a cura di Massimo Gezzi
[Dopo la pausa estiva, riprende la rubrica aperiodica dedicata ai nuovi poeti nati negli anni Ottanta e Novanta. Oggi presento sette poesie di Luciano Mazziotta (Palermo 1984): le prime due sono inedite, le altre sono tratte da Previsioni e lapsus (Zona Editrice 2014, postfazione di Andrea Inglese). Mazziotta, specializzato in scienze dell’antichità, ha vissuto tra Palermo, Amburgo, Berlino e Bologna, dove attualmente insegna lingua e letteratura italiana nei licei. Prima di Previsioni e lapsus ha pubblicato la silloge poetica Città biografiche (Zona Editrice 2009), oltre che su numerose riviste cartacee e telematiche].
la foto di uno che è morto con uno
che è vivo. secolo ventuno.
unico arredo dell’abitazione.
i proprietari di sempre. col vivo
in ostaggio del male dell’altro.
la cornice prolunga il suo interno.
la casa è coperta così è la foto
di uno che è morto con uno che è vivo.
in ostaggio reciproco sotto
l’uscio ovattato del paguro.
lingua ametista malachite corallo.
noi non siamo all’interno di un futuro.
*
l’aria vera è dopo i vetri ma dentro
c’è un polmone che scoppia.
tra ventosa e mattone e poi
scoppia. ventosa e mattone e poi
scoppia. c’è un polmone convive
col rantolo di sottofondo.
combatte
col fiato col fiato. col fiato.
lingua di quarzo antracite cristallo.
noi non siamo all’interno di un passato.
*
AVVENIMENTI
Succede. È successo più volte
sempre quasi fuori quadro di sbieco
tra le tempie e le lenti.
Succede che qualcosa si rompe
che si sgretola il soffitto sul sofà
appena intravisto nell’atto
di cedere, di essere cenere
bianca: crepa.
……………….Avviene un principio
un seguito e un esito
che mentre succede accade una svista
ma già sapevamo sarebbe successo
che il bicchiere sull’orlo sarebbe
caduto.
…………Succede e anche spesso
dell’altro di fianco, un alone
di fatti, un lenzuolo disteso
che si alza atterra in giardino e ricopre
la nostra visione: un ospite
atteso e la pioggia di rane.
*
*del resto la fama non è che questa condivisione verbale dell’atto. e quella volta, per dire, non avevo detto nulla perché credevo, e non ero il solo, che, pensando di stare per morire, se lo avessi detto, sarei morto o divenuto un oggetto. però, mentre salivo le scale, cercando le chiavi, non ero sicuro di arrivare alla porta, e a ogni gradino, vissuto con sforzo, il precedente acquisiva importanza, diventava perfetto. e quando arrivavo, c’era sempre qualcuno che usciva, che non volevo parlare, perché se avessi detto, avrei detto io sono qui, come se l’altro non mi vedesse, fino a quel preciso momento. e lo dicevo infine. e lo ripetevo a me stesso di essere qui. e, chiudendo la porta, ero in un’altra città
*
Comparsa
Sono cose queste che sposti. Cose:
Accumulo sui mattoni costosi.
Cose disabituate ad essere usate.
Ho portato contenitori capienti
che possiamo riempire di oggetti
sollevati da terra coi guanti e
gettati nel fondo dei recipienti:
…………………………………dal pavimento
al cartone, dal disuso all’imballaggio:
è un ritorno allo stadio iniziale
che il soffio vitale del disinfettante
accelera – uccide batteri e inibisce
il contagio tra il mio tatto attuale
e quello remoto:
………………….anch’io domani
trasloco con gli altri cimeli
distinti in base a criteri
di inutilità e possibilità
di trasporto.
……………..Qualcosa è disperso
qualcosa è nascosto qualcosa
è in attesa di disposizione
in un altro cartone e bisbiglia
la cosa che teme accoglienza………… negata.
La camera è già semivuota.
Ti metti seduta a osservare
la mia frenesia di bilancio:
l’ultimo slancio – il frigo calato
in balcone – ed è ora
di chiudere a chiave gli avanzi
esclusi unanimemente o in conflitto:
domani anche noi saremo in affitto.
*
*era per dire perdere. come staccarsi un braccio, sin dall’inizio, che è quando si mettono api tra i nomi e le facce, che si usa, schioccando le dita, un pronome, che allontana e respinge. dopo gli spiccioli, dalle tasche che scivolano, vicini di poco alle scarpe, e scrosciano, che c’era, all’automaten, una travestita che li avrebbe voluti per sé, in ordine sparso e affrettato, che non li sceglieva per peso e valore. e non riuscivamo ad estrarli quelli incastrati tra mattone e mattone. e poi, di nuovo, il pronome, la tentazione dell’io che, a friedrichshain, non nomina e non si impossessa. dice a pochi, e dice di meno, che quello che dice lo dice per perderlo. ma c’era di più. c’è di più dopo le api e i lapsus, a berlino, come i cortili di milano, che solo dopo il corridoio c’è luce.
*
Non quadra
Ma nel cubo, da dentro
da dietro il quadrato si scopre
che era un movimento per conoscere
e controbilanciarsi.
Se è sano ciò che viene dopo il corpo
allora è solo mio il mio male.
Ma non c’è male che sia da solo.
Cioè: se ti pieghi e ti abbracci la pancia
come feto che stringi e che dici
è mio è mio, è questo possesso
che non riconosci per tutti.
Ma la curva, la piega, la presa è
esperienza di scarto, domanda:
cos’ha di comune quel male con me?
E non quadra, l’assunto non quadra
è solido un tratto che già si disgrega:
è come la casa in fondo alla nebbia
che dubito sempre ci sia sempre stata
la casa che in fondo alla nebbia
c’è sempre e resta insondata e non quadra.
Si dica, concludendo, movimento
………………………………………per conoscere
lo sforzo ché quadri
ché Malevič non lo hai mai capito e in fondo
nel quadro o il quadrato qualcosa
dovrà pur quadrare: il tempo
l’errore l’immobilità
ma l’occhio non sbatte e va avanti
di corsa: e non quadra, oscilla e non quadra
e se quadra è lì, di nuovo, che acceca:
alla sola condizione di
rallentare a ridosso della meta.
[Immagine: Thomas Demand, Daily #20 (gm)].