cropped-Milk-Glass-Tabletop.jpgdi James Merrill (traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan)

[The Book of Ephraim è il primo dei tre libri che compongono The Changing Light at Sandover, il capolavoro di uno dei più importanti poeti americani del secondo Novecento, James Merrill (1926-1995), la cui opera è ancora poco conosciuta e poco tradotta in Italia. Altre poesie di Merrill si possono leggere qui.

Ringraziamo The Literary Estate of James Merrill presso la Washington University di St. Louis, Missouri, detentrice del copyright dell’opera merrilliana, e Stephen Yenser e J.D. McClatchy, esecutori letterari dell’autore, per il supporto fornito e per il permesso di pubblicare i testi e le traduzioni; e la James Merrill House di Stonington, Connecticut, per la preziosa opportunità concessaci (Damiano Abeni e Moira Egan)]

Tu credi ’l vero; ché i minori e’ grandi
di questa vita miran ne lo speglio
in che, prima che pensi, il pensier pandi.
Paradiso XV

Ammetto di sbagliare intraprendendo
l’opera in questa forma. Audace prosa
da reportage ci voleva, per raggiungere
il pubblico più vasto nel più breve tempo.
Il Tempo, s’era capito, fattore fondamentale.
Il Tempo, essenziale attar di Rosa,
stava scadendo. Eravamo antichi rivali,
io e la scadenza. E poi la materia che trattavo
mi dava da pensare- così intima, innovativa.
Meglio dopo tutto ricorrere alla narrativa?
Guardandomi intorno, trovavo personaggi
umani, o d’altro genere (se la distinzione
significa alcunché nella finzione). Ho visto una via mia
verso una trama, a quanto d’una trama sia concesso
a creare piacere e sorpresa nel suo aggregarsi.
Ero certo dell’ambientazione; e, dal principio, avevo un tema
la cui luce costante si restituiva riflessa, sembrava, da ogni
minimo dettaglio le venisse esposto. Arrivai
a vederlo come un antico tema supremo:
l’incarnazione e il venir meno di un dio.
Quest’ultima frase è di Northrop Frye.
E poi avevo ambizioni stilistiche. Stufo
da parecchio e in vario modo delle trovate
della narrativa artificiosa del nostro tempo
anelavo al modo di raccontare ingenuo
delle leggende, delle favole, un tono leccato all’osso
nei secoli dei secoli da miti lingue antiche,
da nonna a rampollo, sereno, anonimo.
Privo di quella voce, l’a suo modo brillante
nouveau roman (perfino quello che ho scritto io)
mi pareva forma orfana, ai cui seguaci,
allattati dal lupo Woolf non dall’uomo Mann, le
storie raccontate nell’infanzia venivano da adulti
che non potevano amare né onorare. Così la mia
narrazione voleva essere limpida, non frammentata;
i miei personaggi, convenzionali figure di repertorio
afflitte al minimo grado possibile
da personalità e da esperienze trascorse—
una strega, un eremita, giovani amanti innocenti,
i modi dell’essere che ci ricordiamo dai Grimm,
da Jung, Verdi, dalla commedia dell’arte.
Che tale progetto fosse più grande di me finiva
solo per incitarmi a ulteriori futili tentativi.
La mia rovina era “dipingere a parole”. Un raffinato
si-vede-e-non-si-vede piumaggio, braccia raggianti di mera
magniloquenza che si disfaceva nella troposfera
che con l’implosione dei suoi cittadini verso terra fa trasalire
alla follia una discreta piccola folla di mortali
—i miei lettori, presumevo da dove m’ero accomodato
nell’angelico segretariato.
Più mi sforzavo di essere semplice, e più
il manierismo mi zavorrava. A che pro?
Visto che non m’era mai andata bene, chiedi,
perché calzare la scarpa della prosa? In verso i piedi
sono nudi. Le metriche, inoltre, erano state bloccate
su ciò che esigevano le circostanze. Imbeccate
cieche avevano infine sotterrato l’intera
impresa malintesa nella Macon più nera
(vedasi “The Will”), e io soltanto ero rimasto
a raccontare la mia storia. Perché pareva che il Tempo—
quel canuto pilato che se ne lava le mani e appare
a ribadirlo in uno spazio intagliato da spettri di luce
su acqua fumante—il Tempo non l’avrebbe fatto;
fosse perché scorrendo s’esauriva come acqua
o perché gennaio traccia il suo verso
luminoso sulla nuova pagina che inizio a scrivere adesso:
il Libro delle Mille e Una Sera Passate
con David Jackson alla Tavola Ouija
in Contatto con Ephraim Nostro Spirito Familiare.

Background: la sala da pranzo a Stonington.
Pareti d’un semipellucido color “fiamma” (arguta
sfumatura, ora anguria ora pelle scottata dal sole).
Sopra, una cupola di fine secolo
che sfoggia ghirlande e gigli di stagno laccato
bianco in palpabile rilievo a lume di candela.
Wallace Stevens, con la prospettiva distorta
propria dei morti recenti, l’avrebbe presa
per un’alcova nella confinante chiesa battista
il cui campanile alla luna stava faccia a faccia con noi.
La stanza esalava candide tende. Dentro soffiavano
scintillii sfaccettati da olmi e comignoli, tanto
esigua la lingua di terra, tanto elevato il punto di vista.
Il 1955 doveva essere,
seconda estate nella nostra abitazione.
Un altro anno, e avremmo acquistato quel vecchio pugno in un occhio
di cui ora affittavamo metà del piano superiore;
e sopra avremmo costruito una stanza di vetro, affacciata
sull’astro-terrazza di legno, con un caminetto; stretto amicizie.
Adesso, estranei nel villaggio, avevamo forse
il telefono? A chi sarebbe mai servito!
L’uno aveva l’altro per comunicare
e per tutto il resto. La scena era pronta per Ephraim.

Proprietà: un tavolo di vetro-latte.
Una tazzina biancazzurra presa dal rigattiere.
Matita, carta. Un pezzo di cartone pesante
su cui le lettere dalla A alla Z
formavano un arco, il nostro Patto d’Alleanza
con chi di competenza; inoltre
i numeri arabi, e SÌ e NO.
Cosa poteva volere di più uno spirito familiare?
Beh, conosciutici meglio, avrebbe suggerito
di piazzare uno specchio sulla sedia di fronte.
Eretto e lucente, ospite dal cuore d’argento,
in esso noi ci vedevamo a vicenda. E lui vedeva noi.
(Qualsiasi superficie riflettente gli andava bene.
Di giorno, D e io remavamo fino a una secca sabbiosa
lontana abbastanza dal paese per nuotarvici nudi
e poi camminare sulla vitrea fettuccia a malapena bagnata
che perpetuamente sanava le ferite da noi inferte—
inosservati e inascoltati, pensavamo, fino
alla sera che lodò i nostri corpi e la nostra arguzia,
i nostri rossori superati in un baluginio).
Oppure lo viziavamo versando una goccia di rum
nella tazzina che, capovolta, sembrava
per l’occasione sobbalzare a mezz’aria,
prendere cuore da noi, e dalla nostra guida dettatura.

Ma lui non ci aveva ancora trovato. Chi c’era?
La tazzina fremeva nel sonno. “C’è nessuno?”
sussurravamo, dita leggere sul Willowware,
quando l’oggetto si mosse. Ci si mozzò il respiro. La tazzina,
zombi smaltato di se stessa, s’era messa in caccia,
si muoveva, ma come inebetita, in modo inconsulto,
posseduta, come ci sarebbe stato rivelato di lì a poco,
da uno qualsiasi tra le miriadi di coloro
che faticano a capire, attraverso il compulsivo
rivivere la propria morte, di esser morti
—per fuoco in questo caso, quando era bruciato un magazzino.
AIUTTO O SAVATE MI la tazza sgorbiava
mentre proprio sul muro una fiamma si increspava,
ipnotica onda su onda, ninna-nanna
d’orrore. Io mi accasciai. D: Dai, danna-
zione, proviamoci ancora. C’era nessuno? Come quando
un luccio attacca, e la lenza sibilando scrive sulla carne del lago
rune nervose, e il mulinello vortica e la mente mulina,
SÌ un nuovo potere perentorio SÌ
s’impossessò della tazza. Svariò, si bloccò, esitò,
scattò via, giroscopio d’uncinetto del demonio
che le nostre dita cavalcavano senza sella
(ma che si immobilizzava nell’attimo in cui perdevamo contatto)
qui, là, rapidissimo puntare del manico, lettera su
lettera trascritta alla cieca dalla mia mano libera—
al meglio in modo così rozzo che quelle prime sedute
sconfinano in pura congettura, in parafrasi.
Troppo accadeva troppo rapidamente. Noi troppo educati
per fermarci a scomporre il farneticare
di quell’alfabeto in parole e frasi.
Eppure, perfino il messaggio più frammentario—
il doppio divertente, il doppio più savio
di ciascuno dei due medium—li incantava.

* * *

The Book of Ephraim

Tu credi ‘l vero; ché i minori e’ grandi
di questa vita miran ne lo speglio
in che, prima che pensi, il pensier pandi.
Paradiso XV

Admittedly I err by undertaking
This is its present form. The baldest prose
Reportage was called for, that would reach
The widest public in the shortest time.
Time, it had transpired, was of the essence.
Time, the very attar of the Rose,
Was running out. We, thought, were ancient foes,
I and the deadline. Also my subject matter
Gave me pause —so intimate, so novel.
Best after all to do it as a novel?
Looking about me, I found characters
Human and otherwise (if the distinction
Meant anything in fiction). Saw my way
To a plot, or as much of one as still allowed
For surprise and pleasure in its working-out.
Knew my setting; and had, from the start, a theme
Whose steady light shone back, it seemed, from every
Least detail exposed to it. I came
To see it as an old, exalted one:
The incarnation and withdrawal of
A god. That last phrase is Northrop Frye’s.
I had stylistic hope moreover. Fed
Up so long and variously by
Our age’s fancy narrative concoctions,
I yearned for the kind of unseasoned telling found
In legends, fairy tales, a tone licked clean
Over the centuries by mild old tongues,
Grandam to cub, serene, anonymous.
Lacking that voice, the in its fashion brilliant
Nouveau roman (even the one I wrote)
Struckled by Woolf not Mann, had stories told them
In childhood, if at all, by adults whom
They could not love or honor. So my narrative
Wanted to be limpid, unfragmented;
My characters, conventional stock figures
Afflicted to a minimal degree
With personality and past experience—
A witch, a hermit, innocent young lovers,
The kinds of being we recall from Grimm,
Jung, Verdi, and the commedia dell’arte.
That such a project was beyond me merely
Incited further futile stabs at it.
My downfall was “word-painting.” Exquisite
Peek-a-boo plumage, limbs aflush from sheer
Bombast unfurling through the troposphere
Whose earthward denizens’ implosion startles
Silly quite a little crowd of mortals
— My readers, I presumed from where I sat
In the angelic secretariat.
The more I struggled to be plain, the more
Mannerism hobbled me. What for?
Since it had never truly fit, why wear
The shoe of prose? In verse we feet bare.
Measures, furthermore, had been defined
As what emergency required. Blind
Promptings put at last the whole mistaken
Enterprise to sleep in darkest Macon
(Cf. “The Will”), and I alone was left
To tell my story. For it seemed that Time—
The grizzled washer of his hands appearing
To say so in a spectrum-bezeled space
Above hot water — Time would not;
Whether because it was running out like water
Or because January draws this bright
Line down the new page I take to write:
The Book of a Thousand and One Evenings Spent
With David Jackson at the Ouija Board
In Touch with Ephraim Our Familiar Spirit.

Backdrop: The dining room at Stonington.
Walls of ready-mixed matte “flame” (a witty
Shade, now watermelon, now sunburn).
Overhead, a turn of the century dome
Expressing white tin wreathes and fleurs-de-lys
In palpable relief to candlelight.
Wallace Stevens, with that dislocated
Perspective of the newly dead, would take it
For an alcove in the Baptist church next door
Whose moonlit tower say eye to eye with us.
The room breathed sheer white curtains out. In blew
Elm- and chimney-blotted shimmerings, so
Slight the tongue of land, so high the point of view.
1955 this world have been,
Second summer of our tenancy.
Another year we’d buy the old eyesore
Half of whose top story we now rented;
Build, above that, a glass room off a wooden
Stardeck; put a fireplace in; make friends.
Now, strangers to the village, did we even
Have a telephone? Who needed one!
We had each other for communication
And all the rest. The stage was set for Ephraim.

Properties: A milk glass tabletop.
A blue-and-white cup from the Five & Ten.
Pencil, paper. Heavy cardboard sheet
Over which the letters A to Z
Spread in an arc, our convenant
With whom it would concern; also
The Arabic numerals, and YES and No.
What more could a familiar spirit want?
Well, when he knew us better, he’d suggest
We prop a mirror in the facing chair.
Erect and gleaming, silver-hearted guest,
We saw each other in it. He saw us.
(Any reflecting surface worked for him.
Noons, D and I might row to a sandbar
Far enough from town for swimming naked
Then healed itself perpetually of us—
Unobserved, unheard we thought, until
The night he praised our bodies and our wit,
Our blushes in a twinkling overcome.)
Or we could please him by swirling a drop of rum
Inside the cup that, overturned and seeming
Slightly to lurch at such times in mid-glide,
Took heart from us, dictation from our guide.

But he had not yet found us. Who was there?
The cup twitched in its sleep. “Is someone there?”
We whispered, fingers light on Willowware,
When the thing moved. Our breathing stopped. The cup,
Glazed zombie of itself, was on the prowl
Moving, but dully, incoherently,
Possessed, as we should soon enough be told,
By one or another of the myriads
Who hardly understand, through the compulsive
Relieving of their deaths, that they have died
— By fire in this case, when a warehouse burned.
HELLP O SAV ME scrawled the cup
As on the very wall flame rippled up,
Hypnotic wave on wave, a lullaby
Of awfulness. I slumped. D: One more try.
Was anybody there? As when a pike
Strikes, and the line singing writes in lakeflesh
Highstrung runes, and reel spins and mind reels
YES a new and urgent power YES
Seized the cup. It swerved, clung, hesitated,
Darted off, a devil’s darning needle
Gyroscope our fingers rode bareback
(But stopping dead the instant one lost touch)
Here, there, swift handle pointing, letter upon
Letter taken down blind by my free hand—
At best so clumsily, those early sessions
Break off into guesswork, paraphrase.
Too much went whizzing past. We were too nice
To pause, divide the alphabetical
Gibberish into words ans sentences.
Yet even the most fragmentary message—
Twice as entertaining, twice as wise
As either of its mediums— enthralled them.

 

[Immagine: La sala da pranzo della James Merill House di Stonington, con il «tavolo vetro-latte» e le «pareti d’un semipellucido color “fiamma”» del canto B (da)].

 

1 thought on “Il Libro di Ephraim (canti A e B)

  1. E’ una gioia (piccola, ma pur sempre gioia), vedere tradotte queste porzioni di The Changing Light at Sandover. Chissà che qualche editore, passando di qui, non si accorga che si tratta di un libro magnifico, prenda un po’ di coraggio, e si decida a pubblicarlo integralmente.

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