corso d’opera forma il suo stile tarandolo su quell’intuire un abisso. Con la serie televisiva più significativa del periodo, Miami Vice, e con quattro film: Jerico Mile (1979), Strade Violente (1981) e Manhunter (1986), il televisivo L. A. Takedown (1989) .Un ‘immaginario visivo che diventa il linguaggio estetico di un’epoca fatta di totali sovra virati e hopperiani, di macchine sfavillanti in contesti decadenti, di case-acquario in cui tutto si riesce a vedere compresi gli omicidi, case che non salvano più, che non custodiscono, che non proteggono una memoria e un’identità, case squartate da vetrate con affacci sul nulla della metropoli che minaccia.
Miami Vice è il culmine di questo processo anche per la durata della serie (1984-1989). All’insegna della più folle e inspiegabile inverosimiglianza e spersonalizzazione sociale, i poliziotti della serie, prima che personaggi e ruoli, sono dei manichini per abiti di moda: girano a Miami in Ferrari Testarossa, vestono Armani e lanciano la moda, sempre Armani, dei colori pastello negli abiti maschili. Sono eroi femminei nonostante il machismo ostentato ma mai credibile. Irrompono nell’immaginario collettivo con assurde T-shirt sotto costosissime giacche sportive: i loro abiti sono morbidi e con colori innaturali, mai visti prima. Le loro case sono da catalogo di design, la loro pettinatura è curata, il loro ordine formale irrealistico e sempre perfetto nonostante il lavoro di polvere da sparo e asfalto, pozzanghere e rincorse notturne. Eppure sono deboli perché non esistono se non come supporto alle merci. Mann si fa invadere dalla moda e in particolare dal doppio movimento dello stile dell’epoca : irrigidimento dell’abito femminile e contemporaneo prolasso dell’abito maschile, sformato e calante, morbido e costoso .
Negli stessi anni in cui Cindy Sherman svuota nelle sue immagini le curve e la sensualità della donna, inducendola a indossare abiti severi, è tutto il cinema hollywoodiano caricare di simboli la moda femminile, rinforzando in maniera iperbolica la mascolinità delle donne e depotenziando del tutto quella dell’uomo: il personaggio che icasticamente incarna meglio questa androginia e che apre a tutta una serie di donne androgine, più ancora dell’Ellen Ripley nel primo e nel secondo Alien (1979-1986), è forse la Rachel di Blade Runner (1982), vestita anzi ingessata in un’ipertrofia della spalle, larghissime, simbolo fino ad allora maschile per eccellenza. Questo percorso ha due simboli, le spalline e il tailleur: un film di soli tailleur è Una donna in carriera (1988): l’azienda, la competizione sul lavoro, l’abito che fa il monaco, la battaglia tra donne sempre più aggressive. Gli anni ottanta sono così gli anni di una donna ipermascolina, castrante, competitiva. Fino alla violenza narcisistica e omicida, in Attrazione fatale (1987). Stilisti e guru di questo cambiamento, oltre ad Armani, sono Versace e Gaultier: Madonna indossa un suo reggiseno puntuto e respingente quando vuole essere femmina-femmina, un abito maschile quando si tratta di esprimere se stessa in Express Yourself (1989).
Come reagisce a tutto ciò il maschio dei film di Mann? E’ inserito sempre in un genere che lo vorrebbe eroe: atleta o poliziotto o ladro. Ma è in crisi di identità, non sa chi è, vorrebbe definirsi. Jerico Mile: un film chiaramente omosessuale, con nostalgie politiche tipiche degli anni settanta, tutto girato in un vero carcere californiano, sul confine dell’epoca nuova che verrà. Il film si apre con un graffito in cui un uomo strangola un serpente. Carrellata su corpi maschili, tonici e muscolosi , neri e bianchi e portoricani. L’unico efebo baffuto è il protagonista, che ha ucciso il padre per difendere la madre e la sorella e ora ha trovato la redenzione nella corsa e nella sua amicizia virile con un nero. Ma non uscirà mai dal carcere nonostante il suo corpo sia pronto per competere, non sarà mai un maschio vincente, murato per sempre nonostante l’unicità del suo corpo da atleta e del suo talento da corridore azzoppato. Strade Violente: uno stranamente languido Cann, anche lui attore reduce dagli anni settanta, per conquistare una donna la rapisce come se fosse una preda e la porta fuori dal suo bar. Ladro per avere una vita di lusso, anche lui è un maschio in crisi che ostenta sicurezza. Per avere un figlio – non può averne – prova a comprarlo dando il suo anello con brillante alla funzionaria che pochi minuti prima lo ha redarguito perché sbaglia a scrivere la parola maschio sul modulo di adozione. Prova a fare il salto di qualità: si compra effettivamente un neonato come se fosse una delle sue camicie di seta; ma perde prima il suo migliore amico e poi la famiglia. Decide che l’unica cosa da fare è suicidarsi come identità e cioè, per l’epoca che vive, rinunciare a tutto ciò che ha e che lo rappresenta: tutte le sue auto in vendita, il suo locale, la sua casa nuova comprata come buon ritiro. In un finale indimenticabile distrugge la roba e quindi se stesso. Manhunter ha un doppio protagonista maschile: ma il serial killer che uccide e mangia famiglie e il poliziotto in crisi perché in passato morso dal serial killer hanno molte cose in comune. Il secondo ha incastrato il primo, che è omosessuale, solo perché può entrare nella sua testa: è come lui. Il poliziotto, letteralmente scarnificato, divorato dai denti ferini di un maschio cannibale, si è salvato, ma è condannato ad avere paura. Compare un secondo serial killer, Tom Noonan, un ameboide nell’aspetto, non abbastanza dentato per mangiare: lui vorrebbe essere potente, come spiega a un giornalista prima di dargli fuoco, ma per amare ha bisogno di non essere visto. Il rapporto con l’unica donna di cui si innamorerà può avvenire solo perché lei è cieca, e non lo vedrà mai per quello che è; potrà amarlo nonostante tutto e cioè anche nonostante il suo aspetto terribile. A lei lui concede il privilegio raro di toccare due animali che possono uccidere: se stesso e una tigre su un tavolo operatorio. Prima di concludere la sua parabola, il killer vaga nel proprio appartamento, sulla parete del salone una gigantografia del suo scenario interiore: un deserto lunare. “Francis? No! Non sono Francis. Francis se n’è andato. Francis se n’è andato per sempre!”. Infine, L.A. Takedown, un film per le televisione che anticipa largamente Heat: i due protagonisti e rivali si incontrano per la prima volta nel parcheggio di una tintoria; l’ispettore, atletico e pieno di gel, indossa completi coloro rosa o panna, fuori luogo per qualunque azione; patetico e bugiardo anche con se stesso, simile in questo all’uomo a cui dà la caccia, che fa invece il ladro ed è solo perché ha perso tutti i suoi amici in una rapina. L’ispettore viene mollato dalla sua donna, il ladro trova l’amore al bancone di un bar presentandosi come venditore di piscine, edonista e socialmente inserito. Ma non è riuscito ad essere neppure quello.
Non resta che dare la parola a Patrick Bateman protagonista di American Psycho: “Mi chiamo Patrick Bateman, ho 27 anni. Credo fortemente nella cura della persona, in una dieta bilanciata, nel rigoroso e quotidiano esercizio fisico. Uso sempre una lozione dopobarba con poco o niente alcol, dato che l’alcol secca la pelle e fa apparire più vecchi. Quindi una lozione emoliente, un balsamo antirughe per il contorno degli occhi e infine una lozione protettiva idratante. C’è una vaga idea di Patrick Bateman, una sorta di astrazione. In realtà non sono io, ma una pura entità, qualcosa di illusorio. Anche se so mascherare la freddezza del mio sguardo, e tu puoi anche stringermi la mano e sentire la mia pelle a contatto con la tua, e persino arrivare a credere che i nostri stili di vita sono perfettamente comparabili… la verità e che io non sono lì.”
Bellissimo. Splendido.
In questo saggio si delinea esemplarmente l’odierna economia del desiderio: ‘odierna’ almeno fino ai confini della Crisi sistemica più recente (là dove la penuria minacciata sembra comportare la minaccia o promessa di un recupero dell’esperienza). Come i personaggi di Mann, anche Victor, il protagonista di Glamorama (1999), il romanzo di Ellis, è esemplare al riguardo. Per lui la vita è un’esibizione di superfici griffate, vestiti, automobili e soprattutto scarpe. Victor è emblema del desiderio vuoto che si è espresso fra anni ottanta e novanta nel consumo. Il suo desiderio è infatti intrinsecamente feticista, della specie che Deleuze chiamò “oggettile”. E’ desiderio per il non-umano: sex appeal dell’inorganico. Ciò comporta la cosa al posto della persona, così come la merce al posto dei rapporti sociali. Disseminando la soggettività nel potere fetisch delle brand, e nella libido vuota dell’assemblaggio di firme. Victor dice di se stesso o di una giacca Prada “sublime”: la pulsione è in tal modo del tutto interna ai processi della macchina economica. Il desiderio perde il suo oggetto, diventa vuoto e autoreferenziale. La semantica del desiderio diviene semantica del delirio, insaziabile, e lo esclude obbligatoriamente dalla soddisfazione.
è un commento inutile, tuttavia dovuto: sono ammiratissima, grazie!
Zinato leggo solo ora il suo commento e la ringrazio, trovo completi davvero la tesi che volevo avanzare. Perché apre ad un ulteriore territorio, quello del feticismo delle merci, che sicuramente è uno dei punti focali del discorso. Qui l’idea era quella di mettere in discussione, e non so davvero se sia possibile farlo, un concetto dato troppe volte per scontato legandolo agli anni ottanta: quello di narcisismo di massa. Non sono sicuro che gli anni ottanta, e tutto quello che viene dopo e che da lì deriva, siano in grado di sostenere la pesantezza di un concetto del genere. E non sono sicuro che la parola narcisismo abbia ancora un appiglio nell’io, appiglio che ne garantisca l’esistenza nei modi e nelle forme che finora abbiamo date per scontate. Mi sembra che in quel territorio incerto si muova Mann.