cropped-2541957935_de04f4e29f_z.jpgdi Italo Testa

[Questo articolo è uscito su «Poesia»].

Percorrendo le tre raccolte di Vladimír Holan scelte e tradotte per l’attenta cura di Marco Ceriani e Vlasta Fesslová nel volume Addio? (Arcipelago, Milano, 2015), si è colpiti dall’emersione progressiva di una sorta di furia constativa della poesia. Ne è segno tangibile il moltiplicarsi, nei testi postremi di Sbohem? (Addio?, 1972-1977), di “constatazioni” quali “così noi siamo”, “è così”, “E’ così? Un poco”, come nei versi: “c’è il destino e il destino non è / domanda. E’ già così”. Espressioni che non solo danno forma a incipit e explicit, ma che invadono anche i titoli dei componimenti: “E’ così; “Così soltanto”; “E’ già nato così?”. Non si tratta di un semplice elemento assertivo, ma del riconoscimento che le cose stanno in un certo modo. Constatazione non di un fatto empirico – il prato è verde – ma di qualcosa di categoriale, che connota la nostra condizione – “così noi siamo” – la nostra forma di vita e le sue possibilità. Questa trama assertiva non era peraltro estranea alla raccolta Předposlední (Penultima, 1968-1971), ove si potevano già riscontrare titoli quali “E’ così”, “In verità sì”, ed era già presente anche in Na postupu (In progresso, 1943-1948), ad esempio nel titolo “Così” e nell’incipit “Così è il tempo”.

Nella poesia di Holan sembra esservi però un movimento contrario, apparentemente opposto rispetto a questa furia constativa. E’ la vertigine interrogativa che conduce Holan a costellare di punti di domanda la propria scrittura e, in direzione simile, a ricorrere di frequente ai puntini di sospensione. Ma furia constativa e vertigine interrogativa spesso s’incrociano. Di qui la ricorrenza di titolazioni quali “E’ così?” “E’ già nato così?”, “Sì?”. Un aspetto evidente dell’interrogazione di Holan è che essa non consiste in una revoca in dubbio, in un’epoché. In un certo senso anche l’interrogazione è constatata, affermata quale categoria della nostra condizione, situazione inaggirabile del nostro dire. E’ come se il registro interrogativo fosse a sua volta ingabbiato in quello assertivo, come accade nel componimento “E’ già nato così?”, il cui titolo è giostrato sull’interrogazione, ma che si conclude con la constatazione: “E’ già nato così…”.

Nulla gli impedisce di strapparsi il colletto
e i vestiti e tutto quello che non sopporta indugio
e a chiunque durante un incontro
di rispondere con le immagini d’un’autospoliazione,
anche se talvolta incompiuta…
Che importa se poi, nudo, fugge
da tutte le donne e se poi
per la notte prende su di sé
la notte adulata?
È già nato così…

Non ci troviamo di fronte ad una mise en abîme della certezza. Si tratta piuttosto dell’affermazione dell’incertezza quale condizione inoltrepassabile. Solo in questo senso si può dire che Holan sia un poeta metafisico. E’ come se la sua poesia avesse la forma di una certificazione metafisica dell’esistenza. Anche la condizione del dubbio è sottratta all’ambito fisico, all’empiria, e come sollevata a un piano ulteriore. E’ l’asserzione metafisica della condizione umana a costituire il pensiero dominante di questo poeta. Un’asserzione di cui le infinite variazioni e modulazioni non obliterano l’incontrovertibile e accecante evidenza: “già che consolante è la certezza, e semplice come una tomba” . Ne è riprova il ruolo che l’ironia ricopre in Holan. Non si tratta, infatti, di un’ironizzazione del mondo e del finito, come accade nell’ironia romantica, che attraversa l’essere quale piano infinitamente mobile, inafferrabile. L’ironia, pur nei suoi tratti nervosi e pervasivi, è invece in Holan una modalità di adattamento ad una condizione inaggirabile, ad un nulla constatato. Come scrive Holan in “Vi prego”: “Colmare il vuoto… Con che cosa? / Di questo s’occuperà l’ironia”.

Possiamo approssimarci ulteriormente a tale fenomeno se consideriamo la tecnica con cui Holan utilizza spesso la congiunzione ‘come se’; “ama, come se amasse”; “Nascondendo il loro intuito, fanno /come se non sapessero nulla / di quel che finora non sanno…”. Non ci troviamo di fronte ad una semplice congiunzione subordinante modale ‘come se’, che introduce un’interrogativa ipotetica. Piuttosto, il come se è un als ob che costituisce la nostra condizione: la condizione degli amanti è quella per cui la donna “ama come se amasse”; la condizione umana è quella in cui gli uomini “fanno come se non sapessero nulla”. La struttura ipotetica non interroga la nostra condizione, non la revoca in dubbio, ma la costituisce per quel che è. Il ‘come se’ è costitutivo dell’amare, è la sua struttura categoriale. La finzione costitutiva del come se definisce la nostra condizione: “ ma tu sai che è una finzione così veritiera / che vive quasi a scapito di se stessa […]”.

Questa struttura categoriale dell’espressione sta alla base di uno degli aspetti più abbaglianti della poesia di Holan: la sua propensione ai dialoghi sospesi. Sono dialoghi appesi in aria, senza contesto. Dialoghi sottratti alle istituzioni del senso, posti su di una soglia che non è né quella dei vivi né quella dei morti.“«Sei l’unico che qui mi abbia trovato; / certo devi essere morto ormai da tanti anni!»”. Dialoghi in luoghi non giurisdizionali, che possono ricordare certe scene caproniane: “nell’istante in cui non si sa ancora / se sigarette, michette e latte / sono per i morti o per i vivi…”. Questa soglia non giurisdizionale è in qualche modo l’esito di una sottrazione decisa, di un gesto perentorio che sempre di nuovo modella tale ambito, lo propone come un luogo definito, lo spazio delimitato della nostra condizione. E’ il “dovunque” che dà il titolo ad alcuni testi di In progresso, e il “da un nonluogo a un nondove…” che in “Nella bara” designa la traiettoria dell’esistenza umana. Non è l’apertura, la deriva di senso, la ricerca di un’oltranza, a definire questi dialoghi, ma piuttosto una chiusura preliminare, la riduzione della scena ad alcuni elementi finiti, discreti, e per ciò stesso difficili da afferrare, perché posti sul teatro del nulla. La struttura interrogativa del dialogo, in tal senso, è una cornice formale, entro cui non accade alcuna interrogazione, ove la domanda rinvia semplicemente a se stessa. E’ come se anche qui operasse una stilizzazione metafisica del dettato. Una scansione sullo spazio del nulla, di un nulla affermato quale evidenza prima.

Di questo nulla converrà parlare. Perché al cuore della lunga constatazione che è la poesia di Holan sta l’affermazione dell’estinzione dell’essere: “dell’essere che rimpicciolisce / e poi si ammucchia / nel luogo stabilito / sotto un mazzo di fiori finti!”. Il motivo ontologico dell’estinzione, della riduzione spettrale dell’essere (“Pure ci sono soltanto gli spettri / non delle cose, ma dell’essere stesso”), e con esso di Dio, fa di tale sottrazione qualcosa di duramente tangibile, un’inscalfibile assenza, un’inesistenza che impatta su di noi: “Può l’inesistenza, infliggerci un castigo?”. Qui il nulla non nulleggia, ma accade (“«Su, il nulla è accaduto»”) e ha una evidenza ordinaria, quotidiana. E’ il “Nulla onnipresente e a tal segno ordinario / che si potrebbe rivelare in figura” che apre la scena di una delle più belle poesie di In progresso. “Nulla” che si concreta nelle bottiglie vuote che vanno accumulandosi in soffitta:

Nulla onnipresente e a tal segno ordinario
che si potrebbe rivelare in figura,
ma un nulla modesto, un nulla che nega se stesso…
Eppure ciascuno lo teme, nessuno lo vuole,
e così, con nessuno immorente,
è come se sempre crescesse e aumentasse in certezza,
come si accresce il numero delle tue bottiglie vuote in soffitta,
bottiglie che offrivi e di cui nessuno si cura
e che dunque di notte porterai fuori
e in segreto ammucchierai nella via…

Qualcuno là grida: “Sapendo, non saprete!”
E un altro: “Guai ai cani grassi!”

Il nulla constato, su cui stiamo sospesi, è anche ciò in rapporto a cui si definisce lo spazio concentrico, l’hortus conclusus della commedia metafisica di Holan. E’ questo nulla a operare la riduzione della vita a pochi elementi finiti e ricorrenti. La serialità delle poesie di Holan, sia nei titoli sia nei motivi, ha appunto a che fare con la ripetizione indefinita di un numero finito di temi. Potremmo elencarli: la cacciata dal paradiso, la tempesta, lei e lui, Eva mestruata, la vergine e la puttana, il destino, il bambino, il suicidio e la speranza. E potremmo ridurli alla triade della “fessura” che, sotto l’egida del “nerodorato raggio del nulla”, in “Disco di grammofono” li ricomprende tutti: donna, sesso, tomba.

Ma cosa contrassegna questa condizione, così ricorrentemente constatata da Holan? E come la abitiamo, noi, che la figuriamo, e ne siamo messi in figura? Cosa accade nel teatro definito dal nulla? La messa in scena della cecità, il misconoscimento e l’oblio di sé. Questi motivi sono strettamente intrecciati in Holan. Anzitutto la cecità tattile e sensuale, il “puro tatto che infallibilmente brancola” di cui ci parla Holan, è il centro dello spazio metafisico, il punto cieco verso cui tutto converge: “Sempre cerchiamo il centro… Ma lui come un punto, / è cieco… Cercando il suo cuore, / cerchiamo la cecità… E da tempo già ciechi, / siamo soltanto un tastare” . A questo si aggancia il motivo del fallimento nel riconoscimento di sé e degli altri, che instancabilmente Holan riafferma: “ Temete che nessuno vi crederà / quando riconoscerete voi stesso […]”; “Com’è che mi hai riconosciuta? / A me nessuno più mi riconosce!…”. Infine, l’autoinganno, l’autocompiacimento e la maschera quali modalità ordinarie di sopravvivenza in questo mare di cecità.

La tentazione dell’oblio di sé – un motivo in cui si affaccia il tema schopenhaueriano del superamento del velo di Maja e del principium individuationis – sembra qui essere la sola strategia d’uscita, l’unica soluzione al male della vita: “che il nulla non aveva da mettersi uno straccio addosso / e per non buscarsi un raffreddore faceva conto / sulla continuità nel transitorio / per poter dunque stramazzare /nell’oblio di se stesso”. Ma come si muove la poesia in questo spazio? Essa ce ne dà conto, ne testimonia la nudità, come nel bellissimo testo “La morte del poeta”: “l’ultima sua nudità fu del tutto semplice”. Ne testimonia la cecità: “gli ultimi suoi occhi furono del tutto semplici: / tacquero così confessatamente che nessuno osò dire / che quest’anno è tutto pieno di vermi”. Questo testimoniare, un performativo mettere in figura la nostra condizione, per certi versi è esso stesso una figurazione dell’oblio di sé. E’ riduzione della vita alla sua sostanza nuda, ai suoi costituenti semplici. E non a caso nella poesia di Holan il sé non è quasi mai richiamato. Le tante figure, dialoghi, mitologemi, narrazioni interrotte che vi ricorrono, sono tutte funzioni dell’oblio di sé, di un avvicinamento a una verità più elementare, cui si accede per autospoliazione.

Ma questa poesia testimonianza può dar conto dell’ultima nudità, consente di circoscriverne lo spazio, perché sporge da esso, seppur soltanto di un soffio. Perché appunto, rivolgendosi alla poesia, Holan scrive: “Amarezza della poesia, tu, tu, a tal punto di qui, / perché di un altro mondo”. Questo mondo altro è il punto zenitale che permette di descrivere e circoscrivere lo spazio del nostro mondo. E’ un mondo da cui non c’è ritorno: “Poesia, poesia, tu a tal punto dell’altro mondo, / eppure tu che non devi ritornare”. Eppure è proprio tale punto di vista impossibile a costituire “la parete antincendio della poesia”, l’unica protezione di cui Holan pensava di disporre dalle fiamme di questo mondo infero.

[Immagine: Hiroshi Sugimoto, Seascape].

2 thoughts on “«La parete antincendio della poesia». Su Vladimír Holan

  1. Credo che, in fin dei conti, nessun poeta abbia davvero mai parlato d’altro che del rapporto col nulla. Schopenhauer ha inventato il nichilismo in qualche modo, e dopo di lui c’è stato un costante ruminare le medesime incertezze. Il problema è che l’uomo non si rassegna, preferisce coltivare dubbi che cedere alla morte. Lo hanno sempre sapito i più grandi poeti del nostro tempo, scrivevano per dimenticarrselo, forse.

  2. Sarebbe bene prima di dire su Holan, leggersi lo studio che Giuseppe Dierna ha dedicato al Poeta, poi che i chiarimenti servono a comprendere questo altissimo oeta. Più volte lo incontrai a Praga – mesaggero per conto di Ripellino-… viveva sull’isola di Kampa da anni …. spesso mi offriva sempre del vino o del caffè che facevo fatica a bere… gli dissi che meritava il Nobel – mi rispose che nessuno voleva creare un altro caso “Pasternak”! ma non cercava premi, cercava “muri” che s’aprissero da soli.

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