di Corrado Stajano
[Il Saggiatore ha appena ripubblicato Africo. Una cronaca italiana di governanti e governati, di mafia, di potere e di lotta, il libro-inchiesta di Corrado Stajano uscito nel 1979 per Einaudi, che all’epoca Giulio Bollati aveva presentato così: « Africo è il nome di un paese montano che una alluvione, nel 1951, travolse in una frana di terra e di pietre e rese inabitabile. In questo libro di Corrado Stajano si racconta la storia di una comunità di contadini e di pastori che un diluvio sradicò e costrinse a migrare in un nuovo Africo, sorto dal nulla in riva al mare. Un evento quasi impercettibile, tra i mille che la cronaca italiana accumula sospesi tra catastrofi bibliche e tecnologie ad alto rischio, smottamenti, terrore organizzato, degradazione sociale, malgoverno. Ma con questa particolarità: che nella sua «dinamica», come direbbe il verbale di un brigadiere, la vicenda di Africo illumina di una luce improvvisa i segreti di una cultura e di un modo di vita, i rapporti tra sudditi e potenti, tra società locale e governo centrale, e l’inganno e la sopraffazione che stanno alla base di un patto sociale coatto; e insieme, nonostante tutto, la speranza e la volontà di opposizione e di lotta di gruppi e di singoli il cui coraggio solitario sollecita qualcosa di più della nostra ammirazione. Questo libro – storia politica, narrazione, testimonianza, documento, inchiesta – non è soltanto il racconto corale di un paese che sembra inventato e invece è minuziosamente vero, denso di drammi e di conflitti, popolato di personaggi che sembrano romanzeschi: preti, ribelli, capimafia e uomini faticosamente maturati alla politica. È anche una metodica insistente lettura di segni che decifrati e disposti in un discorso coerente tracciano un disegno più vasto, quello dell’intera Italia malata, tradita, impedita di essere se stessa, provocata alla lotta o a un tenace e responsabile, ma sfibrante, esercizio di pazienza».
Quella che segue è la postfazione di Stajano alla nuova edizione]
Avevo letto i racconti di Umberto Zanotti Bianco, Tra la perduta gente, sulla Calabria dei primi decenni del Novecento ed ero rimasto inorridito e turbato dalla povertà disperante degli abitanti di un paese di nome Africo, ai piedi dell’Aspromonte. Scrittore, archeologo, liberaldemocratico gobettiano, Zanotti Bianco era una figura di intellettuale politico ricca di fascino che dedicò anni della vita nel tentare di migliorare le condizioni degli umili che vivevano in condizioni inumane in quella regione d’Italia. Avevo visto anche le fotografie di rara efficacia di Tino Petrelli che con il giornalista Tommaso Besozzi, dopo la Seconda guerra mondiale, aveva fatto un reportage in quel paese il cui nome derivava forse dal greco ἄπρικος o dal latino aprīcus. E poi, in quegli anni settanta del secolo scorso avevo letto le cronache quotidiane, spesso giudiziarie, che avevano per protagonista un sacerdote di nome Giovanni Stilo, definito «il prete padrone» di Africo che i giornali di sinistra giudicavano «spogliato di ogni sacralità» e accusavano di un corposo malfare, proprietario di una scuola che sfornava diplomi a pagamento, in consuetudine con ministri e uomini del potere politico democristiano, vicino agli ambienti della ’ndrangheta, la mafia calabrese. Il prete querelava ogni volta i suoi «diffamatori» e usciva sempre illibato dai processi.
Decisi di saperne un po’ di più e proposi a Giulio Einaudi l’idea di un libro su quel paese, ne avevo già scritti un paio per la sua casa editrice. Mi disse di andare a vedere, era incuriosito da quella storia, avrebbe voluto venire anche lui in quello sconosciuto luogo calabrese impastato dalla ’ndrangheta, parola di origine grecanica, derivata da ανδραγαθος, l’uomo coraggioso, valoroso: l’onorata società della Calabria.
Quando si seppe di quella mia decisione divenni vittima di ironie. Andavo a mettere il naso in una terra dominata un tempo da un’organizzazione arcaica, ora morta e sepolta, con una simbologia in cui troneggiavano entità chiamate Osso, Mastrosso, Carcagnosso (Gesù Cristo, San Michele Arcangelo, San Pietro), infarcita di statuti, di gerarchie, di riti d’iniziazione, di giuramenti con il sigillo del sangue: «Giuro sopra questa arma e di fronte a questi fratelli di non partecipare a nessuna società e a nessuna organizzazione, tranne al Sacro Vangelo. Giuro di essere fedele dividendo sorte e vita con i miei sacri fratelli. […] In nome di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre con una bassata di sole e un’alzata di luna è formata la Santa Catena».
Chissà se i giuramenti degli adepti rispettano ancora oggi l’antico rituale. La ’ndrangheta è diventata la più importante e temibile organizzazione criminale del mondo. Ha una dimensione globale, opera in tutti i continenti, lavorano al suo servizio banchieri, finanzieri, uomini corrotti, a molti livelli, delle istituzioni e della politica, notai, commercialisti, avvocati specialisti nel diritto internazionale privato, diplomatici, procacciatori di appalti pubblici e privati, esperti nel riciclaggio del denaro sporco, amministratori capaci. I ’ndranghetisti possiedono fiumi di denaro. La droga e il traffico delle armi, in un mondo che disdegna anche la parola pace, rappresentano il profitto primario dell’organizzazione diventata in numerosi posti l’azienda leader del mercato criminale sopravanzando anche Cosa Nostra siciliana: ancora vent’anni fa l’una e l’altra trattavano in modo paritario o quasi sulle zone di reciproca competenza, come risultava nel 1994-1995 alla Commissione parlamentare antimafia della xii Legislatura.
Non soltanto la droga e le armi: la ’ndrangheta e i suoi adepti posseggono interi isolati di città, catene di bar, di ristoranti, di alberghi, di centri commerciali, si occupano dello smaltimento dei rifiuti, della sanità, gestiscono banche clandestine e le trame dell’usura, le bische, il movimento terra, la compravendita di voti in cambio di favori inimmaginabili. Non sono poche le amministrazioni pubbliche sciolte d’autorità per le loro infiltrazioni mafiose.
L’atlante criminale della ’ndrangheta – una multinazionale che ha una carta in più, quella del delitto e della strage nei confronti dei concorrenti temibili e fastidiosi – copre tutto il mondo, oltre all’Italia, soprattutto quella del Nord, il Canada, gli Stati Uniti, il Sudamerica, in particolare la Colombia, e in Europa la Svizzera, l’Olanda, la Germania, i Balcani.
Chissà se sono penetrate nel cuore della Calabria, la Calabria connivente e anche soltanto ambigua, le parole di Papa Francesco, la sua scomunica ai poteri criminali, a Sibari, il 21 giugno 2014: «Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male come i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono sco-mu-ni-cati». Così, scandendo le parole. E ancora: «La ’ndrangheta è questo: adorazione del male e disprezzo del bene comune».
La magistratura, una sua parte almeno, ha compreso in Italia la pericolosità di quella multinazionale del crimine divenuta un’associazione di carattere unitario, come certifica anche una sentenza (6 giugno 2014) della Suprema Corte di Cassazione. La ’ndrangheta, non più dissimile da Cosa Nostra, è governata da una centrale che, anche in Calabria, ha un potere assoluto sulle varie famiglie. L’indipendenza anarcoide di una volta non esiste più.
I processi, con centinaia di imputati, negli ultimi dieci anni sono stati, soprattutto a Milano, numerosi e fruttiferi. I problemi nascono dal diffondersi della corruzione nella società. In una sua relazione, Ilda Boccassini, che a Milano è a capo della Direzione distrettuale antimafia, ha scritto parole gravi e illuminanti: «Spesso si parla di “infiltrazione” della ’ndrangheta nell’economia legale, e il termine fornisce l’idea di una penetrazione di qualcosa di negativo all’interno di un tessuto sano, una sorta di attacco dall’esterno nei confronti di una realtà che prova inutilmente a resistere». Va sfatata, scrive la Boccassini, la pretesa purezza del destinatario dell’aggressione che non è una vittima: «La realtà che emerge dalle indagini è ben diversa, e per evitare che il linguaggio crei una realtà inesistente, è bene fare chiarezza: le investigazioni dimostrano che l’imprenditoria non si limita a subire la ’ndrangheta, ma fa affari con la stessa, spesso prendendo l’iniziativa per il contatto con la criminalità organizzata e ricavandone (momentanei) vantaggi».
I figli e i nipoti dei ’ndranghetisti analfabeti o quasi hanno lasciato coppola e lupara negli armadi di casa, hanno studiato, si sono laureati, in Giurisprudenza, Economia e commercio, soprattutto, frequentando poi corsi di formazione nelle università più rinomate, dottorati, stage, e con questi raffinati bagagli seguitano, assai più pericolosi degli antenati, esponenti della ’ndrangheta di paese che si limita a minaccia e che spara, il lavoro di famiglia, solo un po’ modernizzato.
La ’ndrangheta è simile a una monarchia ereditaria. Nelle cronache si ritrovano infatti, di continuo, gli stessi nomi, figli o nipoti. Anche i nomi del mio libro Africo ballano da un processo all’altro.
I discendenti hanno girato il mondo, ne conoscono usi e costumi, parlano le lingue, ma la casa madre resta in Calabria. Africo, Bianco, Platì, San Luca, Bovalino, Cittanova, Siderno seguitano a essere le radici dei «locali», i luoghi sparsi nei continenti dove gli uomini della ’ndrangheta si incontrano per le «mangiate», i summit mafiosi, come un tempo quello famoso di Montalto, sull’Aspromonte o quelli, annuali, della processione alla Madonna di Polsi. Magari adesso sono le suite dei Grand Hotel del mondo ad accogliere i ’ndranghetisti laureati che distribuiscono là dentro «cariche e doti», i gradi e i poteri, come in un esercito. Senza dimenticare mai, si è già detto, i luoghi natii, l’artigianato (diventato industria) del crimine sanguinante. Quei paesi a ridosso della Statale 106 sulla costa jonica della Calabria seguitano a essere il faro del crimine globalizzato deciso nelle metropoli del mondo.
Sono passati più di 35 anni da quando, per la prima volta, arrivai ad Africo. Mi sembrò una caserma abbandonata dove dominava il grigio delle case spesso non finite, della scuola del prete, simile a un granaio dismesso, del municipio, con una torretta nel mezzo, costruito da un capomastro del paese memore dello stile di Mussolini urbanista. Non c’era nessuno, neppure un’anima nelle strade in quella tarda mattinata. Ma era soltanto l’apparenza, perché da dietro le persiane semichiuse, a pianterreno delle case, scorgevo occhi mobilissimi che osservavano circospetti lo straniero.
Il silenzio assoluto non mi sembrò sereno, ma innaturale.
Dov’erano gli uomini e le donne del paese? Prigionieri dei muri di casa? I vecchi non sedevano neppure, come in tutti i paesi del Sud, sulle panchine della piazza. E dov’era chi lavorava? In campagna, dalla parte della fiumara, o verso la statale, dalla parte del mare? Un paesaggio desolato.
La sensazione era di essere capitato in un paese coloniale squallido e abbandonato, anche se era stato costruito soltanto vent’anni prima: intessuto di ombre. Il bar era deserto, persino la stazione, un po’ fuori dal paese, era deserta, ma quella targa, Africo Nuovo, era rassicurante, dava almeno la certezza che non mi ero sbagliato, ero arrivato veramente in quel puntino del mondo che avevo desiderato vedere. Ma come avrei fatto a scrivere il libro che mi ero ripromesso di scrivere, quel libro che Giulio Bollati, direttore della Einaudi, nel suo risvolto di copertina rimasto in questa edizione a segnare il tempo, quel tempo, definì un libro di «storia politica, narrazione, testimonianza, documento, inchiesta»?
Tutto risultò meno arduo, almeno apparentemente, di quanto avevo temuto. Abitavo a Roccella Jonica, una quarantina di chilometri da Africo, in una vecchia casa di pietra foderata di Bougainville a color porpora. Dalle finestre vedevo il mare, l’ambiente era più rassicurante che nel paese dove andavo ogni mattina e ritornavo la sera come un pendolare.
Non vidi mai don Giovanni Stilo nonostante l’avessi cercato, non parlai mai con una sola donna. Incontrai Santoro Maviglia, personaggio antico, vecchio capo della ’ndrangheta convertito in carcere alla politica e all’anarchia. I giovani erano i più disponibili ma il sospetto aleggiava sempre, reciproco. Spesso, lo capii dopo, avevo avuto torto a dubitare di qualcuno, qualche volta, invece, la ragione era stata dalla mia parte e ne restai amareggiato.
Si sapeva sempre tutto di quel che facevo, chi vedevo, dove, quando. Ero seguito da mille sguardi e da presenze interessate. Anche la mia visita a Catania dove andai a parlare con Rocco Palamara, un altro dei protagonisti di Africo, ricoverato all’ospedale dopo che era stato ferito, divenne materia di conversazione tra uomini e donne del paese, con dovizia di particolari veri o inventati.
La sensazione di solitudine che avevo avuto la mattina della prima visita era scomparsa. Il paese si era un po’ popolato, i bambini giocavano nei cortili, i vecchi sedevano immobili sulle panchine, le donne facevano la spesa al mercato, s’incontrava qualcuno anche davanti alla chiesa che sembrava un manufatto non finito, con tre immagini dipinte sulla facciata biancastra, uno zappatore e una donna che reca doni a San Francesco che apre le braccia a un mondo che non sembra volerlo ascoltare. Doveva esser stata un’allucinazione quell’immagine di solitudine disperata nell’isola sperduta del mio primo giorno di Africo.
Il libro viene pubblicato nel 1979, in gennaio. Sono anni infuocati. Nell’anno appena passato è stato sequestrato e ucciso Aldo Moro, la politica si è imbrigliata, il governo della «non sfiducia» traballa – durerà ancora poco –, il terrorismo continua a uccidere. Anche la mafia.
Ma è un tempo di passione, inimmaginabile oggi. L’opinione pubblica vuol sapere, discute. Il problema meridionale, tra gli altri, scomparso oggi dalle agende della politica, è considerato allora un problema nazionale. Sembra che allora ci sia resi conto che non può essere risolto se i poteri criminali, la mafia e la ’ndrangheta, non saranno estirpati dalla Sicilia e dalla Calabria dove sono dominanti. (La camorra comparirà furente dopo il terremoto in Irpinia del novembre 1980. Per godere dei frutti della ricostruzione).
Africo suscita attenzione, dibattito, polemiche anche aspre. La televisione, TG2 Gulliver, gli dedica un documentario di quasi mezz’ora. Scrittori, politici, antropologi discutono in modo non formale di quel libro, tra gli altri Giorgio Amendola, Piero Bevilacqua, Vincenzo Consolo, Tullio De Mauro, Giovanni Giudici, Mario La Cava, Giovanni Russo.
Ad Africo il libro suscita scandalo. Per i più don Stilo è un benefattore, chi ha delle riserve su di lui tace impaurito. Per tutta una sera se ne discute nella sala del consiglio comunale del paese, tra insulti e qualche timida difesa. Il libro viene definito dai Dc di Africo «denigratorio e disgustoso», i comunisti sono prudenti – gli anarchici fanno ombra –, il prete è pur sempre un interlocutore.
Il 31 marzo don Giovanni Stilo «sporge formale querela contro l’autore e l’editore del libro Africo, nel testo del quale sono contenute numerose affermazioni diffamatorie, aggravate dalla attribuzione di fatti determinati e finalizzate – come emerge da tutto il contesto del volume – a ledere profondamente e irreversibilmente l’onore, il prestigio e la reputazione del querelante sia come uomo che come sacerdote».
La giustizia italiana è solitamente lenta. Non in questo caso. Il 18 luglio autore e editore di Africo sono invitati a comparire davanti al Tribunale di Torino, la città dove è stato stampato il libro.
Arrivavano nel mio studio di Milano telefonate di minaccia, anche di morte. Disturbanti. Pareva che quelle voci urlanti forassero i muri della quieta stanza. Giulio Einaudi, a Torino, trovava ogni giorno sottocasa uomini neri, immobili come le figure di uno sfondo di teatro. Disturbanti anche loro. Era come se facessero la guardia, intimidenti, all’uomo che li aveva offesi.
Un’aula del vecchio Tribunale torinese ospitava il processo. Il presidente, Elvio Fassone, fece in udienza l’istruttoria che il rito direttissimo non permetteva. Chiedeva, ascoltava, richiedeva, protagonista la ’ndrangheta calabrese portatrice di violenza e di morte.
Sedevo su una panchetta vicino a Giulio Einaudi nella luce flebile che veniva dagli alti finestroni. Don Stilo era arrivato a Torino con una piccola corte. I nostri avvocati, di gran nome, Vittorio Chiusano, Bianca Guidetti Serra e il più giovane Giampaolo Zancan erano esperti e agguerriti. I processi di mafia sono difficili, il mezzo che dimostra la verità di un fatto, la prova, è arduo. Non sono stati molti, negli anni, i processi di quel genere – mafia e informazione – andati a buon fine.
Elvio Fassone conduceva il dibattimento con autorità, non dava mai nulla per scontato. Capivo che il punto focale del processo erano quei nomi che nelle mie pagine non avevo fatto. Chi erano il coltivatore diretto, l’imprenditore, il professore di liceo, il commerciante, il sindacalista, l’impiegato? Erano persone in carne e ossa, non avevo inventato nulla di quel che mi avevano detto, a favore o contro il prete. Fedele allo spasimo. Non volevo dire chi erano, ben cosciente che alcuni di loro avrebbero rischiato la vita.
La richiesta del Tribunale era impellente, il processo era in bilico. Decisi così di fare il nome dell’allora presidente del Tribunale di Locri, Guido Marino, l’avevo incontrato un paio di volte parlando a lungo con lui. Anche se ora, per quieto vivere, avrebbe potuto dire di non avermi mai visto.
La sua lunga testimonianza davanti al Tribunale di Torino (il 13 novembre 1979) fu una vera lezione sulla ’ndrangheta e su don Giovanni Stilo su cui cementò le accuse e aggravò la posizione processuale di querelante. Fu essenziale per la mia assoluzione.
Ha scritto Elvio Fassone nella sua sentenza (Giurisprudenza Italiana, aprile 1982): il consigliere Marino «ha non solo confermato la genuinità delle dichiarazioni che Stajano gli attribuisce nel libro sotto un riguardoso anonimato, ma ha arricchito il quadro con l’esperienza che deriva a colui che per molti anni ha goduto di un eccezionale osservatorio, quale poteva essere l’ufficio di presidente del Tribunale di Locri. La definizione di «prete, sceriffo, governatore» se non si sustanzia di numerosi fatti concreti (al di là di quello, peraltro non insipido, nell’ottica dei rapporti mafiosi, dell’intromissione di don Stilo nel ratto di una maestrina sequestrata da mafiosi) ha però tutta l’autorevolezza della fonte qualificata ed esperta, avvezza a distinguere tra prova e sospetto, ma capace di percepire come il sospetto – in un ambiente come quello africota – possa anche significare prova abortita, o inquinata o intercettata».
La sentenza del giudice Elvio Fassone è stata per me più gratificante di tante lusinghiere recensioni di letterati illustri. Ha toccato, la miserabile vita di poveri cristi, la sopraffazione protagonista di un povero frammento dell’Italia abbandonata. Il diritto riconosciuto a chi scrive di informare, secondo le regole, di far conoscere le piaghe più oscure e torbide della società italiana fa da cardine alla sentenza.
Qualche cenno. «È bene premettere che il requisito formale della comunicazione del pensiero – e cioè la “continenza” dei modi usati – non è in discussione, poiché lo stile di S. è costantemente sorvegliato e l’autore rifugge per quanto è possibile dall’adottare espressioni o giudizi propri, ricorrendo quasi sempre a testimonianze e a riferimenti esterni […]. Vi è ampio ricorso ad otto fra stralci di sentenze, requisitorie, atti giudiziari o di polizia […]» (Il giudice cita i resoconti parlamentari, le interpellanze, un’intervista radiofonica, un servizio televisivo, atti di convegni, lettere, anche inedite, volantini, manifesti, documenti vari).
E poi: «La figura di don Stilo, pur essendo egli un evidente protagonista della storia locale, non la sovrasta, né la esaurisce. Non don Stilo, ma Africo è l’oggetto dell’indagine di S., perché è Africo il microcosmo dolente che riproduce pregi e difetti, speranze e corruzioni di tutto un modo di vivere, di una cultura e di un tessuto che sono i veri temi dell’impegno civile sotteso dal libro».
E ancora: «S. è minuzioso nel riferire tutti i dati reperibili, talora addirittura con la pedanteria di chi sa di camminare su un terreno minato, e vuole sottolineare ad ogni costo l’obiettività dei riscontri».
E infine: «Chiunque voglia fare applicazione di questi princìpi (il diritto alla comunicazione del pensiero ) alla materia trattata da S. […], quel cancro sociale che è la mafia nelle sue varie accezioni, si rende immediatamente conto di come una accurata, costante ed impegnata denuncia possa servire a quella maturazione collettiva delle coscienze che è l’unico argine possibile contro il fenomeno».
L’8 gennaio 1980 Giulio Einaudi e io fummo assolti dal Tribunale di Torino con la formula piena: «Il fatto non costituisce reato».
In quei giorni i giovani comunisti della costa jonica della Calabria stamparono e appiccicarono ai muri dei loro paesi un manifesto che diceva: «Ogni tanto la prepotenza non vince».
Per me fu una medaglia al valore.
C.S.
Milano, Luglio 2015