di Francesco Pecoraro
La morte di Pietro Ingrao sta innescando un sentimento collettivo di nostalgia generazionale. La nostalgia, se coltivata privatamente, è un sentimento come un altro. Ma quando diventa collettiva assume consistenti sfumature di oscenità. La più ripugnante è questo ri-pensarsi delle generazioni italiche novecentesche, considerandosi come ex-rivoluzionarie.
Non so voi, ma io, ripercorrendo l’intera mia esistenza di non-militante (e tuttavia fedelmente immancabilmente votante PCI), mi accorgo di non essere mai stato un rivoluzionario, anche se ho molto parlato di Rivoluzione. Non solo io non lo sono mai stato, ma la gran parte del Partito, dal ’46 in poi, non lo fu mai. Non lo fu Ingrao, non lo furono le ali estreme, non lo furono i fuoriusciti del Manifesto, non lo furono partiti come il PSIUP: nessuno che nel PCI contasse qualcosa fu mai un vero rivoluzionario. «Non ci sono le condizioni», si diceva in continuazione: certo che non c’erano. L’Italia faceva parte della metà del mondo occidentale che nella spartizione di Yalta si assegnava all’impero americano, era nella Nato: non solo non ci sarebbe stata consentita la rivoluzione proletaria, ma era impossibile anche l’ingresso del PCI in una coalizione di governo, per non parlare di una maggioranza parlamentare e conseguentemente di un governo a conduzione comunista. Ma non furono queste le vere cause del nostro parlare di Rivoluzione senza essere rivoluzionari, cioè senza essere realmente disposti alla Rivoluzione. Secondo la mia visione i veri motivi furono altri.
Il primo, e il più importante, era che stavamo abbastanza bene nel capitalismo italiano. Il Paese cresceva economicamente, la sinistra rivoluzionaria giovanile collaborava indirettamente alla sua necessaria ristrutturazione, facendolo uscire da uno stato prolungato di vetero-cattolicesimo autoritario, e introducendolo alla laicità consumista di cui ha bisogno il mercato moderno. Non esisteva uno stato di ingiustizia sociale estrema e di massa, ma solo un normale sfruttamento, con tassi di disoccupazione accettabili: la sofferenza e il disagio venivano però occultate dalle buone condizioni economiche degli operai occupati, di una piccola borghesia in ascesa sociale. Il Paese da povero che era diventava, se non proprio ricco, riccastro: il reddito veniva, sia pure moderatamente, re-distribuito, il capitalismo era frenato mitigato contrastato da un forte movimento operaio. Cioè da PCI & sindacati. In questo senso il PCI fu agente determinante per la crescita capitalista. La rivoluzione proletaria non si può fare in un paese con consistenti elementi di social-democrazia, perché viene a mancare proprio la disperazione proletaria di cui dovrebbe nutrirsi.
Il secondo motivo di ripulsa della Rivoluzione, probabilmente derivato dalle condizioni di civiltà raggiunte, fu la silenziosa non accettabilità di una implicita conseguenza dell’insurrezione: lo scorrere del sangue. Sangue che già in effetti scorreva abbondante nello scontro tra terroristi (questi sì, veri rivoluzionari, proprio per l’atrocità dei loro metodi e proprio per questo completamente isolati) e Stato e che de-stabilizzava il tacito, mai dichiarato, patto di reciproca assistenza PCI-Istituzioni. La de-stalinizzazione sovietica, prontamente adottata dal comunismo italiano, ripudiava violenza, purghe e gulag come atrocità assolute, paragonabili a quelle del nazismo, dimenticando che senza atrocità, purghe e gulag non c’è Rivoluzione. Si discuteva se lo stalinismo fosse già nel leninismo, cui si voleva restare il più possibile agganciati, pena la caduta totale di una teoria e di una prassi della Rivoluzione. La risposta, mai ufficialmente data, era naturalmente affermativa: non puoi abolire la proprietà privata senza tagliare un bel po’ di teste.
Il comunismo era quello che si vedeva là dove si era realizzato. Ma da un certo momento in poi si cominciò a fare finta di no. Quello vero era tutt’altra cosa. In Russia nessuno moriva più di fame, non c’erano più servi della gleba, tutti avevano diritto a Casa Istruzione Lavoro Salute, ma non c’era «libertà». Dunque occorreva costruire un comunismo diverso, munito di «libertà», senza però chiamarlo col suo vero nome: socialdemocrazia. Fu su questa ambiguità, sull’enorme quantità di non detto, che il PCI si incagliò nelle secche dell’89. Rotolò sulla battigia del neo-capitalismo e lì si arenò. Mostrando una capacità trasformista degna della migliore tradizione italiana, divenne progressivamente ciò che è oggi, assumendosi quel lavoro sporco che il capitalismo finanziario europeo esigeva da tempo e che Berlusconi non aveva saputo/voluto fare, per sostanziale incompetenza e disinteresse per la cosa pubblica.
Ora, a cento anni, ci muore Pietro Ingrao ed è come fosse davvero la fine della storia del comunismo italiano: era estinto da tempo, ma non ancora sigillato nella tomba. Come molti di noi, lo piango e piango Pietro Ingrao. Ma non andrò ai funerali, non alzerò il pugno, non canterò Bandiera rossa. Da un paio di decenni il comunismo non può essere altro che un silente stato interiore. Una categoria incomunicabile dell’anima, un rovello, un dubbio, una perdita. Ma il marxismo ci fornisce ancora la possibilità di mantenere una qualche lucidità di sguardo sul presente. Purché tutto ciò che pensiamo resti non-detto. «Noi siamo sconfitti», diceva Pietro. Niente è più vero di questa ammissione. Ma allo stesso tempo niente ormai può distoglierci dalla coltivazione interiore dell’idea socialista, nessuno può convincerci della superiorità di questo liberismo da stronzetti. Siamo novecenteschi vetero-ostinati, apparentemente convinti che non ci avranno, mentre siamo loro da molto tempo. Siamo sempre stati loro.
[Immagine: Grisha Bruskin, Paradise Lost (gm)].
Alla luce di come sono andate a finire le cose, nessuno della mia generazione, la generazione del ’68, fu vero rivoluzionario. Ognuno, alla fin dei conti, ha pensato al proprio interesse personale. Le eccezioni si contano sulla punta delle dita d’una mano.
La società non esiste, esiste l’egoismo. La società, intesa come comunità, è pura enunciazione e ipocrisia. Esistono – al massimo e se sono coesi – agglomerati mafiosi chiamati “famiglie”. Gli esseri umani si nutrono, defecano, si riproducono in maniera sconsiderata e non riescono a vedere al di là del proprio naso. Tutto questo condurrà alla fine.
Ingrao? Coprì da sinistra un partito-chiesa stalinista ed ebbe bei privilegi. Alla faccia dei poveri e dei diseredati.
La Storia rimane quello scandalo che dura da diecimila anni (Elsa Morante). Scandalo al quale nessuno è riuscito a porre rimedio.
Nel mio animo c’è solo dolore.
Mi riconosco in toto nel lucidissimo, splendido articolo.
Il comunismo italiano nella prassi è da subito stato un socialismo pragmatico, votato da chi riteneva il socialismo di Nenni nobile ma compromesso, quello di Craxi affarista.
Io mi sarei fermato all’evoluzione del PCI fino ai DS. Con il loro suicidio gratuito e la formazione del PD ci siamo ormai privati di una qualunque forma di partito socialdemocratico. L’ambiguità cattolica ha trionfato e per gli ingenui è rimasto solo papa Bergoglio, un pontefice capace di vendere il suo superficiale maquillage al volto del Vaticano, mantenendo nel fondo lo status quo. Tutto ciò è davvero molto triste e lo stiamo pagando…
Bien joué !
“ Martedì 5 agosto 1997 – Dice che Ingrao ha detto che un tempo i giornali erano « formativi ». Francamente mi sembra difficile che sia vero, ma non nego l’evidenza del fatto che un bel po’ di gente che ha fatto carriera si è « formata » sui giornali. E ora il risultato si vede. “
@ sergio falcone
Che brutta abitudine quella di generalizzare: sarebbe più onesto dire di sé, di non essere mai stati rivoluzionari, di non averci creduto veramente. A me quella prospettiva non dispiaceva affatto, ho considerato seriamente l’idea di un sovvertimento, che capivo dovesse essere necessariamente violento. Ci ragionavo e sognavo, ma ero un ragazzo, le mie analisi non potevano che essere semplicistiche e viziate dal desiderio. Però, ancora oggi, non capisco come ci si possa dire comunisti senza pensare al cambiamento radicale della società. Se non lo si ritiene possibile tanto vale non dirsi comunisti e muoversi con altre modalità, cambiare orizzonte… e qui si vede lo smarrimento, l’incapacità di trovare risposte concrete, ma solo parole di fede che non possono oltrepassare la soglia dell’uguaglianza: uguaglianza come principio, e quindi anche come possibile istituzione. Ma uguaglianza verso il basso, altrimenti non sarebbe comunismo. In definitiva si tratterebbe di una forma di organizzazione sociale, un più rispettoso livellamento delle esistenze. Non mi sento per nulla sconfitto, sconfitti son quelli che professano ideologie ingessate, che ragionano schematicamente, che pongono le ideologie a confronto accusando gli altri di socialdemocrazia… povere, piccole persone, incapaci di uscire dal seminato, dal già visto, dal risaputo, dal metodo, dal dogma, che piegano la ragione alla propria fede, che non sanno guardare al di là degli 8 km della linea dell’orizzonte; condannati all’oggi, all’avevo detto, io. Non mi sento per nulla sconfitto, sconfitto lo lascio dire a Ingrao e a quelli che non sanno mettere da parte l’ideologia, che continuano a sovrapporla a cose “semplici” come Uguaglianza (dal basso), parità nei diritti, accoglienza, rispetto delle diversità (ma non dei privilegi). Su queste cose ragionerei, non sul tempo che fu.
Due cose nell’articolo sono assolutamente irricevibili, e una terza è difficilmente accettabile. La prima è che la rivoluzione necessiti per forza della disperazione proletaria: le teorie marxiane (persino nella loro variante più vulgata e semplificatoria) non la prevedono affatto, puntando invece sull’organizzazione del proletariato in modo tale da renderlo in grado di rimpiazzare la precedente classe egemone: è appena il caso di notare che Marx tra le categorie sociali coinvolgibili dalla rivoluzione diffidava proprio dei “Lumpen”, cioè dei più disperati. La seconda è che il sangue in Italia lo abbiano fatto scorrere principalmente i terroristi (che, con equivalenza decisamente rozza, vengono promossi a rivoluzionari solo per l’uso dei metodi violenti) e gli apparati deviati dello Stato: si fa finta di non vedere che il vero e abominevole bagno di sangue qui in Italia lo hanno prodotto mafia ‘ndrangheta e camorra; secondo l’accurata analisi di Enrico deaglio in “Raccolto rosso” il solo decennio ’80 ne avrebbe prodotti quasi diecimila, cifra assolutamente imparagonabile a qualunque forma di violenza statale o terroristica. La terza è che la rivoluzione produca per forza, oltre alla violenza sovversiva, anche purghe e gulag: ingiustizie ne produce sì, come in tutti i cambiamenti violenti, ma che si accettano (per chi ci crede) nel nome della loro provvisorietà. Estendere gli esiti catastrofici della rivoluzione sovietica a qualunque attività rivoluzionaria passata o futura è indebito.
Condivido tutto meno il rigurgito, guarda caso, nostalgico del finale. Il punto è che la caduta delle illusioni non è avvenuta nell’ottantanove, ma trenta anni prima a Bad Godesberg. Noi marxisti, o presunti tali, arriviamo sempre in ritardo, ma siamo convinti comunque di saperne più degli altri.
Pecoraro ha ragione: molti della sua generazione -senza dubbio una delle più fortunate da molti secoli in qua – hanno giocato a far la guerra. Ma anche se sono grata all ‘autore per la sua onestà e per la sua prosa, sono d ‘accordo con “mayor” e Jacopo: generalizzare serve a poco non aiuta. E per di più taglia fuori dallo sguardo percentuali pr nulla irrilevanti di umanita: molte donne della generazione di Pecoraro la rivoluzione l hanno fatta eccome ed è anche grazie alle loro battaglie che le donne possono prendere la parola anziche fare gli angeli del ciclostile.
“ Mercoledì 30 settembre 2015 – « È la festa di Pietro » (Il regista Ettore Scola ai funerali di Pietro Ingrao) Festaioli di tutto il mondo… “.
Una rivoluzione in Italia non è mai stata fatta, e possiamo dirlo mentre i giovani della FGCI venivano tenuti buoni . Non è neanche stato completato il processo di unità nazionale
Quindi non si è creato quel movimento storico-dialettico che crea poi una vera classe dirigente e cittadini degni di tal nome. A suo tempo il PCI frenò molto i giovani della FGCI.
E non per una nostra innata vocazione alla socialdemocrazia, che man mano si sta dileguando, ma per la presenza della Chiesa, e per un moderatismo indidualistico che ci metteva a riparo da tutte le imprese sovversive. Perciò non siamo capaci di batterci per dei principi, perciò è nata la casta, o meglio l’oligarchia.
Nonostante il Pci che ci ha donato ,con le sue lotte, molti diritti e riforme degne di rispetto, che rasentavano l’egualitarismo, siamo sempre stati attratti dalla DC, ma abbiamo lasciato morire Moro.
Ingrao è stato a favore delle battaglie del proletariato, di cui riconosceva la funzione delle avanguardie, continuava ad essere il più aperto alle prospettive di riscatto sociale
Non è nostalgia, ma rispetto per un uomo che ha avuto principi, apertura teorica, adesione alle lotte di riscatto
E ora che la scuola piace sempre meno a studenti e insegnanti, ora che si lavora sotto controllo e si può essere licenziati senza grossi problemi ,accontentandoci di lavoretti d’accatto.. E ora che ci siamo fatti sottrarre tutto con le nuove pseudo-riforme, ora che coloro che hanno figli con problemi di salute, devono limitarsi nei controlli, nelle analisi, nelle TAC, cioè nella riduzione della cura e prevenzione, ora noi parliamo di esser sempre stati dei moderati, che l’Italia è sempre stata così.
Questo lo dice la nuova classe dirigente, dopo anni di berlusconismo e di trasformazione della Sinistra. Avevamo una temperie rivoluzionaria a Napoli nel 99. Non è stata appoggiata e l’abbiamo fatta distruggere.
E ora ci poniamo il problema di votare per i moderati senza S;, o, meglio,ci asteniamo, perché abbiamo vergogna di
questa corruzione, di questa avidità, che , a volte prende anche noi, abbiamo vergogna dei giornali invasi da notizie di indagini, banche ladrone, di truffe e camorristi dai colletti bianchi
E scusateci se proviamo nostalgia per un uomo davvero di sinistra, che amava la musica e la poesia, aveva dei principi, e per questo si è meritato la stima e l’affetto di quelli che hanno creduto che il mondo potesse divenire un posto migliore.
Sono d’accordo, quasi un tutto , con @Jacopo
Intendere un rivoluzionario come niente di meno di un terrorista è uno svarione da anarcoridicolaggine, cioè un’altra scappatoia per scaricare l’idea-impegno di rivoluzione facendola passare per una propria maturazione ideologica. Pecoraro poteva limitarsi a dire la sua testimonianza, per carità comunissima (se io, a trenta e più anni, non avrò niente da rinnegare domani è perché non ho avuto niente a cui eventualmente consacrarmi ieri; metti ci fosse stato: niente mi autorizza a credere che non mi ci sarei sistemato dentro allo stessa maniera), magari con maggior franchezza: è chiaro il suo comunicare che la rivoluzione non gl’è mai convenuta ma il tentativo di dissimulare il tutto nel comodo alibi di un quadro-generale c’è stato. Good bye Lenin e mica in morte di Ingrao, da subito!, da ben prima che lo imbalsamassero; Lenin, non Ingrao. Solo una pensione minima e un’impossibilità di andare a farsela rivalutare in Romania potrebbero riportare un rivoluzionario mancato, ovvero il solito astuto in pieno, sui suoi passi mai percorsi. Perché voler chiamare rivoluzione mancata il calcolo esatto dei propri interessi perseguiti così puntalmente? In cosa sarebbe consistito il cambiamento di scena se la scena desiderata era sempre la stessa, lo spacciare per emancipazione sociale le macchinazioni per accaparrarsi qualche privilegio di classe e quindi di persona? Ogni rivoluzione degna di questo nome è semplice e immediata nel suo essere pratica e spiccia e non ideologica e epocale. Una rivoluzione pronto uso è dirsi la verità su se stessi in tempo reale e non in retrospettiva; e il riconoscere i propri errori personali di fronte a un fallimento di civiltà, non sbiadendolo con le cause-generazionali. L’unica vera rivoluzione mancata è quella che non fai neppure oggi, non quella che non hai fatto ieri e che si rivela ottima come scacciapensieri per tirare sera anche questa sera, per poter pensare domani a quello che non hai avuto intenzione di fare mai. Un saluto! Antonio Coda.
Nel complesso lucido e condivisibile. Ma ho qualche perplessità, che sottopongo a Pecoraro nel caso ci leggesse.
1) “La rivoluzione proletaria non si può fare in un paese con consistenti elementi di social-democrazia, perché viene a mancare proprio la disperazione proletaria di cui dovrebbe nutrirsi.” A parte le discettazion sulla teoria che altri hanno fatto qui sopra (non la disperazione ma la coscienza di classe ecc.), di poco interesse, io direi che la rivoluzione proletaria non si può fare dove c’è crescita del reddito e del benessere delle classi lavoratrici, per quanto sfruttate, dove il profitto genera vantaggi anche alle classi “dominate”, per quanto si accentuino le diseguaglianze; e dove, certo, ci sono meccanismi che “limitano” il mercato più selvaggio. Quest’ultimo punto si scontra con l’idea semplicistica, che appare alla fine, che il mondo ora è solo “liberismo da fighetti”. E in ogni caso mi chiedo dove si è vista nel mondo la rivoluzione proletaria.
2) “In Russia nessuno moriva più di fame, non c’erano più servi della gleba, tutti avevano diritto a Casa Istruzione Lavoro Salute, ma non c’era «libertà».” Frase contestabile: nella Russia sovietica che è collassata c’era molta povertà, e soprattutto divisioni sociali rigide, di natura quasi feudale, da servi della gleba: ricordo che i cittadini normali non si potevano spostare liberamente da una parte all’altra del paese. La Russia è collassata sul benessere, prima che sulla libertà.
3) “Da un paio di decenni il comunismo non può essere altro che un silente stato interiore.” Peccato: dopo un bel pezzo sul mito della rivoluzione, alla fine deve sempre restare questa nostalgia dell'”assoluto politico”, per cui si deve restare comunisti, quasi come un imperativo morale. Come sarebbe bella una sinistra senza, sempre sullo sfondo, il lutto per la rivoluzione perduta.
Ovviamente Pecoraro è libero di raccontare …il suo racconto. Anzi, la sua narrazione dai toni depressivo-rancoroso-nostalgici. Insomma: inutili. Come tutte le semplificazione ove paiono maggiore le proiezioni personali che i tentativi di un comprendere più distaccato. Le sue parole, se prese alla lettera, sono una vera pietra tombale non sul comunismo – penso che nessuno (o quasi) possa oggi definirsi comunista se non dopo una lunga precisazione e distanziamento filosofico! Bensì sulla possibilità di ragionare sull’oggi: sulla possibilità di un cambiamento in direzione della giustizia sociale e di una eguaglianza ragionevole. Insomma: su quella che un vecchio filosofo ambiguamente ‘comunista’ chiamava fin dal 1967 ‘socialdemocrazia dinamica’ (era Galvano della Volpe: ignorato da Ingrao).
Con Ingraomi pare morite l’eredità irrazionale del comunismo italiano, quella che voleva la luna. quella meno marxista, ove il marxismo sia assunto come metodologia di pensiero e indagine critica e non come ideologia di chi già sa, di chi è sempre dalla parte della ragione (ovviamente dei deboli, delle classi sfruttate: caricatura del francescanesimo! qui habet aures audiat).
Addio Pietro: è stato un sogno. il tuo. Il mio impegno – a te contemporaneo – andava ( e nel lontano 1984 anche pubblicamente) in altra direzione. Per questo oggi, ostinatamente, ma con piena consapevolezza del capire parziale e approssimato della complessità che è il mondi globale di oggi, continua a sperare e a pensare e a costruire condizioni per una società più giusta, solidale, ed equa.
C’è un sacco di gente tra i commentatori che ha dimenticato di strappare le pagine del calendario che separano il 2015 dal 1977. Anche nel modo di parlare. E che strano effetto che fa guardare tutte queste vite immerse in formaldeide…
Piccolo contributo video alla discussione:
@antifemminista https://www.youtube.com/watch?v=dzkjnPSbxJw
@The Real Guy https://www.youtube.com/watch?v=cQKzesTq0Wo
Ho scritto “liberismo da stronzetti”, non “da fighetti”.
“ Martedì 17 giugno 1998 – « Poche immagini di donna mi hanno così vivamente impressionato in cinematografo: verrebbe di non fermarsi soltanto al cinematografo. » (Pietro Ingrao, Note su Tempi moderni, in «La Ruota», a. 1, n. 3, 1937) “.
Per decidere quali siano le condizioni storiche che innescano la rivoluzione, occorre esaminare magari non la teoria marxiana ma gli accadimenti storici e scoprire che in Europa i tentativi rivoluzionari sono nati dalla dissoluzione di grandi organismi statali (impero zarista, Germania dopo la prima guerra mondiale), mentre quanto è accaduto in Cina e a Cuba riguarda contesti molto diversi da quelli in cui noi viviamo.
Che piaccia o meno poi, quelli che hanno provato a fare la rivoluzione in Italia e in Europa Occidentale non erano terroristi anarchici, ma terroristi di stretta osservanza marxista se non leninista, con una concezione distorta del concetto di avanguardia rivoluzionaria. A tutti gli altri, anche per i motivi indicati da Pecoraro, semplicemente la rivoluzione non interessava. E la mia sensazione è che chi parlava di rivoluzione come Ingrao non intendesse tanto il meccanismo violento o meno di rovesciamento del potere, ma indicasse una nuova società più equa e, forse, più libera. Insomma rivoluzione come prospettiva, non come mezzo.
Non ricordo poi eventi rivoluzionari non sanguinosi e, perlomeno nella fase di assestamento post-rivoluzionario, non oppressivi.
“ Giovedì 3 aprile 2003 – Quando si dice che il vecchio Ingrao, dicendo, alla fine, che lui è con Saddam, ha detto la verità, non si dice abbastanza. Bisogna dire di che genere di verità si tratta, dire che è una verità clamorosa, apocalittica. L’apocalisse – lo svelamento, il momento della verità – è tale non solo per gli avversari dei comunisti, che hanno, dopotutto, un’occasione per scoprire di non avere pensato male abbastanza, ma anche per i sostenitori a vario titolo della « pace ». Perché stare con Saddam non è, in ogni caso, facile. Di certo è meno facile di quello che hanno pensato in questi anni, in questi mesi, i giulivi, colorati sfilatori per strade e piazze d’Italia, quelli della « prima volta », i neofiti dell’« impegno », i pacifisti della domenica. La verità è che è la politica – quando è la Politica – che è apocalittica. (Lo so bene io che, alla fine, non sono né con Bush né con Saddam. Anche perché di uno come me né Bush né Saddam saprebbero cosa farsene) “
Vorrei solo ringraziare Sergio Falcone per il suo commento. Se ancora vale la pena leggere blog come questo, è per la possibilità di trovare sentimenti autentici, profondi e antiretorici come quelli che lei esprime, pur in poche righe.
Gentilissimi, nel 2015, in pieno tardo-moderno, discutere ancora di marxismo e di rivoluzione è diventato ontologicamente scorretto (se non come mera documentazione storiografica). Lo stesso concetto di «rivoluzione», in una magistrale critica di L. Lombardi Vallauri nel suo Corso di Filosofia del diritto (teoria del «mondo sferico»), è stato considerato infattibile e ontologicamente anacronistico; l’intuizione, assolutamente sottovalutata, di Lombardi Vallauri, è stata accompagnata, negli ultimi dieci anni, dalle evidenze sociologiche delle scuole di Bauman, Sennett o Beck. La «flessibilizzazione», «liquefazione», del mondo tardo-moderno, ontologicamente, non riconosce significato, ontologico e pratico, al termine «rivoluzione». Probabilmente, con enorme illuminazione anticipatrice, è Camus a segnare la strada: rimane vivo il significato del concetto di «rivolta». Il mondo fluido subisce la «rivolta» e respinge ogni «rivoluzione».
credo che abbia ragione Mauro Piras quando scrive che l’URSS aveva esasperato i privilegi e le disparità; correggerei però la sua considerazione: “La Russia è collassata sul benessere, prima che sulla libertà” dicendo che la Russia è crollata sulla incapacità di creare uguaglianza, prima che sulla libertà. Ma aggiungerei che forse nessun sistema sociale (almeno tra quelli fin qui conosciuti) possiede strutturalmente i meccanismi per realizzare l’uguaglianza (intesa come uguaglianza reale, pari situazioni di partenza per tutti). Abbiamo molta libertà, ma con disparità sociali che sconfinano in privilegi tali da svuotare la stessa libertà, e credo che siano solo le lotte sociali (non per forza e non necessariamente violente, anzi) che possono eliminare o diminuire tali privilegi e aumentare l’uguaglianza e i diritti. E’ il bello della lotta, come diceva un illustre liberista. Forse dovremmo recuperare, della storia della sinistra, non i miti rivoluzionari, ma l’idea e la capacità di creare lotte, che non per forza devono puntare a ribaltare tutto.
Caro Andrea
(sei tu, vero? l’Andrea Moroni storico che ho conosciuto a Pisa all’inizio dell’Università?) concordo con la tua affermazione: è un modo più corretto di dire quanto volevo dire. E concordo anche con il resto.
Un caro saluto,
Mauro
PS: chiedo scusa a Pecoraro per l’errore che ho fatto, citando malamente a memoria.
Interessanti digressioni sulla rivoluzione.
Tuttavia, il discorso in molti dei commenti mi pare del tutto decontestualizzato, se ne parla in generale, come se di un roba come una rivoluzione ciò possa avere senso.
Se tornassimo a guardare ai nostri giorni, potremmo facilmente renderci conto che la rivoluzione è già in atto, solo che i soggetti rivoluzionari sono coloro che già detenevano il potere.
Nei fatti, a me pare che oggi l’utopista non è chi predica la rivoluzione, ma chi pretenderebbe di restare nella situazione presente.
Se già qualcuno ha deciso di cambiare le carte in tavola, di distruggere gli stati-nazione che resistevano da parecchi secoli, di invertire il segno della ridistribuzione di reddito e patrimonio, ogni pretesa di rimanere nello status quo perchè “ci si vive bene”, mi pare non abbia alcun senso.
Certo, magari uno che per la sua età non ha un futuro così lungo di fronte a sè, può anche tentare di prolungare al meglio la situazione che ereditiamo dalla crescita economica del dopoguerra, ma in un senso più generale e con gli occhi delle generazioni più giovani, l’ambizione di vivere come i propri padri appare destinata all’insuccesso.
L’unica soluzione è abbandonare questo realismo alquanto incomprensibile e nei fatti del tutto irrealistico se detto oggi (magari negli anni settanta ancora si sarebbe potuto crederlo), e fare noi la rivoluzione sottraendo l’iniziativa a potenti e ricchi di tutto il mondo.
Sia chiaro, quando dico rivoluzione non parlo di rivoluzione in senso marxista, l’unica rivoluzione possibile e nello stesso tempo indispensabile è quella ecologica, e qui mi fermo.
Caro Pecoraro,
e allora il 68, l’autunno caldo e il movimento femminista (@ D. Brogi) che cosa sono stati? Bisogna intendersi bene sul concetto di “rivoluzione” perchè, secondo me, tu ti sei fatta un’idea molto approssimativa. Il problema è che il partito che tu hai votato, cioè il PCI, è stato un partito riformista che è stato confinato per tanti anni all’opposizione ma che ha partecipato alla costruzione e alla conservazione del nostro sistema politico, che ha governato molte delle nostre città e delle istituzioni italiane e che, al tempo stesso, ha condannato i movimenti rivoluzionari, isolato e ridotti al silenzio gli oppositori politici, ecc. ecc.. Io provengo dalla nuova sinistra e sono stato e sono antitogliattiano (come molti della mia generazione) e non ho mai votato PCI e da tantissimi anni non voto, ma Pietro Ingrao è stato il dirigente comunista contemporaneo che ho sentito più vicino e ho letto e studiato i suoi libri con molto interesse perchè affrontano una questione per me fondamentale, e cioè il rapporto tra masse e potere e tra democrazia e socialismo. In ogni caso, penso che sia sbagliato considerarlo un eretico: bisogna ricordare che nel 56 ha condannato la rivoluzione polacca e ungherese, nel 69 ha votato a favore della radiazione del gruppo del “Manifesto”, che negli anni settanta è stato al fianco di E. Berlinguer, accettandone e difendendo la strategia del “compromesso storico” e la politica di “unità nazionale”, e via discorrendo.
Scusate tutti la digressione: si, Mauro, sono io.
A presto, spero
SU «MA QUALE RIVOLUZIONE»
Quando spolveri il sacro ripostiglio
che chiamiamo “memoria”
scegli una scopa molto rispettosa
e fallo in gran silenzio.
Sarà un lavoro pieno di sorprese –
oltre all’identità
potrebbe darsi
che altri interlocutori si presentino –
Di quel regno la polvere è solenne –
sfidarla non conviene –
tu non puoi sopraffarla – invece lei
può ammutolire te –
(Emily Dickinson, Tutte le poesie, 1273, pagg.1277-1279, Mondadori, Milano 1997)
Gentile Francesco Pecoraro,
sono quasi un suo coetaneo (4 anni più di lei, credo) e pure io in quegli anni (non più “formidabili” ma appannatissimi e vituperati) ho parlato assieme a tanti di Rivoluzione (a Milano e dintorni, dal 1968 al 1976, in Avanguardia Operaia). Mi permetterò perciò, sulla falsariga del suo scritto, di dirle con massima sincerità e analiticamente cosa penso del modo in cui ha trattato il tema.
1. Non ha senso stabilire se fummo o no rivoluzionari. La Rivoluzione (intesa come mutamento radicale della vita quotidiana o dei rapporti sociali di produzione) non è avvenuta. E allora come si fa a controllare se uno è stato un «vero rivoluzionario»? O a misurare quanti fossero «disposti alla Rivoluzione»? O ad escludere che nello stesso PCI ci fossero persone implicabili in un processo rivoluzionario? Sono cose quasi insondabili. Lei, secondo me, dà troppo peso alla soggettività, alla volontà, all’intenzione. Ma l’animo umano è ambivalente. In esso c’è la spinta a ribellarsi e c’è quella a rassegnarsi. La partecipazione ad avvenimenti che potrebbero portare a una Rivoluzione non nasce, credo, da un DNA. Si è in certe condizioni, si è coinvolti in certi fatti della storia; e allora ci si trasforma. Alla fine, solo alla fine, altri potranno dire (forse) di noi se fummo dei rivoluzionari o dei reazionari o rimanemmo a mezza strada, troppo amletici.
2. Comunque, adottando provvisoriamente la sua espressione, di gente – minoranze senz’altro – *disposta a fare la Rivoluzione* sembrava che ce ne fosse un bel po’ in quegli anni e non solo in Italia. La partecipazione straordinaria a momenti concreti di lotta fino a quelli estremi del “lottarmatismo” è documentabile. Non fu, dunque, uno scherzo. Non si giocò a «fare la guerra» (D. Brogi). Ma le rivoluzioni maturano come *possibilità* dall’addensarsi di molteplici fattori. Che, solo se interpretati correttamente e prontamente da individui e collettività, possono permettere con un po’ di fortuna di *farle*, di guidarle. Almeno in parte. E non a caso Machiavelli accortamente parlò della necessità nell’agire politico di una particolare combinazione di virtù e fortuna. Ma alla fine, da noi, non ci fu Rivoluzione. Perché avvenisse una cosa del genere bisognava (come nell’amore?) incontrarsi in due: i rivoluzionari e la realtà che offra l’occasione giusta. Questo non avvenne.
[continua]
3. Mi pare un errore da parte sua riconoscere il titolo di rivoluzionario solo a chi commette o è disposto a commettere atrocità, a costruire gulag, etc. Cioè, di fatto, soltanto a quelli che in quegli anni hanno fatto in Italia le scelte più azzardate e risultate poi politicamente sbagliate: illudendosi di poter trascinare un numero sufficiente di altri nella loro avventura; azzittendo con gesta clamorose quelle in apparenza più modeste di molti altri; smorzando a colpi di rapimenti e uccisioni le migliaia di fiammelle di rivolta organizzata che si era riusciti a costruire un po’ ovunque; e che – forse, eh! – avrebbero potuto consolidarsi e permettere di delineare una strategia più adatta alla situazione reale. E, dunque, davvero “rivoluzionaria” (nel senso di inedita, di impensata, di originale, di imprevedibile nei suoi sviluppi). Perché, credo, sì, che le rivoluzioni si misurino in relazione ad altre precedenti, ma anche che non hanno un copione obbligato da ripetere o rispettare diligentemente o miopamente. E, dunque, non mi pare che tra le caratteristiche dei rivoluzionari debba essere essenziale la disposizione a commettere “atrocità”. Queste, ammesso che in circoscritte situazioni vadano definite tali, se manca una teoria, una strategia, in cui iscriverle, vanno definite atti di mera bestialità. (E forse – ma è solo una mia opinione -se avessimo avuto il tempo, la pazienza e le capacità di costruire un partito veramente alternativo a PCI e Psi, saremmo arrivati a vivere la nuova situazione (la “globalizzazione”) con occhi più lucidi e *rivoluzionari*).
4. Ma perché in quegli anni parlò/parlammo tanto di Rivoluzione? Le due sue risposte, in cui vengono presentate «le vere cause del nostro parlare di Rivoluzione» non mi convincono. Mi paiono paradossali e contraddittorie. Perché « stavamo abbastanza bene nel capitalismo italiano»? Oh, bella. Ma allora tutto fu solo un delirio e per giunta collettivo? Possibile che tante menti, forti e abbastanza lucide, contribuirono a un delirio collettivo tanto cieco e prolungato – roba da Anno Mille, insomma. E pensare che ci fu gente che ci spese persino la vita! Secondo me, chi *stava bene* non partecipò. O partecipò in modi marginali, calcolati, strumentali. Annusò esteticamente il buon vento della rivolta giovanile. Andò magari a caccia di belle fighe. Fece il flaneur. Si divertì. Gli altri, molti altri – ed è quel che conta e che distingue quei nostri comportamenti d’allora dal delirio o dal sogno – si misero in vari modi in gioco: manifestazioni, assemblee, scontri fisici con la polizia, rotture con le famiglie, ecc. Credo che l’idea di Rivoluzione funzionò da ideologia e fece fibrillare i nostri immaginari. In parte servì a rafforzare e a modellare sentimenti oscuri di ribellione, di disagio, di voglia di felicità. In parte occultò processi sociali e politici complicatissimi, che non sapevamo dire in modi più lucidi o “scientifici”. In molti, comunque, non stavamo «abbastanza bene». E la fuoriuscita dal «vetero-cattolicesimo autoritario» (ma anche dalla «Chiesa rossa» del PCI) non fu indolore ma faticosa, spesso confusa. Solo dopo la sconfitta (o profilandosi la sconfitta) quel «ribellarsi è giusto», che non poteva – ma lo sappiamo oggi! – diventare Rivoluzione, quel pullulare di ribellioni disordinate s’incanalò (o fu incanalato abilmente da chi aveva strumenti per influire) verso lo sbocco della modernizzazione del mercato e si accomodò nelle seduzioni della «laicità consumista». Però, non era stabilito da una Legge che dovesse finire proprio così. Ci furono spinte e controspinte. Non tutti nel movimento erano in preda alla fregola consumistica. Anzi erano forti le contestazioni di quella tendenza. Solo per bacchettonismo residuale, per savonarolismo? No, perché si sperava, si sentiva ( almeno da parte di alcuni) che c’era una posta in gioco più alta. E la sconfitta non era certa. Erano semmai quelli del PCI – ostili da subito a quei movimenti, attaccati da quei movimenti – a pensare che lo sbocco non poteva essere che quello della cooptazione della solita fetta “intelligente” e “preparata” nelle istituzioni. O che si trattasse soltanto – opinione oggi divenuta canonica! – di una rivolta della “piccola borghesia” o di una ”rivoluzione da figli di papà”. (Pasolini contro gli studenti, etc.). Ma se il PCI si fosse spaccato allora (e non, farsescamente e obbrobriosamente, dopo Berlinguer), come sarebbe finita la faccenda? E se si fosse riusciti davvero a fare un altro partito “a sinistra del PCI”? Il Barbone Tedesco diceva che «gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalle tradizioni. (da L’ideologia tedesca). Non c’è bisogno di essere “ideologici” per dargli ancora ragione, non le pare? Quella nostra ipotesi non era allora del tutto campata in aria. E in tanti ci scommettemmo. Ma non resse.
[continua]
5. Oggi che tutti si vantano di essere “anti ideologici”, perché non chiedersi: sotto il grande cappello ideologico della Rivoluzione, di cosa si parlava allora più in concreto: davanti alle fabbriche, nelle scuole, nei quartieri, nelle famiglie? E vale ancora la pena di ripensarle? Si dissero cose giuste e sbagliate. Si fecero cose giuste e sbagliate. Ma è su di esse che si dovrebbe riflettere, invece di restare, come lei fa, sulle generali. Occultare in qualche modo (e in fondo liquidare) tutto quel *parlatorio* – caotico, scomposto ma indispensabile e non tutto di vuote chiacchiere – è cancellare semplicemente la storia da cui veniamo. (Lo stesso discorso, credo, si potrebbe fare oggi per il *parlatorio* del Web). E poi: perché non si sarebbe dovuto parlare di Rivoluzione (e del resto, delle cose concrete della vita di tanti)? Era parlando con gli altri, con molti altri, che ci si poteva chiarire le idee su quella “cosa” (la Rivoluzione appunto). Per intendere cosa fosse stata (altrove, e in altri tempi). E cosa poteva essere e se era possibile o no da noi; e come prepararla o prepararsi ad essa. Io avevo capito che, per tentarla (o semplicemente avviarsi verso di essa), bisognasse essere in molti. E mi pareva che parlarne servisse a riconoscere in quella confusa nebulosa (ricorda la folla di certe manifestazioni, di certe assemblee?) i *compagni con cui stare*, e coi quali costruire il *noi* (il ‘partito’ si diceva allora) di cui fidarsi e a cui affidarsi. Mi pareva che, se in tanti si parlava di Rivoluzione, qualche buon motivo ci fosse. Che è meglio puntare al cielo, a «egregie cose» invece di voltolarsi nel fango in cui ci vogliono mantenere. E che, come diceva il Vecchio Scriba, bisognasse «cercare i nostri eguali osare riconoscerli/ lasciare che ci giudichino guidarli esser guidati/ con loro volere il bene fare con loro il male/ e il bene la realtà servire negare mutare». Perciò scrivere come fa lei: « stavamo abbastanza bene nel capitalismo italiano» o « non esisteva uno stato di ingiustizia sociale estrema e di massa, ma solo un normale sfruttamento, con tassi di disoccupazione accettabili» mi pare irresponsabile. Da chi erano accettabili quelle condizioni? Dai disoccupati, dagli operai, dagli studenti o dai manager del PCI?
6. «Il secondo motivo di ripulsa della Rivoluzione, probabilmente derivato dalle condizioni di civiltà raggiunte, fu la silenziosa non accettabilità di una implicita conseguenza dell’insurrezione: lo scorrere del sangue». Ma che argomento catto-comunista è questo? Forse solo la Rivoluzione fa scorrere il sangue? Ammesso che lei e una parte di noi (non tutti gli italiani) abbiamo potuto stare « abbastanza bene nel capitalismo italiano» del dopoguerra, questo “benessere” fu dovuto anche al sangue versato durante la Resistenza. Il sangue scorre purtroppo sempre. Ora qui ora là. Anche negli anni Settanta il sangue « scorreva abbondante». E non solo «nello scontro tra terroristi […] e Stato». Scorreva a Piazza Fontana, in Piazza della Loggi a Brescia, alla stazione di Bologna. E oggi continua a scorrere in vari modi da noi; e in modi più atroci non lontano da noi. «Senza atrocità, purghe e gulag non c’è Rivoluzione»? E c’è forse democrazia senza sangue (o con meno sangue della Rivoluzione), senza guerre (umanitarie e non)? E ci fu forse socialdemocrazia senza colonialismo, che al sangue (siccome versato dai colonizzati) non faceva troppo caso. Come i democratici d’oggi non fanno troppo caso a quello versato nella ex Jugoslavia, in Irak, Afghanistan, Libia, ecc.?
7. Trovo sbagliata anche l’altra sua affermazione: «il comunismo era quello che si vedeva là dove si era realizzato». Ma perché far passare un tentativo rivoluzionario di “costruzione del socialismo in Urss” come costruzione del tutto compiuta (starei per dire: una bozza per un’opera compiuta)? No, né in Urss né in Cina si era «realizzato» il comunismo. Era una delle poche cose chiare a una parte dei giovani che allora “parlavano” di Rivoluzione. Ci si era accorti che quel processo, iniziatosi rompendo con la socialdemocrazia (una sorta di PCI d’allora?), la quale sosteneva non ci fossero le condizioni per la Rivoluzione, e poi interrotto, deviato, stravolto, aveva prodotto « tutt’altra cosa»: un ibrido difficile da decifrare, una mostruosità se si vuole. Che però da subito – già ai tempi di Lenin – era stata criticata, vista con sospetto, contrastata da molti degli stessi militanti comunisti d’allora. (Trotsky le dice ancora qualcosa?). Un *qualcosa* su cui le menti più oneste intellettualmente e politicamente hanno continuato a interrogarsi. Se vogliamo ragionare su quella storia (su quei pezzi della *nostra storia*), evitiamo le semplificazioni ( le «oscenità») giornalistiche e, prima di aprire bocca, studiamoci la «Storia del comunismo» di Luigi Cortesi o «L’esperimento profano» di Rita di Leo o la più recente raccolta di saggi, “L’altro Novecento. Comunismo eretico e pensiero critico» a cura di P.P. Poggio.
[continua]
8. Detto questo, a me non pare più possibile oggi tornare semplicemente al porto sicuro di Marx o al marxismo come unica teoria che «ci fornisce ancora la possibilità di mantenere una qualche lucidità di sguardo sul presente». Dobbiamo intendere anche la storia venuta dopo Marx, la “storia inquinata e tragica”. Non si può fingere che non ci sia stata. Ma neppure, come è stato in genere fatto, si può accantonarla e ripartire da “altro” (ecologia, anarchismo, socialdemocrazia, liberalismo, femminismo, ecc.). Proprio da lì, dal riconoscimento del fallimento di quell’esperimento, nacquero tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi dei Settanta le dissidenze e le riviste-samizdat pre-68 – Quaderni rossi, Quaderni Piacentini, Vento dell’Est, ecc. Ma non è bastato. Bisogna capire perché. È dura ma non si può aggirare la montagna che si è parata davanti a noi.
9. ««Non ci sono le condizioni», si diceva in continuazione». E in un certo senso non era sempre e solo una scusa. Ma diciamocelo: quando mai *a tavolino* ci sono le condizioni – sicure, certe, tali da convincere tutti: l’operaio, il ragioniere, la massaia, l’intellettuale, ecc. – per una Rivoluzione (o anche per un più semplice “cambiamento”)? Il grande rompicapo dei rivoluzionari è proprio quello di stabilire che fare e quando fare. Se non ci fosse stato Lenin nel 1917 in Russia le condizioni per provarci *non ci sarebbero mai state*. (I suoi stessi compagni di partito dicevano che non c’erano). E se non ci fossero stati nell’Italia dell’Ottocento Mazzini, Pisacane o Garibaldi mai avremmo visto il Risorgimento. E se non ci fossero stati i partigiani, mai avremmo avuto la Resistenza. Quando lei scrive: «L’Italia faceva parte della metà del mondo occidentale che nella spartizione di Yalta si assegnava all’impero americano, era nella Nato: non solo non ci sarebbe stata consentita la rivoluzione proletaria, ma era impossibile anche l’ingresso del PCI in una coalizione di governo, per non parlare di una maggioranza parlamentare e conseguentemente di un governo a conduzione comunista» non s’accorge (se ho ben capito) di fare l’apologia dell’immobilità e della rassegnazione? Questa era la posizione di quel PCI che lei votava. Di quel PCI che, come ricordava a suo tempo il Vecchio Scriba, negli anni Settanta era riuscito a raccogliere il consenso «di una massa imponente di operatori intellettuali» (Disobbedienze I, p. 172) oltre a quello «di milioni e milioni di filistei, fra i quali i milioni di lavoratori che la [sua] politica trentennale, al governo o all’opposizione, [aveva]ha trasformato in piccoli borghesi assetati di ordine e desiderosi di farla finita con quei lazzaroni dei giovani che non rispettano il lavoro»( Disobbedienze I, p. 170). E che –aggiungo io – partorì soltanto il topolino del “compromesso storico”.
10. Eppure, pur non essendoci le condizioni, masse di giovani (e non solo) trovarono giusto ribellarsi e minoranze – certo – anche di pensare ad un “assalto al cielo”. Fallito sì, ma chi poteva dire allora con assoluta certezza che non ci fossero le condizioni? Solo quelli del PCI. Noi allora – solo pedine? solo manovrati, solo estremisti, solo diciannovisti? -, ribellandoci, avevamo imboccato un’altra strada. Cercammo di fare cose diverse. Abbiamo fallito. Siamo stati sconfitti. Lei però con questo scritto getta solo sale nelle ferite. Credo in tutta sincerità che lei sputi troppo su se stesso e su noi di allora e sui sopravvissuti di allora. E questo non va. Turbi pure la sua e la nostra vecchiaia con i più atroci dubbi sulla possibilità o meno di fare la Rivoluzione in quegli anni o di guidare verso una qualche più riformistica terra promessa quel movimento reale di militanti ed elettori, sugli errori che facemmo, sulle meschinità commesse dagli “stronzetti rivoluzionari”, che ci furono anche tra noi. Ma alla fine di questa sua visita nel «ripostiglio che chiamiamo “memoria”» può proporre – non dico a noi vecchi ma ai giovani – soltanto una «coltivazione interiore dell’idea socialista»? Che è secondo me un invito alla autoclausura. Ed è proprio la cosa che non dovrebbero fare gli sconfitti. Riconoscerla, sì, la sconfitta, ma perché murarsi in essa? Perché mettersi «in formaldeide» come dice qui un commentatore. Vecchi e sconfitti abbiamo, come diceva ancora il Vecchio Scriba, da proteggere «le nostre verità», rivedere di continuo la *nostra* storia, passarla a contrappelo, selezionare e conservare le «buone macerie» (non le cattive) e non farcela riscrivere o spiegare o liquidare dai vincitori e dai loro servi consapevoli e inconsapevoli o dai giovanotti a memoria piatta e orgogliosi di esibirla. È comunque dalle buone rovine, dai momenti alti della nostra storia – dalla Comune di Parigi, dal 1917, dalla Lunga marcia; e qui in Italia: da un certo Risorgimento, da una certa Resistenza e un po’ anche da un certo ’68-’69 – che si potrà ripartire per qualcosa che non so se si chiamerà più socialismo o comunismo. No, non dobbiamo coltivare il nostro masochismo.
[Fine]
“In effetti di parole troppo grosse come ‘rivoluzione’ tra noi – tra noi… Vero, Giorgio Napolitano? – non si parlava mai. Si parlava però, e con enorme passione, della lotta per cambiare il tessuto profondo, anche culturale e morale, del Paese. (…) L’essenziale era partire dagli ultimi, come renderli protagonisti (…), come non lasciare gli uomini soli di fronte alla potenza inaudita del denaro (..). Questa fu la nostra grande passione. (…) E questa passione io non l’ho vista in nessuno così assillante come in Pietro Ingrao”.
Alfredo Reichlin, 30 settembre 2015
“ Senza data [1983] – Dopo il Sessantotto nove anni dopo – forse devo solo organizzarmi per studiare /e/ per scrivere. notabile il fatto che non mi sembri possibile o apprezzabile, ma solo necessario; e insufficiente, comunque. pensa a quante sono state le cose necessarie e insufficienti che hai fatto in tutti questi anni. tutte. viene sempre fatto di dire che non poteva che andare così. ma così come? così a inseguire le cose mentre stavano ancora accadendo. alcuni si avviavano qualche isolato più avanti credendo che la distanza favorisse l’osservazione netta e spregiudicata. altri si attardavano qualche isolato indietro pensando la stessa cosa. ma eravamo sempre gli stessi in un corteo poderoso continuo di uomini fanciulli scalpicciatori scemi. comunisti o podisti? queste righe le leggano i poliziotti a venire. “.
Caro Ennio, il tuo lungo commento contiene degli spunti interessanti e condivisibili, ma dopo tanto discorrere e tirate le somme alla fine non fai che confermare l’idea di fondo di Pecoraro, e cioè che nell’Italia repubblicana (e lascio stare il discorso molto complesso sui paesi a socialismo reale e sul fallimento delle rivoluzioni socialiste) nessuna rivoluzione si è realizzata, una tesi, a mio modesto parere, completamente errata. Onestamente mi sembra troppo poco, nel senso che bisogna intendersi bene e chiarire il concetto di “rivoluzione”. Certo, se noi seguiamo il punto di vista marxiano e marxista, nel periodo che va dal 67 al 76 non c’è stato nessun rovesciamento dei rapporti di produzione e il proletariato non ha conquistato il potere ecc., ma se noi partiamo da un punto di vista diverso, dall’idea che ci siamo fatti della rivoluzione francese, del 1848, ecc, allora dobbiamo dire che l’imponente ciclo di lotte sociali e politiche (il 68, l’autunno caldo, le lotte civili, il movimento femminista) che si è verificato in quel breve periodo ha innescato una vera e propria “rivoluzione” trasformando radicalmente le istituzioni del nostro paese (l’apparato statale, l’università, la scuola, il rapporto tra lavoro e capitale, la condizione dei lavoratori nelle fabbriche e negli altri luoghi di lavoro, ecc), la mentalità collettiva, il rapporto tra i sessi, ecc., o mi sbaglio?
@ Gianluigi Simonetti
“L’essenziale era partire dagli ultimi, come renderli protagonisti (…), come non lasciare gli uomini soli di fronte alla potenza inaudita del denaro (..). Questa fu la nostra grande passione.”
Strano però: le differenze di reddito non sono mai state così grandi, nell’Italia del dopoguerra, come da quando ha avuto accesso al governo il PCI e i suoi avatar.
Che la “grande passione” di Reichlin e Ingrao li abbia accecati? Succede, con le passioni.
Probabilmente il mio pezzo non merita la vostra attenzione teorica, essendo nato come sfogo emotivo in morte di Pietro Ingrao, che il sottoscritto, e forse non solo lui, ha percepito come la fine della fine, il sugello di una storia nella quale ci piace vederci in un modo mentre eravamo altra cosa. Ora quella storia è chiusa e con essa è chiuso l’infinito teorizzare che l’ha accompagnata, frutto molto spesso più di narcisismo intellettuale che di autentica volontà di approfondimento e condivisione. C’è altro da dire? Moltissimo. Ma io non ce la posso fare. Grazie.
@Buffagni
Il PCI nel quale Ingrao ha militato non ha mai avuto accesso al governo. Quando tramite Ulivo vi accede il PDS, nel ’96, Ingrao ha 81 anni e da tre non è più nel partito.
Ad ogni modo la frase di Reichlin mi sembrava interessante soprattutto per il riferimento alla rivoluzione come “parola grossa”. L’inciso di Pecoraro, che a qualcuno è parso una generalizzazione, a me pare vero alla lettera: “nessuno che nel PCI contasse qualcosa fu mai un vero rivoluzionario”.
“L’inciso di Pecoraro, che a qualcuno è parso una generalizzazione, a me pare vero alla lettera: “nessuno che nel PCI contasse qualcosa fu mai un vero rivoluzionario”.”(Simonetti)
Il punto dolente è: ma cos’è *un vero rivoluzionario*?
Pecoraro sostiene che “quella storia è chiusa e con essa è chiuso l’infinito teorizzare che l’ha accompagnata, frutto molto spesso più di narcisismo intellettuale che di autentica volontà di approfondimento e condivisione”. E’ un suo personale parere.
A me pare invece domanda seria. Per pensionati e giovani. La storia la riproporrà.
@Abate
Un vero rivoluzionario, per me, è colui che opera per la rivoluzione, cioè per una trasformazione totale dell’ordine sociale. Non per dei diritti parziali (per esempio i diritti delle donne, che sono stati evocati). Quelli sono un’altra cosa.
Personalmente ho l’impressione che un vero rivoluzionario sia spesso (anche se non sempre) uno che, per i più diversi motivi, si trova in un determinato momento storico a non avere più niente da perdere.
Molti militanti del PCI, per come la vedo io, e per come li ho conosciuti, si sono spesi con passione sincera per l’uguaglianza, la democrazia, i diritti; hanno ottenuto molto (e molto hanno perduto). E va bene così.
Ma quando si voltano indietro e si ripensano come ex-rivoluzionari, mentono a se stessi. Qui ha ragione Pecoraro.
Gentile Pecoraro,
aggiungerei ai suoi due motivi un terzo che viene spesso incomprensibilmente dimenticato.
Le rivoluzioni tendono a camminare sulle gambe dei giovani; quelle dei nostri furono spezzate dalla massiccia introduzione dell’eroina in Italia.
Forse il capitale è più furbo ed efficiente di quello che immaginiamo.
“ 5 aprile 1986 – Un Gr2 dopo i « rivoluzionari d’Egitto » sono diventati i « rivoluzionari egiziani ». “.
E comunque, trovo paradossale, seppure apparentemnte solo io, che proprio mentre cambiamenti di portata rivoluzionaria siano in atto, si parli della rivoluzione che (non) fu, e si consideri la morte di ingrao come una scadenza di una quache rilevanza dal punto di vista strettamente politico.
In effetti, il clima da amarcord dell’articolo mi pare sia stato se non del
tutto apprezzato, in fondo condiviso, un articolo amarcord, coerentemente seguito da commenti altrettanto amarcord.
Il cadere nel vuoto del mio tentativo di richiamo all’attualità mi pare in questo senso estremamente significativo.
“mentre cambiamenti di portata rivoluzionaria siano in atto, si parli della rivoluzione che (non) fu” (Cucinotta)
Ma quale clima d’amarcord! Io almeno ho cercato di ripensare gli spunti di storia presenti nell’articolo di Pecoraro. Perché fare tabula rasa poi della storia e della storia delle rivoluzioni (riuscite o fallite)? Come stabiliamo allora in cosa i cambiamenti in atto sono o sarebbero “di portata rivoluzionaria”? in base a cosa li misuriamo?
Caro Ennio, i discorsi che si possono affrontare esaminando una fase storica di settanta anni e tra l’altro resa tumultuosa dai ritmi della modernità e dagli impetuosi sviluppi tecnologici, sono i più varii.
Se ti interessa la mia opinione in proposito, la rivoluzione in questo lasso di tempo c’è stata, solo che è stata fatta dai nostri avversari, mica da noi. Non v’è dubbio che coloro che ci autodefinivamo di sinistra abbiamo subito una sconfitta storica e per certi versi definitiva, ma magari non ce ne siamo neanche accorti (capita!). E se posso essere più preciso, c’è stata una rivoluzione liberale, che ha trasformato gli italiani che liberali c’erano stati solo come piccola minoranza, ed è avvenuta proprio nel ’68, quando io e forse anche tu, pensavamo di lottare per la rivoluzione proletaria.
Dal punto di vista marxista, il periodo veramente rivoluzionario non coincide col ’68, ma con la parte di quel decennio che lo precede ed in qualche modo lo prepara. Soltanto che nel punto più critico, il progetto proletario perse rapidamente terreno, così che già dai primissimi anni settanta alcuni di noi decisero di passare alla lotta armata perchè era per loro evidente la fine di ogni possibilità di fare progressi in quella direzione.
Posso ancora aggiungere che perdemmo perchè avevamo una direzione politica insufficiente, ma soprattutto perchè il marxismo è una teoria errata che prevede cose che non si sono mai avverate, come la rivoluzione proletaria in un paese industrialmente sviluppato.
Dopodichè, so fin troppo bene he tu non sei d’accordo con me e probabilmente con la gran parte delle persone che mi leggono, e questo è il motivo per il quale avevo deciso di astenermi.
Per il resto, la discussione fatta dal punto di vista soggettivo di noi stessi in quegli anni, non mi appassiona più di tanto, la considero interessante dal punto di vista letterario (ed ho anche letto ed apprezzato il romanzo che Pecoraro vi ha dedicato), ma di nessun interesse dal punto di vista politico.
Tu dici che tuttavia questa discussione è molto importante, e francamente devo ammettere di dissentire totalmente da te, perchè al contrario la trovo dannosa, come se avessimo subito dei bombardamenti che hanno distrutto una strada ingombrandola con delle macerie, ed invece di sgombrare la carreggiata per renderla nuovamente fruibile, la rimirassimo e pensassimo che ciò ci aiuta a circolare.
Fuori di metafora, penso che restare intrappolati in una discussione che pretende che tutti i problemi siano dovuti ad una nostra insufficienza senza renderci conto dei problemi teorici del marxismo, finisce per costituire una sorta di crogiolamento fine a sè stesso.
A me pare che capire se siamo mai stati rivoluzionari è dal punto di vista strettamente politico l’ultimo dei problemi.
Mi sembrerebbe ben più appropriato occuparci di un presente che, al contrario di quanto dica la vulgata dominante, non è immutabile, anzi muta malgrado ogni sforzo contrario, e rischia lasciato a sè stesso di distruggere ogni forma di organizzazione civile dell’umanità.
Un “errata corrige” nel mio precedente commento.
Ho erroneamente scritto “tu non sei d’accordo con me e probabilmente con la gran parte delle persone che mi leggono”, ma intendevo dire che “non sono d’accordo con te e con la gran parte delle persone che mi leggono”.
Scusate.
@ Cucinotta
Caro Vincenzo, è segno della *nostra* sconfitta storica anche la difficoltà di intenderci tra “sopravvissuti”?
Perché dal lungo intervento che ho fatto non mi pare di dire cose in contrasto con buona parte di quelle che tu scrivi:
– «la rivoluzione proletaria» di massa fu un miraggio;
– il passaggio di una parte di noi alla lotta armata fu la prosecuzione minoritaria e disperata e luciferinamente distruttiva/autodistruttiva di quel miraggio;
– non ci riuscì di *fare partito* in senso originale e non scopiazzato;
– il marxismo ( l’infarinatura di marxismo con il quale una parte dei militanti del movimento coprì pregresse formazioni prevalentemente cattoliche o nazional- popolari) non bastò;
– una discussione « fatta dal punto di vista soggettivo di noi stessi in quegli anni» non solo non è appassionante, ma rischia di essere nostalgica, consolatoria e elusiva (sul presente); (e lo *potrebbe essere* anche se svolta «dal punto di vista letterario», sul quale qui non mi pronuncio, non avendo letto il libro di Pecoraro a cui ti riferisci).
Dove non siamo, dunque, d’accordo? Sulla necessità che, nel cercare un altro ‘che fare’, io insisto a non abbandonare – proprio per intendere meglio il presente e non vederlo, appunto, come «immutabile»! – la riflessione storica sul *nostro* passato politico e sul passato in generale (che è il punto che qui sto difendendo)?
P.s.
Quanto al marxismo, che tu definisci « una teoria errata che prevede cose che non si sono mai avverate, come la rivoluzione proletaria in un paese industrialmente sviluppato», avendo più volte anche in passato (quando ancora si discuteva, qui su LPLC, di questo tema con Eros Barone, che ora non interviene più e non so perché), ho sempre invitato a prendere in considerazione *anche* le tesi di G. La Grassa, che ha forse stilato il più spietato resoconto della “crisi del marxismo” e dell’insufficienza della stessa teoria di Marx. Ma nessuno ha mai voluto sprecare un briciolo della propria intelligenza nel confutarlo. O, ancora oggi, si limita a etichettare: «Ah, marxismo-leninismo!».
Non ti pare troppo comodo il colpo di spugna sul proprio passato “marxista” di tanti attuali democratici che si affannano da orbi sull’*eterno ritorno del presente* o sul “nuovo che avanza”?
Carissimi
mi sembra che il termine Rivoluzione, secondo il materialismo storico-dialettico marxiano coincidente con la Rivoluzione del 1917 in Russia, sia equivocato con quello che la massoborghesia ha diffuso da Cromwell in poi, passando per la rivoluzione americana e francese ovvero la visione idealistica della storia di quel periodo che non spiega le profonde ragioni che hanno determinato quei processi e le forme organizzate delle classi emergenti (massoneria) e delle classi messe in discussione, tutte interne comunque alle logiche della proprietà privata.
La presa del potere da parte dei massocapitalisti, ha delle caratteristiche: la violenza capillare e selettiva sulle classi al potere, ma anche sulle classi in rivolta. Violenza utile a spostare risorse economiche dalle tasche dei nobili ma anche dei borghesi non allineati, alle tasche dei rivoluzionari alla Danton-Napoleone espressioni più coerenti di quel processo.
Rivoluzioni dove le masse diseredate dei contadini urbanizzati e del nascente proletariato, sono strumento di una classe minoritaria, la massoborghesia, che egemonizza totalmente il processo rivoluzionario tramite un patto sociale di nuovo tipo che supera le forme economiche, politiche precedenti, vera ragione della vittoria borghese. Si sviluppa il lavoro salariato funzionale alla nascente industrializzazione.
In questo periodo si presenta sulla scena un nuovo soggetto nato dall’espandersi del modo di produzione capitalistico: il proletariato. Una classe che non ha ancora acquisito piena coscienza di sé e della contraddizione con il sistema che l’ha generato, il capitalismo e le sue forme di sfruttamento.
La maggioranza dei movimenti e dei soggetti degli anni Settanta, autodefinitesi rivoluzionari, non coglie l’enorme differenza che c’è con quel periodo e la novità introdotta con la Rivoluzione dell’Ottobre russo dove le masse proletarie e contadine prendono coscienza delle contraddizioni che esistono tra la loro condizione e l’agire della massoborghesia su scala mondiale e sanno isolare politicamente e materialmente l’agire su tutto il territorio russo dei vecchi padroni feudali ma anche della emergente massoborghesia capitalistica. Infatti la presa del potere da parte dei bolscevichi che sono stati un passo, non chilometri, avanti nel capire e promuovere i processi politici, non hanno fatto quel bagno di sangue delle rivoluzioni massoborghesi: la presa del Palazzo d’Inverno ha visto delle scaramucce. Perché la parola d’ordine messa al primo posto nel processo rivoluzionario era la PACE, parola che ha conquistato anche gli uomini dell’esercito, stanco di essere massacrato per gli interessi della corte zarista e dei banchieri e industriali massocapitalisti.
La pace è stata l’esigenza strutturale del proletariato e quindi obiettivo politico strategico dei rivoluzionari comunisti, obiettivo nato nelle trincee di quella carneficina che fu la prima guerra mondiale, seguita da il Lavoro, per contra stare l’arretratezza, la fame e la miseria e la Terra ai contadini rompendo con il feudalesimo russo e fondamento dell’alleanza con quella massa gigantesca di lavoratori della terra che erano immiseriti dalle tasse e dalle politiche usuraie e di sfruttamento.
Molti confondono la presa del potere da parte del Partito comunista con il periodo delle invasioni della Russia sovietica da parte degli occidentali, ben 16 armate, e la conseguente guerra civile promossa dai massoborghesi e proprietari terrieri. Dove per resistere all’invasione, quindi per legittima difesa, dovettero i comunisti usare la forza, ma mai a discapito della dialettica e dell’egemonia nei confronti delle loro classi di riferimento.
La forza del programma e della prassi comunista era tale che gli invasori e i loro alleati interni vennero sconfitti perché i bolscevichi avevano saputo stipulare il patto sociale contenuto nella loro Costituzione che garantiva quel processo di emancipazione e sviluppo pacifico dell’intera società russa.
Cosa che il Sessantotto non ha capito. Come non ha capito che in Italia quel processo lo aveva innescato il PCI di Gramsci-Togliatti con il lavoro clandestino durante il fascismo e continuato nella Resistenza, da Togliatti-Longo nella Costituente e adottato da Longo-Berlinguer nella lotta per l’applicazione integrale della Costituzione antifascista e sociale mutuata da quella russa che apriva al proletariato italiano e alla sua forza organizzata, il Partito Comunista, gli spazi per alleanze politiche per far concretizzare nelle fabbriche, nascita dei Consigli di Fabbrica-contropotere proletario, nei quartieri Consigli di Zona-decentramento democratico statale socialista, quell’azione di lotta e di governo del paese che passava dalla mobilitazione di massa per sfondare ed egemonizzare strati sempre più vasti di popolazione, pur essendo all’opposizione.
Ottenendo grazie a quella comprensione della realtà le otto ore lavorative, lo Statuto dei Lavoratori, la migliore Riforma sanitaria d’Europa con i consultori sanitari territoriali, lo sviluppo dell’industria di Stato a discapito di quella privata: Iri, Eni, Enel, Alitalia considerate le migliori industrie a livello mondiale, la legge sul divorzio, presentata in Italia nel 1965 dalla comunista Nilde Iotti e non dai radicali, il nuovo diritto di famiglia, il rispetto dell’articolo 11 della Costituzione, nonostante fossimo nella Nato, l’equo canone e lo sviluppo dell’edilizia popolare.
Tutto questo ci ha portato a diventare la quinta potenza mondiale, grazie alla presenza del più forte Partito Comunista e a una politica estera in linea con l’articolo 11 della Costituzione, il rifiuto della forza, ma basata sulla PACE che generi sviluppo e cooperazione con i paesi del terzo mondo. Rompendo così l’egemonia imperialista in Africa e nel Medio Oriente, aprendosi ai Paesi dell’Est “comunista”.
I comunisti del PCI facevano del lavoro, punto fondamentale della Costituzione, il perno su cui incentrare la propria azione. Infatti quando nelle fabbriche, negli anni Settanta sotto la spinta della crisi petrolifera, si cominciò a discutere l’applicazione degli articoli 41, 42 e 43 della Costituzione che mettevano in discussione la proprietà privata dei mezzi di produzione, ecco che in soccorso dei padroni arrivano gli ideologi del massocapitalismo, la loro componente più radicale: in Europa i Deleuze, i Foucault, in Italia i Negri, i Cacciari, i Tronti, i Paci, gli Alquati, gli Accornero e i loro alleati di scuola trotsckista che destrutturavano Marx, andando “Oltre Marx” e lo sostituivano con quel pensiero individualista-nichilista di destra del massimo pensatore critico-borghese-reazionario Nietzsche. Si spostava così tutto l’agire dal sociale all’individuale creando le condizioni materiali per la diffusione del terrorismo brigatista, che ha eliminato scientemente tutti i nostri alleati politici e che ha costruito il paradigma ancora oggi ben presente nelle teste di molti italiani che comunismo è sinonimo di violenza e terrorismo. Azioni e ambiguità di certa sinistra su quel fenomeno che ha portato alla disarticolazione dell’egemonia dei lavoratori sulle classi subalterne non proletarie.
Il passo successivo è stato quello di assimilare metodi e obiettivi provenienti da movimenti di stampo anglosassone, portatori di stili di vita legati a fenomeni culturali eterodiretti da centrali mediatiche del grande capitale internazionale, che si erano poste l’obiettivo di una trasformazione anche di tipo antropologico della masse subalterne, grazie all’ausilio delle nuove tecnologie, e i risultati si vedono. La capacità di capire i propri errori da quando si è abbandonato Marx-Engels e Lenin-Gramsci è sotto gli occhi di tutti.
Quindi quei movimenti degli anni Settanta più che diffondere l’oggettivo bisogno di Comunismo hanno fatto il gioco dell’imperilismo, dei suoi apparati di guarra psicologica e militare Nato, Gladio e servizi segreti vari e il caso Moro
è lì a dimostrarlo. In linea con il principio del Machiavelli: “se un tuo scherano è inviso al popolo, fallo uccidere, ma fa in modo che la responsabilità cada sul popolo stesso”.
Saluti comunisti
Andrea Montella
Sezione comunista Gramsci-Berlinguer di Pisa
Penso Ennio che ci sono moltissime cose su cui siamo d’accordo, e qualcuna su cui siamo in disaccordo, e mi pare che vada bene così.
Caro Cucinotta. Amarcord. Bello. Tu percepisci le rivoluzioni dell’oggi. Ci richiami all’oggi. Bello. Grazie.
@ Andrea Montella
Lasci perdere i reprobi sessantottini che fecero il “gioco dell’imperialismo”. Ci spieghi le ragioni della fine del suo amato PCI.
Credo venga sottovalutato anche qui come nel mainstream il ruolo sul campo ed a volte in parlamento dei radicali italiani, che di avanzamenti a loro modo rivoluzionari ne hanno promossi e fatti approvare parecchi, nel bel mezzo del duopolio dc-pci. Quel che manca nell’offerta politica italiana oggi e’ proprio un movimento di quel tipo, poco massimalista ma molto attento alle esigenze dei singoli individui non conformi a qualsivoglia standard.
Un cortese accenno, fatto da Ennio Abate alle discussioni intercorse tra me, lui, Buffagni, Cucinotta e tanti altri frequentatori di questo sito, mi induce a delineare, servendomi anche della sua autobiografia, un rapido profilo di ciò che ha significato Pietro Ingrao (ma potrei anche dire Luigi Pintor e Rossana Rossanda) per la parte politicamente attiva e tendenzialmente rivoluzionaria della generazione del Sessantotto. Circa poi il motivo della mia prolungata assenza dai dibattiti che si svolgono su questo sito, mi limito soltanto a ricordare che vi è stato tra me e la redazione un aspro conflitto di valutazioni sulla opportunità di pubblicare un intervento di mia figlia Arianna.
Pietro Ingrao, morto alla venerabile età di cento anni, è stato un esponente di spicco, assieme al suo indimenticabile ‘alter ego’ Giorgio Amendola, di quella formidabile generazione degli anni Trenta del secolo scorso, per la quale l’adesione al comunismo costituì una ‘scelta di vita’. Con la sua figura, che evocava l’aspetto di un augure o di uno sciamano, e con la sua esotica cadenza ciociara Ingrao aveva il fascino di un personaggio ‘cosmico-storico’. Così almeno appariva a noi, giovani militanti comunisti degli anni Settanta, quando seguivamo affascinati, nei comizi di piazza o nelle Feste dell’Unità, i grandi affreschi della ‘struttura del mondo’ che egli faceva nascere davanti ai nostri occhi servendosi con impareggiabile maestria delle arti suggestive dell’oratore e del poeta, oltre che degli strumenti di precisione dell’analista e del sociologo.
Certo, il lettore dell’autobiografia ingraiana “Volevo la luna” (2006), il quale intenda valutare un percorso politico e intellettuale alla stregua dell’efficacia, dovrà prendere atto, oltre che di uno stile influenzato dalla lezione dell’ermetismo, quale si rivela nel ricorrere di parole-chiave come ‘evento’, ‘intreccio’, ‘gorgo’ e ‘soggettività’, dell’infittirsi, via via che si procede nella lettura di questo resoconto sospeso tra storia e biografia, di parole come ‘errore’ e ‘sconfitta’, che si riferiscono sia alla vita del protagonista che alla storia del comunismo novecentesco. Una storia ed una vita, che Ingrao, malgrado il suo spirito di ricerca, la costante inquietudine e la sua fedeltà ad una vicenda collettiva, non è riuscito, sul piano interpretativo, a disincagliare da uno schema astrattamente generico, distinguendo al suo interno, come è necessario, il grano dal loglio, l’opportunismo socialdemocratico e revisionista dal marxismo ortodosso e rivoluzionario. Del resto, nell’indice storico di questo volume dal titolo così impietosamente autoironico trovano posto molti eventi significativi della seconda metà del Novecento: dall’‘indimenticabile’ 1956 (l’aggettivo, divenuto poi il sigillo di quell’‘annus mirabilis’, fu usato dallo stesso Ingrao) alla lotta armata che attraversò l’Italia negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta, sino al crollo, non previsto, dell’Urss. Vi figura perfino un episodio in apparenza minore, ma importante per la sinistra italiana: la radiazione dal Pci, nel 1969, con il voto a favore dello stesso Ingrao, dei dissidenti del “Manifesto” (allora rivista mensile), quasi tutti seguaci della sinistra ingraiana.
Vorrei perciò evocare per la sua carica vitale e per il suo significato emblematico, tra gli episodi che hanno reso esemplare e, nel contempo, comune a tanti altri ‘ragazzi del secolo scorso’, la formazione di una personalità così eminente, quello che, con simpatica spavalderia, rammenta Ingrao a proposito dei confronti giovanili tra le “generose erezioni” susseguenti al risveglio dal sonno, nella camerata di una caserma, durante il servizio militare. Ma vorrei anche ricordare, perché fornisce in modo icastico la cifra della sua personalità umana, politica e intellettuale, quanto Pietro Ingrao ebbe a dichiarare nel corso di una conversazione con Paolo Di Stefano pubblicata dal “Corriere della Sera” del 21 marzo 2011: «La lotta di classe, per cacciare i padroni, è stata il centro della mia vita».
“ Giovedì 15 aprile 2004 – « Certo, un pene è molto diverso da una vagina. Il pene è ben visibile, la vagina sta nascosta. Ma questo pene così evidente specie in stato di erezione può anche restare inerte, quasi accasciato, mentre la vagina rimane uguale a se stessa e non si sa mai bene come reagirà. » (Giorgio Abraham, Amare l’amore. La giornata di un sessuologo, 1985) “.
@ F. Pecoraro
Lei conclude così il suo articolo, molto sentito:
“«Noi siamo sconfitti», diceva Pietro. Niente è più vero di questa ammissione. Ma allo stesso tempo niente ormai può distoglierci dalla coltivazione interiore dell’idea socialista, nessuno può convincerci della superiorità di questo liberismo da stronzetti. Siamo novecenteschi vetero-ostinati, apparentemente convinti che non ci avranno, mentre siamo loro da molto tempo. Siamo sempre stati loro.”
A me questa chiusa sembra trovare il punto chiave della questione: “apparentemente convinti che non ci avranno [gli ‘stronzetti liberali’], mentre siamo loro da molto tempo. Siamo sempre stati loro.”
Se avesse voglia di spiegar meglio in che senso, a suo parere, “siete loro e lo siete sempre stati”, le sarei grato. Cordiali saluti.
Ciascuno di noi, che ha vissuto dagli anni 50, difficilmente ricorda con sufficienza il periodo della propria giovinezza. Tutti quanti erano entusiasti delle lotte che si facevano nei luoghi di lavoro e nelle piazze. Quelle battaglie hanno portato a avanzamenti della classe operaia e a grandi conquiste che hanno portato nel 1970 allo statuto dei lavoratori (nessun datore di lavoro poteva continuare come nel passato a licenziare un lavoratore se non per giusta causa) e alla nascita delle Regioni (che prima erano solo rappresentate nelle carte geografiche). E sono stati i Comunisti, e non solo, ma soprattutto loro, ad interpretare la voglia di cambiamento profondo del nostro paese. Io, che ho 65 anni, credo fermamente che le persone della mia generazione dovrebbero fare uno sforzo grande (grandissimo) affinché i ricordi che sono stampati (o meglio conservati) nel nostro cervello venissero messi a disposizione di tutti. Le nostre opinioni sono determinate soprattutto dalla nostra vita passata, dalla nostra esperienza, che hanno inciso in maniera fortissima alla nostra formazione. Quanto sarebbe importante discutere delle nostre esperienze e trasformarle da memoria personale in memoria collettiva. Troppi uomini e donne, nonostante le loro capacità intellettuali, invece di analizzare il passato per rimetterlo in discussione, preferiscono cancellarlo, quasi che il sia possibile capire il presente senza conoscere il passato. Il nostro passato è fatto di grandi esperienze positive, ma anche di errori. Per questo è indispensabile ridiscutere quello che è accaduto, soprattutto negli ultimi 50 anni, per capire le ragioni, quelle vere, che hanno portato il nostro paese, la nostra Europa, il nostro mondo, nel quale viviamo, in questa situazione di gravissima crisi economica, sociale e politica, e, che lo si voglia o no, di un precipitare degli eventi che rischiano di portarci ad una guerra infinita. Se non facciamo questo, come possiamo pensare di progettare il futuro. Ma non perché ne potremmo avere un beneficio noi e la nostra generazione, ma perché lo dobbiamo fare per le nuove generazioni, che vivono, a differenza di come abbiamo vissuto noi, nel giorno per giorno, senza un progetto per l’avvenire. Per questo credo che sia insufficiente continuare a guardare agli avvenimenti del passato solo attraverso il semplice ricordo, come se per ogni avvenimento importante della storia passata dovessimo celebrare una messa. No, dobbiamo riprendere la nostra memoria e consegnarla alle nuove generazioni attraverso un nostro ripensamento, non per dire che abbiamo sbagliato, ma per ridisegnare un vero progetto per il futuro. E questo lo può fare soltanto la sinistra, non in termini ideologici, ma perché la destra, e la storia lo insegna, ha sempre cercato di fermare il cambiamento. E quando ha portato avanti le riforme, lo ha fatto solo ed esclusivamente contro i cittadini, che hanno sempre pagato caro la loro politica.
Caro Ennio Abate
se ha tempo e voglia si legga il saggio che ho scritto con Paola Baiocchi
Ipotesi di complotto? Le coincidenze significative tra le morti e le malattie dei segretari del PCI e l’attuale stato di salute dell’Italia – Carmignani Editrice
così scoprirà che non mi sono sottratto alla sua richiesta.
Saluti comunisti
Andrea Montella