di Marco Grimaldi
Quest’estate sono andato al Futura Festival di Civitanova Marche. Il giorno prima aveva parlato Piergiorgio Odifreddi e qualcuno mi ha subito chiesto che cosa ne pensassi di un’idea del matematico impertinente: e cioè che gli ultimi canti della Commedia non li avrebbe scritti Dante ma uno dei suoi figli. Cado dalle nuvole, penso a qualche ricerca recentissima che ignoro; poi ipotizzo che Odifreddi abbia orecchiato e mal inteso gli studi di un mio bravo collega, Riccardo Viel, sulla possibilità che gli ultimi canti del Paradiso si siano diffusi in maniera separata rispetto al resto del poema e sul ruolo di Iacopo Alighieri nella pubblicazione dell’opera del padre. Al ritorno mi procuro l’ultimo libro di Odifreddi, Il giro del mondo in 80 pensieri (Rizzoli, 2015), leggo il pensiero dedicato a Dante, che s’intitola La Quarta Cantica (pp. 285-89), e mi accorgo che mi ero sbagliato. Nessun fraintendimento di ricerche in corso: è Odifreddi stesso che ha avuto l’idea. La storia potrebbe finire qui, basterebbe dire che l’idea è sbagliata, che l’ipotesi non ha fondamento. Ma l’episodio non è interessante perché Odifreddi sbaglia, quanto per i motivi che lo fanno sbagliare e per il modo in cui lo fa. E anche perché, sbagliando, mette allo scoperto alcune debolezze tipiche degli studiosi che, come me, si occupano professionalmente di Dante Alighieri.
Prima di annunciare la scoperta, Odifreddi espone le sue opinioni generali su Dante. Innanzitutto, Dante va ridimensionato. Quindi quello che abbiamo imparato a definire “il padre della lingua italiana” sarà solo un «umanista del suo tempo, intriso di superstizioni medievali» (p. 285). Odifreddi ha buon gioco, sia perché l’immagine tradizionale del Sommo Poeta (come ancora scrivono alcuni studiosi) è quella di un saggio infallibile dalla memoria portentosa, sia perché, a voler credere a certe tendenze della critica dantesca, Dante conosceva a menadito ogni opera filosofica e scientifica disponibile nel Medioevo. Tuttavia Odifreddi non si accontenta delle carte che ha in mano, ha bisogno di bleffare. Basta aver fatto un buon liceo per sapere che definire Dante un umanista è un’affermazione azzardata; che sia poi «intriso di superstizioni medievali» è lapalissiano, ma a Odifreddi piace precisarlo perché sa che il suo lettore medio sarà facilmente portato a riconoscere che, sì, Dante non doveva essere poi tanto intelligente se viveva nel Medioevo.
Un’altra ottima carta è quella del prestigio della cultura scientifica. Quando, per esempio, nota che Dante era «sapiente di Aristotele e Tommaso d’Aquino», «ma ignorante di Euclide e Fibonacci» (p. 285), Odifreddi sa che una larga parte dei suoi lettori ritiene più importante conoscere un po’ di matematica piuttosto che la filosofia e la teologia. La carta è talmente forte che Odifreddi può sottovalutare il fatto che Dante probabilmente Euclide un po’ lo conosceva (per via indiretta) e che possedeva una cultura scientifica di buon livello per le competenze medie dell’epoca. Certo, anche questa posizione può essere considerata una reazione alla generale sovrastima da parte degli studiosi di Dante. A volte una lode eccessiva finisce infatti per nuocere al padre della lingua italiana, come in fondo gli nuoce l’idea, piuttosto diffusa tra i professionisti della materia, che nelle scuole debba esserci più Dante. Nelle scuole c’è bisogno di uno studio più intenso della storia, della storia della letteratura, della lingua, dell’arte, della scienza. Allo stesso modo, gli studi danteschi hanno bisogno di meno Dante e di più storia, scienza, sociologia, antropologia. Solo in questo modo Dante può essere restituito alla modernità, non aumentando le ore di lettura della Commedia.
Ancora più interessante è che il prestigio della cultura scientifica spinge Odifreddi a disprezzare ogni altra forma di cultura. Per parlare delle possibili riscritture della Commedia, Odifreddi prende spunto dai saggi di Jorge Luis Borges e da un romanzo, La quarta cantica di Patrizia Tamà, che mette al centro della storia l’alchimia e immagina che sia esistita una ulteriore cantica nella quale Dante avrebbe svelato i misteri di quell’arcana disciplina. Per quanto strano possa sembrare, a Odifreddi lo spunto piace e finisce per sembrargli plausibile; e ricordando che anche Newton dedicò molti sforzi all’alchimia, ne deduce che «se persino la mente scientifica di Newton era caduta vittima del morbo alchemico, figuriamoci se non poteva cascarci anche la mente letteraria di Dante». Da questa frase discendono tutti i ragionamenti successivi. Il problema è che in questa frase quasi tutto è sbagliato. Innanzitutto, che cos’è una mente scientifica? E che cos’è una mente letteraria? Se Newton credeva nell’alchimia (e credeva pure a una cronologia geologica basata sulla Bibbia), si può dire che avesse una mente scientifica? E uno come Dante, che apre una sua poesia con una perifrasi astronomica che nessuna persona di media cultura scientifica saprebbe oggi interpretare senza un commento, che inserisce nel Convivio lunghe digressioni sulla struttura del cosmo e che, se la Questio de aqua et terra è opera sua, interviene autorevolmente in una disputa accademica sul rapporto tra i mari e le terre emerse, ebbene dovremmo credere che uno come Dante avesse una mente letteraria e basta? Dante aveva invece un’ottima conoscenza osservativa dei cieli, con tutta la precisione consentita dal sistema tolemaico; insomma, possedeva i dati sperimentali, ovviamente quelli disponibili a occhio nudo. E forse oggi pochi laureati in Fisica potrebbero competere con lui in questo campo. Ma tutto questo a Odifreddi non importa: la distinzione tra mente scientifica e letteraria gli serve per sostenere la superiorità tout court di quella scientifica e della sua mente, in particolare.
Che cosa crede infatti di aver scoperto la sua mente scientifica? Odifreddi parte da un episodio narrato da Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante, la più antica biografia del poeta: morto Dante, non si trovano gli ultimi tredici canti della Commedia; ai figli viene chiesto di completarla, ma poi Dante appare in sogno al figlio Iacopo e gli mostra dov’è nascosto il resto del poema. Odifreddi non si fida di Boccaccio (e fa bene), ma si fida un po’ troppo della propria intelligenza. Dovrebbe essere chiaro che il sogno è un’invenzione letteraria; ma lui va oltre e sostiene che «non ci vuol molto a immaginare cosa sia veramente successo: semplicemente, Iacopo aveva terminato il poema, ma per ragioni di marketing voleva attribuirne la paternità a Dante» (p. 288). E c’è di più. Forse si erano persino messi d’accordo, Dante e Iacopo. La prova sarebbero i versi 7-8 del canto XXV del Paradiso, «con altra voce omai, con altro vello / ritornerò poeta», che per Odifreddi alludono al cambio d’autore e nei quali Dante ci dice invece che, se dovesse un giorno rientrare a Firenze dall’esilio grazie alla gloria ottenuta con la Commedia, dopo aver attraversato i regni ultraterreni e aver visto Dio con i propri occhi avrà acquisito una nuova consapevolezza di uomo e di poeta. Per darsi ragione, Odifreddi ricorre però a uno strumento retorico sperimentato: nessuno ha mai avuto il coraggio di dire quel che lui ora sta dicendo perché «la Commedia è diventata una specie di Bibbia, e come tale non si presta a discussioni razionali né su questa, né su altre cose» (p. 288). Ancora una volta si parte da un punto di vista condivisibile: la Commedia è un caposaldo dell’identità italiana e da molti studiosi e dai lettori comuni è vista come un monumento da venerare; ed è vero che nella critica dantesca, come in quasi tutti i campi di ricerca relativamente ben consolidati, le idee nuove emergono con difficoltà. Ciò non vuol dire che un’idea eterodossa sia di per sé giusta. E soprattutto non è per nulla evidente che l’ipotesi di Odifreddi rientri nella categoria delle “discussioni razionali”. Sia chiaro, l’idea non è in sé logicamente contraddittoria; ma è insostenibile perché non la si può dimostrare, perché non è falsificabile. Inoltre, ammettendo che sia vera se ne dovrebbero trarre onerose ipotesi aggiuntive. Per esempio che se gli ultimi canti li ha scritti Iacopo lo ha fatto esattamente come avrebbe fatto il padre, con quella stessa abilità tecnica che qualsiasi lettore riconosce all’autore della Commedia e che è comprovabile nel dettaglio da molti punti di vista; mentre quando scrive la sua opera in versi, il Dottrinale, Iacopo fingerebbe di trasformarsi in un poeta mediocre.
Quella che segue è una dimostrazione del procedere razionale della mente scientifica di Odifreddi. A suo giudizio, il parallelo tra Bibbia e Commedia è giustificato dal fatto che per millenni si è ritenuto il Deuteronomio opera di Mosè scoprendo poi che «in realtà l’aveva scritto Giosia» (p. 288). Lasciamo perdere chi sia l’autore del Deuteronomio; il parallelo non sta in piedi perché di Mosè sappiamo pochissimo e di Dante sappiamo relativamente molto: sappiamo ad esempio che ha scritto la Commedia. Odifreddi ritorna quindi al punto da cui era partito, le riscritture della Commedia. Se il poema sacro non si può riscrivere dato che Dante non l’ha nemmeno finito, è legittimo chiedersi come andare oltre. E secondo Odifreddi la Commedia sarebbe già stata superata da altri poeti «di nome Galileo o Newton» e da poemi intitolati Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo o Princìpi matematici della filosofia naturale: «Poemi che sarebbe ora prendessero il posto del suo, o almeno gli si affiancassero, nei programmi scolastici e nella considerazione dei sedicenti uomini di cultura» (p. 289). Forse Odifreddi un po’ di ragione ce l’ha. Nei programmi ci sarebbe bisogno di più cultura scientifica; Odifreddi non è però il primo a essersi accorto di questa mancanza: se n’era reso conto per esempio Giacomo Leopardi nel 1827 quando nella Crestomazia della prosa italiana inseriva un’ampia scelta di brani di Galileo. Ma Odifreddi ama il paradosso e deve auspicare che il Dialogo sopra i due massimi sistemi prenda il posto della Commedia. E lo fa perché non riesce a uscire da un sistema di pensiero in cui la mente letteraria e la mente scientifica devono essere in conflitto. Per questo crede che la Commedia sia patrimonio di «sedicenti uomini di cultura» e che gli uomini di cultura veri, quelli come lui insomma, debbano smettere di perdere tempo con Dante per dedicarsi a Galileo e a Newton. Ebbene, questa conflittualità tra le due menti è tutta moderna: Odifreddi manca il bersaglio proprio perché né in Dante né in Galileo esiste una netta separazione tra scienza e letteratura. Dante non era uno scienziato, eppure sapeva di scienza; Galileo era uno scienziato, ma anche un fine letterato che annotò l’Orlando Furioso e la Gerusalemme Liberata e studiò la topografia dell’inferno descritto nella Commedia; e per le sue stesse ricerche scientifiche la lettura di fonti antiche fu un impulso fondamentale. Ma allora Galileo aveva una mente scientifica o una mente letteraria? E dobbiamo quindi rinunciare a Dante o a un’idea del tutto inattuale del conflitto tra le due culture come quella fatta propria da Odifreddi?
Tra Dante e Galileo non dovrebbe esserci conflitto. C’è solo se allo studio della storia e alle argomentazioni razionali si sostituiscono gli aneddoti e il paradosso e se il gusto della provocazione conta più della soluzione dei problemi. E i problemi che pone, malamente, Odifreddi, sono due. Primo: il culto di Dante può effettivamente ostacolare il rinnovamento degli studi letterari e mettere in ombra grandi capolavori come i Dialoghi di Galileo. Secondo: oggi, in Italia, c’è bisogno di più cultura scientifica e di più storia della scienza. La soluzione però non è eliminare Dante: è studiare Dante e Galileo nel loro tempo o attraverso Dante e Galileo approfondire la storia, la cultura e la scienza del Medioevo e dell’età moderna. Senza trasformare il poeta e lo scienziato in eroi romantici che si aggirano in terre desolate. E non pretendendo di scoprire qualcosa di nuovo senza studiare.
(Un’ultima considerazione, sugli strumenti scientifici. Odifreddi legge Dante con gli strumenti sbagliati. Cita saggi belli e interessanti come quelli di Borges; saggi che però hanno il difetto di non essere stati scritti per spiegare quando e come sia stata composta la Commedia, ma per fornire un’immagine complessiva di Dante a un pubblico il più vasto possibile o addirittura per riscrivere Dante. Sono saggi importanti, che gli specialisti conoscono bene, ma sono a tutti gli effetti “letteratura” e non lavori storici e filologici basati su prove documentarie e argomentazioni razionali. È come se io mi mettessi a studiare le galassie lontane senza i dati di Hubble ma presumendo di vederle con un cannocchiale per astronomi dilettanti di un secolo fa. È questa la mente scientifica di Piergiorgio Odifreddi?)
12 ottobre 2015
[Immagine: Piergiorgio Odifreddi]
Ho molto apprezzato questo articolo, tranne forse l’idea anche solo ipotetica che veramente si possa sostituire o affiancare alla “Commedia” la lettura dei testi (in quanto tali) di Galileo o Newton. Qualcuno di quelli che appoggiano questa proposta li ha mai letti veramente? Si pensa davvero che, al di là del valore scientifico dei contenuti, gli studenti apprezzerebbero la sostituzione e ne tratterrebbero giovamento per la propria autocoscienza linguistica? Odifreddi mi sembra, in quasi tutte le sue manifestazioni, un modello assoluto di scorrettezza intellettuale, ma lo spazio che gli viene concesso è uno dei sintomi del crescente consenso all’attacco frontale contro la cultura umanistica (e i valori non-economici in genere) che emerge ormai da molti fronti; soprattutto, ovviamente, da quelli che esprimono le posizioni dei blocchi di interesse più vicini al potere finanziario e ai suoi organi di propaganda, che di queste ingenue crociate a favore della cultura “scientifica” (cioè tecnica) si servono per acquisire ulteriori spazi di manovra e di mercato (scolastico, librario, lavorativo, politico).
Dire “mente scientifica di Odifreddi” è anche fargli un complimento. Quindici anni fa ho apprezzato il suo libro La matematica del Novecento, ottima opera di divulgazione, ma col tempo si è rivelato una mente limitata, manichea, con preconcetti e scarsa capacità di dialogo. Un saluto.
Bravo Marco Grimaldi. Basta con la legge del taglione tra “umanisti” e “scienziati”: certi dantisti danneggiano Dante con le loro cattive difese; lo stesso fanno certi scienziati con la scienza.
Che cosa se ne fa, Piergiorgio Odifreddi, di tutti quei libri alle sue spalle (per lo più, immagino, copie omaggio) se poi si mette a scrivere simili castronerie?
Odifreddi sente il bisogno ( problematica psico-emozionale? ) di essere al cento dell’attenzione, anzi: di sentirsi il centro dell’attenzione. Pr far questo azzarda ipotesi presuntuose che gli si ritorcono contro: basta pensare al suo introibo in un opera dedicata alla teologia che dice: “ancora una volta tocca ai matematici spiegare…” ossia, non il teologo può affrontare il tema di Dio, ma è il matematico che può affrontarlo e spiegarlo. Fino ad ora non ho avuto occasione di incontrare alcuna equazione divina ma, tuttavia, la matematica odifreddiana può tutto!! Non importa se il 96 % della creazione ( la materia scura) di cui parlano gli astrofisici ( che sono anche matematici) non si comprende e non si capisce che ruolo svolge, quel che conta è che Odifreddi è in grado di spiegare il Creatore anche se si sa poco della sua creazione. E’ mio parere che Odifreddi non va preso in considerazione quando lascia il suo orticello fatto di numeri. Però nulla toglie che sia molto bravo nel trattare e a dare i numeri, le cifre in matematica
“ Lunedì 21 dicembre 2009 – « Ha frequentato i primi quattro anni delle elementari dalle Suore Giuseppine, e la quinta elementare e le tre medie nel Seminario Vescovile di Cuneo. Tra i suoi compagni di allora monsignor Celestino Migliore, nunzio della Santa Sede alle Nazioni Unite, ricorda come all’epoca si raccontasse che il giovane Odifreddi fosse uscito dal Seminario nel 1964 a causa di un calcolo (poi confermato dagli eventi successivi al 1978) della bassa probabilità per un italiano di diventare Papa nell’era postconciliare. Ha frequentato l’Istituto Tecnico per Geometri a Cuneo, avendo tra i suoi coetanei e compagni Flavio Briatore, col quale non ricorda di aver mai scambiato una parola. In quegli anni si allenò con il più anziano Franco Arese, campione europeo dei 1500 nel 1971, che invece lo ricorda come « un bel mezzofondista ». “ (Da Wikipedia) “
Grazie a Grimaldi, un tema importante e un punto di vista intelligente.
Mi permetto di fare un’osservazione.
Perché Odifreddi non sarebbe falsificabile? La sua interpretazione di quel verso di Dante, dalla quale egli desumerebbe l’intervento del figlio nella conclusione del poema, è, io credo, falsificabilissima con gli strumenti seri e positivi degli studi linguistici, storici, letterari. Nessuna persona seria, fra quanti studiano Dante, può pensare che basti interpretare alla lettera un verso, come Odifreddi fa, per poi trarne conclusioni apodittiche. La sua interpretazione è degna di uno studente corto d’ingegno, ignora generi letterari, metaforicità del linguaggio, storicità delle opere… Che poi paia al matematico impertinenete logica dimostra solo la sua arroganza intellettuale nel credere che posseduta la logica formale si possa parlare di tutto, dalla storia alla teologia alla fisica.
Poveretto lui.
Boh, io sono dell’idea che anche la divulgazione debba essere fatta da specialisti nella propria materia, fermo restando il coltivare una buona interdisciplinarità. Io comunque non penso che Odifreddi ce l’abbia con Dante in senso “illuminista” in quanto scrittore di temi religiosi, ma più che altro con gli interpreti di Dante che non lo “attualizzano” evidenziando aspetti slegati dal sacro, anche se ciò vuol dire dilungarsi molto meno su aspetti teologici ed ecclesiastici che in effetti hanno sapore quasi sempre da lettura “archeologica”.
Comunque ha poco senso ritenere Dante “intriso di superstizioni medievali” come ad esempio l’astrologia, in quanto in quel contesto tolemaico sembrava un’ipotesi accettabile ritenere che al pari del sole che genera le stagioni e alla luna che genera le maree, anche gli altri pianeti (dato che si riteneva girassero intorno alla terra come sole e luna) dovevano avere influssi sulla terra. Insomma anche facendo gli “illuministi” non si dovrebbe disprezzare “i miti” a cui si credeva da bambini, in quanto legati proprio a quell’età.
Ritengo però che questo conflitto di “cultura scientifica” e “cultura umanistica” sia dovuto non solo a membri della “cultura scientifica” che vedono la cultura umanistica come “inferiore” o al massimo portatrice di “emozioni”, “fantasie” o “opinioni soggettive” ma anche a molti membri della “cultura umanistica” che si ritengono orgogliosi di essere “inutili”, importanti solo per “nutrire lo spirito” o cose simili, ignorando che nessun esperimento scientifico o teorema matematico può dare valore intersoggettivo ai diritti umani, a concludere dibattiti su problemi di bioetica e altri problemi importanti nella vita pratica degli uomini del mondo d’oggi.
“ Domenica 8 maggio 2005 – « “ Sccc… sccc… scientificamente “ » (I soliti ignoti, Monicelli, 1958) “.
“Sia chiaro, l’idea non è in sé logicamente contraddittoria; ma è insostenibile perché non la si può dimostrare, perché non è falsificabile”
Domanda: anche idee come ritenere la “donazione di Costantino” come opera di Costantino e il ritenere i “Protocolli dei savi di Sion” come opera di un gruppo cospiratorio di ebrei sono “non falsificabili”?
La questione è più sottile: Odifreddi, pur esprimendo fondamentalmente posizioni reazionarie e macchiettistiche o forse proprio per quello, è l’editorialista di punta, per queste faccende, di Repubblica, giornale che si rivolge ad un pubblico di lettori tipo Grimaldi, Stella e molti altri affini a questo sito. Odifreddi, come maramaldo rodomonte adatto a queste acque (e non come scienziato o magari come scientista) ha anche largo ascolto anche presso RCS e Mondadori, visto che pubblica libri per loro ed altri maggiori da quindici anni. Un interrogativo sarebbe: cosa ha trasformato il gentile e neutrale divulgatore de “La matematica del Novecento”, Einaudi, 2000, nel vociante Dulcamara degli ultimi cinque-sei anni? Un interrogativo migliore sarebbe: perché a questo Odifreddi viene concesso tanto spazio nell’editoria maggiore? La mia risposta è che questo Odifreddi è, ahinoi, adatto al pubblico di riferimento che dovrebbe leggerlo ed infatti lo legge, quindi funzionale ad alimentare le polemichette irrilevanti, malposte e tutto sommato trascurabili di questo topic, dei commenti già messi e di quelli che ancora prevedibilmente seguiranno. Stiamo tutti abboccando all’amo ma sperabilmente nessuno prenderà sul serio queste faccende.
L’arroganza di Odifreddi non è quella dello scienziato, cosa che Odifreddi non è e non sarà mai (e dimostra di non sapere nemmeno cosa voglia dire essere, nel suo sciagurato e inestinguibile chiacchericcio da bar); è quella dell’uomo di spettacolo, di colui che è in quanto appare e appare in quanto un’industria lo mette al centro di un palco e sotto dei riflettori. In questo caso, messo alla ribalta è il matematico razionalista, in una versione caricaturale (ma i modi di apparizione nei media “caldi” non possono che essere caricaturali) utile a polarizzare gli uditori, generare scandalo e dunque riverberare la fama del personaggio.
Tutto ciò con qualsiasi nozione di scienza, che sia scienza umana o matematica o biologica, non ha nulla a che vedere. La scienza non è cosa che si fa in quei libricini a caratteri grossi e privi di note che pubblica il sig. Odifreddi, nè negli studi televisivi dove il nostro fa le sue comparsate, tantomeno nei blog su Repubblica.it.
Questa roba è carne per gli studenti di triennali squalificate che si gettano entusiasti nell’autoriconoscimento sociale del ruolo di scienziato per il solo fatto di affermare apoditticamente una propria adesione ad un metodo scientifico o le proprie nozioni di una qualche ingegneria, salvo poi esercitare queste competenze in titaniche lotte contro i sostenitori delle teorie del complotto più assurde, in spregio di quell’elegante (e basilare) strumento razionale che è il rasoio di Ockham.
E’ identificabile, in internet, una ondata di neoneopositivismo di massa aggregatasi intorno alla cultura nerd, e in particolare intorno a una nozione semplicistica e identitaria di scienza che si è venuta a creare. Semplicistica perchè fondata su nozioni del metodo perlopiù elementari, su una gran massa di opere divulgative spesso di qualità modesta (come quelle di Odifreddi) e un’esperienza di scienza praticata assai più ristretta. Identitaria perchè fondata su un riconoscimento simbolico nel campo di una comunità della scienza e della razionalità cui si contrappongono le comunità della non scienza e non razionalità, perlopiù composte da nebulose e tendenzialmente sempre più indistinte schiere di complottisti e fedeli religiosi, ambientalisti e nemici vari del progresso, senza farsi mancare l’immagine comoda e sempiterna del pedante intellettuale umanista fuori dal mondo e con la puzza sotto il naso, pieno di nozioni inutili e assurde e pieno di sè, figura cui viene tendenzialmente ascritta una generica mancanza di cultura scientifica nel sistema educativo italiano (polemica vecchia, questa), nella più classica delle forme di cementazione identitaria di una comunità in formazione: quella dello stato di assedio permanente da parte di un nemico immaginario.
Se non fosse per lo stato deplorevole cui sono ridotte le scienze umane nella società italiana (di fuori non so) contemporanea, dubito che gli esercizi infantili di critica testuale che gente come Odifreddi e, nel loro piccolo, numerosi pararazionalisti infoiati in quel rito internautico di pedanteria di massa che è l’esercizio del debunking (quello che, fatto con altro rigore e serietà, in contesti di altro rigore e serietà, chiameremmo critica del testo e delle fonti).
mi accorgo di avere tagliato l’ultima frase…
vabbeh, il senso è: dubito che tutta questa parascienza che è il vestirsi da scienziati senza esserlo, agire una rappresentazione teatrale dello scienziato ad uso e consumo della costruzione della propria identità, in un contesto in cui le scienze umane non fossero nell’attuale stato deplorevole (stato perlopiù autoinflitto in decenni di dissoluzione postmodernista di qualsiasi rigore logico-critico), sarebbe possibile. Questo perchè, per quanto possa essere paradossale, i termini del discorso parascientifico identitario, sono proprio i termini consentiti da un lassismo generalizzato e un’ignoranza diffusa dei criteri della critica e dell’uso delle fonti testuali.
E’ diventata insopportabile l’invadenza e incompetenza di Odifreddi.
“ Giovedì 30 dicembre 2010 – Piergiorgio Odifreddi, C’è spazio per tutti, Milano, Mondadori, 2010. (Di tempo, invece, non ce n’è più per nessuno?) “.
Odifreddi è una specie di stalinista della cultura. Se fosse per lui, istituirebbe dei campi di rieducazione per intellettuali borghesi in nome di un grottesco realismo scientifico-socialista.
Sospendo le critiche, però ci tenevo a lasciare un commento a questo bellissimo articolo, da me letto come un tentativo autentico (e intellettualmente onesto) di conciliare scienza e letteratura. Sì, perché come ex scienziata e attuale traduttrice editoriale ogni giorno mi scontro con il fatto che ancora nel 2015 il verbo giusto da usare sia proprio “conciliare”. Quindi grazie!
Intervengo brevemente dalla mia postazione di insegnante di lettere in un Istituto tecnico. Nelle antologie scolastiche sono presenti brani di Galileo e di Newton, come di altri filosofi e scienziati. In parte ci sono sempre stati, in parte sono stati incrementati da quando la riforma Gelmini ha stabilito che negli istituti tecnici e professionali anche la storia e la letteratura debbano riguardare (almeno in parte, perché in tutto è impossibile) tematiche inerenti la scienza, la tecnica etc.
Indubbiamente qualcosa si fa e qualcosa è giusto fare, quanto a Galileo, lo si studia e lo si legge, ma è un autore difficile, sia per il linguaggio, sia per il tenore di certe argomentazioni. Francamente trovo assurda l’idea di sostituire Dante con Galileo: Dante è un pilastro della letteratura mondiale, è parte irrinunciabile del patrimonio che crediamo opportuno trasmettere alle generazioni che vengono, è sotto molti aspetti godibilissimo anche da ragazzi con limitati mezzi culturali: certo, dipende da cosa si fa, a che livello si approfondisce, che cosa si pretende. Secondo me. Ma io sono della vecchia guardia, eh.
L’ottimo Piergiorgio Odifreddi, di cui io sono un convinto ammiratore e frequentatore del blog su Repubblica, risente di un pregiudizio negativo contro Dante. Il probabile motivo è che Dante rappresenta per lui il simbolo di quella prevalenza di cultura umanistica che lui vorrebbe correggere (e su questo è d’accordo anche l’ottimo Grimaldi) con un incremento di formazione scientifica nelle scuole.
Ne ho già discusso con lui alcune volte, ed è un peccato che Odifreddi non veda quello che anche Grimaldi suggerisce: Dante era senza dubbio un uomo di culltura medievale ma era anche per molti versi robustamente “razionale”.
Odifreddi ricorda spesso il fatto che Petrarca definì Dante un “poeta da osteria”, ma senza dubbio Petrarca fu parecchio più (pre)umanista di Dante e diede inizio ad un lunghissimo filone di lirismo psicologista amoroso a cui Dante certamente non appartiene.
Non conosco le opere filosofiche di Dante, ma recentemente ho ripreso in mano la Vita Nova ed è interessante quel modo di riorganizzare i propri componimenti giovanili, dividerli in parti, spiegarli come elementi di un percorso di maturazione sentimentale (e in parte anche artistica).
Quando Dante personifica Amore che gli appare in sogno, gli fa dire in latino: “ego tamquam centrum circoli, cui simili modo se habent circunferentiae partes, tu autem non sic” – forse questo potrebbe far cambiare idea ad Odifreddi…
Articolo ineccepibile. Complimenti.
Vorrei rispondere a Daniele Lo Vetere, perché credo che possa essere utile un chiarimento lessicale.
Quando l’articolo parla di “falsificabilità”, credo lo faccia nel senso tecnico che questo termine ha nella filosofia della scienza. L’interpretazione data da Odifreddi al verso di Dante (cui si riferisce Lo Vetere) è tecnicamente non falsificabile: come si potrebbe provare su base empirica che Dante, nel momento in cui scriveva quel verso, non avesse in mente proprio ciò che Odifreddi gli attribuisce? Si possono invece certamente suggerire argomenti razionali che dimostrano (non nel senso della matematica né in quello delle scienze sperimentali, ma in un senso altrettanto degno di rispetto e altrettanto tipico di una specifica tradizione culturale) che quell’interpretazione è sbagliata.
Quanto alla tesi generale di Odifreddi, “gli ultimi canti del Paradiso sono stati scritti dal figlio di Dante” è una proposizione protocollare relativa a un evento puntuale di un passato lontano, e in quanto tale rappresenta un tipico esempio di affermazione che rispetta un criterio di faslificabilità in astratto, ma non in concreto (come affermare che “domani l’umanità pronuncerà 70000000000000 parole”). Soprattutto se uno è disposto a moltiplicare con disinvoltura le assunzioni necessarie a tenere in piedi la tesi.
Scrive Diego Marconi che “il più delle volte gli interventi mediatici dei filosofi non hanno un vero contenuto filosofico, nemmeno divulgativo. Sono contributi a una discussione quali potrebbero essere forniti da un cittadino qualsiasi, persona magari colta e intelligente ma non particolarmente competente – se non per caso – sul tema su cui è chiamato a intervenire.” (Marconi, D. “Il mestiere di pensare”, Einaudi, Torino 2014, p. 55)
Vale per i filosofi come per i matematici o gli scienziati in generale. Vale per quegli intellettuali che pontificano sulla scienza.
Questo non vuol dire non avere delle opinioni, ma delle opinioni appunto, espresse magari da uno specialista che però parla di cose che non sono pertinenti al suo campo. Il rischio di un irritante dilettantismo (e questo mi pare il caso) è molto reale.
Mi vengono in mente, a questo proposito, le esternazioni (e i libri) che talvolta fanno scienziati messi sulla ribalta dei media (mi riferisco in particolare alla fisica e alla cosmologia) relative a inferenze para-filosofiche – se non teologiche – fatte a partire da particolari programmi di ricerca, esclusivamente teorica, di cui non si ha per il momento nessuna evidenza empirica. Mi viene anche in mente mio padre, un fisico nucleare, che spesso recitava con piacere versi dai canti della Divina Commedia.
Tutto fin troppo condivisibile: ma discutere delle fesserie storico-letterarie di Odifreddi significa concedergli quel che non gli spetta, significa prenderlo sul serio.
Piergiorgio Odifreddi è (o almeno è stato) un buon informatico, competente nel suo campo specifico di applicazione (computabilità formale, lambda calculus, ecc.). Appartiene ad una categoria abbastanza diffusa (io stesso ne faccio parte): quella degli scienziati quantitativi parzialmente informati, più odiosi, a mio avviso, di quelli completamente privi di ogni cultura umanistica.
Lo scienziato parzialmente informato sarà in grado di individuare temi di discussione umanistici potenzialmente interessanti e magari anche di associare loro parole chiave corrette che gli permetteranno di argomentare la sua opinione in merito con una parvenza di professionalità accademica (questione di stile che trascende i confini delle discipline).
Il problema, purtroppo, è che lo scienziato quantitativo parzialmente informato non si renderà mai conto del suo dilettantismo. Penserà che le sue idee e conclusioni esauriscano la complessità del problema, quando in realtà ne appena scalfiscono la superficie. Il fatto che spesso esponenti umanistici “dell’altro schieramento” liquidino la profondità di certi sviluppi matematici o visioni fisiche della materia vivente e non vivente con un certo disprezzo, camuffato da un uso decorativo di termini di filosofia della scienza (spesso caricaturale perché, appunto, solo parzialmente informato), non autorizza lo scienziato quantitativo a ripetere esattamente lo stesso errore.
Se la specializzazione delle discipline impedisce la comprensione dei dettagli dei diversi saperi, non dovremmo rinunciare, da veri umanisti, a capire la sostanza del modo di pensare dell’altro, con umiltà, rispetto e sincera curiosità, piuttosto che scimmiotandone i tecnicismi specifici.
Nell’epoca delle crescite esponenziali e delle “utopie” della singolarità, si pone più che mai l’urgenza di una ri-educazione profondamente umanistica degli scienziati quantitativi.
Articolo fin troppo condivisibile.
Ma discutere delle fesserie storico-letterarie di Odifreddi significa concedergli quel che non gli spetta, significa prenderlo sul serio.
Ringrazio Uagi della precisazione lessicale.
Sì, naturalmente usavo “falsificabile” in un senso non molto stretto. “Smentibile con argomenti razionali” è più corretto.
Che il dogmatico Odifreddi abbia successo come paladino della “mente scientifica” la dice lunga sullo stato della cultura scientifica in Italia.
Credevo che la polemica storica,sterile e deleteria del secolo scorso sulle due culture fosse archiviata.Vedo invece che qualcuno la alimenta forse strumentalmente.
Sostenere che esiste una mente letteraria contrapposta a una mente scientifica è scientificamente inconsistente.Esiste certamente una differenza tra le scienze cosiddette dure e le scienze umanistiche ma questa riguarda le diffferenti metodologie di indagine non certo il rigore dell’analisi delle questioni che deve sempre essere “scientifico” secondo i canoni riconosciuti dalle rispettive comunità internazionali
Stiamo attenti comunque che anche tra coloro che si autodefiniscono difensori della “cultura umanistica” ci sono in realtà sostenitori di una cultura parolaia e retorica che a costo di difendere dogmaticamente le loro idee si rifiuta di considerare i risultati della scienza, come gli aristotelici che dicevano che se il cannocchiale di Galileo confuta le teorie di Aristotele allora non è Aristotele che sbaglia ma il cannocchiale che deforma i dati (esempi di oggi possono essere i vaccini, il rifiuto di considerare i dati ocse pisa sulla scuola e così via…).
Peraltro una buon modo per invitare a vedere come più simili tra loro le “due culture” potrebbe essere dare più spazio nelle scuole ad esempi di “metodo storico” del tipo “come si confrontano le fonti primarie per capire cosa è davvero successo nella battaglia di Kadesh” e “come si fa un’analisi filologica per capire che la Donazione di Costantino non risale a Costantino”. In tal modo si evita di dare ai “saperi umanistici” l’idea che siano “gusti soggettivi” dove anche il non esperto può “dire la sua” senza una preparazione adeguata di metodo.
“ 8 luglio 1985 – Secondo Charles P. Snow l’idea che il mondo finisca in un gemito (Eliot) è scientificamente inattendibile. Sic, in Le due culture, 1959. “
La risposta a GiuseppeC (che pone una questione giusta: Odifreddi non e’ esponente della cultura economicistica e neoliberista che combatte gli studi umanistici, ma della cultura della cosiddetta sinistra) e’ la seguente: Odifreddi trova spazio e credito in molti ambienti perche’ e’ anti-cattolico, e questo spiega anche la sua avversione ridicola a Dante
Ho letto molte informazioni inesatte e molte critiche pregiudiziali a carico di Piergiorgio Odifreddi. Tra l’altro, il fatto che sia chiamato a partecipare a trasmissioni televisive e radiofoniche (oltre che a importanti convegni) non autorizza affatto a chiamarlo “uomo di spettacolo”. Odifreddi è uomo di cultura e di scienza, e chi conosce i suoi libri – magari non soltanto “perché non possiamo essere cristiani” – sa di cosa parlo.
E’ onesta e condivisibile la posizione di Marco Grimaldi, il quale critica l’errore di metodo di Odifreddi nel caso specifico di Dante e del Paradiso senza però trarne arbitrarie illazioni sulla qualità generale del lavoro di Odifreddi.
” Mercoledì 1 novembre 2006 – « Così questo Matematico impertinente si snoda, per un’ora e mezza, tra sette brevi “ lezioni “ dello studioso, filmati e apparizioni di una bellissima attrice, Selena Khoo (“ una malese non male “, dice Odifreddi, che non scherza solo coi numeri, ma anche con le parole). » (Dai giornali) “.
Non comprendo come mai alcune persone scrivono sul computer guardando nello specchio, a volte addirittura deformante, e con facilità addossano agli altri, in questo caso Odifreddi, tutte le brutture che vi scorgono. Addirittura alcuni presi da crisi di sconforto cercano, inutilmente, di dimostrare, con parole senza senso, di essere diversi o più bravi di quello che vedono riflesso nello specchio.
In una conversazione una volta un matematico citò Dostoevskij; gli chiesi dunque se avesse letto “I fratelli Karamazov”, l’opera cui si richiamava; mi rispose “No. Ma posso parlarne per un intero pomeriggio”.
Tutto giusto: Dante è insostituibile, Odifreddi è irritante, la distinzione mente umanistica/mente scientifica non ha senso.
Eppure perché io, che sto per laurearmi in lettere moderne, non ho gli strumenti né le conoscenze per smentire la tesi di Odifreddi, né nessun altro studio di settore? E’ sicuramente anche colpa mia, ma soprattutto niente di tutto questo mi viene insegnato. La maggior parte dei professori ci tratta come ragazzini delle elementari, al massimo pretendono la pedissequa ripetizione del manuale, la capacità critica non si sa dove stia di casa, non esiste un corso in cui mi sia stato spiegato/messo in programma un critico letterario né italiano né straniero. E’ molto frustrante, dato anche che con un minimo di impegno ho una media che è molto più vicina al 30 che al 29.
Rispetto ai miei coetanei che studiano materie scientifiche, studio (forse) la metà. Ho conoscenze vaghe, non approfondite, ma sempre tante in confronto alla maggior parte dei miei compagni di corso. Di “strumenti seri e positivi degli studi linguistici, storici, letterari” neanche l’ombra, non mi vengono insegnati strumenti né metodi, nonostante tasse alte e titoli altisonanti elargiti in uscita: quando va bene regnano l’erudizione e il nozionismo. Mi vergogno di riferire lo svolgimento e il voto dei miei esami di fronte a chi tra i miei compagni di classe ha scelto medicina, chimica, fisica, biotecnologie.
Forse la questione materie scientifiche/materie umanistiche non è tanto sulla sostanza, quanto sull’approccio; vedo intorno a me una marea di persone, sia studenti che professori, che si riempiono la bocca di espressioni come “cultura umanistica”, “capacità di analisi”, “profondità intellettuale” come baluardo da opporre a discipline che hanno e trasmettono un metodo ben preciso e lasciano in mano agli studenti delle reali capacità. Non so se tornando indietro mi iscriverei di nuovo, specialmente ripensando alle obiezioni di genitori e amici alla mia immatricolazione. Tra l’altro, giusto per prevenire le critiche, frequento una facoltà considerata una tra le migliori pubbliche in Italia.
E’ tutta una mia impressione oppure c’è un fondo di verità? Professori, vi prego, smentitemi
Gentile Cosini, se studia meno dei suoi colleghi scientifici allora si dia da fare, siamo in Italia, il materiale non le manca! Lo studioso umanista è sempre un po’ autodidatta, non ha bisogno del cane da guardia. Buone cose.
gabriele fratini la sua e una risposta davvero ridicola a un problema serio, come sempre voi professoretti che non guardate mai al di fuori dei quattro libri di letteratura italiana che avete letto
siete del tutto incapaci di autocritica, ma non cambierete mai potrete soltanto scomparire
i clericali all’attacco di Odifreddi cosa ha a che fare la marematica con dio tirato fuori ad ogni piè sospinto, se credete nelle favole come verità rivelata toglietevi dai piedi dai discorse razionali – Dante aveva la mentalità scientifica che gli veniva dal quadrivio che era la summa del sapere e letteraria e scientifica e musicale – non gli si può chiedere di più, la sua mentalità enciclopedica informava di se gli intellettuali del medioevo
Gentile Federico anonimo, non sono professore, semmai sono stato studente e all’università non avevo bisogno che i professori mi dicessero cosa studiare, per studiare.
Non pretendo cani da guardia, pretendo per lo meno delle lezioni valide e dei percorsi di studio che rispecchino le promesse fatte al momento dell’iscrizione; mi scusi, ma altrimenti perché ci sarebbe bisogno dell’università? Avrei potuto studiare da autodidatta a casa mia.
Il problema sollevato da Zeno Cosini (lo sa, a proposito, che si chiama proprio come il protagonista di uno dei miei romanzi preferiti?) è reale e non può essere liquidato “alla Fratini”. Gabriele, lei (secondo me) si sbaglia almeno per due ragioni: 1) se non servono i professori che dicano che cosa studiare e come, allora non serve l’università. Un professore deve guidare uno studente, senza perciò esserne il cane da guardia; 2) in nessun campo lo studio da autodidatta può essere considerato un metodo valido; il livello di specializzazione richiesto dalla scienza (dura o molle che sia) richiede un apprendimento che solo il contesto accademico può dare. Naturalmente esistono anche illustri eccezioni. Ne cito una su tutte, fuori dal campo umanistico: Guglielmo Marconi. Ma è un’eccezione, appunto, e non si può ragionevolmente chiedere a tutti di essere Marconi (inoltre, da Marconi a oggi, le cose sono ulteriormente cambiate).
Se le scienze umanistiche vogliono rispondere adeguatamente ai colpi che vengono loro inferti dai tempi moderni, rintuzzando (fra gli altri) anche gli attacchi prodotti da quella mentalità di cui il mediocre Odifreddi è esponente, devono certamente rispondere a quanti, come Zeno, (si) pongono certe domande.
Per sgombrare il campo da equivoci, io sono un docente universitario (di linguistica italiana, in Repubblica Ceca), nonché ex studente (in Italia).
Ultima considerazione: di Odifreddi, nella comunità scientifica, non c’è traccia. Non pubblica, è citato, non produce nuove conoscenze, non esercita alcun controllo (per fortuna) sul mondo accademico italiano e internazionale. Odifreddi è un affabulatore che, probabilmente grazie a buoni agganci e un certo savoir faire, ha avuto successo editoriale. Il problema è chegli stessi pregiudiz di Odifreddi (parlo della visione manichea della scienza, divisa in scienze molli e scienze dure, e della superiorità di queste ultime sulle prime), in forme probabilmente meno rozze, inquina il pensiero di persone ben più intelligenti e influenti (a livello accademico e a livello politico) di lui. A queste persone occorre dare meno appigli possibile per smantellare una parte di ciò che chiamiamo cultura.
“ 13 marzo 1987 – Il signor di Rollebon chi era costui e Antoine Roquentin quanti anni avrebbe se fosse vivo ma è morto proprio qualche anno fa morto è l’Autodidatta: pure lui. Nausea? Nausea di che, scusi? Di chi? Acqua passata. Ne è. Sotto i ponti. Di Toko Ri? Di Pasqua? La capra crepa. L’auto didatta. Il signor di Roller Ball. Antoine? Rockentin. “
@ cabellen:
“Ho letto molte informazioni inesatte e molte critiche pregiudiziali a carico di Piergiorgio Odifreddi. Tra l’altro, il fatto che sia chiamato a partecipare a trasmissioni televisive e radiofoniche (oltre che a importanti convegni) non autorizza affatto a chiamarlo “uomo di spettacolo”. Odifreddi è uomo di cultura e di scienza, e chi conosce i suoi libri – magari non soltanto “perché non possiamo essere cristiani” – sa di cosa parlo.”
Concordo nel voler omettere “Perché non possiamo essere cristiani” tra le opere degne di nota di Odifreddi.
È molto meglio che si limiti a discettare di ciò che conosce (logica matematica), senza millantare o presumere conoscenze che non ha, se non rudimentali o proprio erronee.
Gentile prof. Bianco,
a differenza delle scienze (in cui magari necessitano laboratori macchinari istruzioni precise…) , negli studi letterari un professore può insegnarti fino a un certo punto, poi dipende da te. Insomma non serve una guida per leggere i classici della narrativa o la critica fondamentale, per vedere musei andare a teatro in biblioteca ecc. Questo intendevo dire al netto di tutte le disfunzioni accademiche. Damose da fa, non lamentiamoci sempre. Saluti.
Grimaldi Grimaldi… non so che posizione in classifica ha lei nel campionato dei filologi danteschi ma per come la vedo io con questo articolo non porta a casa manco il punticino: mica perché non è scritto bene o dice fesserie – figuriamoci, è scritto bene e dice ragionamenti belli, ma perché questa non è nemmeno un’amichevole. Bastava infatti l’ultimo paragrafo del suo articolo per evitare ogni relativa discussione sull’argomento; e le dicerò di più: bastava anche e soprattutto per non scriverlo proprio ed evitare di scendere in campo.
Zeno, la descrizione del mondo accademico-umanistico che fai mi sembra onesta e giusta, forse un tantino troppo permissiva e ottimistica. Comunque, gli enti che fanno cultura e informazione funzionano più o meno così, tenendo il volume degli enunciati a livello dei clienti e del mercato che hanno loro lì dentro all’università e voi fuori. Quindi c’è poco da stupirsi. Anzi, ti dirò di più, mi pare che nel mondo accademico-umanistico sopravviva un livello fin troppo alto… Dici che frequenti un’ottima pubblica, vuol dire poco. Se anche tu frequentassi la migliore pubblica o la migliore delle private, avresti in più solo maggiore organizzazione e puntualità dei corsi. Se ti aspetti altro stai fresco.
Ad ogni modo, Fratini sarà stato un po’ stracciato nei modi, mi sa che l’hai fatto spazientire, ma dice pure lui la verità: devi fare da solo, c’è poco da fare – è una possibile grande fortuna; e se vuoi un altro consiglio, se vuoi capire qualcosa di letteratura, non studiare i critici letterari (ringrazia la tua università che non c’ha fatto un corso), ma gli artisti che ne hanno fatta; va da sé che se ti metti a scrivere pure tu è meglio, ma l’importante è che vai alle fonti e le fonti non saranno mai i professori, ma i testi. Se poi vai alla ricerca di maestri, sappi che raramente se ne trovano a scuola o all’università. Di solito si trovano fuori (se si trovano).
L’ultima cosa che ti voglio dire e poi la finisco di fare il pesante: il mondo del lavoro lo sa che a Lettere non fate niente. Tradotto: devi fare tu (essò due). Oppure dopo che ti sarai laureato anche alla specialistica (di che cosa?), ti toccherà farti svaligiare dal settore dell’alta formazione privata che è diventato un altro o meglio IL metro di misurazione del merito (di provenire da famiglie ricche) e sta praticamente vanificando col consenso di tutti i frutti del diritto allo studio (anche se c’è da dire che oggi “lo studente che studia” più che uno che si deve prendere la laura e deve tenere la testa al solito posto, è diventato un gran bell’ossimoro).
Saluti e buona fortuna.
@ gabrielefratini
“a differenza delle scienze (in cui magari necessitano laboratori macchinari istruzioni precise…) , negli studi letterari un professore può insegnarti fino a un certo punto, poi dipende da te.”
Ma davvero c’è una così grande differenza tra un laboratorio di biochimica per studiare il dna di certi organismi per capirne le caratteristiche e tra vocabolari di latino e di italiano medievale e studi filologici e letterari per comprendere quali possono essere state le fonti che hanno influenzato una certa poesia di un certo autore al fine di rintracciare i suoi dati come data e ambiente di composizione?
Grimaldi Grimaldi… non so che posizione in classifica ha lei nel campionato dei filologi danteschi ma per come la vedo io con questo articolo non porta a casa manco il punticino: mica perché non è scritto bene o dice fesserie – figuriamoci, è scritto bene e dice ragionamenti belli, ma perché questa non è nemmeno un’amichevole. Bastava infatti l’ultimo paragrafo del suo articolo per evitare ogni relativa discussione sull’argomento; e le dicerò di più: bastava anche e soprattutto per non scriverlo proprio ed evitare di scendere in campo.
Zeno, la descrizione del mondo accademico-umanistico che fai mi sembra onesta e giusta, forse un tantino troppo permissiva e ottimistica. Comunque, gli enti che fanno cultura e informazione funzionano più o meno così, tenendo il volume degli enunciati a livello dei clienti e del mercato che hanno loro lì dentro all’università e voi fuori. Quindi c’è poco da stupirsi. Anzi, ti dirò di più, mi pare che nel mondo accademico-umanistico sopravviva un livello fin troppo alto… Dici che frequenti un’ottima pubblica, vuol dire poco. Se anche tu frequentassi la migliore pubblica o la migliore delle private, avresti in più solo maggiore organizzazione e puntualità dei corsi. Se ti aspetti altro stai fresco.
Ad ogni modo, Fratini sarà stato un po’ stracciato nei modi, mi sa che l’hai fatto spazientire, ma dice pure lui la verità: devi fare da solo, c’è poco da fare – è una possibile grande fortuna; e se vuoi un altro consiglio, se vuoi capire qualcosa di letteratura, non studiare i critici letterari (ringrazia la tua università che non c’ha fatto un corso), ma gli artisti che ne hanno fatta; va da sé che se ti metti a scrivere pure tu è meglio, ma l’importante è che vai alle fonti e le fonti non saranno mai i professori, ma i testi. Se poi vai alla ricerca di maestri, sappi che raramente se ne trovano a scuola o all’università. Di solito si trovano fuori (se si trovano).
L’ultima cosa che ti voglio dire e poi la finisco di fare il pesante: il mondo del lavoro lo sa che a Lettere non fate niente. Tradotto: devi fare tu (essò due). Oppure dopo che ti sarai laureato anche alla specialistica (di che cosa?), ti toccherà farti svaligiare dal settore dell’alta formazione privata che è diventato un altro o meglio IL metro di misurazione del merito (di provenire da famiglie ricche) e sta praticamente vanificando col consenso di tutti i frutti del diritto allo studio (anche se c’è da dire che oggi “lo studente che studia” più che uno che si deve prendere la laura e deve tenere la testa al solito posto, è diventato un gran bell’ossimoro).
Saluti e buona fortuna
Sarebbe bene riflettere anche su altri spunti del discorso di Grimaldi, ad esempio sull’opportunità di leggere più Galileo nelle scuole. Tra l’altro Galileo scrive in un eccellente italiano, che può essere certo più faticoso da seguire rispetto a quello di Manzoni, ma non poi di molto.
Personalmente non vedo la necessità che la Commedia e i Promessi Sposi siano oggetto di insegnamento approfondito nei corsi di italiano per la scuola dell’obbligo. E’ sufficiente una buona conoscenza storica ed antologica di quelle opere indubbiamente validissime, e mi pare che anche Grimaldi la pensi così. E diciamolo pure: nelle mani di certi insegnanti quelle opere diventano anche strumento improprio di propaganda religiosa.
Si tratta di un rischio che non si corre con Galileo, le cui opere offrono sia un’ottima qualità letteraria sia un appropriato stimolo laico a quel sincero amore per la conoscenza di cui oggi si sente una certa carenza.
Vorrei suggerire una lettura del testo di Odifreddi che non mi pare di aver visto negli interventi scritti finora. Rispetto a chi ha scritto finora, ho il vantaggio (?) di conoscere Odifreddi da una vita, negli anni ’80 dello scorso secolo eravamo i due soli collaboratori del Prof. Previale. Il testo di Odifreddi su Dante non e’ un’opera scientifica, e’ come il saggio di Borges su Dante, un’opera letteraria, e nel caso di Odifreddi una provocazione intellettuale. Una provocazione deve solo essere esagerata, non va giudicata in base al fatto che e’ vera oppure falsa. Deve provocare una riflessione seria, come e’ stato il caso questa volta, e deve solleticare la vanita’ di chi l’ha scritta: Odifreddi ama talmente che si parli (male) di lui … Infine Odifreddi non prova alcuna avversione per Dante: tra gli italiani che conosco e’ quello che lo legge piu’ spesso, soprattutto il “Paradiso”.
Prof. Stefano Berardi
Dipartimento di Informatica dell’Universita’ di Torino
@Dinamo, non dubito che sia come dici tu, nonostante non mi faccia di certo piacere. Ti ringrazio per la schiettezza, mi piacerebbe anche che rispondesse qualche addetto ai lavori e mi spiegasse il suo punto di vista.
P.s. Lo studente che studia tra l’altro non era certo di lettere già allora
@prof. Bianco, lo so. Abbiamo gli stessi gusti
A mio modesto avviso, chi conosce bene il contenuto dei libri di Piergiorgio Odifreddi è consapevole dell’interdisciplinarità, da lui efficacemente utilizzata, tale da rivelare l’amore dell’autore verso l’unitarietà del sapere.
Chi, come Odifreddi, possiede una mente aperta e flessibile, e sa usare, con competenza, l’ironia e l’autoironia, è pronto a congetturare in modo autonomo e sempre ben argomentato, senza dimenticare che l’inventiva (vel scoperta) scientifica e quella letteraria continuano immancabilmente a procedere insieme, accompagnando il progresso, in ogni sua fase, della cultura e della civiltà.
Cabellen, con tutto il rispetto, ma ogni tanto bisogna assistere a questo spettacolo di qualcuno che gli viene il guizzo e tac! non resiste, deve togliere un classico dai programmi ministeriali (Manzoni è sempre lì disponibile, tolgono tutti lui) e ne deve inserire un altro (qua di solito quello che piace al riformista). Ma l’avete chiesto mai agli studenti se son d’accordo?
Io per quel poco che li conosco, sti studenti che studiano, mi sembra che per loro Galileo o Manzoni sono fatti della stessa identica pasta delle galassie lontane – anche se a onor del vero bisogna riconoscere che Manzoni, pure per loro, qualcosa di buono l’ha fatto, scrivendo uno dei primi testi davvero fruibili e contemporanei della letteratura italiana. Lo odieranno pure con tutto il fegato di cui son capaci, e lo odieremo pure noi per la provvidenza e l’immobilismo sociale filo-cattolico ecc ecc contenuto nelle sue edizioni, ma almeno si capisce qualcosa. Ora lei lasci perdere che io più ci capisco più la cosa mi puzza e preferisco andare a incaponirmi laddove non capisco, ma qui stiamo parlando di puberi.
Alla scuola, poi, siamo sinceri, della letteratura non gliene frega molto, e con ciò si traduca pure che non interessa né al ministero dell’istruzione (che forse sta lì proprio per ostacolarla la poesia) né alla maggior parte (la maggior parte, lo ripeto!) dei professori di lettere, quindi Carbellen tanto vale tirare avanti così Dante Leopardi Manzoni… magari cercando di chiedere in maniera seria, severa e inflessibile di più a livello tecnico-stilistico piuttosto che a quello storico come s’è sempre fatto, ché dopo un po’ uno si scorda e non serve più a niente, invece capirci qualcosa di più della Retorica occidentale magari serve. Magari no.
@Seligneri
sono abbastanza d’accordo. Fra l’altro mi andrebbe benissimo una maggiore attenzione agli aspetti formali della lingua e della letteratura.
Ma quando Odifreddi dice che il Dialogo galileiano è un poema che merita di assumere il ruolo di un classico nella scuola, dice una cosa giusta.
Ai miei tempi (mi prendo il rischio di uno sterile vagheggiamento di tempi andati) non solo era più facile trovare insegnanti preparati ed entusiasti, capaci di farti amare i classici, ma la quantità di fiction extrascolastica che i giovani si sorbivano era forse un decimo di quella che percuote oggi il sensorio dei ragazzi. Come si può pretendere che qualcuno ami una storia imbolsita come quella dei Promessi Sposi? che cosa può offrire quel romanzo di fronte alla pulsante immediatezza del cinema, se uno non è più abituato a gustare la scioltezza del medium linguistico e lo percepisce solo come una lungaggine?
Forse è meglio allora un testo letterario che tratti di scienza, e che non sia nemmeno lontanamente paragonabile ad una storia di fiction.
Come suggerisce anche il prof Stefano Berardi, la posizione di Odifreddi è forse questa (e in tal caso la condivido): bisogna “resistere alla tentazione” di abbandonarsi alla bellezza ammaliatrice della Commedia (che ciascuno coltiverà per conto suo) per rivolgere i ragazzi a letture più formative.
Chiudo con una curiosità che ho sentito dall’ottimo Benigni: l’aggettivo “divina” riferito alla Commedia è un posticcio omaggio rinascimentale, e sarebbe come chiamare il romanzo manzoniano “gli strepitosi promessi sposi”…
“ Lunedì 4 maggio 2015 – Sotto la foto di Roberto Benigni che declama la Divina Commedia in Senato scriverò la seguente didascalia: « La Divina Commedia all’italiana ». “.
Dunque. Odifreddi fa una sparata. Grimaldi critica Odifreddi. Noi partecipiamo. Il discorso finisce sui massimi sistemi, in senso galileiano e in senso lato.
Qualcuno osserva che ci siamo cascati. Qualcun altro addirittura che è quanto Odifreddi sperava, visto che è narciso e coltissimo, e ama, attraverso la provocazione, fare in modo che si parli ecumenicamente di tutta la cultura, che lui ama indistintamente, anche se sembra prendere per il culo chi fa l’umanista.
Tutto già scritto, che parliamo a fare?
“Basta! Basta!
Ho paura.
Dio,
abbi pietà dell’ultimo tuo figlio.
Aprimi un nascondiglio
fuori della natura!”
@ Zeno Cosini. Da ex liceale scientifico, ex studente di Lettere, attualmente insegnante in un liceo.
Non lo so, che cosa ti aspetti dalla buona università pubblica che frequenti? Io ne sono stato scontento anzi che no, mentre la frequentavo: la maggior parte dei professori era “nozionistico”. Mi dicevo che mi avesse formato il carattere, il metodo di studio, la personalità intellettuale, molto di più il buon liceo fatto, coi suoi insegnanti (alcuni eccellenti, altri buoni, altri mediocri, altri da buttare).
Oggi, a ripensarci, e proprio visto il mestiere che faccio, mi rendo conto di quanto ho imparato, nonostante fosse meglio il liceo, in termini quantitativi e qualitativi, all’università. Alla fine i 20-25 sono talmente ricchi di gioia e depressione che impari da tutte e due, anzi soprattutto dalla seconda.
Allora ragionavo così, molto pragmaticamente: decidevo i corsi, ne seguivo un paio di lezioni, se il professore diceva cose che avrei trovato anche nel manuale, senza dovermi sbattere fino alla sede dell’università e comodamente seduto a casa mia o in biblioteca, davo l’esame da non frequentante, leggendo così diversi bei libri.
Invece una volta ho seguito quasi tutto un corso di filologia romanza perché era gradevole e intellettualmente vario. Il professore era in gamba, un po’ faceva lo show, un po’ voleva presentarci collegamenti inusitati, anche se un po’ da classi di biennio di liceo: le due ore passavano leggere. Ma poi mi son guardato allo specchio e mi son detto che io volevo, checazzo, sapere in un senso molto molto serioso cosa fosse la filologia romanza, e ho cambiato insegnante. Ma ho preparato l’esame leggendo dei bei libri sulla poesia provenzale, visto che anche quello l’ho dato da non frequentante.
All’università ho anche incontrato tre quattro docenti, su 24 che ho seguito, che erano superiori, infinitamente e in ogni senso. Oggi so che davvero erano bravissimi, ma guardo alle mie infatuazioni con un sorriso accondiscendente. Ma allora erano tutto, contro il niente degli altri corsi.
E guarda che stavano dietro la cattedra e spiegavano per beninino anche loro delle cose, dei contenuti, la loro disciplina. Nozionismo? In un certo sì. Ma che contenuti, ragazzi. Ho capito perché ero lì a studiare lettere quando il mondo intorno da ogn cartellone pubblicitario e ogni serata in birreria mi diceva che ero antistorico.
Ora sono molto felice del mestiere che faccio e della cultura che ho.
Insomma, non ho capito se non sai cosa aspettarti e pensi di avere da altri quella salvezza che non sai trovare da solo, se sei proprio finito male come facoltà e sede, se Lettere è peggiorata inesorabilmente in soli 15 anni, o che altro.
Hai messo il naso in tutte le aule? La nostra università è mal organizzata, ma hai la libertà assoluta garantita dall’anarchia. Vatti a sentire una lezione di ogni docente e scegli quelli che ti piacciono.
Non stare lì a piagnucolare. Ripeto, sempre che la colpa sia tua, e non è detto, magari tutto è ormai a scatafascio.
Un saluto affettuoso
@cabellen
Mi pare che Galileo sia già un classico ministeriale e che venga studiato nelle scuole al pari di Machiavelli e Foscolo.
Non sono molto d’accordo sul discorso della bellezza invece. Se si riuscisse a far passare l’idea – a scuola ma anche altrove – che Dante può essere letto solo come poeta, abbandonandosi alla sua sonorità, magari capendo un quinto, un decimo di tutto, o proprio non capendo niente oltre al suono, sarebbe una grande cosa.
Un periodo ho conosciuto una ragazza spagnola che voleva imparare l’italiano. Il suo autore preferito era Dante. Non ci capiva niente (“un’acca” direbbe Dante) eppure cercava sempre qualche italiano che le leggesse un canto della Commedia. Le interessava solo quello. La bellezza dei suoni.
Perché privare i ragazzi di questo?
“ 25 febbraio 1988 – « Se c’è un’intenzione nel nonsense è quella di sbiadire il significato delle parole, di renderlo il più fievole possibile, di cancellarlo, con lo scopo dichiarato di sostituirlo con il significante. Ora, la materialità della parola è il suo suono; è dall’appercezione del suono che si trasfonde l’immagine linguistica della parola. Se lo sviluppo del pensiero occidentale ha portato alla biforcazione dei due elementi, suono e immagine, nel lavoro onirico essi sono ricondotti alla loro inseparabile totalità. » (Milli Graffi, Arguzia e lavoro onirico nel nonsense, in «Il piccolo Hans», 55, 1987) “
@Seligneri
ora però non esageriamo. Se io mi mettessi a declamare “to be or not to be” senza sapere che il personaggio si sta interrogando su un’ipotesi di suicidio, potrei anche apprezzare il suono, ma perderei indubbiamente qualcosa di importante.
Cercherò di non essere moralista, ma per amare Dante bisogna conoscere la lingua italiana in tutte le sue sfaccettature. Per convincersene, basta pensare all’impressione desolante che uno riporta quando legge una traduzione della Commedia in un’altra lingua. Bisogna conoscere a fondo la grammatica, il lessico, la sintassi, la semantica, l’analisi del periodo, la metrica, le figure retoriche, le soluzioni stilistiche ecc.
E’ esattamente lo stesso discorso della pittura: prima di preoccuparsi delle presunte profondità simboliche che l’artista ha voluto rappresentare, è bene innanzitutto conoscere le tecniche pittoriche, cioè le caratteristiche di base del linguaggio. Dopodiché ci si può anche interrogare sugli altri livelli della raffigurazione.
La Commedia non è solo questione di suoni, perché se Dante avesse scritto un trattato di entomologia il risultato sarebbe stato sicuramente meno affascinante, ma indubbiamente nella Commedia ci sono dettagli filosofici e teologici su cui sono portato a sorvolare…
Cabellen, c’è un malinteso, sicuramente generato dal mio dare per scontato alcune cose personali. Anche io sono stato molto attratto dall’approccio onnicomprensivo che descrive lei nell’ultimo commento, e credo che quello debba essere l’approccio dello studio scientifico ai testi ed è così che io mi sono sono posto nei riguardi di Dante (o di Joyce, per dire un nome a me carissimo).
Ciò non toglie però che ognuno è libero di leggere i libri come vuole, senza il peso accademico che incombe sul collo di molti lettori quando anche per puro piacere ricreativo decidono di leggere un classico.
Il mio discorso era riferito poi primariamente alla scuola. A scuola di Dante si offre una specie di pastone insipido sullo stile degli studi accademici (notevolmente decurtato di complessità) e sul filone dell’approccio storico. Ora sappiamo che spesso quel pastone è indigesto e lei mi diceva qualche commento più su che avrebbe ridimensionato la Commedia a capitolo di letteratura come gli altri. Io non mi trovo d’accordo perché credo che anche solo ad orecchio, a sonorità (pur non volendo studiare tutto o tutta la Commedia, o approfondire il contesto storico e l’astrazione letteraria), anche solo come suoni meglio aver sentito delle terzine di Dante che non averle sentite perché fanno bene.
Aggiungo che forse dovremmo sbarazzarci di questo imperativo categorico di voler capire sempre tutto e tutti, compresa la letteratura; la Divina Commedia in fin dei conti è un testo scritto nel trecento e io nel duemilaequindici ho tutto il diritto di non capire tutto quello che Dante voleva dire, sottintendere e alla fine non capire nemmeno lui di ciò che andava componendo.
Prima di tutto quindi ci vorrebbe qualcuno in grado di farci capire COME leggere quei versi (e ce ne sono pochi che li sanno leggere e pochi che sanno insegnartelo), prima che qualcuno che ce ne spieghi il significato. Tutto qua il discorso.
Infine non dimentichi che ci sono passi del tutto oscuri alla critica dantesca, mentre ci sono metafori, tra le apparentemente più semplici del trecento, come quella della freccia che spacca il cuore dell’innamorato, che noi col nostro immaginario intriso di polvere da sparo, non potremo mai sentire come un uomo del trecento il quale guardava un dardo collo stesso terrore con cui noi oggi ci vedremmo puntare una pistola carica addosso.
Scienza e letteratura concordano nella definizione seguente: “quant la merda la monta in scann/la spussa e la fa dànn” (traduzione dal dialetto piacentino: quando lo sterco sale in cattedra/maleodora e provoca danni)
Caro Seligneri,
credo che le sia già chiaro: io sto proponendo di far leggere Galileo invece di Dante nel momento stesso in cui sto dichiarando il mio amore per la Commedia – che è di gran lunga il libro più sgualcito che ho in casa. Si figuri se io non sarei contento di vedere i ragazzi allenare il loro orecchio poetico e musicale sulle terzine di Dante.
Ma c’è anche l’argomento sollevato da Odifreddi: se è vero – come è vero – che il processo di laicizzazione del nostro paese ha ancora dei passi importanti da compiere, uno di questi passi potrebbe essere appunto la parziale dismissione scolastica della nostra letteratura di impronta fantastica e religiosa in favore ad esempio del Dialogo galileiano – il quale avrebbe il pregio di mettere i ragazzi nel vivo di quel faticoso processo di riqualificazione della conoscenza che ebbe luogo nel Seicento, quando il metodo scientifico cominciò a delinearsi sullo sfondo nebbioso di una filosofia teoretica e teologica della natura.
P.S: interessante la sua osservazione sulla freccia. E’ probabilmente vero che non abbiamo nessuna speranza di riprodurre in noi la sensibilità di un uomo del trecento. Eppure la lingua di Dante è sorprendentemente simile alla nostra, anche se sono passati sette secoli, e questo ci consente ancora di apprezzarla moltissimo.
@ Buffagni
“Quand on est dans la merde jusqu’au cou, il ne reste plus qu’à chanter.”
@ Zeno
“Dei due, poetare e studiare, trovo maggiore e più costante conforto nel secondo. Non dimentico però che mi piace studiare in vista sempre del poetare. Ma in fondo il poetare è una ferita sempre aperta, donde si sfoga la buona salute del corpo”
Secondo me una certa inclinazione e differenza c’è, nelle persone come nelle materie. Gli scienziati sono attratti e capaci nelle cose, altri dalle parole (ovviamente non c’è un confine, ma certe capacità stanno solo in certi cervelli). Nel tuo campo puoi cercare di essere il più rigoroso possibile, ma probabilmente non avrebbe senso un approccio scientifico, poiché non c’è un dato di realtà esterno. Inoltre non devi modificare la realtà, solo manipolare discorsi.
@ Lo Vetere
Ma tipo un roba come Quelli che però è lo stesso, ci hai mai pensato a farla?
@ tutt*
@ FF VS PP. Se ti riferisci al libro, no, se scriverò un romanzo da pubblicare sarà una cosa tipo Harry Potter, voglio venderne i diritti e farci un sacco di soldi, così campo di rendita, mi ritiro in Val D’Orcia e saluto tutti.
Se ti riferisci a Vasco, no, Vasco non si può replicare.
Io comunque penso che uscite come quelle di Odifreddi nascano anche da situazioni presenti nel mondo scolastico intrise di paternalismo e di pessimismo antropologico e che ritengono che i classici siano incapaci di attrarre con le proprie forze i giovani e da qui nascono profonde rigidità del tipo “obbligo dei Promessi Sposi nel secondo anno e obbligo di ripresa di Manzoni nel quarto anno” e soprattutto “obbligo di un minimo di 25 canti della Commedia nel triennio” manco fossero etti di prosciutto. Ma vi immaginate nelle scuole d’Inghilterra mettere un minimo di 20 atti obbligatori da opere teatrali di Shakespeare, in Francia di 15 capitoli obbligatori da opere di Stendhal, in Germania un minimo di 30 poesie obbligatorie di Hoelderlin? Insomma, un po’ più di fiducia nel valore intrinseco dei classici della letteratura farebbe più bene ad essi, basta col pensare che una volta usciti da scuola gli studenti non vogliano più leggerli…
Non so quali scuole ha in mente Dinamo Seligneri. Per quel che ne so io, a scuola non si offre nessun pastone: si leggono i canti della Commedia, a voce alta, in classe; si offre ai ragazzi il minimo supporto per interpretarli letteralmente e minime informazioni sul contesto (storico, politico, filosofico…). E’ letteratura; è un gigante della letteratura, conosciuto in tutto il mondo: perché negare agli studenti di 16 anni la possibilità di avvicinarlo?
@marisa salabelle
Se le persone una volta uscite da scuola non toccano più mediamente un libro classico (per non dire un libro) per molti anni o non lo toccano più per tutta la vita, forse che forse la scuola e il ministero dell’istruzione qualche responsabilità ce l’hanno?
Vedila così, Dinamo: la scuola ha certamente i suoi torti e commette i suoi errori, però puoi provare a rovesciare la situazione e dire: se non ci fosse la scuola nessuno (o meglio: pochissimi studiosi di alto livello) leggerebbe più Dante o Manzoni o Ariosto o chiunque altro ti venga in mente. La letteratura è difficile, non si tratta di lettura di svago, e certo se non si proponesse a scuola, sarebbero ben pochi coloro che, entrando in libreria, comprerebbero spontaneamente i Canti del Leopardi o l’Orlando furioso. La scuola almeno fa assaggiare questa roba ai ragazzi. Che poi, dopo il diploma, molti smettano di leggere, non può essere attribuito solo ed esclusivamente al fatto che la scuola ha fallito. Con questo, si può e si deve migliorare, ma sono stanca di sentire attribuire alla scuola la colpa di tutto. Aboliamola, forse le cose andranno meglio!
@marisa salabelle: dire “se non ci fosse la scuola nessuno (o meglio: pochissimi studiosi di alto livello) leggerebbe più Dante o Manzoni o Ariosto” può essere vero nel senso che solo la scuola può far accedere ai ragazzi gli strumenti storici, linguistici e letterari per comprendere queste opere del passato. Io non propongo certo di abolire a scuola tutte le grandi opere letterarie classiche sostituendole magari con tree thriller o due commedie sentimentale degli ultimi mesi (non che non ci siano opere di questo genere di qualità sopra della media, comunque).
Il fatto che “dopo il diploma, molti smettano di leggere” per me è però dovuto soprattutto alla presenza nella scuola italiana di un paternalismo e pessimismo antropologico che dà sfiducia a priori ai giovani e sfiducia a priori nei classici in quanto opere in grado di attrarre i giovani con le proprie forze e che impone obbligatoriamente a dosi eccessive opere come la Divina Commedia (minimo 25 canti in tre anni) e soprattutto i Promessi Sposi (secondo e quarto anno). Io preferirei mille volte la lettura di ampi brani nel triennio di una dozzina di opere (che può essere ciascuna di esse o un romanzo o un’opera teatrale o un gruppo di poesie o racconti di uno stesso autore), dunque quattro all’anno, dando come obbligatori al massimo tre nomi, che ne so Dante, Shakespeare e Goethe, dando al resto grande libertà al docente, togliendo soprattutto i vincoli dell’ordine cronologico e dando spazio agli autori stranieri. In questo modo i docenti adattano la loro esposizione dei classici al modo di essere degli studenti e l’attrazione di questi ultimi verso la letteratura sarà molto più facilitata.
Mi pare che si sia troppo insistito sulla polemica terminologica ‘mente umanistica’ o ‘mente scientifica’, e su di una critica che sa troppo di elegante ma estrema stroncatura di Odifreddi, che, forse, se le attira, visto che è troppo amante del paradosso, ed è, di sicuro, una ‘mente dissacrante’, un pò per scelta , ma molto per partito preso. Del resto, la sua notorietà sui media, scemerebbe e di molto se non fosse dissacrante, così anche il suo ‘appeal’, se diventasse troppo ortodosso, non solo nei confronti della teologia, e persino del concetto di Dio e del divino, ma anche nei confronti di Dante, scelto come epigono della cultura tutta, scientifica e umanistico-letteraria, teologica e teleologica. Ma si sa che Dante, come uomo del suo tempo, poteva essere considerato anche uno scienziato, per le sue dotte ed approfondite conoscenze soprattutto di cosmologia. Certo i tempi che non gli consentivano verifiche critiche e strumentali. Dunque, questione da poco. Però su due cose le provocazioni di Odifreddi aprono delle prospettive diciamo nuove. La prima è che chiunque abbia letto qualche canto delle tre cantiche, non può non accorgersi che, se lo stile letterario rimane pressoché immutato, nell’Inferno e nel Paradiso le ‘motivazioni’ e le argomentazioni di Dante siano soprattutto rivolte all’agone politico del suo tempo. Sia della ‘sua’ Firenze, sia del mondo intero che proponeva lo scontro epocale dei due massimi poteri. Quello papale e quello imperiale, sul cui sfondo tracciava in maniera assolutamente non casuale ma spasmodicamente voluta, la sua ‘visione’, non solo. Ma soprattutto la sua ‘scelta’ etico-politica. Dante spiegava nelle prime due cantiche chi era e chi riteneva di essere rispetto al governo della sua città e della toscana ed anche dell’impero politico secolare e di quello teocratico del papa. Nel Paradiso, il tutto cambia drasticamente. Dante sembra quasi più preoccupato, o meglio, molto più intento a magnificare le ‘beatitudini’ celesti’, che a confortare le sue tesi sui ‘buoni’ e sui ‘cattivi’ del suo tempo, compito alacremente e con gran dovizia di particolari e di spunti storiografico-aneddotici , ottenuta attraverso la sua arbitraria collocazione al purgatorio o all’inferno dei noti e dei potenti a lui coevi.Pertanto non si può liquidare la questione della presunta attribuzione del paradiso all’opera di altri, del figlio Iacopo segnatamente, come un madornale errore di Odifreddi o con la sua volontà di sminuire l’opera dantesca a favore di altri ‘studi’ letterari di derivazione scientifica, poiché, io credo, che un cambiamento drastico della prospettiva del narrante sia tutt’altro che secondaria e non ci si possa semplicemente affidare alla identità dello stile letterario, per affermare senza ombra di dubbio, che ci si possa trovare di fronte a due diversi autori, Dante per l’inferno ed il purgatorio, ed un imitatore anch’egli illuminato e di prim’ordine come letterato, per il paradiso. Insomma l’afflato che si registra nel paradiso è, in certi momenti, davvero alquanto pesante per il lettore di oggi, soprattutto per chi non risulta credente ( ed è un po la platea dell’Odifreddi, in buona sostanza), mentre i canti dell’inferno e del purgatorio mantengono e soddisfano un gusto letterario di lettori delle più varie estrazioni e culture.Io per primo, non avendo una conoscenza del tutto approfondita del ‘Dantismo’, ho sempre pensato che il fine argomentativo di Dante nell’Inferno e nel Purgatorio, fosse quello politico, una specie di ‘giustificazionismo’ della sua vita e della sua condizione di esule e di ‘ghibellin fuggiasco’, come lo soprannominarono i suoi critici più autorevoli. Poi, trascorsi gli anni ed avvicinandosi alla morte, l’intento diciamo pure vendicativo in senso figurato verso i suoi ‘oppressori’ nella vita politica, si sia completamente trasformato in intento salvifico. Questo è il punto di vista non di un critico e neppure di un conoscitore profondo, ma di un semplice lettore che ha in grande stima la letteratura, sia umanistica che scientifica.
caro marco,
vedo il suo post solo ora, di ritorno da un viaggio. e mi stupisco che un “dantista” non si sia nemmeno accorto che il mio articolo era una parodia della critica letteraria (come d’altronde sono parodie, o “divertissement”, anche altri articoli nel libro da lei citato)! forse perché usa appunto i non-argomenti che sono in vigore nel campo, il quale rischia in tal modo di dimostrarsi “indistinguibile dalla propria parodia”. cosa che alcuni imputano effettivamente a certi campi del “sapere”: veda, al proposito, la famosa “beffa sokal”.
ma lei pensa veramente che a me (o a qualunque altro lettore non professionista) possa importare se dante abbia scritto o no gli ultimi canti della “divina commedia”? io mi sono semplicemente divertito, leggendo il boccaccio, nel vedere che lui cita come fatti sia la mancanza degli ultimi canti alla morte del poeta, sia il proposito dei figli di terminare l’opera, sia il ritrovamento “miracoloso” del manoscritto perduto a tempo opportuno. la sua testimonianza è tutta da buttare? solo in parte? e in tal caso, quale?
lei afferma perentoriamente che “il sogno è un’invenzione letteraria” del boccaccio, ma come lo sa? e come lo prova? allo stesso modo, lei afferma che “basterebbe dire che la mia idea è sbagliata, che l’ipotesi non ha fondamento”: bel modo di argomentare, questo, col quale ovviamente si può dimostrare tutto e il contrario di tutto. non mi sembra che come “metodo critico” il suo, serio, sia tanto meglio del mio, faceto. e siamo di nuovo alla disciplina che non si distingue dalla sua parodia.
naturalmente sapevo, come la sua reazione dimostra, che toccare dante è come toccare la madonna. e infatti, basta anche dire qualcosa su di lui (o su di lei) anche per scherzo, per far subito inalberare gli “esperti”. anche se lei (marco, non la madonna) sembra dimenticare che la qualifica di dante come “padre della lingua italiana” è recente, credo del settecento (ma lei qui è l’esperto, e mi potrà confermare o contraddire). e che, come l’amico cabellen ricorda, ci sono stati fior di poeti, come il petrarca, che pensavano che invece “si rivolgesse alla gente d’osteria” (dove, è vero, si parlava comunque italiano).
su un aspetto posso dirle qualcosa seriamente. dante non possedeva affatto “una cultura scientifica di buon livello”, e in particolare non conosceva euclide, se non di nome (visto che lo cita nell’inferno). di fatto, nella “commedia” cita DUE teoremi elementari degli “elementi”, e guarda caso sono esattamente quelli citati da aristotele, uno negli “analitici secondi” e l’altro nella “metafisica”. il che conferma che dante conosceva la filosofia, che però è un’altra cosa.
ciò detto, mi spiace deluderla, ma dante è stato per molto tempo il mio autore preferito. l’ho cominciato a leggere da bambino, e l’ho letto interamente almeno una mezza dozzina di volte nel corso degli anni. ne ho anche scritto e parlato più o meno “seriamente”, per quanto un matematico possa scrivere o parlare seriamente di letteratura. e l’ho addirittura posto tra i “libri della mia vita”, in una serie radiofonica omonima. veda, ad esempio:
http://www.piergiorgioodifreddi.it/audio-menu/programmi-radio/i-libri-della-mia-vita-2006/
http://www.piergiorgioodifreddi.it/wp-content/uploads/2011/10/Odifreddi_-ottobre.pdf
http://www.piergiorgioodifreddi.it/wp-content/uploads/2010/10/dante.pdf
ps. ho scorso brevemente alcuni dei commenti, e non posso ovviamente mettermi a discutere con chi non ha capito la barzelletta. mi limito a domandare, al commentatore che suppone una mia metamorfosi da “gentile e neutrale divulgatore” di quindici anni fa a “vociante dulcamara” degli ultimi cinque-sei anni, cosa ci sia di diverso da “la matematica del novecento” nella mia trilogia geometrica per mondadori, o nel libro sui numeri per rizzoli. forse, azzardo, soltanto il fatto che lui ha letto il primo, e non ha neppure visto i secondi?
infine, a proposito della pretesa di mostrarmi come un campione dello scientismo antiumanistico, ricordo ad esempio che sempre per rizzoli ho pubblicato una traduzione in prosa integrale e commentata di lucrezio. anche se si può discutere, ovviamente, se la cosa sia riuscita o no. ma questo è un altro discorso.
Ah, scherzava.
Perché anch’io avevo letto con stupefazione le pagine di Odifreddi discusse da Grimaldi, e mi era parso che non scherzasse per niente. Cioè pensavo che quando scriveva, per esempio,
“Non ci vuol molto a immaginare che cosa sia veramente successo: semplicemente, Iacopo aveva terminato il poema, ma per ragioni di marketing voleva attribuirne la paternità a Dante. E forse aveva addirittura discusso la messinscena con lui, visto che uno degli ultimi versi lasciati dal padre, agli inizi del Canto XXV del «Paradiso», metteva una pulce nell’orecchio dei lettori: “Con altra voce ormai, con altro vello ritornerò poeta”. Naturalmente, non c’è da scandalizzarsi per queste cose: sappiamo bene che molti degli ‘inediti’ postumi sono solo dei falsi. Ma ormai la «Commedia» è diventata una specie di Bibbia, e come tale non si presta a discussioni razionali né su questa, né su altre cose … Non ci si può domandare cosa Dante avrebbe potuto scrivere, finita la «Commedia», perché non la finì”
pensavo che quando scriveva queste cose Odifreddi non stesse scherzando, cioè che quello che diceva non andasse capito al rovescio. Di fatto, anche a rileggere, è molto difficile capire che stava scherzando. E adesso, a leggere il post di risposta, viene il dubbio che non scherzasse proprio per niente: «la sua testimonianza [di Boccaccio] è tutta da buttare? solo in parte? e in tal caso, quale? … Lei afferma perentoriamente che “il sogno è un’invenzione letteraria” del Boccaccio, ma come lo sa? E come lo prova?».
Già. Come si fa a provare che il sogno di Iacopo è un’invenzione, e che non è lui ad aver scritto gli ultimi canti della Commedia? Non si può, in effetti. Potrebbe aver sognato il padre, potrebbe aver scritto lui gli ultimi canti della Commedia.
O anche un altro, in fondo che ne sappiamo.
Caro Prof. Odifreddi, Il suo essersi progressivamente svestito in pubblico della gentile e neutrale mitezza dottorale rende un disservizio: i miti umanisti che potrebbero e magari vorrebbero discutere di faccende invero decisive, per i tempi, non la prenderanno sul serio e quelli vocianti le risponderanno per le rime alimentando il fumo. Ognuno vive come può o come riesce, soprattutto oggi, ma ci sarebbe margine per fare meglio con poco, solo rispettando codici di ingaggio migliori. Stia bene e buon proseguimento.
caro giuseppe c,
ribadisco che lei mi conosce poco. liberissimo, ovviamente, ma col rischio di esprimere pregiudizi, più che giudizi.
in particolare, lei ha citato il mio “la matematica del novecento”, del 2000, che segue, e non precede, “il vangelo secondo la scienza”, del 1999, che è il mio primo libro di divulgazione. dunque, non c’è nessuna “progressiva svestizione” da parte mia: le mie due “anime” convivono fin dagli inizi.
ha anche citato come opposto esempio i miei libri per mondadori. dei quali CINQUE sono di divulgazione scientifica, dello stesso genere de “la matematica del novecento” (tre volumi di una storia della geometria, una biografia di galileo e una raccolta di atti dei festival di matematica), e UNO di argomento religioso: evidentemente non così peregrino, se benedetto xvi si è premurato di rispondergli, ed è uscito in una nuova edizione firmato da entrambi.
quanto ai libri per rizzoli, ce ne sono solo tre, per ora, di cui uno è la traduzione di lucrezio, un altro una storia dei numeri, e il terzo la raccolta di articoli “incriminata”.
come vede, io continuo a fare quello che facevo, e cioè divulgare la matematica come so e posso. ogni tanto mi prendo qualche libera uscita, ma qualcuno che non si diverte ai miei divertimenti pensa che non faccia altro che quello: problemi suoi (di quel qualcuno), però, e non miei.
caro claudio giunta,
mi stupisco anche con lei del suo stupore. per evitare di parlare di me, che non ne vale la pena, e fatte le dovute proporzioni, visto che sono pur sempre un matematico, quando stephen dedalus espone la sua balzana teoria sull’amleto, nel capitolo “scilla e cariddi” di “ulisse”, si arrampica sugli specchi. ma poi ammette senza problemi che non crede alla sua stessa teoria.
certe cose si fanno appunto per divertimento: per vedere fin dove si può arrivare, da un lato, e l’effetto che fa, dall’altro. ci sono lettori di joyce che prendono sul serio quella teoria, e ci sono studenti che ci hanno fatto la tesi sopra (per colpa dei loro relatori). molti di loro, leggendo l’ammissione di dedalus, diranno come lei: “m’era parso che non scherzasse per niente”. sono sicuro che joyce l’aveva previsto, e se n’era divertito in anticipo.
Vorrei rispondere alle osservazioni di Odifreddi sulla cultura scientifica di Dante.
D’accordo, Dante non avrebbe saputo dimostrare nessuna delle proposizioni degli Elementi; gli mancava, con tutta probabilità, il concetto stesso di dimostrazione matematica a partire da postulati. Nel post la conoscenza di Euclide è espressa in modo dubitativo, e viene anche precisato che si trattava di conoscenza indiretta (Odifreddi cita giustamente Aristotele come fonte intermedia). Mi sembra quindi che nel complesso le affermazioni di Grimaldi siano accettabili, soprattutto se si tiene conto che sono riferite alla cultura media dell’epoca di Dante: un recupero pieno degli Elementi si avrà infatti solo nel Rinascimento (e se si considera anche la teoria degli irrazionali del libri V e X, molto più tardi).
Mi sembra comunque più importante, rispetto a questo, l’osservazione sulla conoscenza dei fenomeni astronomici. Dante dimostra, sia nella Commedia sia nel Convivio, di conoscere bene i moti apparenti degli astri. Una fonte importante era al-Farghani, che espone una descrizione (semplificata ma ragionevole) del contenuto dell’Almagesto, e che fu (nella traduzione latina di Gherardo da Cremona) il principale canale per la conoscenza di Tolomeo nel basso Medioevo (ad esempio anche per Restoro d’Arezzo). Una posizione equilibrata sul livello dell’astronomia di Dante mi sembra ancora quella esposta nel bel saggio sull’argomento di Edward Moore.
(Aggiungo che Moore già sottolineava l’importanza dell’aspetto fenomenologico, che oggi, forse ancor più che all’inizio del ‘900, quando egli scriveva, tende a essere sottovalutato quando si parla di conoscenze scientifiche: i bambini delle elementari “sanno” che la Terra gira intorno al sole e non viceversa, ma spesso i laureati in materie scientifiche non sanno citare le basi sperimentali di quest’affermazione.)
“ Mercoledì 9 marzo 2011 – « Dopo il ’30 era crollato Guido Da Verona. L’autore che più d’ogni altro aveva riscaldato le fantasie del dopoguerra commise un errore: pubblicò un romanzo che parodiava, con lo stesso titolo, I promessi sposi di Manzoni. Fu l’occasione per saltargli addosso gridando al sacrilegio. Quel linciaggio letterario fu incoraggiato dalla segreteria del partito fascista, che pure aveva avuto Da Verona tra i collaboratori del Popolo d’Italia ma lo considerava “ decadente “. Bande di manzoniani arrabbiati assaltarono le librerie, strapparono ai commessi le copie del romanzo e le bruciarono in roghi espiatori sulle piazze. Da Verona, un giorno che andava con l’editore Dall’Oglio e il suo cane volpino a prendere l’aperitivo al Biffi, fu aggredito sotto la Galleria di Milano e preso a pugni e a bastonate. Da allora in poi la sua fortuna si fermò: i suoi libri fecero sempre meno rumore, e nel ’39 l’autore di Mimì Bluette fiore del mio giardino era dimenticato. Non seppe rassegnarsi e si sparò un colpo di rivoltella. » (Fabrizio Dentice, La conquista della realtà, in «L’Espresso», 15 luglio 1962) “.
Gentile professor Odifreddi,
in effetti, leggendo il suo “pensiero”, la mia prima impressione era stata che non facesse sul serio. Poi ho cambiato idea, dato che il ragionamento sui tredici canti le serve per sostenere una tesi che, se non sbaglio, ha espresso altrove in tutta serietà, e cioè che Dante dovrebbe essere sostituito o almeno affiancato da Galileo.
A proposito di Boccaccio, che dopotutto è la questione che mi interessa di meno, ribadisco solo che non c’è modo di ‘falsificare’ la sua tesi, e mi stupisce un po’ che faccia finta di non capire dove sta il problema.
In ogni caso, che lei facesse o meno sul serio, per quanto mi riguarda non cambia poi molto. Quando scrivo che il conflitto tra Dante e Galileo sembra esserci solo «se allo studio della storia e alle argomentazioni razionali si sostituiscono gli aneddoti e il paradosso e se il gusto della provocazione conta più della soluzione dei problemi», mi riferisco in fondo proprio a questo: lei pone dei problemi seri, ma li affronta in un modo che a me pare totalmente sbagliato, con le provocazioni o con la parodia, correndo tra l’altro il rischio di fare della cattiva divulgazione. Se non l’ho capito io, “dantista”, quanti lettori meno esperti si renderanno conto di non dover prendere sul serio la sua tesi su Boccaccio? Non mi pare che in questo modo si renda un buon servizio a quel Dante che afferma di conoscere e di amare.
Gentile Piergiorgio Odifreddi, purtroppo non sono ancora riuscito a capire, dopo aver letto le sue risposte al post, qual è la sua effettiva posizione nel merito. Per chiarire i miei dubbi (e quelli dei suoi molti lettori), le chiederei di rispondere in maniera chiara (diciamo da matematico) a una semplice domanda. Naturalmente sono consapevole che non si tratta di questioni per le quali abbia senso una risposta netta (tipo sì/no), quindi le chiederei, più ragionevolmente, di indicare la probabilità che lei assegna a ciascuno di questi tre eventi (tra loro mutuamente incompatibili):
A. Dante è l’autore degli ultimi canti del Paradiso.
B. Il figlio di Dante è l’autore degli ultimi canti del Paradiso.
C. Qualcun altro è l’autore degli ultimi canti del Paradiso.
Grazie
Non so se provare tenerezza o repulsione per tutti coloro che corrono lancia in resta in difesa di Dante come se qualcuno lo avesse defenestrato o rubato qualcosa. Dante ha ricevuto nel tempo molti riconoscimenti ha torto o ragione, io stesso in gioventù ho imparato a memoria molti canti della Commedia, ma cosa centra tutto questo, se i risultati per aver studiato e ristudiato Dante è quello di creare individui che non hanno capito nè Dante nè quello che dice il Prof. Odifreddi non era forse meglio studiare un poco Galilei e magari provando e riprovando ne veniva fuori qualcosa di buono? Scusate l’intromissione
Scusate il verbo in eccesso… sarà forse stato Dante?
Non sono solo gli ultimi canti del Paradiso a essere stati taroccati (dal figlio Pietro), anche alcuni dell’Inferno dove per es. compare un personaggio, Maometto, che mai Dante avrebbe inserito e messo in relazione ai dolciciniani. In questo caso ik personaggio “sostituito” era Bernardo Segalelli. Per ulteriori info rimando al mio “Alighieri” (Morlacchi 2016).
Odifreddi lei è davvero un clown… Ah, non ha capito che sto scherzando? Suvvia, che mancanza di acume!
Essenzialmente, Odifreddi non è poi così scientista se ignora che anche la filologia nelle sue varie branche è una scienza, e una scienza nemmeno tanto debole (nel senso hempeliano del termine), e per tanto, se si è veramente e compiutamente scientisti, ammesso di volerlo essere, non si può giocare con la filologia dantesa come se fosse un mito da riconfezionare ad usum Delphini.
In RISPOSTA al Link di RAFFAELE RINALDI, su “Venere nella Costellazione (?) dei Pesci” del Purgatorio di Dante ( Pur. I, 19-21), da lui postato il 30 aprile 2023 su Facebook. Questa Venere è anche la stessa de ”La Nascita di Venere” dipinta da Sandro Botticelli, eccetera, eccetara: e la novità è tutta rigorosamente scientifica e quindi da non perdere.
Mia sofferta e lunga RISPOSTA all’amico RAFFAELE RINALDI poiché sull’eccelso tema della Venere mattutina del Purgatorio, in cui è contenuta la più profonda intenzione di vivere pagano-classica e cristiano-medievale di Dante, “intenzione” rigorosamente scientifica!, nessuno in sette secoli si è mai impegnato a sufficienza per afferrarne tutta la portata. Sì, sì…!!!, per me è andata proprio così. Ed è per tale ragione che, commentando Dante, proprio, o anche perché!, gli esegeti non erano nelle condizioni, soprattutto culturali, di afferrare i motivi scientifico-superiori di questa Venere mattutina, che poi hanno preso qui, come in tanti altri punti, lucciole per lanterne, oppure detto un sacco di bischerate. Lasciatemelo dire poiché ne va di mezzo la vita, l’impegno, di Dante personalmente. E per cui, se io dovrò prenderla un po’ alla larga, mi dovrete compatire: dopo di che vi sentirete molto più assai meglio vicino a Dante Alighieri e a quel suo Medioevo tutto scientifico. Sarà vero…???
Adesso state dunque un po’ a sentire me, in cui, ricorrendo ai rilevamenti scientifici dell’ “Astrologia” di Claudio Tolomeo, unitamente a quelli presenti nella Commedia di Dante e condivisi a piene mani dal suo Medioevo poi, alla fine, approderemo felicemente, come per miracolo, oltre che al vero senso della “tolemaica Venere mattutina” di Dante, anche a quello che di analogo aveva in mente il Botticelli, nella Firenze dei tempi di Marsilio Ficino, quando dipinse “La Nascita di Venere”. Sì. sì…!!!, poiché anche Marsilio Ficino seguiva Claudio Tolomeo ugualmente che Dante Alighieri. Ed è quindi corretto aver scritto “tolemaica Venere mattutina” poiché, senza Claudio Tolomeo, non si capirebbe per nulla, né cosa questa Venere stesse lì a fare in purgatorio di concreto e di neccessario…!!!, né cosa spinse il Botticelli ha raffigurarla come la raffigurò.
Intanto un vero Grazie al caro Raffaele per avere avuto, oggi almeno lui!, la sensibilità e l’acutezza filologica e mentale di riproporre all’attenzione degli amici di Facebook l’annosa e irrisolta questione di questa Venere mattutina, chiamata anche Citerea, o Lucifero, o Iside (Tolomeo, “Tetrabiblos”, II, III, 22 – 23), e ricordata da Dante nell’incipit del purgatorio così recitando: “Lo bel pianeto che d’amar conforta / faceva tutto rider l’oriente, / velando i Pesci ch’erano in sua scorta” (Pur. I, 19 -21). Ma non si capirebbe scientificamente bene la situazione se prima non avessimo trovato scritto: “Dolce color d’oriental zaffiro, / che s’accoglieva nel sereno aspetto / del mezzo, puro infino al primo giro, “ (Pur. I, 13 – 15) che indica l’ora esatta di quel giorno attraverso il grado di luminosità dell’atmosfera: ed erano circa le 05h.10’ del mattino. E nemmeno avremmo potuto afferrare bene la situazione se dopo, verso il fine della cantica, nel canto XXVII, non avessimo trovato ricordata di nuovo, e non per caso!, questa stessa Venere mattutina quando si recita: “Ne l’ora, credo, che de l’oriente, / prima raggiò nel monte Citerera, / che di foco d’amor par sempre ardente, / giovane e bella in sogno mi parea / donna vedere andar per una landa / cogliendo fiori, e cantando dicea:… “ (Pur. XXVII, 94 – 99).
L’importanza salvifica, la buona riuscita del viaggio, a stare a Dante dipende infatti anche dai virtuosi raggi del III cielo di Venere, come anche di altre stelle ubicate in altri cieli. Abbiamo infatti “iuxta sententiam Dantis”, e da non mai dimenticare!, che “li raggi di ciascun cielo sono la via per la quale discende la loro vertude in queste cose di qua giù” (Convivio, II, VI, 9). E per cui, se mai noi “qua giù”, come da qualsiasi altra parte della terra, avessimo bisogno di “vertude” per non cadere, o per procedere avanti, adesso sappiamo che ciascun cielo è predisposto ad aiutarci con i suoi raggi. Non male. Non male se fosse mai vero. Ma siccome Dante non è un bischero, né un tipo da volerci fare uno scherzo a prete, diventa per noi obbligatorio prendere quello in cui lui credeva fermamente, almeno come una interessante ipotesi da sottoporre empiricamente a controllo, o corroborazione: poi si vedrà! Ma intanto saremo entrati, finalmente!, nella Sua mente.
INCISO – Sulla bontà dell’Astrologia Dante si sarà anche sbagliato, però è così che lui la pensa, cioè astrologicamente. E noi è proprio dei commenti alla sua Commedia che ci stiamo occupando. E sarà proprio seguendo il movimento in cielo di questa Venere del purgatorio, cioè il percorso che questa Venere ha fatto per giungere a questo così qualificante aspetto che, secondo i miei calcoli, si verificava alle ore 05h.10’ del Lunedì 27 marzo 1301, che poi noi, attraverso questo stesso percorso, impareremo a comprendere come Dante ragiona, entrando così realmente nel suo mondo: quello autenticamente medievale. E ci troveremo a fare un ragionamento su Venere da estendere poi, ove fosse necessario, e sempre “loro propria natura e modo”, anche ad altri pianeti: evitando con ciò anche di confondere, come sempre succede ai dantisti da secoli, lo “zodiaco dei segni” che appartiene al VII cielo di Saturno e dell’Astrologia (Convivio, II, XIII, 28 – 30), con lo “zodiaco delle costellazioni” che invece appartiene al superiore VIII cielo delle Stelle Fisse e della Metafisica (Convivio, II, XIV, 1 – 13). Anche Pietro d’Abano contemporaneo di Dante e, non solo per me!, anche suo amico, chiarisce il rapporto fra i due zodiaci nel su “Lucidator” ( Differentia Quinta, Propter primum), enumerando tutte le stelle vedute in cielo e di cui, dai tempi degli antichi “savi d’Egitto” (Convivio, II, XIV, 2), fino a Tolomeo e a Dante, quelle contate erano in tutto 1022 (milleventidue): come ricorda anche Dante sempre nel citato passo del Convivio ( II, XIV, 2). E per cui abbiamo in tutto 1029 corpi celesti, ed è necessario considerarli: i sette pianeti, o stelle erranti, del VII cielo dell’ “Astrologia”, più le 1022 stelle fisse dell’VIII cielo delle Stelle Fisse e della “Metafisica”. Sentenzia infatti Pietro d’Abano togliendo agli scettici ogni dubbio: “Que sunt 1029, de quibus sunt 7, quarum unaqueque SUB OCTAVA SFERA proprium possidet orbem, in quo motibus fertur differentibus” (“Lucidator”, Differentia Quinta, Propter primum). E sarà proprio tenendo scientificamente separati i due zodiaci per la loro differente e gerarchica ubicazione in cielo, il VII cielo posto sotto l’VIII cielo, che la Venere mattutina del purgatorio mai e poi mai potrà essere giudicata in congiunzione con la “Costellazione dei Pesci”, come in molti scrivono e chiedeva lumi qui anche Raffaele Rinaldi. Lui sulla scia di quanto bolliva in pentola da secoli fino ad arrivare alla famosa polemica di inizio ‘900 fra l’astronomo Filippo Angelitti che voleva il viaggio nel 1301, e il Padre barnabita del “Collegio alla Querce” di Firenze che invece lo voleva nel 1300 del giubileo di Bonifacio VIII.
Per il momento diventa indispensabile accertare intanto di questa Venere, sia la longitudine da lei raggiunta sullo “zodiaco dei segni” nel momento in cui dante la ricorda (Convivio, II, XIII, 28 – 30), sia il “virtuoso effetto che questa Venere produce in funzione del rapporto che essa stessa sta avendo momentaneamente, cioè temporaneamente, col Sole in conseguenza del suo moto in cielo. “Virtuoso effetto” che però riguarda, per notizia!, anche tutti e cinque i pianeti, Mercurio e Venere da una parte e Marte, Giove e Saturno dall’altra: da non mai dimenticare quando ci si occupa della Commedia, Vita Nuova e Convivio. Questi cinque pianeti sarà poi, ovviamente!, “loro propria natura e modo” che faranno giungere ognuno, in queste cosa di qua giù, la “vertude” contenuta nei propri raggi.
Ebbene, per notizia, per utilità e per inciso, possiamo anche con ricorso all’ ASTRONOMIA SFERICA MODERNA ugualmente e sorprendentemente controllare il fenomeno di come varia la “vertude” umorale dei cinque pianeti e dunque anche della Venere del purgatorio attraverso le nostre moderne “Rivoluzioni sinodiche”. Con il passaggio dal sistema “geocentrico” e astrologico, al sistema “eliocentrico” e astronomico, per ciò nulla cambia circa il controllo scientifico della virtus umorale emanata dai cinque pianeti: come si evince anche seguendo Claudio Tolomeo ad iniziare da Marte, Giove e Saturno (“Tetrabiblos”, I, VIII, 1 – 2). E per cui, sembrerà paradossale!, ma anche la nostra Astronomia moderna finirà per dare una mano nel capire razionalmente come calcolavano gli antichi e i medievali quando ritenevano di aver bisogno della virtus umorale dei cinque pianeti, o stelle erranti: e a questo uniformandosi anche DANTE.
La virtus dei raggi delle stelle potrà essere in sé anche una chimera, ma non certamente una chimera l’esattezza dei ragionamenti e dei calcoli matematici sottostanti al fine di stabilire i vari periodi in cui i cinque pianeti (Mercurio e Venere da una parte, e Marte, Giove e Saturno dall’altra) venivano giudicati “montanti” oppure “volgenti”, cioè inducenti alla “nobiltà”, oppure alla “volgarità”. La “nobiltà” della “vertude” in Dante è da far girare la testa: perché soprassedere…??? Analogamente dicasi anche per la Luna e per il Sole da Tolomeo giustamente trattati separatamente (Tetrabiblos, I, VIII, 1; I, X, 1 – 2 ) come separatamente tratta Mercurio e Venere in quanto interni alla terra, e Marte, Giove e Saturno esterni alla terra: o piglia…!!! Tolomeo con ciò facendosi immaginare di saperla lunga sulla realtà empirica del sistema solare, cioè sull’eliocentrismo. E così ovviamente ed ugualmente anche per l’esattezza dei ragionamenti e dei calcoli matematici sulla RIVOLUZIONE che sta compiendo la Venere mattutina del purgatorio (Pur. I, 19 -21).
Questa Venere mattutina rimessa giustamente sotto i riflettori da Raffaele Rinaldi, anch’essa, e per mezzo dei suoi raggi, farà giungere la sua “vertude” sulla spiaggia antistante la montagna del purgatorio. E non senza produrre effetti significativi, reali, su quello che sta lì accadendo, a stare a Dante. Ma per controllare il fenomeno anche qui ragionamenti e calcoli matematici.
Domanda. Ma perché fino ad oggi non sono state fatte queste considerazioni …??? Il problema certamente induce a dover durare un po’ di fatica che però, ai curiosi della verità mai dovrebbe dispiacere. Anche perché con tale odierno impegno e fatica la Critica dantesca, dopo sette secoli di sbadigli nel merito, potrà ripescare dalle profondità del “mare oceano” una cultura medievale, un sapere anche pagano-classico, fatto naufragare da qualcuno perché, dalla seconda metà del XIII secolo in poi, sempre di più non gli piaceva. Insomma perché non era in linea con i propri interessi, pur andando costui espressamente incontro alla maledizione di Dante: “Maledetti siate voi, e la vostra presunzione (quella di potere fare a meno, per presunzione!, della classicità rappresentata dalla cultura astrologica, peripatetica, stoica, epicurea e pitagorica di a Convivio, IV, XXII, 14 – 15; II, XV, 11 – 12), e chi a voi crede!” (Convivio, IV, V, 9).
In generale le virtus emanata dai sette pianeti (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove e Saturno) in base al loro moto in cielo può risultare, lo ripeto!, o “umida e calda” e perciò “feconda e attiva” (Tolomeo, “Tetrabiblos” I, V, 1 – 2) e quindi “montante e nobilitante” (Convivio, XXIII, 7 – 15), o viceversa “secca e fredda” e perciò “distruttiva e passiva” e quindi “volgente e volgare”: e nella Commedia e nel pensiero di Dante questo fenomeno pesa moltissimo, tantissimo. E se noi nella Commedia non procedessimo a giudicare in base a tali qualità ogni qual volta Dante comanda, allora lo stesso Dante con la sua scienza superiore pagano-classica e cristiano-medievale attraverso la quale intende salvarsi, e poi insegnare a noi come fare altrettanto, credete a me!, andrebbe a farsi friggere. Sì, sì!, a farsi friggere, come del resto è già stato mandato nell’arco di sette secoli di commenti scientificamente insufficienti e dunque ogni qual volta che questi riguardavano, non soltanto l’ “Astrologia” ma, diciamolo pure allargando il discorso, ogni qual volta Dante aveva la necessità di ricorrere alle quattro superiori e ultime scienze, nonché maggiormente magnificenti l’essere umano: anche perché si tratta di quattro scienze superiori strettamente collegate.
Dunque Dante mandato alle “Americhe”, diciamo così, e per la cronaca!, ogni qual volta doveva utilizzare, sia l’“Astrologia” quale settima scienza del VII cielo di Saturno, come già rilevato; sia la Metafisica quale ottava scienza dell’VIII cielo delle Stelle Fisse; sia la “Morale Filosofia”, o Filosofia di Pitagora sotto il cristianesimo, quale nona scienza sessualmente fondata, del IX Cielo cristallino, acqueo e di Maria (Convivio, II, XV, 1 – 12); e poi, infine, altrettanto mandato alle “Americhe” nel momento in cui, a dover essere accertata, toccava alla “Divina Scienza”, o “sacra Liturgia”, sia cristiana, che di tutte le religioni autentiche, quale decima Scienza del X Cielo Empireo, fatta della consegna della parola sacra, di inni, canti, dolci sinfonie di paradiso e danze a gloria della Divinità.
Tutto ciò considerato si potrà iniziare a capire come l’Opera dantesca, per quanto attiene alle quattro superiori scienze, e dunque anche a questa Venere mattutina controllata dall’Astrologia, sia stata tradita da commenti sbagliati. Ma per me questo non sarebbe oggi più sopportabile, né giusto. Si legge infatti, in relazione al giorno di nascita di Dante personaggio (Par. XXII, 110 – 117), sulla sacra Liturgia di tale giorno, e perciò sulla sacra Liturgia quale decima scienza più grande et ultima comprabile al X Cielo Empireo, se consideriamo che Lui risulta nato il Martedì, giorno dedicato a Marte, 2 Giugno 1265 (Par. XXII, 110 – 117) e festa liturgica dei santi martiri Marcellino, Pietro ed Erasmo:
“CLAMAVERUNT JUSTI, ET DOMINUS ESAUDIVI EOS”.
E Dante, quale uomo giusto, è sette secoli che reclama la verità, cioè giustizia, ed ecco che adesso finalmente la divinità lo esaudisce attraverso l’esibizione dei pertinenti ragionamenti scientifico-superiori intorno alla Commedia: ivi compreso quello sulla Venere mattutina del purgatorio (Pur. I, 19-21). Carino…???!!!
INTERMEZZO. Per l’accertamento del Martedì 2 giugno 1265 quale giorno di nascita di Dante personaggio, visto che ci siamo!, abbiamo che: “per prima cosa”, lui è stato fatto nascere seguendo l’ “Astrologia” del VII cielo che lo indica nato sotto il segno dei Gemelli: punto! Mentre, “per seconda cosa”, abbiamo che lui è stato fatto nascere, seguendo la “Metafisica” dell’VIII cielo delle Stelle Fisse, col suo Sole nel segno dei Gemelli del VII cielo, in CONGIUNZIONE stretta con due Stelle Fisse del superiore VIII cielo. E si tratta di due Stelle Fisse fra le 1022 già ricordate e appartenenti allo zodiaco delle costellazioni: e si tratta dunque della stella POLARE ( alfa Ursae Minoris) e della stella BETELGEUSE (alfa Orionis). E se poniamo il Sole di nascita di Dante nel segno dei Gemelli, in congiunzione stretta e montante, con la stella POLARE e BETELGEUSE, anche un cieco sarebbe obbligato a rendersi conto che Dante è nato il Martedì 2 Giugno. Un giorno di nascita di Dante che poi finalmente risolverà l’enigma posto da Dante nell’Incipit della Vita Nuova al fine di abilitare ad andare avanti nel leggerla: una risoluzione che però non sembra avere interessato i dantisti: bbbuuuhhh…!!!??? Anche questo dei due zodiaci nella Commedia è un problema sempre legato al rapporto che Dante fa emergere fra il VII e l’VIII cielo: un rapporto che recisamente escluderà che la Venere del purgatorio possa trovarsi in congiunzione con la “Costellazione dei Pesci”, come ipotizzato dal Rinaldi: e dopo lo controlleremo.
Nel Convivio troviamo anche questo utile ammonimento di Dante: “Dico che per cielo io intendo la scienza e per cieli le scienze” (Convivio, II, XIII, 2). Considerato che i cieli del suo paradiso sono dieci; che dieci risultano essere anche le scienze; siccome i primi otto, dal primo cielo della Luna, all’ottavo cielo delle Stelle Fisse, emanano raggi, tenuto conto di quanto abbiamo già fatto notare, e cioè che “li raggi di ciascun cielo sono la via per la quale discende la loro vertude in queste cose di qua giù” (Convivio, II, VI, 9), allora ne consegue che in Dante non si potrà ignorare, se del caso!, la qualità dei raggi emanata da questi stessi otto primi cieli seguendo, per ciascuno, il suo idoneo percorso in cielo. Domanda. Ma è stato fatto…??? Per me, no…!!! E adesso cerchiamo allora noi qui, caro Raffaele Rinaldi, di rimediare all’increscioso misfatto, avendone tu offerta la lodevole e simpatica occasione con la Venere mattutina del purgatorio.
PARTE PRIMA
Prendendo in esame la nostra Venere mattutina notiamo intanto che la Tradizionale Critica dantesca non si è accorta, ripeto!, della qualità, del genere di virtus, da essa stessa emanata in ragione del suo moto in cielo che la può rende, come già sappiamo, di umore “umido e caldo”, oppure “secco e freddo”, cioè “fecondo e attivo”, oppure “distruttivo e passivo” (Tetrabiblos, I, V, 1) e, ugualmente, di virtus “montante, oppure volgente”, cioè “nobile”, oppure “volgare”. Ma risulterà intanto a tutti intuitivamente evidente che il suo umore, la sua virtus, dovrà essere, appunto ed inequivocabilmente!, “nobilitante”, ma però andrà dimostrato: ed è il compito che ci siamo assunti qui.
La Tradizionale Critica dantesca, per notizia!, non si è accorta nemmeno della qualità della virtus emanata dalla Luna quando Dante si trovava nella selva selvaggia ed aspra e forte delle passioni dell’anima, di cui al canto XX, versi 127 – 129, dell’inferno, cioè mentre lui sta lottando per decidere, o meno, di iniziare il suo nobilissimo viaggio. Per la cronologia, con la Luna, siamo all’apertura della liturgica giornata del sabato 25 marzo 1301 e che per il Tempo Civile, ovviamente ignorato da Dante, era invece ancora il venerdì 24 marzo 1301. E nemmeno la Tradizionale Critica si è accorta, si fa per dire!, della virtus emanata dai raggi di Marte quando Dante paragona la bontà, la generosità, dell’angelo nocchiero che imbarca le anime “con tutta pace” alla foce del Tevere (Pur. II, 99), alla virtus emanata da un particolare aspetto di Marte in ragione del suo moto in cielo, cioè in funzione del rapporto che questo stesso Marte sta mantenendo temporaneamente col Sole: e così via dicendo, intanto per smettere di fare l’elenco.
Adesso cerchiamo di spiegare, proprio partendo da Marte (Pur. II, 13 – 15) che ci conviene per chiarezza, la REGOLA GENERALE ed astrologica atta a stabilire il momento, il punto di svolta, in cui gli influssi dei cinque pianeti (Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno) si caricano di umore “umido e caldo”, e perciò “fecondo e attivo” (Tetrabiblos, I, V, 1-2), e dunque “magnificente”, poiché “montante e nobilitante” e dunque generoso (Convivio, IV, XXIII, 4 – 6): ma anche viceversa. Scusate qualche ripetizione: ma se il concetto non è stato capito in sette secoli, varrà pur di sopportare la noia di qualche ripetizione onde fugare dubbi.
In sintesi e per dirla in una battuta, sia Marte che Venere, nonché i restanti tre pianeti (Mercurio, Giove e Saturno), si ricaricano di umore “UMIDO” inclinando a rendersi attivi e nobili, per comprovata analisi ed esperienza fatta analizzando il “Tetrabiblos” di Tolomeo, la “Commedia” di Dante, la sacra “Liturgia cristiana” e la “Mitologia classica”, eccetera, eccetara, dall’istante in cui essi stessi, loro proprio modo, passano dal “PERIGEO”, o loro massima vicinanza alla terra. Provare per credere anche attraverso una vostra personale iniziativa. Un po’ di tempo bisognerà pur perderlo, nòòò…???!!!
Etcc. etcc. etcc.
1 – DISCUSSIONE su DANTE ALIGHIERI, con Giovangualberto Ceri, del Venerdì 25 Marzo 2022 – insieme alle classi III, IV e V del Liceo linguistico, di san Benedetto del Tronto, guidate dalla Professoressa Paola Sguerrini : https://www.youtube.com/watch?v=gu_iPZCw7fI
2 – INTERVISTA fatta da Umberto Cecchi a Giovangualberto Ceri su DANTE ALIGHIERI e andata in onda a TV. Canale 10 – Firenze – il Martedì 11 Marzo 2008 alle ore 12h. e poi riprodotta per intero da Ruggero Sorci.
https://www.youtube.com/watch?v=H7w8NGdsDaM
3 – Il CIDA (Centro Italiano di Astrologia) su Dante Alighieri – ANNA MARIA MORSUCCI intervista Giovangualberto Ceri su DANTE il 16/05/2021 a Roma: https://www.youtube.com/watch?v=TR2Jc11HVJ0&t=51s
Dante e l’Astrologia, una chiacchierata con Giovangualberto